Speciale Ghinea #5: Agnès Varda (seconda parte)
Benvenutu alla seconda parte dello Speciale Agnès Varda! Dal nostro archivio puoi recuperare la prima parte (che contiene una piccola introduzione al cinema di Agnès Varda), insieme a tutti gli altri speciali (per esempio le interviste a Elisa A.G. Arfini e al collettivo brasiliano Feminas Non Gratxs) e a tutte le ghinee mensili.
Le ospiti “esterne” della seconda parte sono Federica Bordin, che racconta Mur Murs ed Ester Orellana con i suoi titoli illustrati. Gloria racconta una Varda alle prese con interviste difficili, mentre Marzia tesse una linea tra la sua esperienza personale e quella delle eroine vardiane. Buona lettura!
HANNO COLLABORATO:
Federica Bordin è laureata in editoria ma per fortuna ora fa tutt’altro. Le piace il cinema, e ne parla un paio di volte alla settimana con Aldo Fresia e Matteo Scandolin nel podcast Ricciotto. Ma, più di tutto, le piacciono i cani. Puoi seguirla su Twitter.
Ester Orellana disegna @disegniniesterini su Instagram.
[Alt Text: collage con alcuni fotogrammi del documentario Mur Murs: una coreografia davanti al murales con le balene, Varda all’entrata di un edificio decorato con volti umani.]
Da Los Angelest a Los Angelwest
di Federica Bordin
In un’intervista del 1982, Agnès Varda ammette serenamente di essere in un punto complicato della sua vita.
[Sono] scarica. Non in termini d’ispirazione. Ma di coraggio.
La sua casa di produzione, Ciné-Tamaris, ha ormai cinque anni, e nonostante la regista sia stata sempre molto attiva, ancora non è riuscita a portare al cinema nessun film dopo L’une chante, l’autre pas. «Nonostante ciò» continua, nella stessa intervista,
ho anche l’impressione di aver realizzato dei buoni film, di aver fatto passi avanti. Non particolarmente con Mur Murs però, che è stato realizzato in maniera abbastanza classica... per i miei standard.
Pochi concetti sono difficili da associare a Varda come quello di “classico”, in una carriera dalle mille direzioni e ossessioni. Ma anche, a dover pensare alla regista trentasette anni dopo quell’intervista, due cose appaiono evidenti: come Varda avesse una chiara idea della sua poetica (non banale come potrebbe sembrare), e come il “classico” Mur Murs ancora fatichi a trovare il riconoscimento che si merita, nonostante sia forse una delle più chiare distillazioni del suo lavoro documentaristico.
Il viaggio di Varda alla scoperta del murales di Los Angeles alla fine degli anni ’70 procede costantemente all’aria aperta, in una California assolata e da cartolina. La regista si sposta «da Los Angelest a Los Angelwest» con un ritmo rilassato, e non è difficile immaginarla parlare con i passanti con un gelato o una bibita rinfrescante in mano, un cappellino per coprirsi dal sole e un paio di persone al suo seguito con la telecamera. Nella California hollywoodiana, il metodo di realizzazione di un “film francese”, come lei lo definisce, in fretta e senza grandi crew, era visto con stupore e sospetto, e Varda, come racconta in un’altra intervista, non mancava mai di farlo notare alle persone a cui si rivolgeva per un contributo. La Los Angeles della regista — assolata, rilassata ma in continuo cambiamento — è il perfetto specchio di chi ci vive:
Che si tratti di sogni ad occhi aperti collettivi o visioni personali, i muri raccontano di una città e dei suoi abitanti.
dice Varda all’inizio del documentario.
Ed è sull’arte degli abitanti che decide di concentrarsi, in un modo non così diverso da quello che farà successivamente in alcune parti di Les glaneurs et la glaneuse del 2000 o del ben più famoso Visages, villages con JR, una perfetta continuazione per una maratona su arte e umanità. In Mur Murs, Varda però si astiene dalle costanti riflessioni con cui popola i suoi documentari successivi, limitandosi a raccontare le storie degli artisti che incontra, strettamente collegate al contesto che le circonda. E in pieno stile Varda, si allontana dalla Los Angeles dei surfisti e degli attori in cerca di lavoro per concentrarsi sull’arte ai margini, all’aria aperta, gratuita e in evoluzione. I protagonisti del documentario sono afroamericani, chicani, immigrati e artisti di strada, a cui vengono date luce e pellicola per poter parlare del loro lavoro, e di loro stessi. È una scelta silenziosa ma che scardina il concetto di “documentario classico” a cui lo spettatore è abituato.
