La ghinea di ottobre
Benvenutu a Ghinea, la newsletter femminista che spera di conoscerti questa sera all’Osteria del Sole o al Market House (Brixton). Anche quest’anno il numero di ottobre sarà attraversato da presenze stregonesche scritte da noi e illustrate da Ester (per l’approfondimento del 2018 vola qui) ma troverai anche un pezzo sulle proteste e la repressione in Cile, un documentario sulla rivoluzione in Sudan che ci è stato suggerito da Giacomo, una proposta di decostruzione per eterosessuali e un calendario fitto di impegni. Inoltre Martina Neglia, che ha già contribuito allo speciale letture estive dello scorso agosto, si è occupata per noi del libro del mese. Buona lettura!
Non si placa la rabbia delle femministe messicane che il 16 agosto hanno assaltato e dato alle fiamme una stazione di polizia. Qui riflettono sul significato di quella giornata di lotta e su come si sono sforzate di uscire dal ruolo della vittima per diventare agenti attive nello smantellamento del sistema che le opprime. In una delle loro azioni, sono salite in massa su un treno della linea metropolitana e lo hanno svuotato degli uomini presenti per sottolineare che a risolvere il problema delle molestie non può essere la divisione delle carrozze tra uomini e donne, soluzione adottata da qualche tempo a Città del Messico, perché evita di toccare il cuore della cultura dello stupro ma preferisce tamponare qua e là quando le sue manifestazioni si fanno troppo eclatanti per continuare a ignorarle. A tali interventi di cosmesi le messicane contrappongono la presa in carico materiale della propria sicurezza, non più demandabile agli stessi soggetti che perpetuano la violenza di genere, e la conseguente politicizzazione dei legami femminili:
La nostra lotta riguarda la difesa della vita, della nostra vita e di quella delle nostre amiche. Ciò a cui ci riferiamo è immediato; da qui ci siamo interrogate sul modo in cui viviamo, e come condividiamo problemi come l’abuso, il trauma e la paura, che secondo le logiche maschili non sono considerati problemi politici, ma intimi. È durante questo processo che le nostre amicizie si sono politicizzate. Per la stragrande maggioranza di quelle che erano presenti il 16 agosto e che hanno in programma di rimanerlo, si tratta di prendersi cura di noi stesse e di rafforzarsi collettivamente.
[Alt Text: ritratto fotografico della scrittrice australiana Cory Taylor. Fonte.]
Un paio d'anni fa ho comprato un farmaco per l'eutanasia su un sito web cinese.
(Cory Taylor, Morire. Una vita, Il Saggiatore)
La morte di Cory Taylor ha occupato undici anni della sua vita: dalla rimozione di un neo sulla gamba nel 2005 (melanoma, quarto stadio) al decesso nel 2016, poche settimane dopo l'uscita del memoir Morire. Una vita. Tra queste due parentesi ci sono state molte sale d'attesa per un colloquio medico e molte stanze d'ospedale. Molta paura. Molta disperazione – o secondo le parole del medico di base di Cory un possibile "disturbo di adattamento", che la letteratura medica definisce "lo sviluppo di sintomi emotivi o comportamentali in risposta a uno o a più eventi stressanti identificabili". Difficile giudicare se queste parole descrivano adeguatamente lo stato d'animo di chi va a morire, ma di certo nel tempo Taylor si è adattata, "abituata", all'idea e ne può scrivere con lucidità. In fin dei conti, osserva, a morire ci andiamo tutt* e il trapasso di per se stesso è un fatto "ordinario e irrilevante". Il guaio è che sin dal principio la nostra vita non è che un continuo, laborioso processo di rimozione, "un’avversione generale per la morte in sé, come se il mero fatto della mortalità fosse in qualche modo eliminabile dalla nostra coscienza", la riproduzione tacita e costante di un tabù che ammanta di eccezionalità il comune destino della morte e rende ingarbugliata e faticosa ogni conversazione su come si debba e si possa morire. Sebbene Taylor abbia presto abbandonato l'intenzione di non attendere il decorso naturale della malattia, la prima riga del suo memoir contiene la parola "eutanasia" e i paragrafi successivi sono un algido ma penoso resoconto delle scappatoie a disposizione di pazienti terminali che vogliano disporre del proprio fine vita nell'insoddisfacente quadro legislativo australiano: è l'unica, tenue vena polemica rintracciabile nello scritto.
