La ghinea di dicembre
Benvenutu a Ghinea, la newsletter che è arrivata col fiatone alla fine dell’anno. Anche questo mese abbiamo tante ospiti e amiche: Chiara Sélavy, che ha già contribuito alla prima parte dello speciale Varda, ci parla di un film da poco uscito su Netflix; Simona Iamonte inaugura con Alice Neel quella che speriamo diventerà una serie dedicata alla riscoperta delle pittrici; infine Victoria Chuminok, Fabiola Fiocco e Giulia Pistone ci fanno da guide in una mostra curata proprio da loro. Come di consueto, ti ricordiamo che se vuoi anche tu puoi condividere qui qualcosa che conosci e di cui ti piacerebbe scrivere. Bando alla timidezza: basta che tu ci contatti e insieme parleremo della tua idea. Buona lettura!
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Dal 24 al 26 gennaio, in occasione di Arte Fiera, si terrà nello Spazio & di via Guerrazzi a Bologna la mostra Doing Lucy. Le curatrici ci hanno scritto per presentarci il progetto.
[Alt Text: frammento dell’installazione video Doing Lucy: cinque Lucy – una maschera da scimmia sopra un corpo femminile – guardano in camera. Per gentile concessione dell’artista.]
Nel 1974, viene rinvenuto in Etiopia un esemplare paleontologico di Australopithecus afarensis. Considerato il primo antenato umano, il fossile AL-2881 viene rinominato “Lucy”. Secondo la leggenda, per il nome del reperto gli archeologi si ispirarono alla canzone Lucy In The Sky With Diamonds dei Beatles, che si dice venisse trasmessa ripetutamente nel campo durante il primo giorno di lavoro della squadra. Un aneddoto che può darci la misura di quanto fin da subito Lucy sia diventata un personaggio indissolubilmente legato alla cultura pop di quegli anni. Fin dall’inizio, Lucy diventa una celebrità della scienza e dell’immaginario collettivo, portata in tour ed esposta nei maggiori musei di storia naturale del mondo. Non potendo o volendo mettere in mostra esclusivamente i reperti, in occasione delle varie ricostruzioni ed esibizioni, la sua storia ed il suo aspetto vengono presentati attraverso una serie di ricostruzioni – calchi dello scheletro, modelli in gesso, disegni e diorami – volte a consegnarci una figura di Lucy familiare, con tratti sempre più “umani”, in cui Lucy assumeva su di sé ruoli culturalmente definiti come quello di madre, nutrice e protettrice. Nonostante la mancanza di chiare prove scientifiche a supporto di queste ricostruzioni, si decise di presentare una ricostruzione rassicurante, in cui ad ogni specie venivano assegnati comportamenti e funzioni chiare derivanti dalla scienza illuminista, e in cui tutti potessero riconoscersi senza turbamenti, così da meglio rispondere alle aspettative del pubblico.
Doing Lucy di Puck Verkade si inserisce in un certo senso in questo stesso filone di rielaborazione della figura di Lucy e della complessità del personaggio che le viene costruito attorno. Nonostante solo il 40% del corpo di Lucy sia stato ritrovato – non potendo così individuare con certezza se fosse un uomo o una donna – gli scienziati hanno comunque deciso di creare una narrazione conveniente all’idea della “madre” dell’uomo moderno. Lucy è presentata come una figura familiare, mansueta, materna, parte di un passato in cui sono già intrinseche le attuali divisioni gerarchiche e strutturali legate alla sessualità e al genere. Con la sua presenza Lucy dovrebbe dunque giustificare la nostra realtà, promuovendo l’idea di progressione e “naturalità” cara al progresso scientifico illuminista. La sua stessa natura femminile ci pone però contestualmente davanti ad una serie di domande e questioni riguardanti il nostro passato a cui la scienza moderna non ha ancora trovato risposta. Lucy si trasforma così in un personaggio speculativo, utilizzato per perpetrare una narrazione che pone l’uomo al centro del mondo, in diretta correlazione con la teoria darwiniana della selezione naturale, basata sui valori della competizione e della sopraffazione.
Nel lavoro di Verkade, Lucy diventa invece uno strumento di distruzione dello status quo, che mette in discussione la visione antropocentrica del mondo, denunciando il disequilibrio sistematico dei rapporti di potere tra uomo e natura, ma anche tra uomo e donna, che si esprimono attraverso processi intrecciati di rappresentazione e sessualizzazione. Tramite un accumularsi quasi frenetico di immagini e rappresentazioni di Lucy, che si sovrappongono l’una all’altra in una stratificazione di significati, nel video emerge la complessità del personaggio e della sua storia. Lucy, in quanto figura ibrida e aliena, ci spinge a riflettere sui confini che come società abbiamo tracciato tra umano e animale, tra materiale e informazionale. Nelle diverse apparizioni di Lucy come personaggio/maschera, come scheletro, come “oggetto” narrato dai media, vediamo gli stessi meccanismi che poi imprigionano sesso e genere in categorie rigide e preconfigurate.
[Alt Text: frammento dell’installazione video Doing Lucy: le Lucy moltiplicate sullo sfondo si mettono il rossetto, una Lucy in occhiali e felpa al centro si chiede “what does all of this mean?” (“che cosa significa tutto ciò?”). Per gentile concessione dell’artista.]
Il lavoro della scrittrice e scienziata Elaine Morgan, e in particolare il suo saggio The Descent of Woman (1972), hanno informato alcuni aspetti di questo lavoro di Verkade. Morgan si pone in netto conflitto con la cosiddetta “teoria della savana”, richiamando l’attenzione sul sessismo insito della visione dell’uomo cacciatore. Il punto principale della teoria di Morgan era che troppo spesso i biologi confondevano l'evoluzione della specie umana con quella degli uomini come individui, ignorando il ruolo delle donne nella perpetuazione della specie. L’ipotesi della savana era sostanzialmente fallimentare poiché non poteva spiegare la sopravvivenza del genere femminile. Abbandonate dai cacciatori, in lotta per se stesse e i figli, le donne sole in pianura sarebbero inevitabilmente diventate facili prede. Morgan riprende la teoria della scimmia acquatica – Aquatic Ape Hypothesis (AAH), o Aquatic Ape Theory (AAT) – da alcuni studi condotti negli anni Sessanta dal biologo marino Alister Hardy (vedi bibliografia in conclusione), per proporre una visione diversa del genere umano, evolutosi come creatura ibrida e capace di sfruttare la relativa sicurezza dell'acqua, come fonte di riparo e sostentamento. Questo approccio critico verso la teoria evoluzionista si lega ad una messa in discussione più profonda della visione socialmente progressista della rivoluzione scientifica che, come evidenziato dalla filosofa eco-femminista Carolyn Merchant nel saggio The Death of Nature (1980), ha prodotto negli anni una trasformazione sociale e culturale che ha storicamente legittimato lo sfruttamento delle donne e della natura e una visione antropocentrica della società. Porre l’acqua e l’acquaticità alla base dello sviluppo del genere umano significa riconsiderare completamente la propria percezione della vita e del mondo. Astrida Neimanis nel saggio Hydrofeminism: Or, On Becoming a Body of Water, esplicita chiaramente come pensare il corpo come fluido possa diventare uno strumento importante per riconcepire il processo di materializzazione in modi che sfidano la visione illuministica fallocentrica che vuole gli uomini separati, atomizzati e autosufficienti. La logica dell’acqua ci aiuta ad immaginare un mondo nuovo, dinamico, fluido e interconnesso.
