La ghinea di maggio
Benvenut@ a Ghinea, la newsletter in fase 2. Arriviamo pochi giorni dopo l’intervista a Nina Ferrante, e come ogni mese siamo aiutate da alcune care amiche e ospiti. Dopo l’intervento sulla “competizione” in termini di genere del mese scorso, Ludovica C. torna con la seconda puntata, dedicata alla nozione del rischio. Chiara Rizzi, il nostro punto di riferimento in fatto di gentrificazione, turistificazione e lotta abitativa, ci racconta la storia delle Moms 4 Housing. Infine, Celeste Zanzi ci presenta l’artista ispano-messicana Remedios Varo. Buona lettura!
Genere e risk taking
di Ludovica C.
Nelle scienze economiche, si definisce “avversione al rischio” (risk aversion) la preferenza individuale ad evitare delle situazioni il cui esito è incerto. Al contrario, sarà “amante del rischio” (risk prone) chi preferisce ambire a risultati più favorevoli, anche se meno sicuri. Facciamo un esempio. Ci sono due biglietti della lotteria: il primo comporta una vincita sicura di 40 euro, il secondo comporta una vincita di 100 euro nella metà dei casi, e nessuna vincita nell’altra metà dei casi. Chi preferisce il primo biglietto al secondo è più avverso al rischio di chi, invece, è disposto a sopportare la possibilità di non vincere niente pur di avere uno spiraglio circa una vincita più ingente. Naturalmente, questa è una nozione fondamentale in economia, sia dal punto di vista teorico (perché ci aiuta a comprendere come funziona il processo decisionale umano), che dal punto di vista empirico (perché spiega alcuni fenomeni concreti, per esempio nel mondo della finanza).
Ci sono moltissimi studi (questo, o questo, per esempio), che arrivano alla conclusione che le donne siano più avverse al rischio degli uomini. Per studiare questo elemento, i ricercatori ricorrono ad esperimenti sociali, oppure analizzano dei dati (ad esempio, quante azioni di imprese “rischiose” una persona detiene nel proprio portfolio). Questa domanda non è una semplice speculazione: in questo articolo, per esempio, si afferma che la differenza in termini di propensione a prendere rischi potrebbe essere alla base di fenomeni come il wage gap, cioè il divario salariale fra uomini e donne: “If women are more sensitive to risk than men, this will be reflected in all aspects of their decision making, including choice of profession (and so earnings)”, ovvero “Se le donne sono più sensibili al rischio degli uomini, questo si rifletterà in tutti gli aspetti del loro processo decisionale, inclusa la scelta della professione (e quindi del salario).”
Non solo quindi studiare la (presunta) differenza fra uomini e donne nell’attitudine al rischio implica trarre alcune conclusioni circa altre differenze (reali), ma implica anche delle diverse risposte circa come affrontare questa differenza. Per esempio, il famoso consiglio di Sheryl Sandberg, cioè quello di “lean in” and “take risks” (farsi avanti e prendere rischi), avrebbe senso se pensassimo che le donne non si fanno avanti abbastanza, o non prendono abbastanza rischi nel mercato del lavoro.
Quello che questa lunga premessa vuole comunicare, è che l’affermazione “le donne sono più avverse al rischio degli uomini” non è innocua, specie se viene utilizzata per spiegare altri fenomeni, o per supportare delle possibili correzioni a questi fenomeni. Se non ci sono differenze nel modo in cui uomini e donne si pongono di fronte a delle situazioni rischiose, allora non è questa la ragione per cui vengono pagate meno, e quindi pensare che questo problema verrà meno quando le donne si faranno avanti di più è quantomeno ingenuo.
Julie Nelson, nel suo libro dedicato all’argomento, spiega in maniera molto precisa dei concetti statistici che, pur essendo apparentemente elementari, aiutano a chiarire la questione qui in esame. Gli articoli che affermano “le donne sono più avverse al rischio dei maschi” hanno in realtà osservato, nei loro dati o nei risultati dei loro esperimenti, che “l’avversione al rischio è più alta, in media, nel gruppo di donne analizzato, di quanto non lo sia nel gruppo dei maschi”. Questa seconda affermazione non esclude quindi che, prendendo una donna e un uomo fra quelli presenti nel campione analizzato, la prima sia in realtà più amante del rischio del secondo. In altre parole, è un’affermazione valida a livello “aggregato”, cioè considerando le donne e gli uomini come due gruppi, ma non a livello “individuale”. La prima affermazione, che non rende esplicita questa considerazione, è sicuramente più sintetica, più semplice, più categorizzante, e quindi più attraente.
