La ghinea di settembre
Benvenut* a Ghinea, la newsletter che ha anche amici maschi e sta per dimostrartelo con ben due contributi. Anche questo numero, come quello di marzo, si apre con un contributo di Lino Caetani, curatore del blog collettivo La piega. Lino ci parla delle assurde storture della società carceraria e ci invita a considerare la bontà della causa abolizionista. Poco sotto, Jonathan Bazzi ci racconta Pamela “Pixie” Colman Smith, di cui forse non hai mai sentito il nome, ma di cui riconoscerai le illustrazioni se hai mai maneggiato un mazzo di tarocchi. Attenzione al calendario! Ci sono ben due feste in programma, a cui sei, ovviamente, invitat/ (anche se sei un maschio, basta che tu venga già decostruito). Buona lettura!
Abolire il carcere: una battaglia rivoluzionaria
di Lino Caetani
Eravamo nel 2006 quando l'ultimo grande indulto generalizzato portò la popolazione carceraria da quasi 70.000 detenut* a 25.000 in meno. Ricordo il dibattito dell'epoca perché facevo parte di una rete locale per l'amnistia: fu un momento importante per la vita di migliaia di persone, si discuteva di sovraffollamento e di recidiva mentre purtroppo già montava quel clima forcaiolo e giustizialista che infesta oggi il nostro paese. Passano alcuni anni e nel 2013 c'è di nuovo un trend in crescita di detenzioni, si ritorna a 60.000 persone stipate nelle patrie galere e il governo Letta fa un nuovo indulto (l'ultimo ad oggi) per 10.000 detenut*. Com'è abbastanza noto, oggi siamo punto e daccapo: di nuovo 60.000 persone nelle carceri, una condizione di sovraffollamento che viene stimata tra le 10.000 e le 15.000 unità in meno a disposizione e soprattutto una situazione esplosiva con ripetuti e documentati episodi di violenza da parte delle guardie, suicidi e atti di autolesionismo. Una condizione generale pessima a dir poco.
Tutto ciò avviene di fronte a due fenomeni che sono in netta contraddizione tra loro: da un lato abbiamo un deciso calo dei reati violenti, degli omicidi e delle rapine, mentre dall'altro lato aumenta a dismisura il controllo sociale e la penalizzazione di comportamenti che vengono definiti socialmente pericolosi, ovvero aumenta la popolazione carceraria non perché aumentino i reati ma perché ogni singolo attimo della nostra vita quotidiana viene visto sotto la lente d'ingrandimento del controllo poliziesco e diventa passibile di punizione. Questo slittamento è stato descritto al suo nascere da pochi illuminati punti di osservazione. Basti pensare a Gilles Deleuze che parlava di “società del controllo” già nel 1990: oggi abbiamo sotto i nostri occhi questa dimensione securitaria diffusa un po' ovunque e basta farsi un giro in una stazione ferroviaria per vedere come siano repressi fenomeni di alto rischio sociale come il sedersi su una panchina o mangiarsi un panino. Si potrebbe dire che lo Stato tuteli i propri cittadini dalla pericolosa “emergenza stanchezza” di chi aspetta un treno. Le vecchie sale d'attesa notturne, ovviamente, anche quelle non esistono più: troppo pericolose.
A fronte di questo fenomeno palpabile verrebbe da chiedersi come mai lo Stato non intervenga per una razionalizzazione della struttura nazionale carceraria, costruendo altre galere per mitigare fenomeni rischiosi quali il sovraffollamento, come pure invocano praticamente tutti i partiti di governo o di opposizione che siano. A mio avviso questo avviene perché la priorità dello Stato, piuttosto che regolare il sovraffollamento che pure causa problemi a guardie e sbirri vari, è quella di tenere separato e lontano il carcere dal resto della società. Nelle strade deve esserci l'incentivo blindato al consumo controllato da guardie onnipresenti (leggasi “decoro”) ma chi è punit* deve sparire dalla nostra vista, deve diventare un* reiett* lontan* verso cui l'ultima cosa che deve nascere è la solidarietà o l'immedesimazione. Il carcere è diventato lo snodo centrale per la riproduzione del dominio del capitale nelle nostre società, basti pensare all'enorme gulag a cielo aperto che sono diventati gli Stati Uniti d'America, con una forte messa a valore della popolazione carceraria ottenuta tramite la privatizzazione delle galere che ben conosciamo grazie alla serie tv Orange Is the New Black. Questo dato di fatto è poco affrontato dai movimenti e dalla sinistra di classe nel nostro paese nella misura in cui essi restano legati a una visione riformista e integrata nel sistema capitalista. La debolezza del movimento rivoluzionario in Italia si esprime principalmente attraverso questa grave mancanza di prospettiva sul carcere: si parla