La ghinea di marzo
Benvenut_ a Ghinea, la newsletter che a Pasqua non mangia l’agnello. Questo mese affrontiamo per prima cosa la “questione Substack”, visto che ci riguarda in modo diretto. E poi torna con noi Simona Iamonte, che ci parla dell’artista, scrittrice e poeta libanese Etel Adnan. Buona lettura!
Nelle ultime settimane, la piattaforma di newsletter Substack è stata uno degli argomenti caldi nel mondo del giornalismo anglofono. Substack ospita le newsletter a pagamento di divers* opinionist* che hanno scelto di chiamare “cancel culture” la crescente precarizzazione del lavoro culturale e la facilità con cui un gruppo editoriale può sbarazzarsi di una firma non gradita. La chiamano “cancel culture” perché la porta girevole delle redazioni tende negli ultimi mesi a buttare fuori chi esprime posizioni razziste, misogine e transfobiche, dunque un segmento ben definito di giornalist*. Ha una newsletter su Substack Bari Weiss, autrice di un famoso e discusso pezzo sull’intellectual dark web (cioè sui reazionari più seguiti di internet) e campionessa della libertà di espressione a patto che questa non riguardi chi critica le politiche dello stato di Israele. Ce l’ha Jesse Singal, che ha almeno una storia di ripetuti attacchi personali a colleghe trans (molte vi alludono senza scendere nel dettaglio, mentre la giornalista Katelyn Burns ha smesso di parlarne dopo aver pubblicato su Medium un pezzo, ora cancellato, in cui supplicava Singal di “lasciarla in pace”). Ce l’ha il premio Pulitzer e fondatore di The Intercept Glenn Greenwald, che ha di recente espresso commenti bifobici e transfobici. Il sistema di sottoscrizioni a pagamento di Substack consente loro di monetizzare grazie alle newsletter.
Pare inoltre che Substack abbia offerto ad alcun* contributor un programma Pro, spiegato nel dettaglio in questo articolo di Vox: un corposo anticipo e una maggiore percentuale sulle iscrizioni rispetto al programma standard. I nomi delle persone coinvolte in questa operazione non sono noti perché Substack ha finora scelto di non rivelarli. Tuttavia, è già iniziata l’emorragia di contributor (soprattutto persone queer) che hanno fatto due più due e hanno deciso di affidarsi ad altri servizi, soprattutto perché la linea ufficiosa, al contrario di quella ufficiale, non prevede alcuna moderazione dei contenuti proposti (le frasi di Greenwald di cui abbiamo parlato poco fa sono apparse in un video che ha pubblicato proprio su Substack e che preferiamo non rilanciare qui).
La scorsa settimana abbiamo ricevuto una mail da Irene, una lettrice che come noi ha seguito questi eventi e ha deciso di parlarcene nel caso volessimo prendere una posizione in merito, visto che anche Ghinea si appoggia a Substack.
A farlo prima di noi è stato Pietro Minto, curatore di Link Molto Belli, e noi siamo d’accordo con tutto quello che ha scritto. TERF, razzist* e omofob* hanno iniziato a proliferare su Substack dopo averlo fatto su Twitter, Facebook e in qualunque altro spazio online semplicemente perché lo stanno facendo anche offline. Quanto le due dimensioni, reale e virtuale, si alimentino a vicenda non è facile da determinare, ma quel che sembra certo è trovare degli spazi sicuri e non contaminati sarà sempre più complicato. Questo vale soprattutto quando gli spazi in questione non sono pubblici e plasmabili dalle persone che li attraversano e dalle relazioni che queste intrecciano, bensì determinati in tutto e per tutto dalla competizione tra start-up nel capitalismo digitale. Ci siamo sempre servite di Substack nella piena consapevolezza di queste dinamiche e con il disincanto sufficiente a impedirci di immaginare di muoverci in uno spazio anarchico. La nostra possibilità di azione in questo progetto divulgativo e culturale deriva proprio dalla coscienza di tali limiti e si traduce nel rifiuto di attivare le iscrizioni a pagamento (da cui guadagneremmo noi ma anche, in percentuale, Substack), nella totale riproducibilità del sapere che mettiamo in circolo, e nella selezione delle fonti e dei contenuti, che mai e poi mai si allontaneranno dalla nostra linea intersezionale e anticapitalista.