La verità è che la prospettiva della morte ha spinto Taylor a fare di più e meglio ciò per cui da quando ha memoria è sempre stata portata: scrivere. Senza cadere nell'inghippo narrativo della malattia-dono o della malattia-battaglia, parole che nel testo non sono presenti, nei cinque anni precedenti alla sua morte ha pubblicato due romanzi e un memoir che si intitola Morire ma invero parla quasi solo di vita. Cronistoria di un'esistenza qualunque (infanzia, affetti, dolori) che assume contorni definitivi e si fa ponderosa nel momento in cui la scrittura e la morte la rendono memoria, bilancio sereno e spoglio di rimpianti sulle scelte passate, sotterranea gratitudine per ogni persona, ogni successo, ogni fallimento: le ultime parole di Taylor raccontano uno sguardo d'insieme che il cancro e la certezza di morire giovane non hanno reso cupo né cinico ma piuttosto acuto, impavido. A pochi passi dalla fine arriva la certezza bergsoniana che la vita non è breve, né lunga, bensì “simultanea” e quindi non c'è niente di meglio che la citazione da Four Quartets di T.S. Eliot (Time present and time past/ Are both perhaps present in time future/ And time future contained in time past./ If all time is eternally present/ All time is unredeemable) per sciogliere l'apparente paradosso secondo cui ognuna di noi, in ogni momento della sua vita, è al contempo “una ragazza e una donna che muore”. Cory Taylor non scrive con la postura di chi ha lezioni da impartire, ma nemmeno affida le sue pagine al mondo col solo intento di lasciare una traccia pubblica della propria tragedia privata: vuole piuttosto addentrarsi nell'ombra silenziosa che circonda la morte, quel cono scuro che ci fa sentire così sol* e incompres* di fronte all'ineluttabile, e disperderla a beneficio della prossima persona che riceverà una diagnosi implacabile. Non insegna dunque, ma tenta di confortare – e di confortarci tutt*, perché tutt* stiamo morendo.
Femminismo caraibico: un Twitter thread.
Il podcast francese La Poudre ha doppiato in inglese l’intervista con Mona Chollet, giornalista autrice di Streghe. Storie di donne indomabili dai roghi medievali a #metoo. Qui l’episodio originale in francese.
Li dobbiamo educare gli uomini che si avvicinano al femminismo? Nì.
Una storica riforma per l’Irlanda del Nord: decriminalizzazione dell’aborto e legalizzazione dei matrimoni tra persone dello stesso sesso.
[Alt Text: illustrazione di Ester Orellana ispirata a Shula, la bambina protagonista del film I Am Not a Witch di Rungano Nyoni (2017).]
Anche tu importuni l’amica lesbica dicendole “quanto sarebbe più facile stare con una donna”, ma sei “etero, purtroppo”? Il tuo account è stato sospeso perché il tuo post “men are trash” è stato ritenuto “incitamento all’odio”? E nonostante lamentele, pianti e severissima autoriflessione la tua cotta per il belloccio tutto muscoli prosegue imperterrita? L’“eteropessimismo”, scrive Indiana Seresin, è “una forma performativa di disassociazione dall’eterosessualità, solitamente espressa nelle forme di rimorso, imbarazzo o mancanza di speranza riguardo l’esperienza eterosessuale”. L’attrazione non si sceglie e non si controlla, si dice, e sul rovescio della forza assolutoria per il desiderio queer resta la banalità dell’attaccamento eterosessuale. Usare in pubblico una gif “misandry” o paragonarsi a una “cat lady” è una performance di eteropessimismo in quanto è raro che vi faccia seguito, nel privato, un reale abbandono del regime eterosessuale.
Un posizionamento eteropessimista è tipico di donne e ragazze che si lamentano pubblicamente di quanto schifo facciano i maschi, ma Seresin si spinge fino ad includere le sottoculture Incel e MRAs (Men’s Rights Activists) come forme estreme di eteropessimismo. Senza rendere sinonimico lo sconforto femminile con la violenza maschile (dopotutto le gattare non pianificano attentati terroristici), entrambi i conflitti con il sesso opposto sono radicati in un analogo sentimento di prigionia all’interno della forma sociale e affettiva della coppia eterosessuale, percepita come immutabile e in perpetua riproduzione.
Indicare colpe e rifiutare responsabilità è ciò che fa funzionare l’eteropessimismo: se l’attrazione sessuale scavalca il libero arbitrio, e se il problema è sempre, univocamente causato da un uomo (o da una donna), dove va a finire il riconoscimento della propria cattiveria, o pigrizia, o incapacità? Seresin è convinta che l’eterosessualità granitica e sorda ritratta dall’eteropessimismo (ma anche da certa queer theory) non sia la stessa che gli ultimi decenni hanno messo profondamente in crisi, costringendola, forse, a iniziare un cambiamento:
sì, queerness universale e abolizione dei generi saranno anche l’orizzonte verso cui ci stiamo inevitabilmente spostando, ma che cosa succede nel frattempo?