[Alt Text: due fotogrammi corali e “coreografici” a confronto, il primo tratto da Mur Murs, il secondo da Visages Villages.]
Come spiega la critica cinematografica Katarina Docalovich,
Varda non impone delle regole narrative agli artisti; invece di mostrare al pubblico il modo in cui lei li vede, rappresenta il modo degli artisti di vedere loro stessi, e così li mostra agli spettatori durante tutto il film.
In questo modo la regista riesce a trovare il perfetto equilibrio tra “documentario classico” e “documentario classico secondo Varda”: l’empatia nei confronti del soggetto, così osteggiata dal documentario a favore dell’oggettività, diventa la chiave per permettere veramente allo spettatore di entrare in relazione con le persone sullo schermo.
E allo stesso tempo, la libertà lasciata da Varda ai suoi soggetti di parlare di auto-rappresentarsi nel modo che preferiscono assume sfumature delicatamente politiche. Non a caso intervista artiste visuali come Suzanne Jackson, che, in conflitto con i Black Panthers, che le chiedevano murales inneggianti alla lotta, opta invece per una rappresentazione floreale e pacifica dell’identità afroamericana. Oppure Judy Baca, che non trovando una rappresentazione nell’arte delle donne chicane nei musei decide essere lei stessa a cambiare le cose. Le storie di questi murales, che siano gioiose o piene di dolore, sono raccontate serenamente alla luce del sole, a metà tra il naturalistico dato di fatto e il dramma lieve simile a Le bonheur; e Varda non rinuncia nemmeno ai tocchi critici più personali, come di fronte all’arte deturpata per installare delle telecamere di sorveglianza, o l’enorme “Pig paradise”, un murales di una fabbrica di carne di maiale su cui i proprietari non si erano degnati nemmeno di lasciare le firme degli artisti Les Grimes e Arno Jordan, dopo dodici anni di lavoro ininterrotto.
That’s boss politics. Pig politics.
conclude Varda, con un misto di sarcasmo e livore.
In questo modo Mur Murs è veramente un film per tutti: per i soggetti, e la loro auto- rappresentazione; per gli spettatori, in grado di assistere alla verità senza bisogno di sovrastrutture; per la città di Los Angeles, esempio di unione tra antropologia e architettura in costante movimento. Il “classicismo” a cui fa accenno Varda è evidentemente questo: i suoi temi preferiti sono tutti all’interno del suo viaggio cittadino alla ricerca dell’umanità, del qui e ora. Ascolto ed empatia come missione artistica; trentasette anni dopo Mur Murs è ancora una vera gioia per gli occhi.
[Alt Text: due fotogrammi “marini” a confronto, il primo tratto da Mur Murs, il secondo da Visages Villages.]
Creare per gli altri, definirsi da sé: una lezione televisiva di prassi femminista
di Gloria Baldoni
[Alt Text: da sinistra a destra Jack Kroll, Susan Sontag e Agnès Varda sedute in poltroncina per l’intervista televisiva del 1969. I nostri dettagli preferiti sono i vestiti corti che indossano sia Sontag che Varda, le loro borsette buttate sul tavolino e le sigarette che continuano ad accendersi durante tutto l’incontro.]
Nel 1969 sia Agnès Varda che Susan Sontag vengono selezionate per partecipare alla settima edizione del New York Film Festival. Varda, ormai cineasta sicura e versata sia nelle opere di fiction che nei documentari, si presenta con l'esplosivo Lions Love. Sontag, filosofa e saggista, esordisce dietro la macchina la presa con Una tarantola dalla pelle calda e propone un quadrilatero sessuale e sentimentale caratterizzato da intrighi, trappole e dinamiche predatorie (il titolo originale del film si traduce dallo svedese come Duetto per cannibali).
