La ghinea di agosto
Benvenutx a Ghinea, la newsletter femminista che non ti abbandona nemmeno ad agosto.
Questo mese giriamo per il mondo tra Corea del Sud, Russia, Malta e America Latina per raccontarti storie diverse di resistenza e lotta femminile, ricordiamo Toni Morrison e aggiungiamo una nuova rubrica. Il calendario cercherà di tenerti aggiornatx su eventi e incontri che potrebbero interessarti se stai leggendo questa newsletter: iniziamo con una presentazione letteraria curata da noi, a Bologna, una serie di spettacoli teatrali a Roma e una lettura pubblica di articoli, fanzine e volantini femministi a Milano. Cercheremo di avere occhi ovunque per intercettare tutto ciò a cui potremmo e potresti partecipare, ma ogni segnalazione è non solo ben accetta ma necessaria per un calendario completo e aggiornato. Organizzi o vieni a sapere di un evento che avrebbe proprio bisogno di essere diffuso? Scrivici! Buona lettura!
La Casa delle donne di Roma “Lucha y Siesta” è sotto minaccia di sgombero e ha bisogno dell’azione di noi tuttx. Annunciata la decisione senza fornire soluzioni alternative, Comune, Atac, e Tribunale – come riporta il comunicato – hanno imposto per il 15 settembre l’interruzione di ogni utenza dello stabile che da 11 anni offre rifugio alle vittime di violenza. Lucha y Siesta offre un servizio alla comunità in totale autogestione, grazie al contributo costante delle persone volontarie, dando vita a una realtà alternativa e sicura per chi ne ha bisogno. L’accelerazione del processo di sgombero può essere contrastata in diversi modi, e fino a ieri una coordinata mobilitazione via email ha tempestato le istituzioni di richiesta di tutela dell’opera di sostegno sul territorio. L’azione di mailbombing si ripeterà questo lunedì quindi sii prontx a trascrivere il testo che le attiviste hanno preparato per farci sentire. Per quanto la Sindaca voglia ignorarci, la conversazione non è chiusa e certamente la lotta non è conclusa. Invitiamo tuttx a seguire le vicende (su FB, Twitter, e sul loro sito) per ricevere notizia di come partecipare alle attività di resistenza. È importante contribuire alla preservazione di questo luogo di bene comune che come molti altri è messo a rischio dalle politiche attuali.
Il consiglio di facoltà di Scienze Sociali dell’Università di Buenos Aires ha approvato l’adozione di un linguaggio inclusivo in tutte le tesi e gli elaborati scritti. L’argomento delle desinenze è spesso trattato con sufficienza e derisione e liquidato con facile benaltrismo: perché occuparsi di banali lettere e non risolvere prima ben più gravi discriminazioni materiali? Questo discorso di apparente buonsenso è un colabrodo logico che cerca di sovrapporsi ai soggetti discriminati imponendo loro una gerarchia di priorità da rispettare, e commette l’errore tattico di affrontare singolarmente i diversi ma interconnessi esiti di una medesima cultura. Il testo della risoluzione dell’UBA afferma esplicitamente che
Il linguaggio in cui comunichiamo e ci relazioniamo implica significati che riflettono disuguaglianze tra i generi, naturalizzandone la segregazione, discriminazione o esclusione.
La necessità di creare un linguaggio nuovo, che finora ha escogitato asterischi e altri segni neutri/inclusivi, risiede appunto nella consapevolezza che il nome che diamo all’altr_ è conseguenza ed espressione di ciò che sappiamo e vogliamo riconoscergli/le in termini di dignità, soggettività e diritti. Non si tratta dunque di un’operazione cosmetica bensì di un complesso lavoro di distruzione e ripensamento, che potrebbe per esempio partire dal veloce fastidio che spesso ci spinge a ridicolizzare l’argomento e chi lo porta alla ribalta. Nella Ghinea di giugno puoi trovare un veloce accenno alle scelte linguistiche che hanno caratterizzato la copertura mediatica dei mondiali femminili di calcio, nelle prossime Ghinee troverai una trattazione più ampia dell’argomento.
Malta è l’unico paese europeo che proibisce l’interruzione di gravidanza senza nessuna eccezione, costringendo chi desideri accedervi ad andare all’estero (se può permetterselo) o a ordinare pillole abortive su internet (illegalmente). Non solo: l’educazione sessuale e le informazioni sulla salute riproduttiva sono lacunose, e la vendita della pillola del giorno dopo è soggetta al diritto di obiezione di coscienza. Per tutti questi motivi alcune donne si sono organizzate e hanno dato vita a Voice 4 Choice, un movimento per il diritto all’aborto.
[Alt Text: attiviste di Voice 4 Choice, durante un presidio, sorreggono uno striscione che recita: Benvenuti a Malta, dove le donne e le ragazze sono soltanto incubatrici. Fonte.]