Questa osservazione sembra semplice, ma non lo è: prendiamo per esempio il numero di gravidanze che gli uomini e le donne in un certo gruppo hanno avuto nel corso della loro vita. Si tratta di una differenza aggregata o individuale? Si può pensare che si tratti di una differenza individuale: avere o meno gravidanze è qualcosa che distingue uomini e donne in modo inequivocabile. Eppure non è così, perché tante donne nel campione, proprio come tutti gli uomini, non hanno mai avuto una gravidanza nel corso della loro vita. Se quindi classifichiamo le persone presenti nel campione in base al numero di gravidanze avute, ci sarà una sovrapposizione fra uomini e donne: scegliendo un individuo a caso e osservando se abbia mai avuto una gravidanza, non sarà possibile concludere con certezza se sia uomo o donna.
All’opposto, sarà impossibile prevedere se un individuo ha o meno avuto una gravidanza semplicemente osservando se è uomo o donna. Tornando quindi al nostro problema, l’avversione al rischio: per una persona che deve decidere se affidare un compito a un dipendente o a una dipendente, e che abbia in mente la frase “le donne sono più avverse al rischio degli uomini” e pensi sia necessario prendere dei rischi per svolgerlo, sarà “naturale” affidare quel compito al dipendente, perché supporrà che il genere classifichi automaticamente, e senza ambiguità, le persone in una delle due categorie. Se però la differenza è valida solo a livello aggregato, questa classificazione sarà scorretta se applicata a livello individuale.
C’è poi un secondo problema: l’ambizione di chi fa ricerca economica osservando un campione di dati è poter affermare che quello che si osserva nel corso della singola indagine abbia una qualche valenza anche fuori dall’indagine, ovvero che i risultati trovati siano generalizzabili. Il gergo per questa nozione di “generalizzabilità” è “validità esterna”. Il tipo di generalizzazione che possiamo fare sulla base dei dati statistici si chiama inferenza: se nel mio campione trovo una differenza statisticamente significativa tra uomini e donne in quanto a propensione a prendere rischi, sarà possibile verificare, statisticamente, se una differenza analoga si può inferire a livello di tutta la popolazione. Vale a dire, è possibile verificare con delle opportune tecniche che, se avessi la possibilità di ripetere lo studio con tutte le donne e tutti gli uomini del mondo, e non solo su un sottogruppo come è in realtà, troverei la stessa differenza fra le due medie. Quello che non è possibile fare, invece, è una generalizzazione circa la natura individuale di uomini e donne, cioè quello che si chiama ragionamento induttivo. Dire “le donne sono più avverse al rischio degli uomini”, quindi, porta con sé una generalizzazione di tipo induttivo, che non è supportata dai dati, più che una generalizzazione di tipo inferenziale, che potrebbe potenzialmente esserlo.
Un* economista che lavori su dei dati o conduca esperimenti è certamente ben consapevole di queste due questioni: la differenza fra un’affermazione valida a livello aggregato e una valida a livello individuale, la differenza fra inferenza e ragionamento induttivo. Tuttavia, ciascuna di queste sottigliezze è offuscata quando si sintetizzano i risultati del proprio lavoro con la frase “le donne sono più avverse al rischio degli uomini”. Si potrebbe però pensare che la questione sia solo comunicativa: dire “l’avversione al rischio è più alta, in media, nel gruppo di donne analizzato, di quanto non lo sia nel gruppo dei maschi” è più lungo e meno incisivo, e all’interno della professione il rischio di fraintendimento è limitato. Anche se fosse solo questo il punto, credo che sia comunque un problema: che le parole siano importanti è ben noto, e, come dicevo all’inizio, l’affermazione in sé, oltre che semplicistica, non è neppure priva di conseguenze.
Ma c’è di più: in un suo lavoro del 2014 Julie Nelson analizza 35 articoli sul tema, pubblicati negli anni precedenti, sotto due fronti riguardanti il tipo di studio effettuato e il modo di analizzare i dati, non tanto la comunicazione dei risultati.