Detto questo, vorremmo ascoltare anche il tuo parere. Se pensi che stiamo sottovalutando qualche aspetto o hai osservazioni o commenti su questo argomento, scrivici e parlacene.
[Alt Text: ritratto fotografico in bianco e nero di Eudora Welty che indossa una camicia a quadretti ed seduta su una sedia di vimini. Fonte.]
L’accanimento della sindaca Virginia Raggi contro la Casa Internazionale delle Donne di Roma.
L’intervista a Elliot Page su Time è una cosa preziosa.
Due mesi di presidenza Biden: come sta andando? Mexie del podcast The Vegan Vanguard ne parla con la giornalista, attivista e filmmaker statunitense Abby Martin.
Quando il 28 novembre 2020 i genitori di Judith Machaca ne denunciarono la scomparsa, la polizia di Tacna (Perù) li aveva rimandati a casa ipotizzando che si fosse allontanata con un fidanzato. Il generale disinteresse per la vita delle donne ha portato al ritrovamento del cadavere di Judith solo a febbraio, grazie all’insistenza dei genitori, in un pozzo di 80 metri di profondità nel terreno appartenente ai genitori di un ragazzo di 24 anni facente parte delle forze dell’ordine, e che ha confessato sui social media il duplice omicidio di Judith e di una minore il cui corpo è stato ritrovato nella stessa occasione e che solo successivamente è stata identificata (Noemí Escobar, di soli 14 anni). Santiago Paco Mamani, il nome del poliziotto femminicida, è collegato a un ampio traffico sessuale di giovani e giovanissime, e rimane ad oggi impunito.
[Alt Text: l’arcano del sole illustrato da Leonora Carrington, che ha interpretato tutti i ventidue arcani maggiori dei tarocchi. Fonte.]
Franca Ongaro in Basaglia: chiudere i manicomi, trasformare la società.
Amicizia, rifiuto delle norme, derisione da parte dei compagni di scuola, le zine quando non c’era internet: Dirty Girls è un breve documentario su un gruppo di giovani femministe degli anni Novanta.
Le Ore perse di Caterina Saviane.
Maria Nadotti intervista bell hooks.
Sarah Everard è stata rapita la sera del 3 marzo mentre rientrava a casa, in una zona sud di Londra. La telefonata di circa quindici minuti al suo compagno, che ne ha denunciato la scomparsa il giorno successivo, e alcune immagini raccolte dalle CCTV lungo il tragitto, scelto probabilmente perché più illuminato, confermano che – nonostante tutte le accortezze ingiustamente pressanti una donna in uno spazio pubblico – le strade non sono un luogo sicuro. Per quanto orribile, rimane necessario osservare che esiste a tutti gli effetti una gerarchia delle vittime di violenza nella percezione e nella rappresentazione pubblica degli eventi. Oltre alle precauzioni attivamente prese dalla vittima, quali il considerare il percorso più illuminato, il vestire abiti sgargianti e comodi, il segnalare la propria posizione a una persona di fiducia, rientrare in casa prima ancora delle dieci di sera, Sarah Everard possedeva anche quei connotati che a priori la rendevano meno a rischio e più attinente ad un immaginario collettivo della ‘brava vittima’: giovane, bianca, di classe media. La parlamentare Jenny Jones (Green Party), per sfidare e comprovare le teorie del controllo dei corpi, ha suggerito un coprifuoco serale per gli uomini che ha scatenato attacchi misogini e polemiche sul tentativo di limitare le libertà dei soggetti maschili, smascherando l’amara verità già ovvia che vede le limitazioni – esplicite, come quelle legiferate, e implicite, come quelle socialmente assimilate – ai corpi delle donne come una cosa giusta, o quantomeno normale. Basti pensare che la polizia londinese ha ritenuto necessario visitare diverse case del quartiere Clapham, zona del rapimento, per invitare le donne a non uscire di casa (da sole).