Nella Ghinea di luglio abbiamo intrapreso un discorso sul carattere discriminatorio e violento della retorica del decoro urbano. Questo articolo di Serena Olcuire segnalatoci da Wolf Bukowski (che ringraziamo e che pure si occupa di politiche del decoro) restringe lo sguardo alle politiche contro i/le sex worker “come riaffermazione di valori morali propri di una determinata area di cittadinanza e strategia per l’epurazione delle aree più appetibili per la speculazione dei centri storici”.
Tre consigli di lettura (anzi quattro più un podcast) per posizionare la maternità dentro una politica femminista e anticapitalista.
Dal 1975 nella regione del Chiapas, Messico meridionale, opera Taller Leñateros, un collettivo editoriale composto da donne Maya. Il laboratorio pubblica libri in lingua Tzotzil, raccolte di poesie e storie che sono state tramandate oralmente finché la poetessa messicano-americana Ámbar Past ha iniziato a registrare, trascrivere e tradurre il repertorio conservato da 150 donne indigene. Incantations: Songs, Spells, and Images by Mayan Women è stato il primo libro pubblicato da una popolazione Maya dall’occupazione spagnola del sedicesimo secolo. Tutti i libri, opuscoli e quaderni creati nel Taller Leñateros sono fatti a mano seguendo tecniche tradizionali Maya: le pagine sono realizzate con fibre di carta riciclata e corteccia (i leñateros raccolgono legna da ardere senza abbattere alberi), gli inchiostri sono tinture naturali. Jessica Vincent racconta la stato attuale dell’attività e le difficoltà che sta affrontando, dai problemi con l’immobile in cui ha sede, alla diminuzione dei flussi turistici e del numero di donne impiegate a tempo pieno.
[Alt Text: Due donne del collettivo Taller Leñateros, in costume tradizionale, realizzano a mano dei quaderni. Fonte.]
Megan Rapinoe isn’t going to the fucking White House
Coffee Spoonie, che produce regolarmente contenuti in varie forme per accrescere la consapevolezza sociale attorno allo stigma delle disabilità, ha scritto della linea tra disabilità visibile e invisibile.
Il 5 agosto è mancata la scrittrice americana Toni Morrison, aveva 88 anni.
Il necrologio più bello, di Doreen St. Félix.
Di come è più importante, complicato ed esigente – mentalmente e moralmente – amare e prendersi cura di qualcuno, farl* stare bene:
Il discorso di accettazione del premio Nobel per la letteratura tenuto da Morrison il 7 dicembre 1993 all’Accademia svedese (da ascoltare o leggere).
Le uniche cinque poesie mai rese pubbliche da Toni Morrison.
Una lista di scrittrici nere da scoprire e leggere, per onorare la discendenza che si ispira a Toni Morrison.
La dignità, la gentilezza, la fermezza davanti a un’opinione sfacciatamente razzista:
A Città del Messico gruppi femministi stanno manifestando la loro rabbia per uno stupro ai danni di una diciassettenne di cui sono stati accusati alcuni poliziotti. Secondo le ricostruzioni la ragazza stava rientrando da una festa quando è stata avvicinata da una pattuglia e gli agenti le hanno proposto di riaccompagnarla a casa, per poi abusare di lei e lasciarla nuovamente per strada. Come riporta Roberta Granelli la gestione del caso è stata sin dal principio molto opaca:
Al momento di ricevere la denuncia di violenza, il Pubblico Ministero non ha applicato il protocollo stabilito per le violenze sessuali e le prove, realizzate giorni dopo, non hanno prodotto risultati; l’indagine è stata resa meschinamente pubblica e dunque la giovane è stata bersagliata da minacce che l’hanno costretta a ritirare la denuncia.
Sull’identificazione degli agenti coinvolti sono emerse del resto dichiarazioni contraddittorie: se in un primo momento sembrava che la ragazza non fosse stata in grado di riconoscerli, dopo qualche giorno è stata comunicata la sospensione di sei elementi ma senza nessuna accusa formale. L’episodio si inserisce in un quadro emergenziale (e solo da poco riconosciuto meritevole di politiche mirate) di violenza di genere: secondo gli ultimi dati raccolti, ogni giorno in Messico vengono uccise nove donne, mentre circa cinquanta (a cui bisogna aggiungere le inquantificabili e silenziose vittime di stupro domestico e chi non denuncia per timore di ritorsioni) subiscono qualche forma di violenza sessuale. La protesta contro tutto questo è stata agguerrita e violenta e la stazione di polizia è stata assaltata e data alle fiamme proprio perché “luogo simbolico che rappresenta tutti quei processi di rivittimizzazione a cui si è sottoposte quando si decide di denunciare, simbolizza la giustizia patriarcale che non protegge ma che violenta”. Sebbene le autorità abbiano deciso di non criminalizzare la protesta (gli unici procedimenti penali riguarderanno le aggressioni fisiche a reporter) e la sindaca Claudia Sheinbaum abbia voluto incontrare i gruppi femministi e instaurare un dialogo, questi passi incoraggianti non cancellano il fallimento delle (poche, timide) politiche messicane contro la violenza di genere e tutti i traumi e il dolore che una maggiore attenzione avrebbero potuto evitare, non ultimo quelli della ragazza costretta a ritirare la sua denuncia perché presa di mira e intimorita da messaggi d’odio. D’altronde uno degli slogan delle proteste, “A mí, me cuidan mis amigas” (“Di me si prendono cura le mie amiche”), è più che mai indicativo della sfiducia delle donne messicane nei confronti della giustizia ordinaria, come lo è la diffusione di gruppi femminili di autodifesa che tentano di creare una rete di sicurezza contro la violenza patriarcale.
