Speciale Ghinea #4: letture estive
Benvenutu al quarto numero speciale di Ghinea, che segue l’intervista a Elisa A.G. Arfini, la conversazione con un collettivo femminista brasiliano e l’esperimento corale dedicato alla cineasta Chantal Akerman. Quest’ultima formula ci piace in modo particolare, perché ci permette di conoscere e ospitare voci diverse dalle nostre e di cedere un po’ del nostro spazio – che, l’abbiamo sempre detto, è davvero largo per tre persone soltanto. E così mentre pensavamo a una Ghinea piena zeppa di consigli di lettura per le vacanze estive ci è sembrato naturale chiederli ad altre, anche perché quello che leggiamo noi te lo raccontiamo tutto l’anno. Abbiamo dunque raccolto i pareri di alcune ragazze fidatissime che probabilmente conosci per altre ottime ragioni e saremo le prime a seguire i loro suggerimenti. D’altra parte il canale dei consigli è sempre aperto anche per te, se ti va.
Le fotografie di questo numero sono di Ornella Mignella. Ola è un’amica, vive a Brighton e gli scatti balneari della sua serie Heatwave ci sono sembrati l’accompagnamento ideale a un numero vacanziero.
Buona lettura!
HANNO COLLABORATO:
Marianna Crasto fa parte della redazione di inutile, scrive racconti bellissimi (come questo o questo) e il suo blog è il nostro blog preferito. Puoi seguirla anche su Twitter.
Claudia Gifuni trentatré anni a breve e da sempre residente nella periferia est della capitale. Scienziata politica pentita, ho rinunciato a una futura luminosa carriera nella diplomazia internazionale per amore dei libri e della scrittura. E ovviamente della libertà di cambiare idea. Se mai dovessi incontrarla dalle del tu e chiedile un dolcetto o una caramella, non mancano mai nella sua borsa.
Ornella Mignella vive e lavora a Brighton, UK, dove coltiva la sua passione per la fotografia. La puoi seguire su Instagram.
Martina Neglia nasce nel 1993 a Palermo, dove ancora vive e studia. Purtroppo o per fortuna – deve ancora capirlo. Collabora con la rivista online L’indiependente per cui scrive soprattutto di libri e letteratura fatta dalle donne. Ogni tanto finisce anche a qualche concerto, ma tendenzialmente fa un sacco di domande. La puoi seguire su Instagram e Twitter.
Alessia Ragno è laureata in Fisica, ma è stata giornalista pubblicista e ha curato per 8 anni Cosebelle Magazine, un web magazine indipendente. Vive a Bari e scrive, tra le varie cose, di salute mentale, femminismo e libri. La trovi su Medium, Twitter e Instagram.
Serena Talento (Salerno, 1984) vive a Roma e si è laureata in Linguistica alla facoltà di Lettere dell’Università Federico II di Napoli. Si è specializzata in campo editoriale frequentando il Corso principe per redattori editoriali tenuto dallo Studio Oblique di Roma. È cofounder della rivista letteraria Grafias ed è addetta stampa della casa editrice indipendente Safarà Editore. Ha collaborato con riviste italiane e estere, tra cui The Los Angeles Review of Books.
“Le signore aspettano nelle loro Toyota che le cameriere scendano dall’autobus”, di Lucia Berlin
di Marianna Crasto
Frequento i racconti da anni e non sono ancora riuscita a risolvere la difficoltà di convincere qualcuno a leggerli. Non mi mancano le parole o la convinzione che alcuni autori e autrici di racconti siano onestamente imprescindibili, ma l’opposizione che mi viene dall’interlocutore è sempre simile a se stessa e riguarda la frammentarietà, lo spezzettamento, la violenza di un narratore che ti vuole dentro tutto e subito, non ti lascia un attimo per ambientarti e subito ti sbatte nella storia successiva. Si sentono tutti scomodi, nei racconti.