Una proposta applicabile nell’immediato, scrive Seresin, è quella di indicare e riflettere onestamente – soprattutto noi donne – sugli aspetti dell’eterosessualità che restano comunque accattivanti. Una proposizione che il sentimento negativo dell’eteropessimismo non fa che appiattire reiterando concetti di tossicità, noia, danno, di fatto normalizzandoli nello stesso modo in cui la vita di coppia etero è stata sempre proposta come l’unica possibilità:
davanti a una probabile delusione, un anestetico diventa un sollievo.
Storia di Maura Galloni indovina di Orotelli, processata dal Tribunale dell’Inquisizione Vescovile di Alghero nel XVIII secolo.
Per il blog di Verso, Sarah Jaffe offre un commento di Caliban and the Witch ben affondato nell’attualità e nella riscoperta di pratiche magiche e di stregoneria da parte della fascia più giovane della popolazione, specialmente donne, persone queer e indigen*. Se la caccia alle streghe in Europa ha debellato la magia per affermare l’ordine raziocinante borghese e facilitare l’ascesa del sistema capitalista, altrettanto è accaduto nei paesi colonizzati, dove una feroce repressione dei culti locali e una decisa opera di evangelizzazione hanno cristianizzato e sottomesso le popolazioni native. In questo senso, rispolverare e ridare vita a pratiche magiche è un modo di rifiutare il dominio maschile e coloniale, di esplorare saperi altri e di riallacciare il legame tra umanità e natura che le ben note logiche di sfruttamento e profitto hanno fiaccato — e la cui importanza è sotto gli occhi di tutti a causa della catastrofe climatica. Non solo: riti e magia richiedono una dimensione comunitaria e collettiva del tutto estranea all’isolamento e all’alienazione che sono il marchio distintivo delle nostre esistenze nel capitalismo, una dimensione in cui non c’è spazio per la competizione e che è quindi molto simile al lavoro (non retribuito e che non genera profitto, dunque inutile secondo gli standard del capitale) di collettivi, comitati e gruppi che fanno politica dal basso e insieme inseguono il sovvertimento. Bando dunque alle facili ironie sulla magia: all organizing is magic.
[Alt Text: illustrazione di Ester Orellana ispirata al film The Love Witch di Anna Biller (2016). Ne abbiamo parlato nella Ghinea di maggio 2018.]
Sudan: Women on the Front Line
Refga, 19 anni, ha convinto i genitori che anche le donne possono protestare e ha dato inizio a uno dei primi sit-in permanenti. È diventata famosa nel web perché, a mani nude, il 19 marzo, ha raccolto da terra un lacrimogeno con cui le milizie governative avevano attaccato i manifestanti e lo ha lanciato indietro alle truppe. In principio il video, racconta Refga in un’intervista, non era stato condiviso online per proteggere la sua identità dalle forze armate (dovremmo imparare, da Refga); arrestata però in un’altra occasione, la polizia era riuscita ad associarla a quell’evento per via del video presente sul suo telefono e da allora Refga ha lasciato che circolasse e si è esposta sempre più pubblicamente per la difesa della libertà politica e dei diritti delle persone del Sudan, e i particolare per la tutela e l’emancipazione delle donne sudanesi.
Dalle studentesse e le accademiche alle casalinghe e commercianti strada, le donne sono state in prima linea per questa rivoluzione. Ma il nuovo regime non condivide con queste donne le priorità, quali l’eliminazione dei matrimoni forzati e la flagellazione pubblica se indossano i pantaloni.
E nonostante a livello internazionale la rivoluzione sia sempre stata declinata nei media nelle immagini iconiche di donne (anche quando acriticamente, o con ignoranza), quasi immediatamente le donne sono state di nuovo messe da parte – e così le loro necessità – nella pianificazione di un nuovo governo. Particolarmente preoccupanti sono le posizioni conservatrici rispetto alla mutilazione dei genitali femminili, pratica brutale solo recentemente calata in maniera significativa e che ancora oggi è una delle cause di complicazioni di salute che portano alla morte.
[Alt Text: una donna in piedi mostra un cartello che recita “Neoliberalism was born in Chile and will die in Chile”]
A partire dalla coesione di giovanissime studentesse, da più di una settimana milioni di cittadini Cileni sono in strada a manifestare contro la storia ingiustizia economica e politica che affligge il paese. La mobilitazione autonoma è esplosa all’annuncio di un ennesimo aumento del costo dei trasporti pubblici, raddoppiato nel corso degli ultimi dieci anni, che grava in un paese che è stato più volte definito (e a ragion veduta) l'esperimento neoliberista per eccellenza. Sin dal primissimo giorno è stata offerta un’analisi della violenza strutturale subita dalla popolazione, e in particolare dalle donne, da parte del governo, attraverso limitazioni dei diritti umani e attraverso l’imposizione di sistemi fiscali e l’impiego di forze armate a sua disposizione.