[Alt text: una manifestante sorregge un fumogeno. Fonte.]
Il 14 agosto è stata la seconda giornata internazionale di commemorazione per le comfort women, le “donne di conforto” dell’esercito imperiale giapponese durante la seconda guerra mondiale. L’eufemismo – tradotto da 慰安婦, ianfu in giapponese, 慰安婦/위안부 wianbu in coreano, 慰安妇, wei’anfu in cinese – indica le decine di migliaia di donne asiatiche sfruttate come schiave sessuali militari nei territori asiatici sotto occupazione diretta giapponese e zone adiacenti: Corea, Cina, isola di Taiwan, Vietnam, Thailandia, Filippine, Malesia, Indonesia, Myanmar; incluse alcune centinaia di donne europee residenti nelle colonie olandesi e portoghesi del sud-est asiatico.
La data del 14 agosto è stata scelta in onore di Kim Hak-Sun, la prima superstite coreana a testimoniare pubblicamente la sua storia, il 14 agosto 1991: dopo di lei altre 283 donne coreane hanno “rotto il silenzio” uscendo allo scoperto. Ogni mercoledì dall’8 gennaio 1992 una delegazione di 할머니 halmeoni, “nonne”, come vengono ufficialmente e affettuosamente chiamate le superstiti, si riunisce, accompagnata da manifestanti di supporto, davanti all’ambasciata giapponese di Seoul per protestare il rifiuto da parte del governo giapponese di riconoscere la responsabilità del crimine di guerra. In occasione del millesimo mercoledì di protesta, il 14 dicembre 2011, la “Statua della pace” – 평화의 소녀상, Pyeonghwaui sonyeosang – è stata eretta davanti all’ambasciata, e monumenti simili sono stati apposti anche in altre città, non solo in Corea.
[Alt Text: la statua della pace di Seoul raffigura una giovane ragazza in hanbok, il costume tradizionale coreano, a piedi scalzi, seduta composta su una sedia, le mani strette a pugno in grembo e un uccellino appollaiato sulla spalla. Alla sua destra, una sedia vuota che la visitatrice può occupare. Una lastra incisa sul piedistallo fornisce informazioni su significato e scopo della statua. Fonte.]
Le richieste delle superstiti, ormai anziane ottantenni e novantenni, e delle organizzazioni di supporto sono:
l’ammissione di responsabilità e colpevolezza da parte del governo giapponese.
la divulgazione di documenti ufficiali.
la presentazione di scuse ufficiali.
il pagamento di riparazioni alle vittime sopravvissute.
la comminazione di pene ai responsabili.
l’inserimento di informazioni riguardanti il sistema di schiavitù sessuale nei programmi educativi nazionali.
l’erezione di un monumento a ricordo delle vittime e la fondazione di un archivio di ricerca.
La questione delle comfort women è tuttora oggetto di controversia diplomatica tra Corea e Giappone. Nel 1993 il segretario generale di gabinetto Yohei Kono aveva riconosciuto pubblicamente la responsabilità dell’esercito giapponese nel reclutamento forzato di donne asiatiche ed europee come prostitute durante la seconda guerra mondiale. Nel 2015 era stato siglato un accordo formale tra Giappone e Corea. Il primo ministro Shinzo Abe – che già dal 2007, durante il suo primo mandato, esprimeva posizioni negazioniste, per esempio rinnegando le dichiarazioni di Kono del 1993 – avrebbe porto le scuse ufficiali da parte dello stato, accompagnate dal versamento di un miliardo di yen al governo coreano per l’istituzione di un fondo a risarcimento e in supporto delle superstiti. In cambio, la Corea avrebbe considerato “irrevocabilmente conclusa” la questione, interrotto ogni menzione della responsabilità giapponese davanti alla comunità internazionale e, soprattutto, rimosso le statue della pace. L’accordo non ha incontrato il favore delle superstiti e di gran parte della società civile coreana (oltre che, in maniera ridotta, di quella giapponese), e la situazione è tuttora a uno stallo: il fondo giapponese è stato dissolto, le statue sono ancora al loro posto (guardate a vista da studentesse che a turno hanno dormito al loro fianco). La nuova amministrazione coreana di Moon Jae-in ha dimostrato maggiore apertura verso le richieste delle superstiti, e dichiarato la necessità di riaprire i negoziati diplomatici con il Giappone. La diatriba, tuttavia, non è solo politica.