Da oggetto muto e passivo che subisce lo sguardo e l’azione dell’uomo, nel lavoro di Verkade Lucy è un soggetto che prende parola per mettere in discussione in prima persona le basi della teoria evoluzionistica e della visione antropocentrica del mondo. Nel video ci sono interpretazioni multiple di Lucy: un render digitale, una performer e un pupazzo di plastilina. Una molteplicità di sguardi che giocano sull’ambiguità e sulla labilità delle interpretazioni e delle rappresentazioni. Il colore rosso, come da tradizione, è usato nel video per richiamare sensazioni forti come il desiderio sessuale e la rabbia. In molte scene, Lucy si confronta proprio con una sostanza rossa e con il suo “potere” su di lei, in una lotta contro il determinismo biologico. Risulta quasi automatica l’associazione mentale con il ciclo mestruale, che gli scienziati hanno “imposto” a Lucy, nella costruzione di una narrazione in cui anche per lei la funzione riproduttiva ha ancora un ruolo fondamentale. Allo stesso tempo, rientrando nell’ottica di una cultura pop, nel video appaiono simboli classici del femminismo, come assorbenti e rasoio, diventati ormai parte di un femminismo commercializzato e cooptato dal neoliberismo.
[Alt Text: frammento dell’installazione video Doing Lucy: lo scheletro di Lucy esposto in un contesto museale dice “I’m just fine without you” (“sto bene senza di te”). Per gentile concessione dell’artista.]
La pratica artistica di Verkade si sviluppa spesso partendo da archetipi e stereotipi, generalmente legati alla rappresentazione di immagini o personaggi sessualizzati e razzializzati e porta avanti una distruzione e distorsione controllata della narrazione dominante. Attraverso l’uso della parodia, nei lavori dell’artista realtà e finzione si mescolano, creando scenari spesso distopici. L’utilizzo della non linearità nello sviluppo delle storie rappresentate è intesa dall’artista come una sorta di viaggio nel tempo neurologico che ci permette di interrompere gli schemi tradizionali e di spingere il cervello a riconsiderare archetipi e stereotipi. Suono, immagine, ritmo e parola vengono ordinati e combinati sulla base di sensazioni e associazioni, come lo zapping attraverso i canali TV, creando una collisione e costruzione dialettica per immagini.
Interessata ai temi della percezione e della neurologia sperimentale, Puck Verkade esplora il modo in cui il cervello umano è condizionato da modelli biologici e culturali. L'umorismo e l'astuzia diventano dunque funzionali all’interruzione di questi schemi cognitivi, attirando l’attenzione dello spettatore verso tematiche anche molto complesse e rendendolo in un certo senso complice di questa decostruzione. I narratori dei suoi lavori sono spesso inaffidabili, manipolatori e contraddittori, attivando così un meccanismo di seduzione e repulsione che richiede allo spettatore di prendere una decisione.
Con la sua presenza magnetica e dalle diverse forme, Lucy ci spinge a considerare chi storicamente ha scritto e scrive ancora oggi le narrazioni che strutturano la nostra società. Anche le più popolari teorie sulla condizione umana, tra cui la teoria evoluzionistica, richiedono un’importante contestualizzazione all’interno dei pregiudizi e visioni parziali che le hanno generate e una riflessione su quali voci prevalgono e quali siano invece silenziate. Sempre più spesso la scienza viene utilizzata da personaggi reazionari e conservatori per motivare e sostenere le proprie posizioni, distorcendo e decontestualizzando in modo strumentale teorie complesse e storicamente connotate. Una dittatura del “naturale”, formula apparentemente neutrale volta ad opprimere ed escludere intere comunità e gruppi sociali. Doing Lucy decodifica questo uso della biologia e lo fa dal punto di vista di una figura in cui le distinzioni tra umano e non umano si mescolano, senza superarsi ma anzi mettendo chiaramente in luce tutte quelle gerarchie e quei limiti che ancora oggi devono essere individuati e superati.
Una bibliografia per approfondire:
Hardy, A. Was Man More Aquatic in the Past?, New Scientist, 17 marzo 1960, vol. 7, n. 174, pp. 642–45
Merchant, C., The Death of Nature: Women, Ecology, and the Scientific Revolution, San Francisco, Harper & Row, 1989
Morgan, E., The Descent of Woman, Londra, Souvenir Press, 2011 (1972)
Neimanis, A., Hydrofeminism: Or, On Becoming a Body of Water Gunkel, in Dr Gunkel, H., Nigianni, C. e F. Söderbäck, Undutiful Daughters: New Directions in Feminist Thought and Practice, New York, Palgrave Macmillan, 2012, pp. 96-115
La mostra Doing Lucy di Puck Verkade apre il 24 gennaio allo Spazio &, in via Guerrazzi 1 a Bologna.
Fabiola Fiocco, Giulia Pistone e Victoria Chuminok sono le curatrici del progetto Doing Lucy. Quasi mai nella stessa città ma sempre con un divano disponibile. Puoi seguirle su Instagram – @fbl_fio @giulia_pst @victoriachuminok – ma soprattutto fermarle per una birra a Spazio & di Bologna.