E che gli vuoi dire? Ok.
Ci rimango male perché vorrei convertire tutti ai miei gusti, ma ok.
Un po’ di tempo fa ho provato a cambiare strategia. Ho smesso di consigliare le raccolte di racconti nella loro interezza e sono passata a un’offensiva singola, a un attacco feroce e mirato. Avevo sempre parlato delle raccolte che mi erano piaciute come fossero scatole di cioccolatini: quasi le illustravo, cercando di spiegarne i gusti e le consistenze diverse - qui c’è il cremino, lì uno al gianduia spettacolare, questo è invece al rum. In sostanza mi comportavo come una quarta di copertina o persino una fascetta che strombazza il “linguaggio folgorante!”, la “sensibilità fuori dal comune!”, “l’ironia dissacrante!”: belle parole che significano poco e possono adattarsi praticamente a tutto. Rimangono aggettivi su carta finché non decidi di aprire il libro, se decidi di farlo.
Nuove regole: un racconto soltanto col suo gusto inconfondibile e precisissimo. Se il mio interlocutore vorrà assaggiarne altri bene, ma non sarò io a confondergli tutti i sapori sulla lingua.
E dunque, Le signore aspettano nelle loro Toyota che le cameriere scendano dall’autobus è una frase che ci si ritrova davanti nel racconto Manuale per donne delle pulizie di Lucia Berlin. Una frase che, mirabilmente, riesce a contenerlo tutto.
Il racconto è un movimento costante tra un non-luogo e l’altro. La protagonista è Maggie May, una domestica nera che passa le giornate in attesa alle fermate degli autobus, con altre domestiche o da sola, a chiacchierare o in silenzio ad osservare quello che succede nella lavanderia a gettoni dall’altra parte della strada; poi sugli autobus - che si perdono o sbandano o sono zeppi di fumo di sigaretta a seconda che l’autista sia giovane e nero o vecchio e bianco; e poi ancora nelle case di signore che cambiano in fretta, bizzarre, vecchie, malate, che tirano coca o le chiedono di cercare un pezzo di puzzle andato perduto. Queste vicende sono l’occasione per la stesura del manuale del titolo, una serie di consigli pratici grazie a cui sopravvivere alle signore nelle Toyota ma anche ai cani e ai gatti e ai bambini in età prescolare.
Ogni cosa si muove o sta per farlo in questo racconto della Berlin, ogni cosa per Maggie May è soltanto transitoria, instabile come una padrona capricciosa. Sembrerebbe che il suo destino si limiti a questo: abitare case che non le appartengono, in una condizione perpetua di estraneità inadatta alla felicità. Una vita che sia davvero privata sembra esserle preclusa poiché deve, per necessità, vivere nelle vite degli altri e adattarsi continuamente alle follie di ognuno - aggiungendo monetine a quelle lasciate nei posaceneri per controllare che non le rubi, oppure sbagliando di proposito il posto dei soprammobili per dare alle signore che dovranno correggerla l’ebbrezza del comando.
Eppure un punto fermo le è concesso e sta nel ricordo. Il suo manuale per le donne delle pulizie è anche un dialogo costante con Ter, il marito alcolista morto da poco. Si tratta soltanto di una manciata di frasi che tuttavia bastano a far capire che si è trattato, nonostante tutto, dell’unica cosa davvero privata, ferma, solida che abbia avuto Maggie May. Lei stessa ricorda le parole di lui: Ehi, Maggie May, non c’è niente a questo mondo che puoi tenerti per sempre. Tranne me, forse. E dunque dovrà nel finale fare i conti con questa assenza di cui non ci si libera, con una vita che è stata sua ma che ora deve limitarsi a guardare dall’altro lato della strada, da dietro a una finestra durante le ore di lavoro.
Tanto basta, spero, per passare ai racconti successivi, su cui non dirò nemmeno una parola (tranne che sono tutti in La donna che scriveva racconti, ed. Bollati Boringhieri, tradotti da Federica Aceto).