[Alt Text: le Nonne coreane, riconoscibili dalle pettorine gialle, sedute fianco a fianco durante la protesta del mercoledì davanti all’ambasciata giapponese di Seoul. Fonte.]
La rarità delle fonti – pochissime fotografie, un video di 18 secondi reso pubblico solo nel 2017, documenti ufficiali perduti, distrutti o non consultabili – e la prevalenza delle testimonianze orali delle poche superstiti ancora in vita (e disponibili a sostenere lo sforzo dell’esposizione pubblica) rendono la ricerca storica molto contenziosa. Oltre all’irrisolto sentimento di rancore nei confronti del vecchio invasore, indicata da molti come l'autentica ragione dietro il successo delle comfort women come icone della sofferenza nazionale, ci sono notevoli questioni legate a ruoli e pregiudizi di genere in Corea. Non è un caso che la Statua della pace raffiguri un’adolescente: le superstiti raccontano di aver avuto età comprese tra i 13 e i 17 anni al momento della cattura. Ma l’innocenza delle ragazze reclutate è necessaria anche alla creazione di una mitologia dicotomica, che racconta l’invasore giapponese come violentatore sadico e le giovani coreane come vittime vergini e inermi. Molt* studios*, non solo giapponesi, hanno tentato di ampliare e diversificare la narrazione standard.
Per esempio, nel suo studio del 2013 (altamente contestato in patria) Comfort Women of the Empire, Park Yun-ha sottolinea quanto il diffuso e normalizzato collaborazionismo coreano – cittadin* corean* che adescavano in prima persona ragazze da rivendere ai giapponesi – abbia reso possibile l’istituzione dell’infrastruttura necessaria alla fornitura costante di nuove ragazze ai bordelli dell’esercito giapponese. Il rapimento, oltretutto, non è stata l’unica via intrapresa per raccogliere ragazze: ci sono state storie di allontanamento spontaneo dalla famiglia, addirittura casi di “arruolamento” volontario, soprattutto da parte di donne giapponesi nei primi anni della guerra. Sempre Park riporta testimonianze di atti di bontà e attenzione da parte di singoli militari giapponesi nei confronti delle donne: cure mediche, la possibilità di andarsene in qualunque momento, qualora lo desiderassero, addirittura storie d’amore risoltesi in matrimoni. L’antropologa C. Sarah Soh, nel suo studio del 2008 The Comfort Women: Sexual Violence and Postcolonial Memory in Korea and Japan insiste, contestualizzandola, sull’agency, la libertà di azione delle donne. Facendo leva sull’evoluzione culturale che stava rendendo possibile, sotto il dominio giapponese, la possibilità per le donne di lavorare fuori casa e mantenersi in autonomia dalla famiglia, moltissime venivano abbindolate con false promesse lavorative, convinte a lasciare famiglia e villaggi d’origine e a partire per lavorare come infermiere o segretarie impiegate dall’esercito giapponese. La trappola patriarcale che ha oppresso le comfort women, secondo Soh, era duplice: da una parte, i codici familiari tradizionali che prescrivevano una vita in secondo piano e dedicata alla servitù domestica, dall’altra, la violenza fisica e brutale resa possibile dall’esca della libertà. Una lettura, tuttavia, che non legittima l’operato dei militari giapponesi, né addossa la responsabilità alle donne: l’idea che le comfort women fossero esclusivamente prostitute volontarie e/o lavoratrici autorizzate, d’altronde, è già ben radicata nei discorsi filo-nipponici.
La tattica dei detrattori è la più antica: diffamare la dichiarazione pronunciata da una donna. La contraccusa è la più banale: vilipenderla esponendone l’attività sessuale, consenziente o meno, non fa differenza. I contro-manifestanti sono soliti urlare alle Nonne insulti del calibro di “vecchie streghe”, “troie coreane” e “puttane bugiarde”. Non importa che l'accusa sia simbolica, che non si sia aperta alcuna caccia ai singoli stupratori – ragazzi spediti a migliaia di chilometri da casa a combattere per un ideale imperialista – o ai loro discendenti, o che l’appello si rivolga direttamente all’autorità centrale, lo stato e le sue istituzioni che hanno concepito, e reso possibile su larga scala, lo stupro collettivo. Ritenere che il diritto di denunciare le violenze sia già decaduto quando l’accusa arriva decenni dopo i fatti, sebbene ogni speranza di indicare i perpetratori materiali sia sfumata, è, d’altronde, un pretesto familiare in tutti i sistemi patriarcali. Ma la narrazione a sostegno delle Nonne non è comunque immune da un certo retaggio sessista, indice di una cultura in cui si è disposti a proteggere una donna solo nel momento in cui risulta completamente “innocente”, ovvero, solo se si presenta come una ragazzina vergine, ingenua, rapita contro la sua volontà (o senza il consenso della famiglia).