La piega ha tradotto un commento di Preciado sul lemma nazifemministe, la parola preferita di… un po’ tutt* al di fuori delle femministe. Connotare i movimenti di liberazione come totalitari e liberticidi attraverso l’impiego del suffisso nazi-, osserva Preciado, fa sì che i rapporti di potere appaiano rovesciati rispetto a come sono davvero. Nel corrente regime eteropatriarcale, infatti, il grosso del potere non è certo in mano a donne, minoranze sessuali e soggetti non conformi. Lo detiene invece la categoria del maschio eterosessuale, come illustrano gli esempi portati: sono le donne a subire un controllo stringente sulla propria sessualità, le donne a essere pagate meno a parità di mansione, le donne a dover difendere il proprio diritto alla salute riproduttiva. D’altra parte nessun femminismo desidera ribaltare le parti e infliggere le stesse ingiustizie agli uomini, che quindi possono dormire sonni tranquilli e prendere la buona abitudine di chiamare nazisti (e non simpatizzanti, nostalgici, vicini alla destra estrema e altre lusinghiere perifrasi) i nazisti veri.
Breve conversazione con un collettivo di sex worker polacch*.
Artiste che raccontano artiste: è l’idea dietro Bow Down, podcast della rivista Frieze.
[Alt Text: a sinistra, Autoritratto come allegoria della Pittura (1638-9), a destra Giuditta con la sua ancella (1618-19) dipinti di Artemisia Gentileschi, soggetto della prima puntata del podcast Bow Down. Dell’autoritratto ci piace il braccio grosso da lavoratrice, teso e non eroticizzato dallo sguardo maschile, in azione e a sostegno del peso di tutto il gesto manuale e artistico. Della scena biblica con Giuditta ci piacciono la spada appoggiata sul collo pur rischiando di ferirsi, il cesto appoggiato sul fianco a controbilanciare lo sforzo di tutto il corpo.]
Forze dell’ordine e violenza sessuale: un’indagine della Commissione per i Diritti Umani inchioda la polizia malawiana.
Forze dell’ordine e violenza sessuale: The Conversation ha pubblicato uno studio sugli abusi commessi dai caschi blu dell’ONU ad Haiti tra il 2004 e il 2017. Come già accaduto in Kosovo, Burundi e Sri Lanka, anche nella poverissima Haiti l’arrivo dei caschi blu ha presto comportato un’impennata di violenze nei confronti della popolazione. Le truppe facevano leva sulla vulnerabilità di chi vive nella miseria e in cambio di sesso regalavano cibo o denaro a donne, anche giovanissime, e bambin*. Le inevitabili gravidanze sono rimaste a carico delle donne coinvolte perché i responsabili venivano subito rimpatriati o assegnati a una nuova destinazione. Abbandonate dallo stato, rifiutate dalle famiglie e con un* o più minori a carico, queste donne fanno ora fatica a sollevarsi dalla condizione di povertà e spesso rimangono intrappolate nella compravendita di sesso. Le responsabilità dell’ONU sono inequivocabili: nessun soldato è stato incriminato per abuso di minori in Sri Lanka, mentre le cause per il riconoscimento di dieci bambin* intentate da un’associazione legale haitiana si scontrano contro il rifiuto dell’organizzazione di collaborare per la ricerca della giustizia. In particolare, l’ONU si rifiuta di rendere noti i risultati dei test del DNA eseguiti su tutte le persone coinvolte, rendendo di fatto impossibile il riconoscimento legale dei figli e quindi il supporto economico alle madri. In tutti questi paesi, le missioni dell’ONU sono state “di pace”.
Forze dell’ordine e violenza sessuale: tra la fine della Guerra di Corea e gli anni Novanta, più di un milione di donne sono transitate nel complesso chiamato The Monkey House, nella città di Dongducheon. Qui, proprio accanto alla base militare statunitense di Camp Casey, per trent’anni ha prosperato un’industria del sesso rivolta ai soldati di stanza e gestita da governo sudcoreano ed esercito statunitense, come ampiamente riportato in un’inchiesta da poco uscita su The New Republic. Anche in questo caso, le donne coinvolte avevano già alle spalle “una combinazione di povertà, classe sociale molto bassa, abuso fisico, mentale e sessuale”. E anche loro, come le comfort women abusate dall’esercito giapponese di cui abbiamo parlato nella Ghinea di agosto, devono fare i conti con la vergogna e la difficoltà di ottenere giustizia. In questi tweet, l’autore del reportage Tim Shorrock condivide alcune delle fotografie scattate durante il suo lavoro di ricerca e raccolta informazioni sul posto.
Maria Grazia Battistoni e Anna Paola Moretti hanno curato la biografia di Leda Antinori, staffetta partigiana della brigata GAP Pesaro. La rivista malamenteè andata ad ascoltare la presentazione di Leda. La memoria che resta con le autrici.
Alcuni articoli del nuovo numero di Transgender Studies Quarterly sono gratuiti.
Il lavoro culturaleha intervistato Dareen Tatour, arrestata e poi scarcerata per aver scritto una poesia dedicata alla resistenza del popolo palestinese. Puoi leggere la poesia nella Ghinea di maggio 2018.
La lotta al colonialismo e al patriarcato, sono parte della stessa lotta”. Sostiene Dareen che “non possono essere separate, perché’ sono entrambe centrali per la futura liberazione palestinese. La società patriarcale esiste in Palestina – così come nel resto del mondo –ed è la miglior alleata dello status quo, imposto da Israele.
CALENDARIO
Sabato 11 gennaio: presso lo spazio Luna e le altre di Roma si presenta il libro Un altro genere di forza con l’autrice Alessandra Chiricosta. Qui puoi leggerne una recensione.
Martedì 28 gennaio: a Prato si tiene il primo incontro del gruppo di lettura IL CLEB, fondato da Arzachena Leporatti e Sara Ruperto e dedicato a opere letterarie scritte da donne. Mentre chiudiamo Ghinea non sono ancora noti luogo e orario dell’incontro ma puoi restare aggiornat* seguendo la pagina Facebook del gruppo.
FATTO DA VOI
Il romanzo d’esordio di Jonathan Bazzi, Febbre, è il libro dell’anno di Fahrenheit di Radio3. Jonathan ha contribuito alla Ghinea di settembre con un profilo dell’illustratrice Pamela “Pixie” Colman Smith. Complimenti Jonathan!
Nella Ghinea di novembre abbiamo parlato brevemente della somministrazione incontrollata di psicofarmaci nelle carceri italiane: qui Agnese Baini continua a esplorare l’argomento della contenzione chimica.
UN FILM
Atlantics di Mati Diop (2019)
di Chiara Sélavy
(spoiler alert: la trama viene raccontata nel dettaglio e fino all’ultima scena. Se vuoi vedere il film prima di leggere il commento di Chiara salta alla rubrica successiva!)
[Alt Text: fotogramma del film. Ada e Souleiman si baciano al bar.]