La risposta del presidente Sebastián Piñera si è subito affermata linguisticamente e fisicamente attraverso indicibile violenza. È stata dichiarata guerra ai dimostranti, e circa 10000 soldati sono stati inviati nelle strade delle maggiori città. Nonostante i numeri effettivi siano difficili da verificarsi, nell’arco di una sola settimana almeno 20 persone sono morte, oltre 1000 sono state ferite da proiettili di armi da fuoco, e oltre 3000 sono state (e sono ancora) detenute. Senza alcuna sorpresa, purtroppo, a subire il più alto numero di violenza sono le donne. Nonostante la Ministra Plá (Ministero delle Donne e dell’Eguaglianza di Genere) abbia tentato di negare questi numeri dichiarando che non erano state denunciate violenze, l’Istituto Nazionale dei Diritti Umani (INDH) ha proseguito nella documentazione e nel sostegno delle vittime. Non si fermano neanche davanti alle violenze da parte dei carabineros subite in prima persona, e grazie al loro intervento sono state portate alla luce atrocità anche nei confronti di giovanissimx detenutx senza acqua e cibo per giorni, torturatx e violatx.
[Alt Text: poster con statistiche dell’INDH. Per lettura dei dati: Poster 1. Poster 2.]
Le similitudini tra i metodi della violenza oppressiva della dittatura di Pinochet e quelli di Piñera sono profonde e dolorose, basti pensare che ad oggi più di 15 persone sono state denunciate come scomparse (desaparecidos). A meno di 30 anni da una dittatura la cui ferocia nei confronti del popolo è stata riconosciuta internazionalmente come una delle vicende storiche di violenza statale più oppressive, in cui la violazione dei diritti umani era divenuta ordinaria e spaziava dalla tortura alla censura — impedendo così, ancora ad oggi, di quantificare il numero effettivo di vittime — Piñera presenta una continuità di pensiero e metodo che si fonda e accresce la centralizzazione del proprio potere attraverso il controllo del movimento degli individui.
Per la prima volta dalla transizione a stato democratico, il Cile subisce la dichiarazione di stato di emergenza e il relativo coprifuoco: Jaime Bassa, avvocato costituzionalista, analizza durante la Commissione dei Diritti Umani del Senato la grave illegalità di questa recente imposizione e conseguenti incarcerazioni e torture.
Il Cile è un paese che nella maggior parte delle analisi statistiche mondiali viene considerato tra i primi nel fattore di iniquità, addirittura il primo in assoluto nel rapporto tra ricchezza dei multimilionari e PIL. Si tratta di una rivoluzione democratica, che vuole fare luce sui danni del neoliberalismo; l’esasperazione di un popolo messo alle strette che grida: No son 30 pesos. Son 30 años de abusos. Più di un milione di manifestanti sono scesi in piazza, a Santiago (qui quasi un’ora di video emozionante), e simultaneamente la comunità cilena ovunque nel mondo e i solidali hanno fatto altrettanto. Non vandali e criminali come li ha denunciati Sebastián Piñera ma una comunità unita e coraggiosa, pronta a difendere i propri diritti con NI PENA NI MIEDO, come recita il verso nel deserto cileno impresso dal poeta Raúl Zurita (sceso anche lui a manifestare).
Il patto sociale tradito da Piñera affonda le radici in un sessismo ideologico prima ancora che pratico, come dimostrato dal «gatopardismo» di un governo radicalmente machista. Proprio sotto la dittatura di Pinochet le donne cilene si erano unite per richiedere democrazia nel paese e in casa. A differenza delle femministe legate a partiti e gruppi politici, políticas, le feministas combattevano perché il crollo della dittatura avvenisse nella forza di una collettività necessariamente non solo rappresentata dal maschile. Raccolgono oggi questa eredità (tra le altre) le sorelle di NUDM, quando denunciano la silenziosa scomparsa di 13 compagne, nella protezione legale offerta da Abofem (che estende la propria competenza e il proprio impegno anche a cause di maltrattamento, discriminazione, e violenza nei confronti dei soggetti LGBT+)
Mentre scriviamo, Piñera ha completamente cambiato i suoi ministri di governo ma non rinuncia, come richiesto dai manifestanti, al suo ruolo di potere. La lotta non si ferma.
Le informazioni sono state raccolte con l’aiuto di amicizie cilene e/o vicine alla lotta (e in particolare grazie alle compañeras Rachel, Camila, e Deni). In un momento in cui l’immediatezza aiuta a dare risonanza internazionale ma in cui anche si teme una intrusione da parte del governo nei canali di diffusione, i canali di riferimento che ci sono stati raccomandati sono i seguenti:
Puoi anche ascoltare due contributi dal Cile condivisi su e da Radio OndaRossa.
[Alt Text: illustrazione di Ester Orellana ispirata a Giovanna d’Arco.]