Gli anni Sessanta sono un decennio di avanguardia cinematografica, dalla Francia al Giappone agli Stati Uniti: le due non possono che assorbire ed esprimere tale temperie culturale (di Varda si deve anzi dire che ne è artefice — e artefice di spicco). Nonostante, o forse proprio per questo, specialmente nel caso di Sontag la ricezione è tiepida se non ostile. Torsten Manns, attore e critico cinematografico, scrive sulla rivista Chaplin: “Susan Sontag è una dilettante che avrebbe dovuto esercitarsi sul Super 8”. Roger Greenspun decreta sul New York Times che Una tarantola dalla pelle calda è un vero e proprio fallimento. Jack Kroll, redattore capo al Newsweek, decide di invitare Sontag e Varda per una chiacchierata sui loro lavori. Ed è da questo incontro che emergono da un lato l'incapacità ermeneutica di una parte di pubblico e critica, che non sa né vuole provare a seguire i movimenti e le istanze del nuovo cinema, dall'altra l'insofferenza di due artiste che provano a indirizzare correttamente il dialogo sulle proprie opere ma trovano scarsa disponibilità all'ascolto.
[Alt Text: Varda guarda Kroll con compassione? Incredulità? Scherno?]
Il fastidio di dover interloquire con Kroll è più evidente in Sontag, che secondo il suo biografo Benjamin Moser “aveva sviluppato una tendenza a nascondere reazioni emotive sotto una tempesta di pedanteria”, e lo è fin dal momento in cui il giornalista traccia un parallelo tra Lions Love e Una tarantola dalla pelle calda. Secondo lui entrambi sarebbero film politici ("il mio film si occupa di relazioni e un determinato milieu politico è semplicemente dato per scontato", ribatte Sontag) e soprattutto conterrebbero personaggi grotteschi. Sotto questa parola-ombrello Kroll intende radunare attori di belle speranze, hippy, intellettuali, attivisti politici e chiunque si collochi ai margini della società e della vita civile; e d'altronde l'aggettivo così poco lusinghiero sarebbe già sufficiente a far capire che non li ritiene degni di indagine artistica se non fosse lui stesso a precisarlo e ad aggiungere che quelle "non sono [persone] reali". Due anni dopo quest'intervista, in una conversazione con André Cornand contenuta nel volume Agnes Varda: Interviews (Conversations with Filmmakers Series), Varda si esprimerà in ben altri termini sulla questione di cosa è reale e cosa non lo è in Lions Love:
Gli attori sono bugiardi? E i politici? Chi mente a chi? Cosa significa mentire a Hollywood? Girare un film sulle nuove stelle di Hollywood è fiction o documentario? È un modo disonesto di fare cinema?
Non si tratta dunque di caricature bensì di una poetica dell'ambiguità, che esplora con cautela i limiti della finzione e della realtà accorgendosi che questi due universi sono spesso spuri e reciprocamente contaminati. Che se ne accorga o no, che gliene importi o no, tirando in ballo la categoria del grottesco Kroll sta così semplificando e travisando entrambi i film ed entrando in aperto conflitto con Varda, che a questo punto della sua carriera ha già girato Salut les Cubains e Black Panthers e messo così ben in chiaro che l'oggetto prediletto della sua arte sono proprio le figure marginali, considerate grottesche e irrilevanti fino a essere percepite come inesistenti (irreali, appunto) dalla società e dal cinema borghesi.