di sovraffollamento, di migliori condizioni detentive, di depenalizzazione di alcuni reati, si discute in alcuni casi del 41bis e dell'ergastolo ma rarissimamente si prova a pensare e soprattutto a lottare per l'abolizione del carcere. L'abolizionismo oggi è una corrente teorica minoritaria a livello internazionale ma nel nostro dibattito politico risulta pressoché assente, mentre ci sarebbero molti esempi a cui rifarsi e numerose pratiche da sviluppare. Due sono gli esempi che mi vengono in mente e di cui abbiamo spesso parlato su La piega (a questo link tutti i contributi): il femminismo anticarcerario diffuso nelle pratiche comunitarie di giustizia trasformativa e l'esperienza delle comunità rivoluzionarie curde nel Rojava liberato. In entrambi i casi si affrontano eventuali atti violenti (come uno stupro o un omicidio) in maniera diametralmente opposta a quanto avviene nelle nostre “democrazie”: la persona che ha commesso questi atti violenti viene presa in carico dalla comunità e dentro la stessa comunità si discute (in primis con le vittime dirette o indirette dell'offesa) di una redistribuzione giusta ed equa del fatto commesso. Solo in ultima istanza si arriva ad un allontanamento dalla comunità, ma questo allontanamento non viene pensato nei termini di una detenzione o della creazione delle strutture detentive così come le conosciamo, gestite da un potere statuale. La giustizia trasformativa si riferisce a un processo comunitario che affronta non solo i bisogni della persona che l’ha subita, ma anche le condizioni che hanno permesso questa violenza. In altre parole, invece di guardare l’atto (gli atti) di violenza in un contesto vuoto, i processi di giustizia trasformativa chiedono: “Cos’altro deve cambiare in modo che ciò non accada mai più? Che cosa deve accadere perché la sopravvissuta possa guarire?”.
È importantissimo, dunque, studiare e conoscere queste alternative per costruire una pratica rivoluzionaria all'altezza dei tempi. Nel caso italiano è fondamentale partire da una ricostruzione della solidarietà con le persone carcerate, con le loro famiglie, per creare innanzitutto quelle comunità che riallaccino il legame che lo Stato vuole recidere isolando chi è detenut* nelle galere. Ne parla ogni settimana la trasmissione radio Battiture, in onda su Radio Asilo il mercoledì alle 19 e disponibile poi nella sezione podcast del sito. In ultima analisi, la società liberata che vogliamo costruire non avrà galere di nessun tipo: non c'è nessun comunismo possibile con il carcere.
[Alt Text: sezione del carcere di Washington D.C. in cui furono confinate le suffragette americane nel 1917. Oltre le sbarre, un tavolo, alcune sedie e una panca, tazze e scodelle spaiate. Fonte.]
Nascita e crescita della frangia TERF del femminismo, che specialmente nel Regno Unito si sta infiltrando nel mondo accademico. Con il supporto finanziario di chi? Degli ultraconservatori.
Farsi pagare dal fidanzato/marito/compagno convivente ogni ora di lavoro domestico svolta: lavoro finalmente riconosciuto invece che neutralizzato come atto d’amore? Un trucco marxista per mettere pepe a ogni relazione?
Breve storia dell'invenzione della cellulite.
Painful Realities di Jaipreet Virdi è una serie di articoli in sei puntate, illustrata da Anne Howeson, che esplora la storia del dolore femminile, spesso ignorato anche quando è un sintomo dell’endometriosi.
[Alt Text: una delle illustrazioni di Anne Howeson per la serie sull’endometriosi di Jaipreet Virdi. Durante una lezione universitaria di medicina, aperta a soli uomini, il docente indica con una bacchetta la pancia di una donna, gigantesca e nuda. Fonte.]
Essere pescatrice a Gaza, cioè in un luogo in cui la comunità dei pescatori è tutta maschile e in cui una potenza occupante controlla le acque e determina se e fino a che distanza dalla costa si può far uscire la barca.
Il 10 luglio del 1976 un incidente nella fabbrica ICMESA di Meda provoca la fuoriuscita e la dispersione di una nube di diossina, un agente altamente tossico. Il disastro ambientale, tra i peggiori di sempre secondo il Time, coinvolge parte della Brianza e in particolar modo il comune di Seveso. Poiché la diossina è teratogena, quasi immediatamente si pone il problema delle gravidanze in corso: la legge 194/78 non esiste ancora ma la Corte Costituzionale ha già emesso un’importante sentenza che permette l’aborto terapeutico ed è in questo scenario che il dibattito esplode. Raccontando questa storia, Carlotta Cossutta può investigare il significato e le implicazioni del corpo femminile trasformato in luogo pubblico.