Milkman, di Anna Burns
di Alessia Ragno
Quello che salta subito all’occhio di Milkman sono i paragrafi lunghi, un costante senso di oppressione da romanzo distopico e nessun nome a definire i personaggi. C’è Middle Sister che ha solo 18 anni e l’abitudine di leggere i libri camminando per strada, insospettendo così tutto il vicinato perché è sconveniente e le ragazze per bene non lo fanno. A rovinarle la vita c’è Milkman, 41 anni, il nome fittizio di un uomo con incarichi paramilitari in un non luogo che richiama l’Irlanda del Nord durante i Troubles, il conflitto nordirlandese, durato formalmente dal 1968 al 1998. Milkman la pedina, le parla nonostante i suoi rifiuti e la minaccia ripetutamente, senza mai toccarla. È questo l’elemento chiave del romanzo: la storia di potere e malelingue in cui la violenza psicologica è talmente tangibile, e lo stalking talmente chirurgico, da stravolgere la vita di una ragazza, della sua famiglia e del vicinato intero che, nel frattempo, decide di contribuire al dolore con il pettegolezzo prima ancora di sapere la verità. Anna Burns, l’autrice nata e cresciuta a Belfast nel distretto di Ardoyne, tutto cattolicesimo e working class, nicchia un po’ quando le sottolineano i parallelismi con il presente, “Tutto è nato da una suggestione, quella della mia stessa abitudine da ragazza di leggere mentre camminavo”, ma le limitazioni della libertà, le violenze e l’idea di subordinazione divina delle donne nei non luoghi di Milkman sono palesi e drammaticamente moderne.
Il romanzo segue il flusso di pensieri di Middle Sister, la narratrice, il suo punto di vista sulla vicenda con lo stalker e tutti i ragionamenti e i ricordi che mette insieme nel tentativo di liberarsi dall’inseguimento. Non fate l’errore, però, di accusare Middle Sister di debolezza, perché la lettura di Milkman mostra una verità differente: una donna nella società descritta da Burns, nonché in quella che stiamo vivendo, non ha i mezzi per opporsi alle dicerie e ai comportamenti criminali di un uomo violento. La violenza, inoltre, muta più volte la sua forma all’interno del romanzo, ma la dinamica ‘sospesa’ tra Middle Sister e il suo aguzzino non cambia granché le carte in tavola: il contatto non è una condizione necessaria per definire lo stalking, è solo un aumento del carico dell’accusa. In questo soffocamento reale che Middle Sister subisce, Burns le affida, tuttavia, una voce candida, quasi ingenua, non la sporca con la violenza imperante, ma le attribuisce una capacità lucida di riconoscere i meccanismi perversi che la condannano, anche quando non riuscirà a frenare l’istinto comune a molte vittime: è forse tutto un malinteso?
Il romanzo diventa, perciò, un’allegoria universale delle molestie e il loro motore principale, gli squilibri di potere. Le trame della narrazione, però, si aprono mostrando gli effetti della militarizzazione sulla popolazione e la miseria che ne deriva. Invischiati in un regime militare, ai cittadini non rimane che il controllo, quello che fanno gli uni degli altri, e il chiacchiericcio sulle presunte colpe di Middle Sister. Burns sfiora più volte l’approfondimento del malessere comune di questa società così bigotta e rigida, che manca totalmente di empatia, e mentre fa ancora stringere i pugni per Middle Sister e la sua libertà perduta, affida ad un personaggio controverso il racconto sordo della depressione in una delle pagine più dolorose:
Quello che queste persone con i malumori e "i grossi problemi" dovrebbero capire [...] è che la vita è dura per tutti. Non vale solo per loro, quindi perché dovrebbero avere un trattamento preferenziale?