Nel saggio di accompagnamento alla prima teatrale di Ascesa e caduta della città di Mahagonny (contenuto qui) Bertolt Brecht aveva scritto che "l'opera viene apprezzata dal suo pubblico precisamente perché è antiquata", intendendo che il gusto dei melomani è essenzialmente conservatore, nostalgico e fondato su schemi e tropi introiettati grazie a ripetizione e abitudine; la storia della ricezione di tutte le avanguardie e dei movimenti di rottura ci dice che questa legge si applica anche alle altre arti, non escluso il cinema. Ettore Scola metterà in ridicolo l'attitudine alla fruizione artistica passiva e resistente alle sfide e alla novità nel cineforum di Nocera Inferiore di C'eravamo tanto amati, aggiungendo l'indispensabile coloritura politica e rendendola a tutti gli effetti reazionaria: mostrare un dibattito su Ladri di biciclette gli è utile per smascherare l’ipocrisia tipicamente borghese di chi è più interessato a esportare un’immagine pittoresca dell’Italia che a confrontarsi con la verità della miseria del dopoguerra (è un dibattito più che attuale: oggi come ieri a infiammare d’indignazione non è la povertà bensì il povero e chi lo porta sullo spazio pubblico). Kroll non sembra un reazionario, eppure mostra lo stesso istintivo rifiuto nei confronti dei personaggi non convenzionali presentati su schermo da Sontag e Varda. Ben presto è quindi chiaro che non possiede le categorie interpretative necessarie per comprendere la statura artistica delle donne che sta intervistando e le loro opere — neanche dopo aver dimostrato di aver letto e riletto i saggi di Susan Sontag (tranne, sembra, Contro l'interpretazione).
[Alt Text: Sontag guarda Kroll con disprezzo.]
L'esito è prevedibile: le due fanno squadra senza aver bisogno di guardarsi e contraddicono Kroll su ogni punto. Non si trovano lì per annuire e far dirigere la conversazione all'ospite ma per esprimersi sui propri film col diritto dell'autorialità che due donne nel 1969 devono reclamare per forza, perché di certo non se lo vedranno automaticamente riconosciuto. L'adesione di entrambe al femminismo è totale e più volte dichiarata e in questa circostanza ne danno la miglior prova: pensandosi e facendosi autrici, rompendo con la tradizione per aprire nuove strade e concentrarsi su ciò che di solito viene lasciato ai margini, e guardando con occhi attenti il lavoro dell’altra, per valorizzarlo e all'occorrenza difenderlo.
Nel suo ultimo film, uscito postumo, Varda spiega che per lei la realizzazione di un film è scandita da tre momenti: "inspiration, création, partage". La terza tappa, la condivisione, implica un'apertura al pubblico e di conseguenza ai film degli altri (ma soprattutto delle altre) che permette di allacciare legami come quello spontaneo stretto con Susan Sontag in uno studio televisivo e getta le basi per molti altri tipi di solidarietà, come tutta la sua filmografia testimonia. La condivisione così intesa è orizzontale, non crea gerarchie né distanza coi soggetti delle pellicole (che, ancora, non vengono ripresi col pregiudizio di chi li considera grotteschi, ma con la curiosità, altra parola chiave della poetica vardiana, di conoscere mondi ignoti), non chiede riconoscimenti: è l'indicatore più preciso della sua generosità.
[Alt Text: ritratto di Corinne Marchand nei panni di Cléo in Cléo de 5 à 7.]
Cara Cléo
di Marzia D’Amico
Cara Cléo,
just living on a Sunday morning.
Dopo le cinque è sempre domenica, non c’è spazio per il lavoro dopo le cinque. Fino alle sette è il tempo dell’amore. Dici al tuo amore del tuo male, il tuo amore dice “il mio male è il mio lavoro” – il tuo amore non lo vede il tuo male e pensa che sia sempre domenica per te. Una festa. Tu, una festa per loro. Tutti loro. Se solo potessi mai avere una domenica nella tua testa anziché i maschi e i loro mali. Se solo potessi mai avere un nome e un amore anche solo dopo le cinque anziché maschi nella tua stanza.
“Madame, c’est monsieur” nessun nome, l’amore non nominale.
Ma-Dame (de la Nouvelle Vague - che nervi!), Flora, Fauna, Cléo.
Nom et prénom, una storia familiare e una propria. Prima del nome condiviso il nome proprio: nomi che dicono una storia narrativa e una storia che dovrebbe essere quella vera ma non lo è, Florence.
[Alt Text: Cléo vestita in bianco siede di profilo nella sua stanza fumando una sigaretta. La caption recita: “I am too good for men”]
Cara Cléo,
never enough, not enough and never ending.
Ventuno di giugno che giorno infinito e neanche due ore di te novanta minuti novanta la paura sette vite come i gatti oppure nove novanta l’addio. Solstizio si ferma un momento anche il Sole per prendere fiato mentre tu lo trattieni. Il male è già lì che ti mangia la testa anche senza bisogno della magia, la tua bella testa che si pensa già morta mentre il pensiero se la mangia viva. Prenditi tutto il tempo che ti serve. Prenditi tutto non devi niente a nessuno.