La prima cosa che si sente – prima dei clacson, prima che la città compaia – è il rumore dell’oceano. E poi è Dakar, il traffico e gli edifici futuristici che si contrappongono alle onde, quasi un miraggio nella luce abbacinante del giorno. Il piano sequenza che apre Atlantics, lungometraggio di debutto di Mati Diop e Grand Prix a Cannes 2019, è come un presagio che anticipa il resto del film, storia dai toni onirici, sospesa fra il fantastico e la realtà più tragica.
Ci sono cose che si sanno familiari anche senza averle comprese del tutto: è la sensazione che ho avvertito quando ho visto i cortometraggi di Diop per la prima volta. Ne ricordo il carattere elusivo, il mistero nel raccontare personaggi mossi da desideri incomprensibili forse anche a loro stessi. I corti, molto diversi l’uno dall’altro, sono accomunati da un fil rouge fatto di un più o meno vago spaesamento, una ricerca dai passi mossi alla cieca, senza alcun senso dell’orientamento né forse, uno scopo ben preciso. Per i protagonisti, la possibilità di una meta – sia essa un paese, una persona, una sensazione – è una leva molto più forte della sua effettiva esistenza.
Questo richiamo indefinibile pervade anche Atlantics. Il film narra la storia di Ada, giovane promessa in sposa a Omar, un ottimo partito verso il quale non dimostra però alcun interesse. Il suo vero amore, difatti, è Souleiman, salpato per l’Europa insieme ad alcuni amici che lavorano con lui in un cantiere e che, come lui, non ricevono il proprio stipendio da mesi.
La partenza dei ragazzi scatena una serie di eventi drammatici e inspiegabili: un incendio funesta il matrimonio di Ada e Omar, e le amiche della sposa cadono in preda a una febbre misteriosa. Anche l’ispettore Moussa, responsabile delle indagini e molto accanito nei confronti di Ada, è afflitto dalla stessa febbre.
Il malessere si rivela una forma di possessione: gli amici di Souleiman, morti come lui durante la traversata, prendono le sembianze delle ragazze e si introducono nella villa del loro datore di lavoro, rivendicando non solo gli stipendi arretrati, ma anche una sepoltura degna. Souleiman, invece, possiede il corpo di Moussa e torna da Ada per potersi congedare, come non gli era riuscito di fare durante il loro ultimo, fortuito incontro.
Gli occhi bianchi delle ragazze, le loro risate vacue mentre tormentano il datore di lavoro, sono probabilmente l’immagine più perturbante del film. Ma quella che, più di ogni altra, descrive il carattere soprannaturale di Atlantics è la scena dell’incontro tra Ada e Souleiman-Moussa. La sequenza, già surreale, è resa ancor più onirica dall’illuminazione e dal gioco di riflessi che la contraddistinguono: l’uomo fra le braccia di Ada è Moussa, quello nello specchio, Souleiman. La camera si alterna tra riflesso e realtà, creando in chi guarda lo stato di confusione e straniamento tipico dei sogni.
È una scena che mi ha ricordato sia l’uso degli specchi nel genere melodrammatico (su tutti, Lo specchio della vita di Douglas Sirk, in cui i riflessi di specchi e vetrine sono indice del tumulto interiore di Sarah Jane, ragazza nera che passa per bianca grazie alla carnagione chiara), sia le scene che aprono e chiudonoBeau Travail di Claire Denis (Mati Diop, peraltro, ha recitato per la regista in 35 Rhums). Più in generale, i colori slavati e il ritmo contemplativo evocano a volte i film del regista mauritano Abderrahmane Sissako (Aspettando la felicità, Timbuktu). Invece, la rarefazione di Atlantics e il suo tono sognante rimandano a Il giardino delle vergini suicide di Sofia Coppola, un’eco di cui parla la stessa Mati Diop in un’intervista a Read Me.
Ma i paragoni e le ispirazioni, dichiarati o meno, non sono in grado di cogliere e raccontare appieno l’atmosferadel film di Diop, la sensazione di attesa e minaccia che lo pervade. Anche i tentativi di incasellarlo in un genere ben preciso si rivelano poco più di un semplice esercizio, e ottengono solo di ridurne la portata. È proprio l’incrocio fra storia d’amore fantasmatica, horror, coming of age e cronaca di una migrazione – il suo essere tutte queste cose insieme e al contempo qualcosa di altro, di nuovo – a rendere Atlantics così particolare e importante.
Ed è specialmente interessante il fatto che la narrazione della migrazione, nonostante sia il tema principale della storia, non venga affrontata in modo palese, ma piuttosto affiancata al racconto dell’emancipazione di Ada e messa in secondo piano rispetto alle vite delle ragazze. Simran Hans, sull’Observer, l’ha definito un film sulla migrazione “dal punto di vista di Penelope”, e per certi versi è così. Non avendo mai intrapreso il viaggio dal Senegal alla Spagna, Diop non sentiva di poter raccontare la storia del periplo, sebbene ci sia andata molto vicina con un cortometraggio del 2009. Si intitola Atlantics anch’esso e, rivedendolo ora, pare essere preludio e altro lato del lungometraggio: in bilico tra documentario e finzione, il corto segue un gruppo di ragazzi che progettano di emigrare in Europa.
[Alt Text: fotogramma del film. Piano medio di Ada con l’oceano sullo sfondo.]
L’Atlantics del 2019, invece, è un commento sulla scia luttuosa che si lascia dietro chi decide di partire e l’effetto della migrazione su chi rimane, e cattura perfettamente il vuoto sordo di quando si aspettano notizie, o un ritorno. È anche il vuoto di una domanda inespressa, di un desiderio vano e impossibile, quello di poter tornare indietro a disfare un cambiamento irreversibile. In questo senso, il ritorno dei giovani annegati durante la traversata non è solamente un modo di trovare giustizia e vendicare la propria morte, ma è anche la manifestazione fisica del tormento che affligge chi resta. Per questo, le ragazze, più che zombie, sono affette da una forma di possessione, la stessa che, seppur metaforicamente, consuma chi sta elaborando un lutto.
Molto spesso, negli ultimi anni, mi sono chiesta come riusciremo a raccontare gli annegamenti al largo delle nostre coste, i porti chiusi. La risposta, forse, è in film come Atlantics, resoconto per sottrazione, laconico e viscerale. L’ultima cosa che si sente è il rumore del mare: il caso è risolto, Souleiman in pace e Ada libera, dissolvenza, nero.