I malumori, quello che Burns chiama moods, sono i cambiamenti di umore indotti dalla depressione che nessuno riconosce, sono capricci di persone deboli e viziate in un mondo ottuso. E in questa rigidità generale la timida ed estrosa Middle Sister è il capro espiatorio designato, l’oggetto del contendere, colei che ha sicuramente provocato Milkman. È questa l’ipocrisia di una società che affianca chiese e caserme e sovrappone le litanie delle holy women cattoliche al rumore delle bombe e l’odore di esplosivo. L’abuso di potere di un uomo su una donna è una normalità radicata e il sospetto più terribile comincia a montare: tutto questo non è così lontano dalla nostra fragile contemporaneità.
La violenza della vecchia Belfast e di Milkman sono ingredienti di un racconto universale ben preciso: l’eterno dominio del patriarcato, la colpa intrinseca delle donne (mai degli uomini) e il potere del giudizio becero della massa che prevale contro il singolo e le sue libertà. Le vicende di Middle Sister mostrano la realtà delle donne e quello a cui devono sottoporsi nel tentativo di liberarsi prima che l’ossessione altrui impedisca loro di vivere. E nel dolore e nell’indignazione che dominano la lettura di un romanzo del genere, Anna Burns, sempre sorniona e pacata, non toglie la speranza. Il romanzo si traduce, quindi, in un ennesimo tentativo di spiegare cosa vuol dire lottare quotidianamente contro le convenzioni che condizionano la vita di ogni donna, portatrice di un’arcaica colpa originale ineluttabile. ‘Milkman’ si prende il compito di ricordare a tutt* un valore ancora preziosissimo: la resistenza continua, testarda, necessaria.
Era questo il mio piccolo potere in un mondo che il potere me lo toglieva.
Milkman ha vinto il Man Booker Prize 2018 e l’Orwell Prize for Political Fiction 2019 e verrà pubblicato a settembre in Italia da Keller editore, nella traduzione di Elvira Grassi.
La felicità è come l’acqua, di Chinelo Okparanta
di Claudia Gifuni
Suonano alla porta.
«Chi è?»
«Salve, non mi conosce ma mi chiamo Giorgio e vorrei invitarla a un congresso sull’amore.»
«No, grazie.»
Questo breve episodio della mia vita recente mi ha istantaneamente trasportato in “Su Ohaeto Street”, racconto di apertura di La felicità è come l’acqua, in cui si narra l’incontro tra Chinwe, insegnante di economia domestica, ed Eze, ingegnere per la Shell di giorno e predicatore di sera. Con sé sempre “Torre di guardia” e “Svegliatevi!”, oltre all’orologio d’oro al polso e ai vestiti eleganti indosso. Facile indovinare come l’incontro tra i due si sia trasformato in matrimonio, più difficile, invece, immaginare e accettare lo sviluppo dell’intreccio narrativo. Ho scoperto così che i Testimoni di Geova popolano anche la Nigeria e costituiscono una comunità solida. Ho scoperto anche di essere stata fortunata a poter declinare l’allettante offerta di Giorgio.
A primo impatto le donne disegnate da Chinelo Okparanta in La felicità è come l’acqua sono corpi esili che vibrano senza dare nell’occhio, in grado di riprendere forma e vigore solo nelle fessure dimenticate dalla cultura di (op)pressione che le tiene imbrigliate.
Essere donna, essere madre, essere figlia, essere sposa, essere vuota, cessare di essere. Nei dieci racconti che compongono La felicità è come l’acqua la Okparanta restituisce con delicatezza la complessità socioculturale della ricerca di una definizione e autopercezione del femminile. Proprio per questo motivo dedica particolare attenzione alla modulazione del linguaggio, così da permettere ai lettori di passare dalla Nigeria ricca e opulenta dei quartieri borghesi di Port Harcourt alla distante America senza bruschi strappi. È semmai la presenza, o l’assenza, di guaiave, banani e negozietti che vendono biscotti Nabisco a rivelare la reale posizione geografica; americano e igbo, infatti, sono in continua tensione come se fossero le estremità di un’immaginaria corda usata per giocare a tiro alla fune; nessuno dei due prevarica sull’altro, nessuno dei due cede spazio all’altro. Dolce e acre, poi, si mescolano alle vicende vissute dalle protagoniste tramite gli ignami pestati nel mortaio, il garri, il fufu e la zuppa okra che sprigionano densi aromi in tutti i racconti.