CALENDARIO
Stasera a Bologna: Gloria e Francesca saranno all’Osteria del Sole dalle 18.30, con cibo a volontà a cui, se ne hai tempo e voglia, puoi aggiungere il tuo. Il locale ci chiede una consumazione di 7 euro a testa. Tutti i dettagli sono qui ma puoi contattare Gloria e Francesca su Twitter per ogni domanda dell’ultimo momento.
Stasera a Londra: Marzia vi aspetta a partire dalle 7pm al Market House (Brixton) di Londra, in compagnia della nostra amica e sodale Ola e si spera molte altre persone tra cui te che leggi e sei a Londra e vuoi maledire il patriarcato e Brexit. I dettagli sono qui ma puoi scrivere a Marzia su Twitter se avessi bisogno di indicazioni.
Sabato 1 novembre: da poco più di venti giorni, grazie al decisivo ritiro delle truppe statunitensi dalla zona, è in corso l’aggressione turca del Rojava. Per ottenere il controllo del territorio, la Turchia ha bombardato aree civili, favorendo l’evasione di diversi membri dell’ISIS e creando decine di migliaia di sfollati. I combattenti e le combattenti curde accusano inoltre Ankara di aver impiegato armi chimiche, come sembrano testimoniare foto e video. In solidarietà e sostegno al popolo curdo e all’esperienza rivoluzionaria di confederalismo democratico in Rojava, si scende in piazza a Roma. Per aggiornamenti giornalieri sul conflitto, puoi iscriverti a questo canale Telegram. Qui puoi invece leggere una lunga intervista a un giovane combattente curdo.
[Alt Text: locandina della manifestazione disegnata da Zerocalcare. L’illustrazione mostra combattenti e civili curdi che tentano di non farsi schiacciare da un enorme stivale militare turco.]
Martedì 5 novembre:l’ultimo numero di DWF nasce da un’alleanza con Lucha y Siesta e si concentra su letture politiche di fantascienza. L’appuntamento per la presentazione è alle 19 alla libreria Tuba di Roma.
Mercoledì 6 novembre: Jonathan Bazzi, che puoi leggere nella Ghinea di settembre o per Fandango, ha avviato un club del libro dedicato “a tutti gli scarti – i residui, i margini – lasciati fuori dalla centralità del soggetto occidentale bianco, maschile, razionale, eterosessuale, fisicamente conforme, sano, specista”. Come si fa a non aver voglia di partecipare? Il primo incontro si tiene alle 19 alla libreria Verso di Milano.
Sabato 9 novembre: alla libreria Antigone di Milano Federica Fabbiani presenta il suo recente volume Sguardi che contano. Il cinema al tempo della visibilità lesbica.
Mercoledì 13 novembre: se sei a Pisa non perderti la presentazione di Airbnb città merce di Sarah Gainsforth alla libreria Tra le righe.
Domenica 17 novembre: al CSOA Forte Prenestino di Roma puoi trascorrere una bella giornata antispecista queer con workshop, dibattiti e proiezioni.
Dal 29 novembre al 1 dicembre: per la quarta volta a Monza si svolge il festival woolfiano Il faro in una stanza. Durante i tre giorni interverranno le immancabili Liliana Rampello, Elisa Bolchi e Nadia Fusini e molte altre relatrici. Qui il programma completo.
FATTO DA NOI
Francesca ha scritto, per il Tascabile, di Barbara Comyns: cuoca, pubblicitaria, arredatrice, modella d’artista, rivenditrice d’auto d’epoca, allevatrice di barboncini, nonché autrice di romanzi. La ragazza che levita (1959) è una fiaba sulla violenza domestica e di genere, si può leggere come l’anello mancante tra il senso di terrore come teorizzato da Ann Radcliffe nei suoi romanzi gotici settecenteschi, e la rivendicazione del proprio dolore di sopravvissuta esplorato da Andrea Dworkin nei suoi saggi degli anni ’70.
Inoltre, in chiusura della puntata di ottobre di Podcast Revolution su Radio Raheem – programma curato da Jonathan Zenti e Valentina Ziliani – Francesca racconta di quella volta che ha intervistato Kaitlin Prest, autrice dei meravigliosi podcast The Heart e The Shadows, per scriverne qui e qui.
Marzia ha scritto 4 haiku in seconda lingua in 2 sillabazioni diverse e sono usciti per Brave Voices Magazine. Ha anche partecipato a questa miscellanea sonora prodotta da ALMARE, che ha ricevuto una menzione speciale della giuria di ArtVerona.
Gloria è tornata a Ricciotto per confrontarsi con Aldo Fresia sull’ultimo film di Hirokazu Kore-eda, Le verità. Per la prima volta in una carriera finora smagliante, Kore-eda non riesce a raccontare con vicinanza e partecipazione le difficili dinamiche tra una madre assente e una figlia abbandonata e sembra smarrito in un labirinto metacinematografico che affievolisce emozioni e rapporti presentati su schermo.