Chiara Sélavy, pseudonimo, è nata su un confine e vive a Londra. Ha scritto per Soft Revolution, Nisimazine e Pixarthinking, ed è film programmer per Lago Film Fest. È @ChiaraSelavy su tutti i social, e cura la newsletter sporadica Expendable Chapters.
UNA POESIA
Bad New Government di Emily Berry (2013)
[Alt Text: screenshot della poesia. Fonte.]
Emily Berry vive e scrive in Inghilterra. Ha pubblicato le raccolte Dear Boy (2013) e Stranger, Baby (2017). Puoi leggere altri suoi scritti qui.
UNA DONNA
Anna Karina (1940-2019)
[Alt Text: ritratto recente di Anna Karina.]
La morte di Hanna Karin Blarke Bayer il 14 dicembre 2019 è un’incidenza collaterale all’esistenza imperitura di Anna Karina, o meglio, della faccia di Anna Karina. La voce roca da cantante autodidatta, la capacità poliglotta, l’elasticità della ballerina improvvisata eppure precisa, l’attenzione permeabile che impara guardando all’opera registi, produttori, costumisti e sceneggiatori: tutti aspetti secondari alla frangetta castana, la linea nera sulle palpebre, l’espressione vispa di chi mima contentezza, ma sorridendo solo il minimo. Negli anni, Anna Karina sembra aver annullato la distanza tra il suo volto su pellicola, sui giornali, sui cartelloni pubblicitari, e quello di pelle e ciglia. Anche quando gli occhi si sono riempiti di rughe e il trucco nero si è fatto impreciso, Anna Karina giovane e Anna Karina vecchia non sono mai state in contraddizione: l’anziana si è fatta portavoce delle memorie vissute dalla ragazza. Un miracolo che la nostalgia per la bellezza fossilizzata fosse sempre controbilanciata dal piacere di vederne i resti sulla signora ancora felice di esporsi al pubblico.
Le tante interviste e incontri registrati disponibili oggi, però, sono noiosi allo stesso modo ordinario e lezioso: con la cortesia che si addice alle zie un po’ anziane, Anna Karina ripete tenacemente gli stessi aneddoti sui suoi incontri, con Jean-Luc Godard, con Coco Chanel, con George Cukor e tanti altri nomi celebri. La presunta casualità della migrazione a Parigi, l’improbabile timidezza con cui ha vissuto l’esperienza di modella per la pubblicità, la pudicizia leggendaria che le ha fatto rifiutare il ruolo di Patricia in À bout de souffle hanno l’aura del mito, ma anche la patina tediosa che si crea sui ricordi dei bei tempi andati ripetuti troppe volte. Difficile capire dove finisca ciò che Anna Karina è disposta a condividere e dove inizi la brama del pubblico per la conferma che, nonostante gli anni, il divorzio, la vecchiaia, Anna Karina è sempre la mariée de la Nouvelle Vague [la sposa della Nouvelle Vague].
[Alt Text: la copertina della rivista Paris Match del 25 marzo 1961, il primo piano di Anna Karina il giorno del suo matrimonio prende tutta la prima pagina. Il servizio è intitolato “La mariée de la Nouvelle Vague” (la sposa della Nouvelle Vague), ma da notare è il sottotitolo: la storia tra Karina e JLG, ci tiene a rimarcare Paris Match, è iniziata attraverso “une petite annonce”, un’inserzione sul giornale. JLG aveva in effetti pubblicato nel 1960 sulla rivista Le film français un annuncio per trovare “un’attrice e un’anima gemella”, ma aveva in seguito “scoperto” Karina notandola nella pubblicità del sapone Palmolive. Karina ha raccontato in interviste successive quanto il gossip sul loro primo incontro l’avesse danneggiata, personalmente e professionalmente.]
Jean Seberg finanziò le Black Panther fino a diventare bersaglio dell’azione di screditamento e intimidazione parte del progetto Cointelpro dell’FBI; Brigitte Bardot si dedica, con la sua fondazione, alla protezione degli animali da quando ha abbandonato il cinema negli anni ’70. Anna Karina, rispetto alle altre vedettes iconiche del cinema di Godard ha sempre taciuto opinioni personali, figurarsi prendere aperte posizioni politiche. In cambio, durante tutta la sua carriera, e anche oltre la pensione, sembra aver portato avanti quella che, col senno di poi, appare un’autentica missione di compiacere e intrattenere chiunque avesse la fortuna di guardarla in faccia. E da ben prima che i suoi lineamenti si accartocciassero, Anna Karina arricchiva la sua presenza con amabilità e premura, anche davanti a intervistatori prevenuti (al limite della scorrettezza) e co-intervistati insensibili.
Anna Karina si è portata addosso per tutta la sua carriera, forse per tutta la vita, il ruolo della bella ingenua che il suo primo marito le aveva cucito addosso. Il ruolo dell'ingenua che capisce la vicinanza del pericolo sempre un istante dopo che il pubblico, che la osserva senza perdersi un battito di ciglia, una saetta di lingua tra le labbra, ha intuito che le cose, il più delle volte, stanno per mettersi male per lei. Intelligente quanto basta per poter risultare credibile quando si guarda attorno assorta, ma non abbastanza da riuscire a trovare un antidoto alla noia nei suoi stessi pensieri. Non abbastanza da voler preferire il piacere della sua conversazione a quello dell’osservarla: in posa, morente sull'asfalto, davanti a un jukebox, ancora in posa, mentre si spoglia, rassetta casa, nella pineta, al cinema. Se legge, ammette di non conoscere il significato di tutte le parole, e quello che legge le ricorda, tutt’al più, qualcosa che non riesce a indicare. E quando parla, non dice mai nulla che possa distrarre dal seguire il guizzo dei suoi occhi, niente che richieda uno sforzo di comprensione o empatia tale da mettere in dubbio l’ansia benigna visibile sul suo volto.
Nei film di Godard, Anna Karina è puro viso: per quanto sgrani gli occhi e guardi in camera resta una musa strabica, bella-perché-non-sa-di-esserlo, a cui viene chiesto di inscenare un personaggio che “fa filosofia senza saperlo”. E il monologo su responsabilità e libertà nel caffè di Vivre sa vie può anche essere stato scritto da Godard in tutta fretta prima di iniziare le riprese, ma è Anna Karina che in pochi minuti lo memorizza, ed è sua l’invenzione del tono gentile, convinto piuttosto che sognante, in cui pronunciarlo, sua la pausa per sorridere e accelerare la lista di tautologie, “un viso è un viso, i piatti sono piatti, gli uomini sono uomini e la vita è la vita”.