Le storie della Okparanta sono pietre che premono sullo stomaco fino a stringerlo; trascinano i lettori nella distorsione prodotta dall’imposizione di canoni di bellezza standardizzati così come dall’attribuzione di valore e di utilità della donna solo in relazione alla sua capacità di procreare e, quindi, al suo ruolo di madre. Le donne della Okparanta vivono silenziosamente sotto il peso di pressioni sociali e familiari ma non sono sole, la scrittrice, infatti, non le abbandona nel loro processo di progressiva acquisizione di consapevolezza identitaria. Quest’ultima comporta il riconoscimento e l’accettazione di tutte le conseguenze emotive derivanti dalla violenza – sia essa fisica o psicologica − della tradizione e dell’impronta patriarcale che ha segnato la loro vita.
La felicità è come l’acqua, dunque, può essere interpretato come un delicato manifesto di genere in cui non si muovono accuse ma si rivelano storie che sono testimonianze dell’urgenza di contrastare tutto ciò che impedisce alla donna di raggiungere una piena consapevolezza di sé, libera da condizionamenti o imposizioni.
La felicità è come l’acqua è edito da Racconti nella traduzione di Federica Gavioli.
Febbre, di Ling Ma
di Martina Neglia
Forse è vero che per ricostruire la geografia umana dei nostri giorni bisogna guardare al passato, ripartire quanto meno dall’Ottocento; così come sono fermamente convinta che è impossibile tracciare un cammino positivo senza immaginare il futuro, quello a cui le nostre azioni stanno portando e contro il quale ci dovremo armare per tempo. Ling Ma (cinese di nascita ma americana d’adozione ed educazione) si innesta, con il suo romanzo d’esordio, Febbre – recentemente portato in Italia da Codice Edizioni con la traduzione di Anna Mioni – nella giovane e vivissima scia di romanzi post-apocalittici.
Dopo la Fine arrivò l’Inizio. E all’Inizio eravamo in otto, e poi in nove (contando anche me), un numero che da allora in poi sarebbe solo diminuito. Ci eravamo incontrati dopo essere fuggiti da New York verso i lidi più sicuri della campagna. Lo avevamo visto fare nei film, anche se nessuno sapeva dire esattamente in quali. Molte cose si erano rivelate diverse dal modo in cui erano state rappresentate al cinema.
Inizia così Febbre, quando l’Apocalisse è già una cosa reale, gli effetti tangibili. Ma la Fine arriva in silenzio, senza boati o allarmi ad anticiparla; evolve lentamente e quando te ne accorgi è già troppo tardi. È il 2011, siamo a New York per come l’abbiamo conosciuta, la città che più di tutte risponde a un immaginario condiviso quanto vivido a ogni latitudine terrestre. Obama è presidente e i movimenti di Occupy Wall Street provano a rispondere alle azioni di governo; la globalizzazione è al suo punto massimo e i negozi che incrociamo, le marche che ci bombardano, sono esattamente le stesse che potremmo riconoscere in ogni altra grande città.
Improvvisamente una nuba fungina, partita da uno dei fulcri industriali della Cina, inizia a spandersi per il pianeta infettando in modo imprevedibile quanto inostacolabile le persone che ne entrano a contatto. I sintomi dello stato febbrile in cui si cade sono senza cure: chi viene contagiato diventa uno zombie contemporaneo. Lontano dall’immaginario alla The Walking Dead, la Febbre fa perdere il sé senza causare alcun istinto violento o distruttivo: i nuovi morti viventi si ritrovano a ripetere in modo compulsivo le azioni, o le mansioni, affidate loro in vita, finendo per morire letteralmente di lavoro.