Perdere l’unica risorsa riconosciuta a un corpo femminile libero, l’illibatezza, trascinarsi dietro l’aggravante della promiscuità, dello stupro, della prostituzione (forzata o meno) fa delle Nonne dei corpi a perdere, le testimoni meno credibili agli occhi delle giurie popolari. Non sembra un caso che abbiano aspettato così tanto per uscire allo scoperto: in molte spiegano di aver tenuto il loro passato segreto anche ai mariti e ai figli, oltre che alla comunità, per il timore di essere giudicate e abbandonate. Oggi la loro credibilità è riconosciuta culturalmente in virtù della loro età avanzata. Finalmente le Nonne si trovano nella posizione di favore garantita dalla pietà filiale (孝) che impone il rispetto per la persone più vecchie, e raccomanda attenzione alla saggezza degli anziani. La facoltà di rendere giustizia al proprio corpo giovane è garantita solo quando il potenziale “femminile” di un corpo si è esaurito: i figli partoriti, allattati e cresciuti, la menopausa raggiunta e superata, il pensiero del sesso debellato, i mariti morti. Il paradosso è crudele: molte delle halmeoni sono nonne che non hanno potuto concepire figli biologici, rese sterili dall’indebolimento fisico, da aborti solitari e parti incustoditi, dalle malattie veneree, dallo stress del trauma. Le Nonne lottano per la giustizia simbolica del loro sé giovane da dentro corpi anziani, curvi, rugosi, ma soprattutto acciaccati e stanchi.
Il colpo di coda della schiavitù che le ha rese oggetti da giovani, prigioniere immobili dentro i “comandi del conforto” militari, è una vecchiaia nomade, fatta di lavoro e visibilità pubblica. Il loro è un tentativo di far prevalere il potere della voce, della memoria, della narrazione, sopra il potere fisico del corpo: l’ascendente che le ha condannate, e ora è zavorra. Ma il paradosso è anche un curiosa chiusura del cerchio, che fornisce sono due appigli anagrafici a chi osserva le Nonne in piazza, gli estremi della loro vita, lasciando vuota la pancia della loro storia, e impone di immaginare le Nonne come Ragazze, ancora giovani, probabilmente belle, certamente ingenue. L’ennesimo scherzo del patriarcato: rendere più facile focalizzare interesse e compassione sulla purezza rovinata, immaginare la tortura di un corpo fresco, piuttosto che indagare gli strati di sofferenza accumulati nel corpo anziano, ormai desessualizzato.
[Alt Text: un gruppo di superstiti filippine, le “Lolas”, durante una manifestazione a Manila. I cartelli in inglese e filippino chiedono “Giustizia per tutte le lolas” “Giustizia per tutte le comfort women”. In primo piano, due donne reggono cartelli “No alla rinascita del militarismo giapponese” e “Protesta contro l’intervento militare straniero”. Un cartello più piccolo, retto da un’altra donna, dice “Primo Ministro Shinzo Abe vogliamo giustizia ora!” Fonte.]
Le voci delle superstiti, intanto, sono sempre di meno. Il 21 agosto è mancata, a 99 anni, Yang Guilan, facendo scendere a 17 il numero delle superstiti cinesi ancora in vita. In Corea sono rimaste meno di 50 halmeoni, e il rischio reale è che possano morire prima di ricevere autentiche scuse ufficiali per i torti subiti. Le loro testimonianze, però, sono già state ampiamente registrate e diffuse: The Apology è un documentario del 2016 diretto da Tiffany Hsiung che raccoglie interviste con le Nonne coreane e i gruppi di attivist* che le sostengono, focalizzandosi sulla figura di nonna Gil (Gil Won-ok), Adela, una lola filippina, e Cao nainai, una delle ultime reduci cinesi. Già adesso, alcune superstiti ancora in vita e attive, iniziano a comparire tentativi artistici di insediarsi nelle loro sagome, proiettando i dettagli più intimi della storia senza dover ricorrere all’effetto scioccante del racconto in prima persona. La raccolta poetica d’esordio di Emily Jungmin Yoon (la sua traduzione della poesia di Kim Yideum “I Can't Come to the Phone Right Now, I'm Consoling Myself/Masturbating” è stata la poesia del mese nella Ghinea di aprile), A Cruelty Special to Our Species (2018) fa esattamente questo: immagina ed interpreta le voci delle ragazze rapite dai militari. Alcuni estratti si possono leggere, in inglese, qui. Le figlie del mare (White Chrysanthemum, 2018) di Mary Lynn Bracht lavora alternando i presenti paralleli, gli anni ’40 della guerra e gli anni 2000 della rivendicazione.
Per approfondire:
la bibliografia curata dalla biblioteca di University of California-Irvine
il database della Columbia Law School
il report del 1996 redatto dalla commissione per i diritti umani dell'ONU
CALENDARIO
Giovedì 5 settembre, presso il giardino della libreria NOI di Milano (h 19.00) si terranno una serie di letture di fanzine, articoli e volantini femministi a cura di Compulsive Archive. I testi, datati tra gli anni novanta e i primi anni duemila, documentano forme e strategie di comunicazione che l’avvento di internet ha cambiato per sempre. Inoltre, per il mese di settembre Compulsive Archive curerà un angolo di fanzine, libri e riviste dedicate a femminismo e queer, e alla loro ricezione da parte di adolescenti e giovani, nella cultura punk e nella musica indipendente.