La polizia è però violenta protagonista della vicenda e dei conseguenti avvenimenti: il sospettato colpevole del rapimento e dell’assassinio di Sarah Everard è stato identificato quale un poliziotto della MET. La stessa polizia metropolitana in cui serviva il sospettato è incaricata di portare avanti le indagini in merito. La leader del partito Women’s Equality ha commentato la vicenda e stilato una petizione con richiesta al sindaco londinese Sadiq Khan perché le indagini passino a una branca di forze dell’ordine differente, citando l’incapacità di autocritica della MET, e invitando il primo cittadino a promuovere ordinanze che ristorino la fiducia delle donne nelle forze dell’ordine e nel sistema giudiziario corrente. Alla corruzione e alla violenza della polizia si risponde quindi con l’ipotesi di istituire una squadra specificamente dedita alla protezione delle donne, ignorando invece la richiesta di educazione, libertà, e solidarietà da parte dei soggetti da proteggersi e aggiungendo piuttosto al già fallace ‘patto di sicurezza’ ulteriori forme di controllo (un esempio: inserire poliziotti in borghese negli spazi ricreativi, come i locali).
[Alt Text: fotografia scattata durante la veglia organizzata in memoria di Sarah Everard. Un cordone di poliziotti, tutti fotografati di spalle, sorveglia la folla. Fonte.]
A promuovere l’azione diretta sono state le compagne del gruppo di attivistx Sisters Uncut, che hanno organizzato una veglia in memoria di Sarah Everard secondo le disposizioni previste dalla sicurezza in tempo di pandemia e radunandosi, mantenendo il distanziamento, nel parco di Clapham Common. Nel corso del pomeriggio il numero di persone coinvolte nell’evento di lutto collettivo è aumentato e per disperdere la folla – nonostante la manifestazione si protraesse in maniera pacifica e sensibile alle direttive per la prevenzione dei contagi – la polizia ha attaccato le persone, con una violenza tale da essere dichiarata ingiustificata ed eccessiva dallo stesso sindaco della città. A difendere omertosamente i membri delle forze dell’ordine è stata invece la commissaria Cressida Dick, ad oggi ancora ferma nella sua posizione e indifferente alle richieste di dimissioni da parte dex manifestanti.
Il gruppo di resistenza Sisters Uncut ha guidato la riuscita contestazione alle proposte di incrementare in numero, potere, e fondi le forze di polizia (più informazioni e solidarietà sono raccolte sotto l’hashtag #KILLTHEBILL), denunciandone la sistemica violenza patriarcale.
FATTO DA NOI
Marzia è stata intervistata da Bianca Battilocchi per la terza puntata dell’inchiesta “Ecosistemi poetici - abitare creativamente l’antropocene”.
FATTO DA VOI
Chiara Puntil ha appena inaugurato Punctum, la sua rubrica per il sito Le cornacchie della moda. Chiara ha scritto per noi del film Atlantique di Mati Diop e ha partecipato alla prima parte dello speciale Varda (qui puoi leggere anche la seconda).
Giorgia Maurovich e Sara Treviglio hanno parlato con la ricercatrice Martina Cvajner del fenomeno delle migrazioni femminili dall'area post-sovietica. Giorgia cura il progetto Est/ranei e ha scritto per noi delle recenti proteste delle donne polacche.
Carlotta Cossutta legge Itziar Ziga.
UN’ARTISTA
Etel Adnan. L’immediata bellezza del colore
di Simona Iamonte
[Alt Text: La pittrice Etel Adnan davanti ad un suo dipinto in un ritratto a mezzo busto del fotografo James Mollison per WSJ Magazine.]
C’è qualcosa di immensamente poetico e rassicurante nei lavori di Etel Adnan, che nascono da un profondo legame con il mondo, le sue culture, i suoi paesaggi e la varietà che lo determina. I suoi dipinti, disegni e ceramiche, risentono della multiculturalità dell’artista e dei suoi viaggi, ma soprattutto della sua formazione e del suo lavoro come scrittrice e poetessa; entrando e uscendo fluidamente dalle discipline, rendendola un’artista sensibile a ciò che la circonda e dallo sguardo attento verso il mondo.