Quello che incontriamo nella prima pagina è uno sparuto gruppi di umani – i sopravvissuti – che segue ciò che l’istinto, ma anche la tradizione scritta e audiovisiva ha detto di fare in questi casi: ritrovarsi e muoversi insieme verso un luogo più sicuro, la Struttura: un centro commerciale in cui ripararsi e trovare rifornimenti. Tra di loro c’è Candance Chen, la giovane protagonista da cui occhi e voce seguiamo l’incedere della pandemia e le fasi del collasso. Candance nasce in Cina e in tenera età, accompagnata dai genitori, migra negli Stati Uniti – un po’ come l’autrice stessa. Trasferitasi a New York inizia a lavorare per un’impresa editoriale, la Spectra, occupandosi della sezione bibbie per il mercato asiatico.
Quando la città inizia il suo lento spegnersi e tutti i suoi colleghi vanno via, Candance sceglie di restare e lavorare. Apre un blog, vaga per la città, fotografa i negozi di lusso, le strade ormai abbandonate, come simbolo di una civiltà collassata non perché distrutta da un furia rivoluzionaria, semplicemente implosa sui meccanismi che lei stessa ha posto alle sue basi. Candance si firma così NYGhost e diventa il testimone silente della fine del mondo (“Se New York cade a pezzi e nessuno lo documenta, sta succedendo davvero?”).
Il romanzo ha il passo lento e intimo di un rivelarsi personale: ci insinuiamo nel presente e nel passato di Candance; in un intrecciarsi simbolico ed emotivo di scene che ritraggono l’avanzare del disastro da un lato e i ricordi di infanzia e di spostamenti della giovane donna dall’altro. La protagonista ricostruisce con la sua fuga un parallelismo con il viaggio dei propri genitori, e solo volgendo al passato arriviamo a comprendere il suo straniamento dal corpo e dai sentimenti; la sua dedizione a un lavoro che nessuno vuole più prendersi la briga di continuare in favore delle ultime consolazioni tra gli affetti. Chi si è quando ciò che resta della tua famiglia sono linee genealogiche che si affievoliscono? Cosa si diventa quando non ti viene chiesto di essere felice, bensì utile?
La lingua di Ma è pulita, dosata. Non ci sono esplosioni né lirismi nella parola così come non ce ne sono nella realtà raccontata, perché l’umanità probabilmente non merita neanche il lusso di porre fine alla sua storia millenaria tra i fuochi d’artificio. La catastrofe arriva perché l’abbiamo evocata, e arriva in silenzio come il senso di terrore che l’autrice riesce a costruire e a far insinuare lentamente sottopelle. Edifici e cervelli si spengono, gli ingranaggi del lavoro perdono pezzi umani, eppure gli altri continuano a lavorare da brave api operaie, non tanto per un’atavica forma di resistenza ma perché fin troppo abituati al tiepido per concedersi un ultimo slancio di vita.
Febbre di Ling Ma è un esordio che con classe e una qualità letteraria invidiabile ringiovanisce un genere, portando un esempio nuovo di apocalisse zombie e romanzo catastrofico. Ma non si mostra dimentica nei confronti di altri autori che hanno dato linfa al distopico, ma riesce con la sua opera a liberarsi dal pericolo di restare incastrata nella gabbia del genere, inserendo inoltre più di qualche riflessione sugli interrogativi dei nostri giorni. Non è un caso che il virus nasca in Cina in uno snodo di produzione importante: è la società tardocapitalista che sta scrivendo le nostre condanne, mentre annaspiamo nel tentantivo di guadagnare abbastanza per sopravvivere, e consumare. L’apocalisse ritratta da Ma non è un mero costrutto letterario a cui scampare al termine della lettura: inizierà anche qui, senza nessuna sirena ad anticiparla e a suggerirci di metterci al riparo. Probabilmente è già iniziata.