[Alt Text: una ragazza regge un cartello di protesta a una manifestazione: “La diossina è una sostanza teratogena in grado di alterare il patrimonio genetico e che, accumulandosi nell’organismo di soggetti in gravidanza, può generare malformazioni e mostruosità congenite nei figli. Ecco ciò che la Roche ha regalato alle donne di Seveso”. Fonte.]
Not ha pubblicato un estratto da Un féminisme décolonial di Françoise Vergès.
Il 7 settembre si è celebrato il funerale di Uyinene Mrwetyana, studentessa della University of Cape Town scomparsa il 24 di Agosto. La diciannovenne, universitaria al primo anno, era stata vista l’ultima volta in un ufficio postale, dove si era recata per ritirare un pacco. L’impiegato, che non aveva potuto servire Nene a causa di un black out, ha adoperato questo malfunzionamento come scusa per invitarla a tornare più tardi, senza rivelare che la stava spingendo a raggiungerlo fuori orario di lavoro, così da poterla isolare e abusarne all’interno dell’edificio statale.
Due giorni dopo la sua scomparsa, il corpo è stato ritrovato a circa 30km dall’ufficio postale dove il crimine di stupro e omicidio avevano avuto luogo. L’omicidio, che ha seguito una violenza sessuale, è stata un’operazione lunga e fastidiosa per il suo stupratore e assassino, Luyanda Botha, che ha dichiarato: “Ci ha messo una vita a morire”. Botha era già stato accusato di stupro in precedenza ma le accuse erano state infatti ritirate. Non si conoscono le ragioni della ritira delle accuse ma tristemente sono note le statistiche locali sui casi di violenza non denunciati o non perseguiti, che comportano sconforto e sfiducia nelle vittime dove non vere e proprie ripercussioni.
Una serie di azioni di protesta, sia istituzionali (come nel caso della cancellazione delle lezioni per una settimana presso l’Università frequentata da Nene, e l’istituzione di una borsa di studio a suo nome) che spontanee (qui una lista sommaria) La poetessa Sudafricana Koleka Putuma, all’interno del suo primo libro (Collective Amnesia), scrive dei versi significativi dell’esperienza di vita come donna (e soprattutto, come nel suo caso, nera e queer, intersezione identitaria che tristemente pone il soggetto a rischio di abusi di vario genere quali, ad esempio, la pratica dello stupro correttivo).
Un report prodotto da Sky News UK stimava uno stupro ogni soli 26 secondi; nonostante l’indagine statistica sia stata ampiamente contestata, quello che rimane certo, è che ancora più che in altri luoghi del mondo si conduce quella che molte persone dichiarano essere “una guerra aperta nei confronti delle donne”: qui una panoramica sulla diffusione della violenza di genere in Sudafrica (nelle sue varie forme di abuso).
Come evidenziato dal centro di ricerca statistica nazionale nel dossier “Crime against Women in South Africa” rilasciato nel 2018:
Usando le statistiche del 2016\17 del servizio di polizia Sudafricana, dalla quale emerge che l’80% dei reati sessuali denunciati corrispondono allo stupro, in combinazione con quelle del centro statistico Sudafricano che stima al 68,5% le vittime donne di crimini sessuali, si ottiene una cruda stima di 138 donne violentate su 100.000. Questa cifra è tra le più alte al mondo. Per questa ragione, il Sudafrica viene spesso indicato come “capitale mondiale degli stupri.
Oltre a una mancanza di educazione alla prevenzione delle varie forme di violenza di genere, il governo non offre il supporto necessario alle vittime. Oltre all’impatto sullo stato di salute mentale delle vittime di stupro e le gravidanze indesiderate che ne conseguono spesso, i dati sulla diffusione delle malattie sessualmente trasmissibili evidenziano una crisi medica (dimostrando anche una forte correlazione tra gli elementi di razza, classe, e ricchezza).
E i risultati del sondaggio (Demographic and Health Survey, 2016) sulla prevalenza dell'HIV / AIDS tra le donne sudafricane di età compresa tra i 15 e i 24 anni evidenziano ulteriormente queste dinamiche, compreso l'impatto inferto da sugar daddies e blessers [infetti e non curanti della diffusione del virus tra le giovanissime].
Nonostante il Presidente Sudafricano abbia riconosciuto che la violenza di genere nel paese sia ingiustificabile e abbia raggiunto numeri paragonabili a quelli di paesi in guerra, Ramaphosa ha invitato le donne a non farsi vittime spostando il fuoco del problema dalla inaudita violenza praticata dagli uomini e responsabilizzando di questo le donne.