Etel Adnan nasce il 24 febbraio del 1925 a Beirut, in Libano da madre greca cristiana di Smirne e padre, un ufficiale dell’Impero ottomano, musulmano nato in Siria. Cresciuta tra due culture molto differenti, tra Vangeli e Corano, tra Beirut e Damasco, trova la sua dimensione nel convivere con due culture diverse amandone le sfaccettature e la diversità. Frequenta una scuola cattolica di suore francesi fino ai 16 anni, quando scoppia la Seconda Guerra Mondiale, periodo in cui Beirut cambia volto e si trasforma in un luogo fortemente multiculturale e vivace nonostante si combatta fuori dalla città. Oltre ai francesi già presenti nel territorio, arrivarono gli americani che si mescolano agli abitanti.
Beirut diventa una città che parla tre lingue: il francese, l’arabo e l’inglese. Adnan, spinta da questo fervore multiculturale, frequenta una scuola Superiore americana di Lettere fino ai vent’anni, e poi, finiti gli studi superiori, nel 1950 si trasferisce a Parigi per studiare filosofia alla Sorbona. Nel 1955 vola in America dove prosegue gli studi filosofici a Berkeley e Harvard e nel 1958 inizia a insegnare estetica e filosofia dell’arte al San Rafael College della California fino al 1972. Il primo giorno di lezione, incontra la direttrice del College Ann O’Hanlon, che la introduce alla pittura. Così inizia il suo interesse pratico per le arti visive, parallelo a quello di poetessa e insegnante, ma tutto converge ed è un tassello della sua poetica come artista dalle mille trame e sfumature.
Per approfondire meglio le sue origini, la sua vita e la sua poetica incentrata sulla lingua, in questo saggio scritto da Adnan e tradotto da Raffaella Marzano, l’artista ci parla delle realtà culturali che vivono in lei, del perché non abbia mai imparato l’arabo in favore del francese e dell’inglese e di come la sua pittura sia strettamente collegata ai linguaggi e al naturale fluire umano. Vorrei soffermarmi su un paragrafo nel quale ci racconta delle lettere scritte in francese dal padre che si trovava di istanza durante le operazioni navali dei Dardanelli, destinate alla madre:
Era una lingua romantica, sull’onda dei romanzi tedeschi, austriaci o russi dell’epoca. Molti anni dopo, dato che queste lettere erano state gelosamente e attentamente conservate da mia madre ed erano per lei motivo di gioia e orgoglio, ebbi modo di leggerle. Avrebbero potuto essere state scritte in un libro come Guerra e pace di Tolstoj: parlavano di amore, di guerra, di vita e di morte. Erano state scritte al suono dei cannoni, con inchiostro nero e una grafia che disegnava le lettere dell’alfabeto con estrema chiarezza. Oggi sono andate perdute a causa dei miei molti spostamenti e della disattenzione della mia gioventù.
In questo piccolo paragrafo si sente tutta la sua passione verso la scrittura, la grafia ed il suono, come se la lettura di quelle lettere fosse un’esplorazione sensoriale, nonostante il contesto di desolazione e orrore della guerra.
[Alt Text: Etel Adnan “A Tremendous Astronomer VI”, inchiostro e pastello su carta (2016). Attraverso l'inchiostro nero, Adnan segna la carta in una maniera che ricorda le tavole numeriche arabe.]
Da poetessa e scrittrice, avendo vissuto un così ampio multiculturalismo, in ogni suo libro assistiamo al modo in cui percepisce tutto ciò che la circonda, che diventa unione tra parola e idea, grafismo ed immagine. Tra i testi e libri degni di nota, tradotti soprattutto in inglese, francese e anche italiano ci sono: Sitt Marie Rose (1978) tradotto con lo stesso titolo in italiano per Edizione delle donne; Crescere per essere scrittrice in Libano, la sua breve ma intensa biografia tradotta in Italia per la Multimedia Edizioni; Notte, edito San Marco dei Giustiniani e di cui è disponibile una piccola anteprima; e infine The Arab Apocalypse scritto nel 1980 e stampato nel 1989.
[Alt Text: Copertina del libro The Arab Apocalypse (1980) di Etel Adnan.]