Febbre è edito da Codice nella traduzione di Anna Mioni.
Sei qualcuno? di Nuala O’Faolain
di Serena Talento
Molti anni fa aspettavo un’amica in un pub a Dublino, due donne discutevano e finirono con il coinvolgermi. Ci misi 25 minuti per capire il nome della giornalista di cui stavano parlando, e ciò accadde solo quando esausta e frustrata ne chiesi lo spelling e finalmente le lettere si allinearono nella mia testa: Nuala O’Faolain. Fu così che lessi il suo libro Sei qualcuno? (traduzione di Anna Rusconi, Guanda, 2005): dentro vi trovai qualcosa, allora, che avrei cercato, bramato e capito forse solo dopo molti anni, e che corrisponde alla parola “onestà”, declinata in varie manifestazioni di significato – emotive, letterarie, ideologiche. È inoltre la storia di una donna che si intreccia in maniera sanguigna alla storia di un paese che amo molto, l’Irlanda.
Nuala O’Faolain: giornalista, autrice e produttrice per la BBC (sia televisione sia radio) e per RTÉ (Raidió Teilifís Éireann), firma dell’Irish Times, oltre che scrittrice. Nell’Irlanda cattolica e severamente conservatrice, l’unico varco per non sentirsi una completa fallita e per cercare di essere (e di sentirsi, soprattutto) la donna che vorrebbe essere (noi adesso leggendola diremo che è) sono i libri e la lettura. Il suo paese vorrebbe che si sposasse, che avesse dei figli, che fosse una donna come le altre, una donna che avesse gli interessi tipici di una donna (!?). Ma a volte è proprio l’inquietudine che proviamo a renderci, dopo peripezie e volteggi dolorosi, libere e a permetterci di solcare i nostri percorsi.
Naturalmente, è impossibile scrivere di Irlanda senza tenere presente l’influenza della Chiesa cattolica; la scrittrice irlandese Eimear McBride afferma, parlando a proposito del suo libro Una ragazza lasciata a metà, «Lo sapete, essere irlandesi, oh Signore, sesso, morte, religione, vergogna, è tutto qui». Nuala dispiega pezzi della sua vita da ragazza nell’Irlanda patriarcale, descrive la cappa di repressione e il senso di colpa perenni, in particolare nella sfera privata e sessuale, derivanti della sua educazione. Combattiva e gentile, sbaraglia le sue dannose dipendenze; diventa libera a suon di parole, studio e fame di vita.
Ma Nuala racconta:
A quarant’anni suonati, nella mia Dublino natia, mi offrirono di firmare una rubrica sul quotidiano più autorevole del paese: l’Irish Times. Era un lavoro fantastico e assolutamente inatteso. L’idea stessa di una opinionista donna, in Irlanda, era stata impensabile fino ad allora.
Diventa una giornalista di successo, ma senza spocchia o arzigogoli intellettualistici, anzi con semplicità e onestà disarmanti, racconta con consapevole autocritica persino i suoi pasticci da giornalista. Come quando venne mandata dalla BBC in Irlanda del Nord a Derry (d’altronde chi avrebbero mai dovuto inviare se non lei che era irlandese), e lì girò un programma che dopo anni ammise essere un completo disastro giornalistico.