Le terribili circostanze di premeditazione della violenza sessuale e della morte di Nene, una teenager che andava semplicemente a ritirare un pacco presso un ufficio postale statale, sono l’esempio evidente di come non ci sia modo di proteggersi e di non farsi vittime, come richiede il governo alle donne. Il sessismo alla radice di queste victim-blaming dichiarazioni presidenziali è lo stesso che alimenta le pratiche di violenza e abusi diffuse, e che ha portato oggi a un movimento sociale che si domanda: Am I Next?
[Alt Text: le teste di quattro donne iraniane si intravedono oltre un muro. “Watching football from a Tehran shopping centre in 2008”, foto di Behrouz Mehri]
Si è suicidata in un atto di protesta Sahar Khodayari, donna iraniana che aveva sfidato la convenzione – legge non scritta ma applicata – che impedisce alle donne di tifare allo stadio le squadre calcistiche maschili. Conosciuta internazionalmente nel web come “Blue Girl” per via dei colori della sua squadra, che indossava quando, fingendosi un ragazzo, si era intrufolata allo stadio. La ventinovenne si è data fuoco davanti alla corte di giustizia di Tehran dopo aver scoperto che sarebbe stata probabilmente punita con sei mesi di detenzione. Per via di questo terribile evento, la campagna contro contro il divieto di ingresso delle donne iraniane durante le partite di uomini ha raggiunto risonanza internazionale. Gianni Infantino, presidente della FIFA, ha inviato una delegazione per invitare l’Iran a modificare le condizione inique di trattamento di genere della tifoseria. Un gesto minimo e tardivo, come commenta l’attivista iraniana per i diritti delle donne Maryam Shojaei – sorella del capitano della nazionale iraniana, che aveva già personalmente contattato la FIFA con otto lettere. Come ha dichiarato alla CNN:
Ritengo che la responsabilità sia della FIFA. Se si fosse imposto il rispetto dei diritti umani e delle regolamentazioni contro la discriminazione di genere, oggi Sahar sarebbe ancora viva.
Aggiornamenti da Lucha y Siesta, la casa delle donne di Roma sotto minaccia di sgombero: le volontarie e attiviste hanno deciso di lanciare Lucha alla città, una campagna di azionariato popolare che si dà l’obiettivo di partecipare all’asta giudiziaria per l’acquisto dell’immobile Atac. Salvare l’esperienza di Lucha y Siesta è particolarmente urgente: da undici anni la casa è lo spazio a cui rivolgersi per uscire, con supporto materiale e psicologico, da violenze domestiche, “un progetto politico che promuove nuove formule di welfare e di rivendicazione dei diritti a partire dal protagonismo femminile; un progetto ibrido tra casa rifugio, casa di semiautonomia e centro antiviolenza”, un rattoppo essenziale alle lacune del pubblico (il blog del collettivo Cagne Sciolte sottolinea che la casa offre il 60% dei (25) posti letto disponibili a Roma per le sopravvissute e i minori a loro carico). Il 15 settembre, ultimo giorno di occupazione legittima del locale, è trascorso senza che le utenze venissero staccate o lo spazio sgomberato dalle forze dell’ordine: sebbene questa elasticità sia forse dovuta al fatto che il Comune non ha ancora trovato una sistemazione per le diciassette donne presente nella Casa, racconta Annalisa Camilli nel suo report per Internazionale. regala giorni preziosi per organizzarsi e portare avanti la raccolta fondi, a cui puoi contribuire qui.
CALENDARIO
L’assemblea nazionale di Non Una Di Meno si svolgerà a Napoli il 19 e 20 ottobre. Il programma è ancora in definizione, ma chi vuole partecipare può prendere contatti con la sezione locale del movimento o rivolgersi a questi recapiti.
Il 12 ottobre alla Libreria delle Donne di Bologna sarà presentato il volume Femminismo e femminismi nella letteratura italiana dall’Ottocento al XXI secolo. Partecipano all’incontro Adriana Chemello (Università di Padova), Cristina Caracchini (Università di Western Ontario, Canada), Sara Positano (PhD Università di Padova), Loredana Magazzeni (PhD Università di Bologna).
Come promesso, anche quest’anno avremo una serata delle streghe. Ci vediamo il 31 ottobre all’Osteria del Sole di Bologna. Gli osti ci disseteranno ma al cibo pensiamoci noi condividendo ciascun* qualcosa di buono (e magari vegetariano/vegano, così a nessun* resta la fame). Anche se ufficialmente la serata inizia alle 18.30, noi siamo in giro tutto il pomeriggio: sentiamoci! Noi speriamo di ritrovare tutte le persone che avevano reso speciale lo scorso Halloween e di conoscerne moltissime altre.