Dal 6 al 14 settembre, in giro per la città di Roma, si terranno una serie di eventi di varia natura performativa curati da Short Theatre.
Lunedì 23 settembre, presso la libreria Confraternita dell'Uva a Bologna (h 19.00) Gloria e Francesca dialogheranno con Saskia Vogel a proposito del suo primo romanzo Consenso (Safarà editore, traduzione di Alice Intelisano).
Inoltre ci piacerebbe ripetere l’Halloween femminista che ci ha permesso di incontrare molt* di voi l’anno scorso! Segna in agenda la festa di Ghinea giovedì 31 ottobre, a Bologna. Il luogo è ancora da definire, e siamo aperte a suggerimenti!
Se ti trovi in UK, invece, facci sapere se saresti interessatx a un Halloween femminista a Londra: Hex the Brexit!
UNA CANZONE
Jolene di Dolly Parton (1973)
[Alt Text: la copertina dell’album Jolene del 1974, Dolly Parton siede a gambe incrociate, guarda in camera senza sorridere.]
Cosa diventano le altre donne quando ami un uomo? Una minaccia, un ostacolo, un nemico? Dolly Parton racconta varie versioni della storia nascosta nel suo singolo del 1973, “Jolene”. Il nome pare essere stato ispirato agli albori della carriera da una giovane fan, che le chiese un autografo dopo un concerto. Aveva i capelli rossi e gli occhi verdi, e il suo nome, Jolene, rimase impresso nell’orecchio di Parton: “Jolene, Jolene, Jolene, Jolene. Suona come una canzone!”. “Jolene” è il nome che, nella prima strofa, l’uomo della voce cantante pronuncia nel sonno. La Jolene della canzone ha una chioma fiammeggiante di capelli rossi / pelle d’avorio e occhi verde smeraldo, insieme ad un sorriso che è come brezza di primavera e una voce come delicata pioggia estiva: la sua bellezza è incomparabile, e imbattibile. La lusinga (omoerotica?) a Jolene indora la resa di Parton: non segue alcuna dichiarazione di guerra, nessuna catfight, niente slut-shaming. Il soprano cristallino di Parton dirige un negoziato di pace impari – I'm begging of you please don’t take my man – in cui la scelta è tutta di Jolene – please don’t take him just because you can.
La cortesia di Parton è agli antipodi del dissing spudorato che un’altra icona country, Loretta Lynn, cantava nel 1966 in “You Ain’t Woman Enough (To Take My Man)”: donne da quattro soldi come te, uno le può comprare dappertutto. A volte un uomo si mette a guardare cose di cui non ha bisogno, canta Lynn, e invita la rivale farsi da parte, tanto dovrà prima passare sul suo cadavere per arrivare al suo uomo. È indicativo, e un po’ amaro, che, in entrambi i casi, non ci sia traccia di quello che l’uomo in questione pensi o faccia. Come se si stessero litigando un bambolotto, più che un uomo. Sia per Dolly che per Loretta, la realtà è la stessa: una donna è ragionevole, ci si può parlare prima di venire alle mani, ma un uomo è debole, inutile sperare che possa tenersi in riga da solo. Il commento più votato sotto la cover di “Jolene” dei White Stripes su YouTube nota: “ho sempre pensato che, nell’originale di Dolly Parton, il messaggio è che c’è ancora la possibilità di tenere il suo uomo lontano da Jolene. Jack White interpreta la canzone come se fosse già troppo tardi, ed è agghiacciante”. Ma Jack White interpreta anche la canzone dal punto di vista maschile, immaginando di scoprire che Jolene, la sua ragazza, è attratta da uno dei suoi amici, my man. Anche in questo caso, bros before hoes, e non c’è traccia dell’opinione della terza parte maschile: l’etichetta prescrive di controllare la propria donna piuttosto che rischiare il conflitto con il compare.
Il patto di non aggressione cantato da Parton, quindi, non si fa problemi a scavalcare volontà e opinione dell’uomo in oggetto: la sua infatuazione per Jolene è reale? È davvero così inerme al fascino di chioma rossa e occhi verdi? Ma soprattutto: Jolene ricambia? Parton non rinnega la fonte autobiografica. Durante un live del 1988, Parton introduce la canzone al pubblico – here we go with the pitiful story of Jolene – e spiattella tutta la gelosia e la rabbia che (forse?) aveva coperto con la musica:
Questa è una storia vera, ho scritto questa canzone circa vent’anni fa, su questa donna a Nashville che lavorava in banca e stava cercando di farsi mio marito mentre io ero via in tour. Beh, non è che a me stesse bene, e ce le siamo date come gatte con quella rossa. Mi ha strappato la parrucca e quasi mi ci ha picchiato a morte. Ma mi sono tenuta mio marito, e a casa pure quello stupido le ha prese di santa ragione.