A questo punto è necessario, anche per riallacciarci al nostro presente, segnalare, e leggere, un interessante articolo del 31 maggio 2019, Repealing the Eighth: Abortion referendum was won by narrative di Rebecca Anne Barr apparso sull’Irish Times in cui leggiamo:
C’è qualcosa che le storie fanno alle persone: le spingono a fare qualcosa in risposta. Il referendum abrogativo dell’ottavo emendamento è stato vinto con la narrazione. Storie individuali raccontate dalle singole donne ha preso il potere dei racconti, l’energia cumulativa del narrare storie. Per tutta la vita dello Stato uomini e donne hanno spesso lasciato che la parola “aborto" fosse pronunciata da chi avesse un accento inglese, come se la parola stessa potesse sporcare le bocche irlandesi, attaccarsi alla gola e turbare lo stomaco.
Rebecca Anne Barr, peraltro, attacca l’articolo proprio con una citazione da Are You Somebody?: “In 1996 Nuala O’Faolain wrote that ‘there are no typical people. And places don’t stay the same. The world changed around Ireland, and even Ireland changed’”. Questa frase compare in maniera programmatica già dall’introduzione:
Invece i casi tipici non esistono. E i luoghi non restano mai uguali nel tempo. Intorno all’Irlanda il mondo cambiava, l’Irlanda stessa stava cambiando, e di quel cambiamento sarei stata tanto una protagonista attiva quanto una beneficiaria passiva.
Il mondo cambiava e accadeva che “le giovani registe irlandesi facevano parte del nuovo stile”, racconta Nuala:
Un giorno – particolare sintomatico dell’epoca – mi feci prestare una giacca di pelle e partecipai a un’audizione del comitato della Oxford University Dramatic Society per dirigere la loro produzione annuale presso il Playhouse Theatre. Era un impegno delicato e prestigioso, e il fatto che scelsero proprio me è estremamente emblematico dei cambiamenti in atto negli anni Sessanta: nei vent’anni precedenti nessuna donna aveva mai ottenuto la regia di uno spettacolo OUDS. La mia prima prova, peraltro, non fu particolarmente all’altezza di tali cambiamenti: il mio allestimento di L’importanza di chiamarsi Ernesto si rivelò assai mediocre e le scenografie orribili.
A differenti periodi della nostra vita e del nostro percorso corrispondono desideri di scoperta e letture differenti: a volte è una parola o un incontro a dare vita a una nuova lettura; a volte cerchiamo l’onestà, il racconto di una vita, una ricostruzione, una storia che ci insegni qualcosa. Se avremo la fortuna di trovarla e la pazienza di leggerla, continueremo a ricordarla per anni, e per anni ancora. Non leggo mai autobiografie, ma quel giorno a Dublino segnai il nome di Nuala O’Faolain, e lessi quel che aveva da dire.
Un’esplorazione dei nomi irlandesi, ne vale la pena: Nuala e Fionnghuala. E qualche spunto per chi vuole approfondire le tematiche e lo scenario letterario, politico e storico delle scrittrici irlandesi:
A History of Modern Irish Women’s Literature, a cura di Heather Ingman (Trinity College Dublin) e Clíona Ó Gallchoir (University College Cork), Cambridge University Press, 2018
Literacy, Language and Reading in Nineteenth-Century Ireland, a cura di Rebecca Anne Barr, Sarah-Anne Buckley , Muireann O'Cinneide, Liverpool University Press, 2019
Ireland and Masculinities in History, a cura di Rebecca Anne Barr, Sean Brady, Jane McGaughey, Palgrave Macmillan, 2019
Rise Up & Repeal, a cura di Sarah Brazil e Sarah Bernstein, Sad Press, 2019
Sei qualcuno? Storia di una dublinese è edito da Guanda nella traduzione di Anna Rusconi.
Ringraziamo di cuore Marianna, Ornella, Martina, Serena, Alessia e Claudia per aver condiviso il loro lavoro con noi e averci regalato il loro tempo. Se hai letto o hai intenzione di leggere i libri che ci hanno consigliato, oppure se hai altri consigli di lettura che vuoi condividere con la comunità ghinea, diccelo! #ghinea
Ci rileggiamo a fine mese! Ricorda la crema solare e di restare idratat_
Francesca, Gloria e Marzia