Anche chi si trova dalle parti di Londra può avere la sua festa: se ti interessa, scrivici (e se lo hai già fatto non temere! Presto arriverà una risposta coi dettagli).
FATTO DA NOI
Gloria è stata ospite del podcast di cinema Ricciotto per chiacchierare di Mademoiselle di Park Chan-wook e Martin Eden di Pietro Marcello. Una ghiotta occasione per discutere di male gaze nel primo caso e di socialismo e coscienza di classe nel secondo.
Francesca ha recensito per Il Tascabile il romanzo Mars Room di Rachel Kushner (traduzione di Giovanna Granato, Einaudi): una scusa per parlare dell’inumanità e inutilità del sistema carcerario, dell’ipocrisia che pretende di redimere e riabilitare persone isolate e stigmatizzate dalla società civile libera. Oltre a Kushner, una piccola lista di autoru che hanno scritto di carcere – vissuto da dentro o studiato da fuori – come Goliarda Sapienza, Albertine Sarrazin, Michel Foucault, John Cheever, Danielle Steel e Piper Kerman. Pare che il pezzo sia piaciuto anche a Radio 3.
FATTO DA VOI
Una nuova poesia di Livia Franchini.
La nostra amica Antonia Caruso (già apparsa nella Ghinea di maggio) ha fondato una casa editrice “antifascista, antisessista, antirazzista, autoprodotta, anaffettiva, trans/femminista”. Edizioni minoritarie è appena nata e non ha ancora pubblicato niente ma promette fumetti, pamphlet e cose buffe. Puoi tenerla d’occhio seguendo la pagina Facebook e soprattutto puoi aiutare Antonia attraverso Patreon.
[Alt Text: manifesto programmatico di Edizioni Minoritarie.]
UN FILM
La ciénaga di Lucrecia Martel (2001)
[Alt Text: la domestica Isabel, interpretata da Andrea López, e una delle ragazze della tenuta La Mandrágora, Momi, interpretata da Sofía Bertolotto, sdraiate a letto fianco a fianco.]
Secondo il principio dei vasi comunicanti, il fluido in circolo tra contenitori collegati, anche di diverse altezze, forme, dimensioni, entrerà in ogni angolo raggiungibile, riempiendo ogni cavità, fino a calmarsi a un livello comune per tutti i vasi. Anche i fluidi in circolo in La ciénaga –primo film della “trilogia di Salta”, seguito da La niña santa (2004) e La mujer sin cabeza (2008) – cercano l’equilibrio idrostatico. Le cugine Mecha e Tali sono il legame tra due famiglie chirali, una con quattro figli bambini e un marito asfissiante, l’altra con quattro figli adolescenti e un marito alienato. Nessun personaggio ha una storia completa, ad ognuno tocca una razione di acqua stagnante, cubetti di ghiaccio, sangue che gocciola da ferite fresche, macchie di sangue rappreso che non vanno più via.
Mecha e le figlie trascorrono l’estate nella tenuta La Mandrágora, dove si coltiva ed essicca peperoncino, e l’indolenza casalinga è garantita dal servizio silenzioso delle domestiche amerindie. Le giornate passate a letto per il troppo caldo sono scandite dalle urla con cui ogni membro della famiglia si cerca a vicenda. Anche Tali, madre di bambini più piccoli e scalmanati, passa la sua giornata gridando ordini e suppliche. Tali vive in un casetta in città, La Ciénaga, capitale della provincia del nord-ovest argentino (“pseudonimo” di Salta, la città d’origine di Lucrecia Martel), e visita spesso Mecha, nonostante il senso di inferiorità e la chiara antipatia tra i due mariti.
Nell’iconica sequenza iniziale, Mecha, il marito Gregorio e gli ospiti adulti sonnecchiano a bordo piscina – una pozza di acqua imputridita in anni di incuria, dopo la rottura del filtro e della valvola – instupiditi dall’umidità e dall’alcol. Mecha inciampa franando col petto sui bicchieri di vetro che bilanciava in mano, ferendosi gravemente e innescando lo schema di azione/reazione tipico alla Mandrágora: nervosismo abulico interrotto da scoppi violenti. I bambini non si limitano a sbucciarsi le ginocchia, vanno a caccia con veri fucili e si raccontano storie di ratti africani con due file di denti uccisi con l’accetta. Con un tuffo in piscina si rischia di infettarsi, i pescegatti pescati nel fiume a colpi di machete, proprio allo sbocco di un tubo di scarico, e poi buttati all’angolo della strada, diventano la zuppa saporita servita a cena. Non esiste sicurezza asettica, il contatto è ubiquo, è visuale e sonoro, ma mai narrativo. I desideri e le attrazioni – incestuose, omoerotiche, infuse di gelosia o avvelenate dal sospetto razzista – restano inspiegate, le storie del passato rimbalzano da una conversazione a un litigio, senza spiegare motivazioni presenti.