The Arab Apocalypse è forse il libro più importante dal punto di vista storico-civile e anche il più sperimentale: in esso, l’artista condensa in 23 pagine i suoi “scritti-grafici” sulla Guerra in Libano che scoppiò nel 1975. Lo stile dell’opera è complesso ma mai inaccessibile. La raccolta, inizialmente ideata per essere una poesia astratta sul Sole, allo scoppio della guerra, diventa un pretesto per raccontare del contesto libanese, mantenendo i temi iniziali dell’apocalisse e della devastazione. A tal proposito Adnan dice:
Lo stile di scrittura è netto e al tempo stesso evocativo, spesso usa la parola “STOP”, come se fosse un telegramma, sostituto della punteggiatura, ed affianca i disegni fatti a penna alle parole per accentuare la narrazione ed invitare il lettore al pensiero di un’ipotetica apocalisse del linguaggio. In questo modo l’uso di glifi arricchisce il testo ed al tempo stesso sostituisce l’accuratezza, o se preferiamo, l’estremismo del linguaggio.
Allo stesso modo per cui a volte i disegni sono indecifrabili, in questa opera letteraria il solo uso del linguaggio sarebbe stato troppo definitivo per certi versi e poco esplicativo in altri.
[Alt Text: Estratto della pagina 7 di The Arab Apocalypse in cui l’artista parla della guerra in Libano. Attraverso parole e disegni narra degli eventi che hanno segnato il Libano dal 1975.]
L’opera è una stupefacente testimonianza percettiva della storia, composta da espressioni fortemente evocative dell’immaginario di Adnan. Il Sole rimane sempre al centro dell’opera, forse è il narratore, sebbene non viene mai descritto chiaramente e non è spiegato se sia solo uno o molti, ma sembra identificarsi con il concetto stesso di violenza, come una forza di attrazione che influisce sulla Terra. Inoltre L’autrice, sembra descrivere il Sole come unico testimone della civiltà umana, che osserva da secoli la bellezza ma anche gli orrori del mondo:
[Alt Text: estratto del testo “The Arab Apocalypse” in cui l’autrice determina il narratore. “Sono l'indiano dal ventre solare che immerge Beirut in un bagno di luce”.]
In questo video, registrato alla Serpentine Gallery di Londra, è possibile ascoltare una lettura dell’artista di The Arab Apocalypse, in cui si può percepire il senso di desolazione, ma anche l’atmosfera surreale dell’opera, i suoni onomatopeici, le ripetizioni delle parole, le cadenze telegrafiche dettate dagli “STOP”.
[Alt Text: Disegno del Sole nell’edizione francese di The Arab Apocalypse.]
La pittura di Adnan rispecchia tutto quello che cerca attraverso la scrittura: una più ampia sensazione e connessione con ciò che la circonda. L’approccio con il disegno è stato fulmineo e insaziabile sin dai primi anni negli Stati Uniti, periodo nel quale entra in contatto con le opere di Paul Klee, pittore espressionista astratto, al quale guarda ispirandosi costantemente. Ciò che rende unica la pittura di Adnan è il senso di grandezza cosmica che sembra avvolgere la sua produzione: un senso di appartenenza più grande della geografia e della nazionalità, qualcosa che va oltre le barriere mentali e fisiche del mondo finito che conosciamo.
In maniera pratica, Adnan dipinge in piano, una sorta di retaggio progettuale derivato dallo scrivere poesie; la penna è sostituita dalla spatola per stendere i colori ad olio, e occasionalmente da un pennello per l’inchiostro e gli acquerelli. In un’intervista per il MoMa di San Francisco racconta il suo passaggio dalla poesia alla pittura (anche se non ha mai accantonato la scrittura e continua ancora oggi ad esprimersi in entrambi i modi) e spiega come la poesia sia lineare nel tempo e invece la pittura sia una manifestazione unica racchiusa nell’atto creativo, allo stesso modo in cui una galleria o un museo espone una sequenza temporale o progettuale finita: c’è qualcosa che si determina nell'istante in cui si assiste, una sorta di fascio di luce.
[Alt Text: Installation view della mostra “The Weight of The World” presso la Serpentine and Sackler Gallery di Londra (giugno-settembre 2016) Foto di Jerry Hardman-Jones.]