Parton non rivela se abbia senso dannarsi tanto per tenersi stretto un uomo che ormai si è accorto di un’altra, che sia con le unghie o con parole gentili. Il tempo, però, pare guarisca tutto. In occasione del suo live a Glastonbury, domenica 29 giugno 2014, subito dopo aver eseguito “Jolene” racconta al pubblico:
Alcuni di voi potrebbero già sapere, o forse no, che questa canzone è vagamente basata su un briciolo di verità. La scrissi anni fa, quando mio marito…beh, passava più tempo in compagnia di Jolene di quanto ritenessi opportuno. Lo feci smettere e mi liberai di quella rossa in fretta e furia. Voglio che sappiate, però, che qualcosa di buono può saltar fuori da qualunque situazione. Se non fosse stato per quella donna non avrei mai scritto “Jolene” e non avrei fatto tutti quei soldi, quindi grazie Jolene!
Cosa diventano le altre donne quando hai la possibilità di fare soldi grazie a loro? La fatica del lavoro è al centro del genere country, e il lavoro femminile è al centro della musica di Dolly Parton. La ballata Coat of Many Colors (1971) celebra l’inventiva di sua madre Avie Lee, la quale raccolse abbastanza scampoli di tessuto da realizzare, cucendola a mano, una giacca multicolore per la piccola Dolly. Fierissima del suo coat of many colors, creato davanti ai suoi occhi mentre ascoltava storie della bibbia, Dolly fu però presa in giro dai compagni di classe: And oh I couldn't understand it / For I felt I was rich / And I told them of the love / My momma sewed in every stitch. Tra i brani più celebri di Parton, Coat of Many Colors è anche il suo manifesto: chi ama ed è amato non è mai davvero povero (one is only poor / Only if they choose to be).
Parton ha tirato su un impero sfruttando l’estetica della povertà e l’etica del lavoro duro e solitario necessario per uscirne. L'essere hillbilly, redneck, white trash non è né orgoglio né vergogna per Parton, ma un’inscindibile parte della sua identità pubblica, insieme malleabile e granitica. “It costs a lot of money to look this cheap” pare abbia detto (ma probabilmente la citazione è apocrifa). Parrucconi biondi, chirurgia plastica esagerata, strati e strati di trucco, gonne strette e lustrini sono tutti parte di una geniale performance kitsch di genere e classe che riflette ciò che il suo pubblico vuole vedere, rendendo felici tutti, la femminista stizzosa che scrive queste righe tanto quanto il repubblicano pro-life con un arsenale di fucili.
Parton è stata criticata per essersi allontanata dalle radici country, esplorando il pop e le ambientazioni urbane. 9 to 5 ne è un esempio: hit in testa alle classifiche pop del 1981, colonna sonora dell’omonimo film del 1980, in cui Parton, Jane Fonda e Lily Tomlin interpretano un gruppo di segretarie che si coalizzano per vendicarsi delle molestie, soprusi e dispetti del loro capo. È una commedia, e ovviamente i successi sono individuali e fantasmagorici, non certo strutturali. Vale però la pena citare l’intero ritornello:
Workin’ 9 to 5,
What a way to make a livin’
Barely gettin’ by
It's all takin’ and no givin’
They just use your mind
And they never give you credit
It's enough to drive you
Crazy if you let it
9 to 5, yeah
They got you where they want you
There’s a better life
And you think about it, don’t you?
It's a rich man’s game
No matter what they call it
And you spend your life
Puttin’ money in his wallet
Lo schema eccentrico della vita di Parton – creativa, imprenditoriale, sempre in viaggio, mai stabile in cucina – è inassimilabile all’impegno 24/7 di sua madre Avie Lee, casalinga rurale con dodici figli in una casetta senza elettricità e acqua corrente. La musica, il business, i tour mondiali, i concerti serali hanno alienato i quasi sessant’anni di matrimonio con Carl Dean, il marito sposato a vent'anni, titolare in pensione di un’impresa di posa di asfalto e bitumi a Nashville, notoriamente ostile alle uscite pubbliche con la moglie. Una vita quieta, di provincia, regolare, che stride con gli autoharp paillettati, e avrebbe combaciato perfettamente con gli orari d’ufficio della banca di Jolene. Parlare del lavoro di altre donne implica descrivere il loro tempo, e il ritmo della loro vita, e se Parton mal tollera il concetto di lavoro dipendente per sé stessa, non significa che non ne tragga beneficio in altri modi.
[Alt Text: Dolly Parton posa davanti a un cartello che dà il “benvenuto a Dollywood, dove il divertimento è casereccio”.]