La materia allo stato liquido ha un volume proprio, ma acquisisce la forma del recipiente che la contiene. È uno sforzo vano tentare di seguire le fila di affinità e parentela, la mobilità dei liquidi crea gli unici percorsi intelligibili. L’acqua esiste sotto forma di stagno marcescente, pioggia torrenziale, conservata dentro una cisterna sulla quale appare la Madonna. L’acqua è ghiacciata in cubetti che tintinnano dentro i bicchieri, annacqua il vino rosso in cocktail rosa. Il sangue esce dal corpo zampillando dai tagli, colando dal naso rotto e da un'orbita cava, vomitato dopo una rissa. Si cicatrizza sulle lenzuola, si rimargina sulle pelli. È normale che i bambini cadano e si facciano male, è accettato che un incidente possa capitare anche agli adulti: ma quando il terrore del rischio supera la gravità della disgrazia, la paranoia si propaga come un gas.
Quando La ciénaga uscì al cinema in Argentina, a marzo 2001, la recessione era già in corso. La frenesia della corsa agli sportelli, le conversioni di pesos in dollari, e la fuga all’estero dei capitali, il corralito approvato alla fine dell'anno per congelare i conti correnti e frenare l’emorragia di contante dagli istituti bancari: il malessere sociale esplose in cacerolazos, saccheggi, rivolte di piazza che lasciarono per terra dei morti – non solo a Buenos Aires. Sapere della dichiarazione dello stato di default, della caduta del governo in piena estate, nel dicembre 2001, aggiunge un velo di ironia drammatica alle vacanze trascorse tra La Mandrágora e La Ciénaga. I conti dell’azienda già non sono dei più floridi, e possiamo solo immaginare le enormi difficoltà che Mecha dovrà affrontare per restare a galla, incluso forse il fallimento, con l'imminente tracollo dell’economia nazionale. Lo stagno del titolo [ciénaga in spagnolo], ci mostra Martel, non è semplicemente il risultato di politiche sbagliate, di incuria e pigrizia, è il sintomo di malesseri in corso, che si acuiranno perché lo stagno non è la fine della storia, ma una fase del flusso d’acqua e sangue che tiene unite le cose.
UNA DONNA
Pamela “Pixie” Colman Smith (1878-1951)
di Jonathan Bazzi
[Alt Text: ritratto fotografico colorato di Pamela Colman Smith, seduta davanti ai tarocchi che ha illustrato. Fonte.]
Donna, mulatta, queer, femminista, incline al pensiero sinestesico e visionario, libera: il mazzo di tarocchi più famoso al mondo ha una madre piuttosto ingombrante – e affascinante – che, come spesso accade coi personaggi ingombranti, è stata a lungo dimenticata, messa da parte. Parliamo dei tarocchi Rider-Waite, oltre cento milioni di copie ancora oggi in circolo in oltre venti paesi, e la donna che all’inizio del secolo scorso collaborò alla loro creazione, illustrandoli a mano, è Pamela Colman Smith, conosciuta anche col nome di Pixie. Disegnatrice, scrittrice e occultista, i tarocchi non sono certo l’unica sua opera, ma funzionano un po’ da tana del bianconiglio: attraverso di loro è possibile precipitare nella storia di questa donna talentuosa e forse sin troppo moderna per la sua epoca.
Pamela Colman Smith è stata infatti una creativa eclettica, interdisciplinare, amante delle collaborazioni e delle ibridazioni molto prima che fosse di moda esserlo. Proprio con la riscoperta della sua figura (a lungo il nome di Pamela non compariva neppure sulle confezioni del mazzo) si è preso giustamente a chiamare i tarocchi in questione Waite-Smith o Rider-Waite-Smith, e conoscere la sua storia è oggi un’occasione importante sia per gli appassionati di tarologia e arti magiche che per tutte e tutti quelli interessati a onorare la memoria di una figura meno nota di quel che dovrebbe. In un certo senso parlare di lei equivale a mettere in atto un piccolo risarcimento: se ci proponiamo di recuperare storie perdute e cancellazioni sistematiche dell’intelletto e del lavoro delle donne, la figura di Pixie ci mostra un pezzo davvero speciale di questa grande terra di omissioni e rimozioni.