Che alzi la mano, giri la testa a destra, chiuda gli occhi, improvvisi coreografie, Anna Karina afferma sullo schermo la responsabilità di gesti e pose, e, fuori dal set, la scelta di continuare a interpretare il ruolo dell’ingenua troppo graziosa per il suo bene, ma sempre salvata, o assolta, dalla sua stessa inconsapevolezza. Una perenne replica della pubblicità del sapone che incantò Godard, in cui Karina è coperta di schiuma nella vasca da bagno a simulare una nudità inesistente. Una vita passata a rispondere a domande sulla Nouvelle Vague e i film del suo regista di punta, come se stesse ripetendo la stessa battuta sulla saponetta, “Il n’est pas comme les autres!” [“È diverso dagli altri!”].
[Alt Text: ritratto in bianco e nero di Anna Karina sulla spiaggia di Deauville durante le riprese del film per la TVAnna, diretto da Pierre Koralnik nel 1967. Si tratta del primo film a colori trasmesso dalla televisione francese, ed è una commedia musicale, in cui Karina balla e canta una serie di canzoni composte da Serge Gainsbourg.]
Molte delle parti offerte ad Anna Karina l’hanno limitata al ruolo dell’amante, della bellezza da conquistare, dell’odalisca, della prostituta, della domestica. Succede in Shéhérazade di Pierre Gaspard-Huit (1963), Lo straniero di Luchino Visconti (1967), The Magus di Guy Green (1968), Justine di George Cukor (1969), Laughter in the Dark di Tony Richardson (1969), Rendez-vous à Bray di André Delvaux (1971) e Chinesisches Roulette di Rainer Werner Fassbinder (1976). Anna Karina diventa personaggi accessori e secondari, visibili nella forma di una donna malleabile e paziente, se non sorridente perlomeno calma, silenziosa, e dalle parole dolci quando recita le sue battute, incerta perché al lavoro in lingue non sue, cosciente del fatto che una donna arrabbiata risulta isterica, non autorevole.
Anna Karina non piange, non strilla, non urla quando non è d’accordo: perché alterarsi se poi il mascara cola, gli occhi si gonfiano, la pelle si arrossa e riempie di grinze? La pantomima del dolore nelle performance di Anna Karina assomiglia, piuttosto, a una delusione, al momento in cui si intuisce che un fallimento è reale. Fallimento senza cause o agenti però: non c’è mai nessuno con cui prendersela, è-così-che-vanno-le-cose, e il sentimento nell’immaginazione di Karina non è mai abbastanza forte, non trova abbastanza ragioni per diventare fisico. Diventare, in sostanza, visibile agli altri, e quindi capace di suscitare dolore anche negli altri o, ancora peggio, colpire il loro godimento estetico fino a renderlo compassione. Nessuno vuole provare empatia per un volto bellissimo rovinato dal pianto, perché un volto bellissimo non ha ragione di piangere.
Allo stesso modo, i sorrisi di Anna Karina sono larghi, ma mai sguaiati: sono una educata risposta alla presenza altrui. La meditazione di Anna Karina non dà profondità ai suoi personaggi, i momenti in cui è assorbita dalla sua mente non sono mai una spinta narrativa. La sua è una carineria mobile, una graziosità giocattolo, viva solo quando qualcuno si decide a giocare con lei. Come la bambola bianca che interpreta nel film-dentro-il-film Les fiancés du Pont MacDonald – che Cléo guarda dalla buca di proiezione in Cléo de 5 à 7 – Anna Karina è una poupée d’amour che continua a sorridere paziente anche quando il gioco ha stancato. E se la bambola è stata riposta ad aspettare, il broncio da bambina sparisce non appena qualcuno le porta in dono una corona di fiori.
[Alt Text: Agnès Varda dirige Anna Karina, in costume e fiocco di scena, durante le riprese del corto Les fiancés du Pont MacDonald, parte del film Cléo de 5 à 7 (1961). Parliamo meglio di Cléo e di Agnès Varda nello speciale in due puntate che abbiamo pubblicato a ottobre e novembre.]
Non sappiamo nulla dell'impatto che l’ur-film femminista ha avuto su Anna Karina: pare che a nessuno sia venuto in mente di chiederglielo. Il nome di Agnès Varda salta fuori, sì, in qualche rara intervista, ma la testimonianza della collaborazione non si allarga ad una foto scattata durante le riprese. Il silenzio è, ovviamente, assordante. Quando Varda ha scelto di essere esplicita, rivelando di aver cercato di essere allegra e propositiva nel suo femminismo, ma di aver scoperto di essere, soprattutto, molto arrabbiata, Karina è rimasta zitta. Può aver taciuto le sue idee politiche, ma il suo non è comunque stato solo il silenzio della bella bambolina: al contrario, la quiete di chi lavora in sordina, per non attirare su di sé attenzione, e quindi critiche.
Dopo aver girato una serie di commedie a Hollywood nella seconda metà degli anni ’60, Anna Karina mette da parte abbastanza risparmi per realizzare un primo progetto personale. Karina non lo avrebbe mai ammesso, forse, ma dalla storia della realizzazione del film Vivre ensemble (1973) appare chiaro, in controluce, quanto è difficile per una donna essere qualcos’altro oltre a un bel faccino. Karina fa circolare la sceneggiatura che lei stessa ha scritto spacciandola per una nuova parte offertale, chiedendo consiglio se accettare o no (nessuno trova nulla da ridire). Si fa carico del finanziamento del film, “per non rovinare nessuno” si scusa, ma è comprensibile che volesse garantirsi autonomia da commenti, obblighi (e probabilmente molestie) di una produzione gestita, inevitabilmente, da uomini.
[Alt Text: titoli di apertura di Vivre ensemble: su campo rosso, la scritta “un film écrit, produit et réalisé par Anna Karina”, “un film scritto, prodotto e diretto da Anna Karina”.]
Quando c’è Anna Karina al comando, che scrive, dirige, recita e paga per tutto, la storia delle vite che racconta è, tuttavia, condivisa, come anticipa già il titolo “vivere insieme”. È a storia di una relazione – amorosa e coabitativa – tra una donna scapestrata (interpretata da Karina stessa) e un serio professore di scuola superiore (interpretato da Michel Lancelot). Gli equilibri tra Julie e Alain cambiano fino a torcersi nei rispettivi contrari: lei madre responsabile, lui alcolista alienato. Vivre ensemble è la panoramica di un plausibile rapporto eteronormato, unico perché non idealizzato: Karina non si ferma al desiderio di vivere insieme, include il momento davvero poco cinematografico in cui, pur continuando a guardarsi, si vorrebbe essere altrove, fino al punto, così poco raccontato, in cui ci si lascia per vivere davvero altrove, scoprendo – anticlimax assoluto – che si sopravvive.