Il salario è pratica sociale quanto è utilizzato per costringere credenze implicite riguardo l’organizzazione della società sulla base di fattori quale razza-etnicità, classe e genere. Serve come un mezzo per stabilire e rafforzare ciò che uomini e donne dovrebbero fare e come dovrebbero vivere. Sebbene la politica e altri attori economici non abbiano usato il termine “pratica sociale”, hanno apertamente promosso una regolazione degli stipendi che applicasse specifiche norme di genere. Storicamente, […] si supponeva che gli stipendi degli uomini permettessero il breadwinning, il sostentamento dell’intera famiglia, che gli stipendi delle donne promuovessero il loro lavoro di madri, anziché inibirlo.
“Beyond Markets: Wage Setting and the Methodology of Feminist Political Economy” di Marilyn Power, Ellen Mutar e Deborah M. Figart in Toward a Feminist Philosophy of Economics, a cura di Drucilla Barker e Edith Kuiper, Routledge, 2003, p.75
Parton ha aperto il suo parco di divertimenti Dollywood nel 1986, quando, scrive Jessica Wilkerson nel suo bellissimo articolo su Dolly Parton datrice di lavoro, “i lavoratori stavano assistendo al crollo dell’economia manifatturiera regionale con la chiusura di ogni stabilimento”. “Dolly Parton ha spiegato la ragione per cui ha desiderato aprire il parco: ‘Ho sempre pensato che se avessi avuto avuto successo in quello che mi ero messa a fare, sarei tornata nel mio angolo di paese per fare qualcosa di grande, qualcosa che avrebbe portato un sacco di lavoro in quest’area’ […] E quei lavori, ancorati al luogo, non sarebbero mai potuti essere imballati e spediti in un’altra nazione”, scrive Wilkerson. Dollywood si trova a Pigeon Forge, Tennessee, all’entrata del parco naturale delle Smoky Mountains, la stessa zona dove Parton è nata e cresciuta, immortalata nella sua musica e stilizzata nell’immaginario nostalgico che anima il parco a tema, tra montagne russe e scivoli d’acqua che evocano il passato rurale degli Appalachi. Incidentalmente, è anche una delle zone più depresse degli Stati Uniti. “Dolly Parton ha promesso lavori alla sua comunità, non ha promesso lavori che pagassero bene. E sebbene Dollywood non paghi i peggiori stipendi di Sevier County o dell’industria dei parchi a tema, la paga è di molto inferiore agli stipendi che ha sostituito quando l’economia si è spostata dalla manifattura al turismo”, scrive Wilkerson. In Gone Dollywood: Dolly Parton’s Mountain Dream (2018), Graham Hoppe sottolinea quanto “plasmare la propria cultura in un’immagine che compiaccia i visitatori” sia “una manovra redditizia”. Dollywood impacchetta la cultura popolare degli Appalachi per renderla digeribile ai tre milioni di visitatori che annualmente visitano il parco, ma persegue anche un autentico tentativo di conservare conoscenze locali di musicisti e artigiani, che, da regolari dipendenti, inscenano il loro mestiere per i visitatori: fabbro, intagliatore, vasaio, soffiatore di vetro, conciatore. In vendita c’è la loro performance, isolata da ogni vera necessità di mercato, non l’oggetto che il loro lavoro crea.
Dollywood, però, è un business, e principalmente una meta per famiglie: la direzione prescrive al personale a contatto col pubblico, gli/le “host”, un comportamento che imiti la cura e la cortesia con cui accoglierebbero amici e parenti a casa propria: sorrisi, pazienza e umiltà. “Come molte altre imprese” prosegue Wilkinson “Dollywood ha adottato un linguaggio che oscura il fatto che il parco a tema sia un luogo di lavoro”. “Dollywood spaccia per benefit ai dipendenti eventi in cui lo staff è trattato ‘come in famiglia’, o l’esperienza di ‘lavorare insieme agli amici’” indica Wilkinson, sottolineando il tentativo di cancellare il confine tra privato e lavoro che permea la vita dei dipendenti. Una pratica che incita un tipo di devozione superiore al legame professionale, solleticando il lato migliore delle persone, quello che riservano alle persone care. L’amicizia ribelle tra le segretarie di 9 to 5, inserita nella turnazione che fa funzionare Dollywood, sarebbe stata assorbita e neutralizzata. La pazienza e l’ingegnosità di Avie Lee finirebbero spremute in un part time a malapena allineato al carovita. Attraverso la femminilizzazione del lavoro una serie di valori automaticamente assegnati alla cura – attenzione, affettuosità, docilità, abnegazione – diventano degli extra impossibili da misurare, perché storicamente donati gratuitamente, eppure ugualmente richiesti dalla performance lavorativa, remunerata però con il minimo sindacale. E che assomigliano tanto alle richieste che Parton canta a Jolene: la gentilezza di farsi da parte, la magnanimità di rinunciare a un vantaggio, sacrificarsi per garantire il benessere altrui, sorridendo.
Con Dolly ti salutiamo e ti diamo appuntamento al 30 settembre, o anche prima se verrai a salutarci di persona a Bologna il 23!
Un abbraccio!
Francesca, Gloria e Marzia