Pamela nasce in Inghilterra il 16 febbraio 1878 (quindi sotto il segno dell’Acquario, giustamente) a Pimlico, Middlesex County (ora parte di Londra). È figlia unica di un mercante americano di Brooklyn, Charles Edward Smith, e di Corinne Colman, donna di origini giamaicane sorella del pittore Samuel Colman. I genitori sono seguaci del pensiero di Emanuel Swedenborg (uno dei precursori dello spiritismo) ed entrambi provengono da famiglie benestanti di artisti e letterati. Grazie al lavoro del padre (presso la West India Improvement Company, compagnia per l’estensione del sistema ferroviario giamaicano), la famiglia di Pamela viaggia molto, trascorrendo il tempo tra Londra, Kingston in Jamaica e New York. Sin da subito la dimensione del viaggio e una certa concezione nomadica dell’esistenza fanno parte della vita della piccola Pamela: nelle sue illustrazioni il mare e le navi saranno infatti molto presenti, elementi impressi nella sua memoria sin dall’inizio.
L’infanzia di Pamela viene segnata presto però anche dal dolore della perdita: sua madre muore quando Pamela ha solo dieci anni e, spesso separata dal padre a causa del lavoro, viene presa sotto l’ala protettrice del Lyceum Theatre di Londra, gruppo itinerante diretto da Ellen Terry e Henry Irving (dove pare riceva anche il soprannome di Pixie). In un certo senso l’arte si prende cura di lei, la salva. Trascorre infatti la prima adolescenza viaggiando con la compagnia teatrale, il che influenzerà molto le sue scelte artistiche future. A quindici anni si trasferisce a Brooklyn con il padre e frequenta il nuovo Pratt Institute, dove studia arte sotto la guida del celebre artista e docente Arthur Wesley Dow, senza però arrivare al diploma (pare per evitare di essere influenzata eccessivamente dal sistema).
[Alt Text: copertina di The Russian Ballet, un breve saggio sui balletti russi di Diaghilev scritto dall’attrice Ellen Terry e illustrato da Pamela Colman Smith. Ballerine e ballerini in tutù di scena – piccole figure disegnate a inchiostro – incorniciano il titolo e i nomi delle autrici. L’intero libretto si può consultare qui.]
Nel giugno del 1899, rimasta orfana anche di padre, Pixie rientra a Londra e comincia a lavorare, ottenendo una certa fama come pittrice e illustratrice. Forte è il suo legame con le origini della sua famiglia, in particolare con il ramo materno: i suoi primi libri pubblicati sono delle raccolte illustrate di fiabe giamaicane, tra cui Annancy Stories (1899, 1902), su una figura tipica del folklore africano, Anansi il ragno. Femminista, aderisce al movimento per il suffragio universale. Come scrittrice pubblicata e artista, ha accesso ai circoli letterari di Londra e viene presentata al poeta William Butler Yeats. Nel 1903 illustra alcuni suoi lavori e Yeats decide di introdurla nell’Hermetic Order of the Golden Dawn, un collettivo dedito allo studio di metafisica e occulto. Qui avviene un incontro fondamentale: conosce Arthur Edward Waite, poeta e mistico, del quale diventa amica.
[Alt Text: la copertina di Annacy Stories raffigura un primo piano di una persona nera che trasporta un cesto sulla testa, protetta da un turbante. Sullo sfondo, colline verdi e il cielo. Mimetizzato in mezzo al motivo sulla camicia della figura, il monogramma-firma di Colson Smith: una P che trafigge una C e una S. Le illustrazioni di Annancy Stories si possono vedere qui.]
Subito dopo la sua iniziazione nella Golden Dawn, l’Ordine si divide in fazioni e Waite inizia a dirigere il nuovo Tempio di Iside-Urania. Molti dei membri della Golden Dawn, tra cui Pamela, aderiscono al gruppo di Waite, chiamato ora Order of the Independent and Rectified Rite. È in questo periodo che Waite, nell’intento di progettare un mazzo di tarocchi moderno, incarica Pamela di disegnare e illustrare – per una piccolissima somma di denaro, come lei stessa precisa in una lettera destinata a un amico – le settantotto carte degli arcani maggiori e minori (nella sua autobiografia scriverà poi di averla scelta perché vide in lei “un’artista grandemente immaginativa e eccezionalmente paranormale”).
Il mazzo di tarocchi viene pubblicato nel dicembre del 1909 e diventa subito molto popolare, proprio grazie alla forza dei disegni di Pixie, nei quali non solo gli arcani maggiori (Bagatto, Papessa, Imperatrice, ecc.) trovavano forza estetica e simbolica, ma anche quelli minori (asso, uno, due ecc. dei vari semi – coppe, denari, ecc.). Pixie infatti diede anche ad essi una veste figurativa, umana: una piccola grande rivoluzione destinata a cambiare per sempre la cartomanzia, per l’eloquenza e l’immediatezza empatica dei disegni. Il mazzo disegnato da Pamela Colman Smith è insomma diventato un modello fondamentale, anzi il modello iconografico per eccellenza, destinato a migliaia di riedizioni, imitazioni e variazioni sul tema.