[Alt Text: locandina della versione restaurata nel 2017 di Vivre ensemble. Anna Karina/Julie campeggia al centro della locandina, attorniata da una piccola Tour Eiffel e Statua della libertà (il film è ambientato a Parigi e a New York).]
Nel 2017 Anna Karina racconta:
J’ai toujours dit que le les comédiennes et le comédiens devrait toujours faire un petit film, ou quelque chose, pour bien comprendre combien c’est difficile. En fait, c’est pas facile. Comme tous les metteurs en scène devraient jouer un rôle comme acteurs pour comprendre que c’est pas évident non plus.
Ho sempre detto che le attrici e gli attori dovrebbero sempre fare un piccolo film, o qualcosa per capire davvero quanto è difficile. Non è per niente facile infatti. E tutti i registi dovrebbero recitare un ruolo da attori per capire che non è tanto più semplice.
Dal suo ex marito Anna Karina recupera la divisione in tableaux [quadri/capitoli], il montaggio a scatti, la tensione geografica tra più luoghi e l’importanza narrativa del viaggio che li unisce. Tutta di Karina, invece, è la nozione che le storie d’amore non sono un lusso e i bambini non sono un capriccio per casalinghe infami. Insieme al velato promemoria – forse in risposta ad un certa estetica cinematografica dell’engagement sessantottino – che le curve tra potere e responsabilità raramente risparmiano l’etica. E soprattutto, che anche l’appartamento più bohème e scalcagnato ha bisogno di azioni e oggetti e lavoro pateticamente bourgeois per funzionare come una casa, o perlomeno, come rifugio salubre per la vita delle persone, neonate o adulte che siano. Julie è forse l’unica performance di Karina in cui davvero urla per la frustrazione, piange perché ha preso vere botte, sparisce sotto le coperte perché davvero simula il sesso che altrove ha solo stuzzicato. L'unica insieme al ruolo di Suzanne Simonin, la monaca costretta a prendere i voti in La religieuse (1967) di Jacques Rivette.
[Alt Text: locandina d’epoca del film La religieuse di Jacques Rivette. Il volto di Anna Karina nei panni monacali di Suzanne Simonin sbuca dal disegno stilizzato di un velo. Immediatamente sotto, Karina/Suor Suzanne giace riversa per terra. Il film subì pesanti critiche e fu censurato al momento dell’uscita in sala, e comunque vietato ai minori.]
C’è qualcosa di grottesco nell’immagine del viso di Anna Karina stretto nel velo monacale: che è troppo bella per il convento potrebbe già bastare come nodo narrativo del film. Ma La religieuse è tratto da un romanzo di Denis Diderot, uno scherzo epistolare e romanzo filosofico, scritto all’epoca in cui, per l’ultima volta, la separazione gerarchica tra filosofia e letteratura, astrazione e finzione, non è ancora valida, e l’una serve, illustrandole, le tesi dell'altra. Il dramma che Karina incarna non è solo quello di bellezza e gioventù sprecate perché sottratte alla vista della vita in società: è necessario, per dimostrare la validità della parabola – anticlericale per Diderot, antidispotica per Rivette – che suor Suzanne non trovi via d’uscita né aiuto. Nemmeno chi guarda, al sicuro fuori dalla spazio filmico, può trovare ipotetiche soluzioni che potrebbero salvarla: il convento che imprigiona Karina, fatto di regola e celle, ma anche di legge e interessi esterni, come tutte le prigioni non offre margine di miglioramento, può solo essere demolito. Non ci si salva stando dentro il sistema.
Esiste il sospetto che ogni profilo – incluso questo – impegnato a ritrarre Anna Karina come un esempio di sofferenza sotto il dogma sois belle et tais-toi [sii bella e stai zitta], sottolineando sbarramenti e stereotipi che puntellano la sua biografia, le arrechi un danno pari alle centinaia di articoletti intitolati alla “moglie e musa di Godard”. La ricerca delle prove che il sistema è fallato – o addirittura che il sistema semplicemente esiste – ha bisogno di esempi inequivocabili, storie senza scampo, logica lineare. Stiamo guardando una donna che ha scelto di non essere nulla più che un bel faccino, un sostegno mite, oppure una donna che ha sempre agito in maniera gentile, nonostante la monotonia dell’attenzione che ha generato, e probabilmente mandato giù un bel po’ di sessismo?
È scomodo chiedersi come fare spazio all’epitome della donna che si è intrufolata negli interstizi permessi dal patriarcato, ha giocato secondo le regole, rispettando il ruolo primario di “bellezza”, e quello secondario di “compagna”. E che confermandosi come musa e testimone, rispondendo bonaria alla sequela di domande sempre uguali su creatori altri, è stata premiata. Fama, agio, affetto, perfino la libertà di fare qualcosa di creativo col suo nome sopra, passato però con riserva, quasi come un passatempo, com’è successo al suo romanzo On n’achète pas le soleil pubblicato nel 1988, o alla sua seconda prova registica introvabile, il “road movie” Victoria del 2008.
Che cosa c’è nelle fotografie di Anna Karina che continuiamo a guardare – Anna Karina a passeggio, Anna Karina nella parte di un personaggio, Anna Karina sul set, Anna Karina in posa anche quando sembra stia solo passeggiando – oltre all’invidia bruciante di volerle assomigliare almeno un po’? Forse, il dilemma in cui siamo tutte incastrate: accettiamo docili il ruolo della bella perché è l’unico disponibile, o è l’unico ruolo disponibile perché lo accettiamo docili?
UNA PITTRICE
Alice Neel (1900-1984)
di Simona Iamonte
[Alt Text: ritratto fotografico di Alice Neel, comodamente seduta di fianco a una sua tela e alla sua tavolozza. Foto di Lynn Gilbert, 1976.]
Alice Neel è stata una delle più grandi ritrattiste della sua epoca: le sue opere intime, nevrotiche, dirette esistono come testimonianza delle personalità che popolarono New York tra gli anni Trenta e Ottanta.
Pochi artisti hanno rappresentato il ciclo vitale umano come fece Neel, passando dai neonati, agli adolescenti per arrivare alle madri incinta e ai ritratti di anziani. In ogni singolo quadro, traspare l’empatia eccezionale di una pittrice che prima di tutto ha voluto esprimere l’essenza che abita in ogni protagonista.