FATTO DA VOI
“Nella dialettica costante tra personale e collettivo, tra pubblico e privato, i nostri corpi diventano un terreno di scontro politico”: su The Submarine, Martina Lodi ripensa alla sua fame grazie a quella di Roxane Gay.
Ci sono due nuove newsletter da seguire: la prima è Masafuera di Elisa Lipari, uno zibaldone di letture (o riletture), pensieri e film a scadenza irregolare che puoi anche ascoltare sotto forma di podcast; la seconda è molto a tema con questo numero stregonesco, si chiama Ecate e promette di esplorare l’Ars Magica e tutti i saperi non convenzionali.
Su L’indiependente Martina Neglia ha intervistato Rebecca Tamás, che ha appena esordito con WITCH, "una raccolta di poesie e incantesimi che con grande intelligenza e trasporto mescola, come se fosse un calderone nelle notti di luna piena, storia, femminismo, rabbia e desiderio sessuale per dare forma e vita una creatura complessa e rivoluzionaria come è quella della strega". Il 2 novembre Tamás dialogherà con Loredana Lipperini al FILL – Festival of Italian Literature in London e l’incontro sarà moderato proprio da Marzia!
UN FILM
The VVitch di Robert Eggers (2015)
(diversi gli spoiler a seguire)
[Alt Text: Anya Taylor-Joy nella parte di Thomasin, le mani giunte in preghiera. Fonte.]
C’è un momento in The VVitch, mentre il film si sta avviando verso la conclusione, in cui l'ipotesi che tutto sia stato una farsa paranoica, un’isteria familiare, una crisi domestica dovuta a fame, freddo e isolamento sfuma: Black Philip, il montone nero in cortile, è davvero Satana incarnato. La famiglia del predicatore puritano William era stata esiliata da una colonia del New England: nel 1630 la colonizzazione religiosa della costa orientale statunitense è ancora agli albori, e le comunità puritane sradicatesi dalle natie città europee per sfuggire alle persecuzioni non possono tollerare, arrivate in America, disomogeneità o eccessivo radicalismo. William e famiglia – la moglie Katherine, incinta di Samuel, la figlia adolescente Thomasin, il figlio Caleb e i gemelli Mercy e Jonas – si erano perciò stabiliti al limitare di un bosco, dove le loro (scarse) pannocchie erano marcite, le trappole per conigli non avevano funzionato, e non era cresciuto nulla che non fosse selvaggio. La penuria è della fattoria, ma non del bosco. The VVitch è una “New-England folktale”, una fiaba popolare: il genere più terrificante di sempre, in cui il terrore non è latente o immaginato, ma attivo e visibile, tanto più perché lo sfoggio di ferocia sembra unilaterale, fine a se stesso. La vittima è impotente, e il cattivo non spiega mai le sue ragioni. Quando il neonato Samuel scompare, è naturale che la colpevole sia la vecchia strega che vive nel bosco, bisognosa del grasso di bimbo da mescolare all'unguento per volare che sta preparando nel calderone.
In Re-enchanting the World: Feminism and the Politics of the Commons (2019), Silvia Federici scrive:
[…] parallela alla storia dell’innovazione tecnologica capitalista si potrebbe scrivere la storia della disaccumulazione di conoscenze e capacità precapitaliste, che è la premessa su cui il capitalismo ha costruito lo sfruttamento del nostro lavoro. La capacità di leggere gli elementi, di scoprire le proprietà medicinali di piante e fiori, di trarre sostentamento dalla terra, vivere nei boschi e nelle foreste, farsi guidare dalle stelle e dai venti lungo le strade e sui mari era e resta una fonte di “autonomia” che doveva essere distrutta.
Federici specifica alcune delle forme di conoscenza svanite col disincanto del mondo:
[…] il nostro bisogno di sole, vento, cielo, il bisogno di toccare, annusare, dormire, fare l’amore, stare all’aria aperta invece che essere racchiusi entro muri (tenere bambine e bambini chiuse fra quattro pareti è ancora una delle principali sfide che le insegnanti incontrano dappertutto nel mondo).