[Alt Text: Cléo copre quasi interamente il proprio viso con le mani, in un gesto di tormento. Sullo sfondo l’orologio segna le cinque e cinque, si intravede un gatto]
Cara Cléo,
soaring higher with every treason.
Sai trovare sulla mappa l’Algeria? Antoine non dice andiamo lì ad ammazzare la possibilità di essere indipendenti, andiamo lì ad ammazzare. Dice andiamo lì a morire. Ma noi chi? La Storia bussa alla porta della storia, succede così con la guerra. Ma questa è la rivoluzione, una decolonizzazione. Le maschere, Karina si fa nera, la radio fa tristezza, ma l’altro esiste solo in relazione a te. Non puoi più fingere che non ci sia la morte ovunque. Antoine conosce la Storia ma non conosce te. Antonio pensa di conoscerti oltre "Cléopâtre, je vous idolâtre". “Sembri avere tutte le risposte”, gli dici, e “Stai sempre insegnando qualcosa” (lo fanno lo so). Saccheggialo dell’esperienza e falla tua! Fatti chiamare Sarah, piuttosto, La voix d'or, anche lei Cleopatra. Non farti dire mai chi sei da lui ma fanne specchio.
[Alt Text: foto in seppia di Sarah Bernhardt negli abiti di scena di Cleopatra stesa su un’agrippina che guarda intensamente in camera]
[Alt Text: Cléo stesa a letto nella sottana bianca tiene tra le mani uno specchio a mano]
Cara Cléo,
you’re a parody of yourself.
[Alt Text: Jean Seberg nel ruolo di Patricia Franchini viene ripresa da dietro mentre si guarda allo specchio a muro. Foto 1: Patricia si copre il viso intero con le mani. Foto 2: Patricia a volto scoperto sorride quasi impercettibilmente]
All’inizio ti guardavo che ti cercavi e sembravi Patricia. Ti guardavo che ti cercavi negli specchi. Ho avuto paura ti trovassi nei posti sbagliati, come Patricia.
[Alt Text. Foto 1: Cléo, trucco e piega perfetti, in bianco, si guarda quasi sospettosa nello specchio. Foto 2: Cléo, in abito nero, con la parrucca appoggiata allo specchio, ha le mani alla testa mentre si guarda spaurita allo specchio]
Ma poi ho guardato meglio e ho capito che Agnès ti aveva già insegnato che anche questo è uno specchio.
[Alt Text. Foto 1: Patricia, a braccia incrociate, guarda intensamente negli occhi Michel (Belmondo) e sorride. Foto 2: Cléo, volto disteso, guarda negli occhi Antoine]
JLG non l’ha detto, a Patricia. Non ha saputo metterla in guardia, o non gliene importava. Ha lasciato che si trasformasse in lui anziché attraversarlo. Lei diventa due e comunque meno perché meno sé, tu sei finalmente tutta presente. Ti chiedo scusa per la poca fiducia.
[Alt Text. Foto 1: primo piano di Patricia che, pollice alle labbra, ripete il gesto tipico di Michel (una citazione da Bogart). Foto 2: primo piano di Cléo tra le foglie, una forte luce diurna sul volto e uno sguardo fiero]
Cara Cléo,
the comfort of (a) knowledge.
[…] io vedo da tempo una macchia, come vedo una macchia nella natura dell’uomo anche buono, e forse una macchia nel sole stesso. E a questa percezione – devo dire – è forse dovuta la mia propensione per il poco – o il nulla – e la mia reverenza per l’Utopia – sempre alta e presente come una luce bianca tra le nuvole basse, nello sconforto di vivere.
La lente scura: Godard la indossa, Varda la possiede.
Forse non ha aperto la porta per gelosia.
[Alt Text: Una giovane Varda e un giovane Godard, entrambi alle prese con una cinepresa.]
Ringraziamo Federica ed Ester per i loro contributi! Noi ci rileggiamo prestissimo, il 30 novembre.
Un abbraccio,
Francesca, Gloria e Marzia