Alice Neel nacque il 28 gennaio del 1900 in una piccola città in Pennsylvania, Stati Uniti. Dopo gli studi in design e pittura, conseguiti con successo, diplomandosi alla Philadelphia School of Design For Women, si trasferì a Cuba nel 1924, per frequentare una scuola estiva di pittura, nella quale conobbe quello che sarebbe diventato il suo futuro marito: Carlos Enríques, anch’egli pittore. A Cuba entrò in contatto con la fiorente “Avanguardia Cubana”, un gruppo di poeti, artisti, scrittori e musicisti, che influirono sul suo pensiero politico ed artistico.
Con la morte della sua primogenita Santillina, nata nel 1927, iniziò per Neel un periodo di grande difficoltà. L’abbandono da parte del marito la portò ad un esaurimento nervoso di cui portò le tracce per il resto della vita, sia personale che lavorativa, nonostante gli anni di cura affrontati.
Una volta concluso il ricovero avvenuto nel 1931, Neel si stabilì a New York, nel Greenwich Village, dove cominciò a frequentare artisti e poeti ed entrò in contatto con personalità di spicco del Partito Comunista, con le quali stabilì buone relazioni e condividendo pensieri liberali e femministi, senza mai però diventare membro ufficiale. Durante questi anni le sue opere presero una connotazione sovversiva e sessuale, raffigurando soprattutto scene di nudo come nel celebre dipinto Alice Neel e John Rothschild in The Bathroom (1935) e Alienation (1935).
[Alt Text: Alice Neel e John Rothschild in The Bathroom (1935) ed Alienation (1935). Nel primo lui è di fronte al lavandino e lei seduta sul WC. Nel secondo lui è in piedi di fianco al letto su cui lei è sdraiata.]
Queste due rappresentazioni parlano di un’intimità unica, fortemente personale, dai toni sconvolgenti e dissacranti, che nella sua crudezza risultò osceno per gli osservatori dell’epoca, poiché rappresentazione di una realtà non stereotipata, di una quotidianità slegata dal pudore della nudità. Il contesto culturale ed artistico in cui si inseriscono questi disegni non era dei più fertili: gli anni Trenta furono il momento delle contraddizioni e dei pentimenti dovuti all’insicurezza dovuti al crollo della borsa di Wall Street nel 1929, che frantumò il sogno Americano e gettò il paese nello sconforto. L'arte che caratterizzò gli anni Trenta era quindi connotata da una forte spinta verso la tradizione, verso la solitudine della vita moderna e verso il cambiamento sociale delle città.
Nel 1938, Neel, si trasferì nel quartiere di Spanish Harlem, dove iniziò a dipingere amici, vicini di casa e sconosciuti che incontrava per strada, con un particolare interesse per donne e bambini. Da qui ebbe inizio il suo viaggio attraverso la rappresentazione figurativa del ritratto, genere considerato “fuori moda” all’epoca.
Negli anni che seguirono, Alice Neel sviluppò uno stile personale in controtendenza con i movimenti artistici che stavano nascendo tra gli anni Quaranta e Cinquanta, come l’Astrattismo e la Conceptual Art, portando testardamente avanti la sua ricerca in campo ritrattistico.
Colori vibranti, pennellata veloce ed espressiva, assenza di un disegno progettuale e preparatorio, sono gli ingredienti che le hanno permesso di muoversi con estrema libertà attraverso le sue creazioni. La pennellata ampia ed il suo inconfondibile disegno blu cobalto, hanno segnato l’arrivo di una nuova fase del ritratto intesa come rappresentazione non canonica del corpo, bensì una rappresentazione emotiva, soprattutto non elitaria.
Linda Nochlin, storica dell’arte, femminista e amica di Alice Neel che sedette per lei nel celebre quadro “Linda Nochlin and Daisy” del 1973, disse in una breve video-intervista per il Museum of Fine Arts di Boston:
Non è un ritratto lusinghiero – a me non piacciono i ritratti lusinghieri – assomiglia a me e ha la sensazione di me. [...] Penso che Neel riuscisse a catturare quella sorta di ansia esistenziale che ha chi vive nelle città moderne.
[Alt Text: Linda Nochlin and Daisy, dipinto del 1973. Nochlin e Daisy, una bambina bionda, siedono su un sofà verde.]
Tra le opere più famose, troviamo i ritratti di madri in gravidanza o accompagnate dai loro figli, nello specifico, ritratti di sue amiche che rimasero incinte durante gli anni Sessanta. Dichiarò di aver scelto questi soggetti perché era
qualcosa che i primitivi facevano, ma i pittori moderni si sono allontanati da questo sguardo, perché le donne sono sempre rappresentate come oggetti sessuali. Una donna incinta è un’asserzione ben chiara; non è in vendita.
Queste opere hanno una forza ed un fascino singolare dovuto alla spiccata empatia ed interesse di Neel per la figura femminile, ma soprattutto per il valore intrinseco che descrivono: la trasformazione di un corpo che è capace di dare vita.
[Alt Text: Margaret Evans Pregnant, dipinto del 1978. La donna è nuda e in avanzato stato di gravidanza e siede su una poltrona gialla, mentre uno specchio alle sue spalle mostra il suo profilo e lo schienale della poltrona.]
Durante gli anni Trenta ebbe a malapena due mostre personali, mentre arrivò alla fine degli anni Settanta appena più di sessanta personali, consacrata dalla critica e dal mercato dell’arte. Proprio in quegli anni iniziavano ad essere evidenti alcuni cenni di apertura verso l’arte fatta da donne che parlasse di donne, anche grazie anche alla spinta che diede l’ondata femminista nel decennio precedente.
Oggi, le opere di Alice Neel sono ammirate e fonte d’ispirazione per molti artisti, come Jemima Kirke e Soufiane Ababi. I suoi quadri sono esposti nelle principali collezioni museali mondiali: Art Institute of Chicago, Tate Modern di Londra, MET di New York, National Portrait Gallery washington DC, Museo di Arte Moderna di San Francisco, che hanno consacrato il suo lavoro negli anni, tramandandolo fino ad oggi.
Simona Iamonte vive a Torino e lavora come illustratrice e pittrice. Puoi seguirla su Instagram.
Simona e Alice chiudono il 2019 di Ghinea. Grazie per averci lette e supportate per tutto questo tempo e (speriamo!) anche per il tempo che verrà: ne siamo felici e grate.
Una buona fine e un buonissimo inizio!
Francesca, Gloria e Marzia