La famiglia del predicatore puritano è tenuta insieme da solidi ruoli di genere, senso di colpa davanti al divino e una diffusa incapacità di ammansire la natura con cui convivono. Lo scontento di Thomasin, adolescente che ha da poco avuto le prime mestruazioni (“reached her womanhood!” sibilano i suoi genitori), cresce quante più paternali riceve. Il suo lavoro ne risente, così come la sua fede e la sua pazienza: una strega si convince di essere cattiva a forza di sentirselo ripetere, specialmente se i suoi aguzzini sono fastidiosi fratelli minori. E Thomasin sfiora l’insania accomodando squilibri e insensatezze della sua famiglia eteropatriarcale. Firmare un patto col diavolo può essere, per alcuni, la corretta conclusione di un horror, l’orripilante adesione volontaria a “un movimento politico socialista contro la famiglia che incoraggia le donne a lasciare i loro mariti, uccidere i loro bambini, praticare stregoneria, distruggere il capitalismo e diventare lesbiche”. Per altre, è una prospettiva necessaria quando tutto ciò che si è sempre conosciuto si rivela infertile, mal gestito, bilioso, ingrato. Il “disincanto” cui si riferisce Federici (un prestito da Max Weber) è il processo di razionalizzazione e burocratizzazione che ha prodotto l’organizzazione moderna facendo svanire dal mondo il sentimento del sacro e del religioso. Ma è anche, aggiunge Federici, l’incapacità di immaginare logiche diverse da quella dello sviluppo capitalista.
È un incanto che Thomasin si unisca al sabba, e sorrida per la prima volta mentre si libra in aria, sia che lo faccia perché convinta da un diavolo maligno in veste di caprone, sia che voglia sperimentare un nuovo modello comunitario dopo il collasso della sua famiglia nucleare. Rifiutando di prendere il proprio posto in fondo a una genealogia sanguigna verticale, Thomasin si affida a un circolo espanso, in cui gli affetti sono esogamici, la riproduzione non fetale, la cura e il lavoro surrogabili. In Full Surrogacy Now: Feminism Against Family (2019), Sophie Lewis si chiede:
Quando è ora di liberare il confine? Quando è il momento di mantenere uno spazio saldamente sigillato (come una cervice)? A che punto un muro (come una cervice) deve venire giù? Quando si è pronte per togliere una fasciatura? Come può una città aprirsi agli stranieri e ripararsi dagli tsunami?
A che punto Thomasin diventa una strega? Quando non riceve risposta alle sue preghiere, oppure quando, per la prima volta, le viene rivolta una domanda invece che un ordine – “Wouldst thou like to live deliciously?”?
UN LIBRO
Moi, Tituba, sorcière noire de Salem di Maryse Condé (1986)
di Martina Neglia
[Alt Text: Marie-Guillemine Benoist, Portrait de Madeleine (originariamente intitolato Portrait d’une négresse), 1800, olio su tela conservato al Musée du Louvre, Parigi. Una donna nera siede in un interno, un panno bianco avvolto sulla testa, il seno scoperto. Qui una breve storia del quadro e del suo contesto storico. Fonte.]
Se c'è una cosa che ho appreso nel mio percorso di maturazione femminista, è l'importanza di creare spazi e concederne anche alle altre. Di usare la propria voce – in questo caso la propria penna – per esprimersi ma fare anche da cassa di risonanza per chi resta indietro per uno squilibrio di privilegi e possibilità. È questa la passione e lo spirito che hanno spinto Maryse Condé – prolifica e brillante autrice francese nata nel 1937 sull’isola messicana di Guadalupe – a pubblicare nel 1986 Moi, Tituba, sorcière noire de Salem (“Io, Tituba, strega nera di Salem”), restituendo voce e storia e a una figura prima trascurata, poi dimenticata.
Come da titolo, il romanzo di Condé affonda le mani nella storia, a partire dagli eventi che nel 1692 scossero la provincia coloniale americana del Massachuttes, precisamente la città di Salem e a domino i villaggi vicini. Le accuse di stregoneria diedero inizio alla più estesa serie di arresti, processi ed esecuzioni capitali mai inflitte nelle colonie britanniche del Nuovo Mondo per il reato di stregoneria. In totale furono 144 le persone processate, delle quali 54 confessarono di essere streghe. Tra queste c'era anche la nostra eroina Tituba. Nel 1693, però, fu scagionata, o meglio, “rimessa in libertà”, cioè venduta per il prezzo della sua “pensione” in prigione: le sue catene e i suoi ferri. Chi fu a comprare Tituba? Questo è il punto: non lo sappiamo.
Tituba – vittima del razzismo conscio di chi l'ha resa schiava e poi quello inconscio degli storici – è rimasta una figura evanescente il cui nome è finito per perdersi tra le pagine di libri che tutto sono fuorché imparziali, poco clementi nei confronti di una persona le cui uniche colpe sono state quelle di nascere donna e soprattutto nera. In questa operazione narrativa Condé le restituisce quindi ciò che le è stato tolto, un epilogo di cui conservare memoria e la dignità letteraria dell'esistenza. Da parte dell'autrice non c'è però nessun tentativo di indorare la pillola, renderci la storia di Tituba una fiaba consolatoria; Condé scrive con la penna della denuncia di chi vuole ricordare una vita e con essa non trascurare le ingiustizie storiche, di razza e di genere.