Attraverso le proprietà sensoriali dei colori, si dispiega l’essenza mistica della sua visione del mondo, una visione astratta ma non per questo meno reale, da infiniti accostamenti, dipinti estremamente coraggiosi nella loro semplicità, come dei talismani che illuminano lo spirito e fanno sentire il calore di ciò che ci accompagna nella vita, senza nome, diversi da quel potere che è la parola e la lingua. Qui, ognuno ha il proprio potere di percepire ciò che vede, ciò a cui assiste e i dipinti di Adnan sono pura sensazione vitale.
Tra le opere più famose della pittrice troviamo la serie sul Mount Tamalpais, iniziata durante gli anni in cui viveva negli Stati Uniti e portata avanti durante tutto il suo periodo di attività. Il Monte Tamalpais è una montagna a nord-ovest di San Francisco, ben visibile dalla città, nella quale Adnan riconobbe una presenza familiare. Il monte rappresenta il fulcro della sua fascinazione verso la natura, un amante, un’entità rassicurante, percepisce qualcosa di vivo in essa, anche forse in una dimensione ossessiva a tal punto da essere a tutti gli effetti una musa per la pittrice. Attraverso questo monte Adnan esplora i temi del tempo, dell’identità, dell’impermanenza, la natura dell’universo, la natura dell’arte e l’appartenenza all’immenso regno naturale di cui facciamo parte. Queste riflessioni sono basilari per comprendere il lavoro pittorico e poetico dell’artista a partire dagli anni ‘80 fino ad oggi.
[Alt Text: “The Weight of The World” Installation view alla Serpentine Sachler Gallery a Londra (Giugno-Settembre 1026).]
Allo stesso modo in cui Claude Monet alla fine degli anni ‘90 dell’800 ripete ossessivamente delle copie dal vero nella celebre serie sulla Cattedrale di Rouen, la pittrice dedica una gran parte dei suoi versi e delle sue pitture alla montagna. A differenza della serie di Monet, La pittrice libanese crea una raccolta, che si frammenta nel tempo, sul rapporto che ha con la montagna. Se in Monet vediamo concentrati i temi tipici dell’Impressionismo tra i quali la luce e la sensazione dell’attimo, in Adnan le tematiche diventano di ordine spirituale e anche sentimentale, sia negli scritti che nelle pitture. I colori accesi veicolano il sentimento, e le spatolature che non hanno paura di mostrarsi piatte vivono di vibrazioni e nascono dalla piena fascinazione.
[Alt Text: “Mount Tamalpais” 1985 Sursock Museum di Beirut.]
Accanto ai dipinti e i disegni del Monte Tamalpais troviamo una vasta sfaccettatura di ceramiche, tappeti e murales ma soprattutto di leporelli. Il termine leporello deriva dal nome del cameriere di Don Giovanni della celebre opera di Mozart, appunto Leporello, che dispiega il libretto in cui sono appuntate le “mille e tre” amanti del protagonista. Per analogia, in Europa, il nome è diventato il termine che rappresenta i libri piegati a mo di fisarmonica adottati soprattutto da artisti asiatici, sia per disegni che per poesie e poco diffusi in occidente. Nello specifico, Adnan usa questo formato per avere una continuità di narrazione dell’immagine. Il suo amore per i leporelli inizia a San Francisco: in essi, annota poesie degli amici e le arricchisce con i suoi disegni, oppure ripete una serie di parole come se fosse una litania per mezzo di inchiostro, acquerello e talvolta tempera.
[Alt Text: “Numbers, Signs and Squares” Inchiostro e acquerello su carta (2015). Leporello d’artista.]
[Alt Text: “Les Oliviers” matita e inchiostro su carta 2019.]
A oggi l’artista ha compiuto 96 anni lo scorso mese, vive a Parigi ed è ancora attiva sia sul campo pittorico che narrativo e poetico. Alcune delle sue più belle mostre si sono svolte negli ultimi dieci anni in Europa, Medio Oriente ed America in alcuni dei musei e gallerie più prestigiose come Galleria Continua che ha spazi sparsi in tutto il mondo, presso la Galleria Lelong di Parigi, Art Basel di Miami e Sfeir-Semler Gallery di Beirut e Amburgo.
Simona Iamonte vive a Torino e lavora come illustratrice e pittrice. Puoi seguirla su Instagram.
Grazie a Simona per il suo articolo! Ci leggiamo fra un mese.
Un abbraccio!
Francesca, Gloria e Marzia