[Alt Text: alcune carte del mazzo Rider-Waite-Smith. Prima fila, da sinistra, alcuni arcani maggiori: il Matto, il Bagatto, gli Amanti, il Sole. Seconda fila, da sinistra, alcuni arcani minori: il Tre di Bastoni, il Tre di Coppe, il Sette di Denari, il Nove di Denari. Fonte. ]
Alla fine della prima guerra mondiale Pamela, dopo essersi convertita (a sorpresa) al cattolicesimo,beneficia di un’eredità che le permette di aprire una casa per sacerdoti in Cornovaglia, in una zona amata dagli artisti. Vi rimane per molto tempo, insieme a quella che probabilmente è la sua compagna, Nora Lake (le due vivranno insieme in tutto circa 40 anni), fino al 1939, quando insieme si trasferiscono a Bude, dove Pamela muore il 18 settembre 1951. Nel corso della vita Pamela Colman Smith non ha mai cercato la celebrità e la fama, ma esclusivamente il proprio riconoscimento come artista, che purtroppo non è arrivato. Non si è sposata, non ha avuto figli. Quando muore nel 1951 è senza un soldo e il suo lavoro artistico è rimasto semisconosciuto. Non c’è alcun corteo al suo funerale, nessuno si presenta a ricordare il suo lavoro, ad assicurarne l’impatto sulle future generazioni. La sua tomba, se è mai stata innalzata, è rimasta ignota. Dopo la sua scomparsa, tutti i beni di sua proprietà vengono venduti all’asta per soddisfare i creditori: libri, manoscritti, raccolte di preghiere, dipinti, disegni, arredi e perfino la corrispondenza personale. Contro le sue ultime volontà, la sua compagna di vita viene esclusa da qualsiasi lascito ereditario: tutto finisce in mano a estranei, non in grado di comprendere ciò che ricevevano.
A parte poche mostre d’arte all’inizio della carriera, di modesto o scarso successo, la gran parte del suo lavoro è rimasta invisibile: Pamela Colman Smith sarebbe stata completamente dimenticata se non ci fossero state le settantotto carte dei tarocchi da lei dipinte. Sarebbe certamente sorpresa di sapere che oggi, grazie a quel mazzo di tarocchi, il suo lavoro raggiunge e tocca ancora i cuori di milioni di persone. È bello pensare che in qualche modo il talento di Pixie sia sopravvissuto attraverso le delicate e ipnotiche immagini delle carte che tantissime persone tuttora usano per immaginare una storia diversa e raccogliersi insieme attorno all’imprevedibile.
La figura di Pamela, nella comunità degli appassionati di tarologia, o cartomanzia che dir si voglia, è diventata un modello anche per le donne di colore. Ad esempio Courtney Alexander, creatrice del mazzo Dust II Onyx: A Melanated Tarot, ha detto di essersi sentita ispirata dalla studio della sua vita – “Mi ha dato forza vedere una donna dietro ad un lavoro così importante” – finendo col sentirsi mossa anche dal desiderio di portare in qualche modo a termine la sua impresa, in quanto donna di colore autrice di un mazzo di tarocchi. Ciò che a Pixie è stato negato, Courtney ha voluto prenderselo e affermarlo con forza.
Se ti interessa approfondire le vicende di Pixie, di recente è stato pubblicato un libro: Pamela Colman Smith: The Untold Story, di Stuart R. Kaplan, Mary K. Greer, Elizabeth Foley O'Connor e Melinda Boyd Parsons, la prima ricognizione approfondita della vita e dell’opera di quest’artista talentuosa e originale.
Jonathan Bazzi è nato a Milano e cresciuto a Rozzano. Laureato in filosofia con una tesi su Edith Stein, è appassionato di tradizione letteraria e artistica femminile. Insegnante di yoga e contributor per vari magazine online, ha scritto Febbre (Fandango Libri), suo primo romanzo, uscito a maggio del 2019. Lo puoi seguire su Instagram.
Chiudiamo la Ghinea di settembre ringraziando Lino e Jonathan per averla arricchita coi loro contributi. Vuoi aiutarci anche tu a rendere più belli i prossimi numeri? Facci contente: supera la timidezza e scrivici la tua idea. E se puoi venire a dirci ciao a Bologna o Londra ancora meglio! Ti aspettiamo.
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Francesca, Gloria e Marzia