E per prima cosa, le dà quello che non ha mai avuto: un voce. Con la prima persona singolare è Tituba che riprende il potere delle sue vicende – quanto meno quello di raccontarle. E si presenta fin dalla prima pagina quasi come una predestinata, nata dallo stupro subito dalla madre Abena da parte di un marinaio inglese, a bordo della nave Christ the King in rotta verso le Barbados. Una vita generata dall'odio e un'infanzia interrotta in modo prematuro e feroce di fronte al corpo impiccato della madre, condannata per essersi difesa dall'ennesimo tentativo di violenza sessuale e per l'unico crimine che non merita perdono: “Aveva colpito un bianco”.
La vita di Tituba migliora quando viene adottata da una vecchia signora, Man Yaya, da cui apprende le arti magiche: i segreti degli incantesimi e la capacità di dialogare con i morti. Cede però all'amore e si sottrae da questa breve parentesi di libertà quando incontra John Indian, uno schiavo che decide di sposare e di cui seguire la sorte. Venduti insieme al ministro puritano Samuel Parris, arrivano così “dall'altra parte dell'acqua”, in America per andare incontro alla storia che conosciamo.
Ed è con la stessa prima persona che finalmente Tituba ha anche la possibilità di alzarla, la sua voce – non più invisibile tra gli invisibili; purtroppo solo tre secoli dopo, ma lo fa:
Che mondo era quello che aveva fatto di me una schiava, un'orfana, una paria? Che mondo era quello che mi separava dai miei? Che mi obbligava a vivere tra persone che non parlavano la mia lingua, che non condividevano la mia religione, in un paese squallido, privo di attrattive?
Quella di Tituba è una storia di sofferenze dimenticate, che risuonano, oggi come nell'anno di pubblicazione, di una contemporaneità disarmante. Condé lavora sul personaggio non soltanto tracciandone un percorso di vita definito, ma donandole rotondità e la complessità dell'essere umano. Libera da definizioni, incastri, ruoli spersonalizzanti che l'hanno vista essere prima la schiava da sfruttare e poi il capro espiatorio di eventi a cui non si sapeva trovare spiegazione. Tituba è una donna dall'animo vivo, che resiste anche laddove le hanno insegnato soltanto che il suo destino è quello di piegarsi. Dopotutto, La madre stessa, Abena, muore perché si ribella alla sopraffazione maschile, diventando il simbolo dell’oggettificazione sessuale a cui le donne, soprattutto nere, sono state e vengono tuttora rilegate. Ed è col suo spirito sempre vicino che Tituba si aggrappa alla vita con le unghie, amando e facendosi padrona del suo corpo.
Tituba ama il suo Paese di origine, le persone che le sono state accanto, ma ama anche gli uomini e il sesso. Si concede alle sue pulsioni sessuali, al piacere e al suo potere salvifico. Vive col marito il desiderio e il conforto del sentimento, ma decide anche autonomamente di abortire per impedire a un altro individuo di vivere il dramma della schiavitù. Condé dipinge in modo vivido il piacere femminile, la solidarietà tra donne che diventa anche incontro fisico – tematiche d'avanguardia per l'anno di pubblicazione del romanzo eppure ancora moderne. Così tanto da farci chiedere come mai, quarant'anni dopo, non ci risultano ancora “superate”.
L'elemento magico diventa poi l'emblema del razzismo e di un insieme di credenze religiose che non vogliono includerne ed accoglierne altre. Le arti di Tituba, utilizzare le piante e parlare con gli spiriti – per lei perfettamente naturale – finiscono per essere l'ennesimo elemento incomprensibile, e quindi da estirpare, per una cultura dominante fatta di uomini e dogmi religiosi. Ed è impossibile non vivere attraverso Tituba anche un po' dell'esperienza di Maryse Condé, autrice nera, e la sua volontà di lasciarci la storia di una protagonista coraggiosa e soprattutto un importante racconto sulla capacità delle donne di resistere e lottare.
Martina Neglia nasce nel 1993 a Palermo, dove ancora vive e studia. Purtroppo o per fortuna – deve ancora capirlo. Collabora con la rivista online L’indiependente per cui scrive soprattutto di libri e letteratura fatta dalle donne. Ogni tanto finisce anche a qualche concerto, ma tendenzialmente fa un sacco di domande. La puoi seguire su Instagram e Twitter.
Grazie a Martina per il suo pezzo, a Ester per le sue illustrazioni e noi ci ritroviamo tra un paio di settimane per la seconda parte del nostro speciale dedicato ad Agnès Varda. E ora che hai finito di leggere questo numero vestiti come ti pare, fa’ una carezza al tuo gatto, se possibile recupera del cibo e vola fuori di casa per venire alla nostra festa. Ti aspettiamo!
Un abbraccio.
Francesca, Gloria e Marzia