Il primo aspetto è che questi lavori si concentrano nell'affermare che una differenza fra i due gruppi è “statisticamente significativa”. Come accennavo il mese scorso, una differenza fra due medie si dice statisticamente significativa laddove è possibile affermare che non sia dovuta al caso. Facciamo un esempio. Ipotizziamo che gli uomini siano in media più alti delle donne: questo non esclude che, misurando un uomo e una donna, a caso, io possa osservare che la donna è più alta dell’uomo. Se sulla base di questa osservazione affermassi che le donne sono più alte degli uomini farei un errore: la mia conclusione si basa su un campione formato di due soli individui. Nel dire che una differenza osservata è statisticamente significativa si considerano tre elementi: la magnitudine della differenza (cioè quando lontane sono le due medie osservate), la numerosità del campione (cioè quante persone ho a disposizione nel mio studio), la variabilità interna al gruppo (cioè quanta differenza si osserva fra gli individui dello stesso gruppo). Quindi dire che una differenza è statisticamente significativa non vuol dire che è una differenza “ampia”, quantitativamente significativa: può essere anche marginale, ma supportata da un numero molto ampio di osservazioni.
Per visualizzare cosa significa questo, prendiamo due ipotetiche ricerche: in entrambe viene misurata la propensione al rischio per gli uomini e per le donne. Nel primo caso, i dati vengono sintetizzati in questo grafico.
Le due curve rappresentano la distribuzione della propensione al rischio nei due gruppi: la linea tratteggiata rappresenta le donne, quella continua gli uomini. Dove la curva è più alta, cioè più lontana dall’asse orizzontale, vuol dire che si osservano più casi di persone con quel valore di propensione al rischio. Entrambe le curve hanno una forma “a campana”: vuol dire che un numero maggiore di casi si concentra nella parte centrale (la media), mentre i valori più lontani dalla media (in entrambe le direzioni) sono osservati meno di frequente. In questo primo caso, non solo i maschi hanno una media più alta delle donne, ma la loro distribuzione è molto spostata a destra, e la sovrapposizione fra le due curve è limitata.
In questo secondo grafico, le curve sono molto più vicine: anche qui i maschi hanno una media più alta, ma le due curve si sovrappongono quasi del tutto. È quindi ragionevole affermare che nel secondo caso la propensione al rischio nei due gruppi è più simile che nel primo caso.
La cosa interessante è che entrambe le situazioni possono dar vita a delle differenze statisticamente significative fra i due gruppi, specie se il campione è abbastanza grande, ma è difficile affermare che le due situazioni rappresentino lo stesso tipo di differenza fra uomini e donne.
Nelson quindi rianalizza i dati di questi 35 lavori, utilizzando delle tecniche statistiche che non si limitano a valutare la significatività statistica dei dati ottenuti, ma che invece cercano di sintetizzare anche la significatività quantitativa degli stessi. Lo scopo è capire in quali casi la differenza è imputabile a un caso come quello nella prima figura (e quindi una differenza sostanziale) e in quali casi invece la situazione è simile a quella del secondo grafico (una differenza magari statisticamente significativa, ma quantitativamente marginale). Utilizzando un indice apposito, comunemente impiegato per esempio in psicologia, ma molto di rado in economia, Nelson conclude che solo 14 dei 35 lavori analizzati presentano un valore di questo indice che consente di affermare che ci sia una differenza consistente.
C’è poi un secondo aspetto su cui si concentra Nelson: come nel caso della competitività di cui abbiamo parlato il mese scorso, i risultati osservati in questo insieme di articoli potrebbero dipendere da fattori che non sono connaturati a uomini e donne in quanto tali, bensì derivanti dal tipo di educazione ricevuta, o dal contesto culturale.
Per analizzare questa questione, Nelson analizza quindi un secondo gruppo di studi, che inseriscono nell’analisi elementi ulteriori, oltre al genere. Gli autori di questo articolo, per esempio, analizzano le risposte ad un sondaggio per concludere che le differenze in termini di percezione del rischio più consistenti non sono fra uomini e donne, ma fra uomini bianchi e tutti gli altri. Se gli uomini non bianchi mostrano livelli di propensione al rischio più simili a quelli delle donne che a quelli degli uomini bianchi, è evidente che dietro alle differenze descritte nella letteratura economica il fattore rilevante non è il genere, ma qualcos’altro, qualcosa che abbia un effetto sugli uomini non bianchi e sulle donne, pur non avendolo sugli uomini bianchi. E ancora, in questo studio si osserva che gli uomini bianchi, istruiti, con alto reddito e che dichiarano di avere fiducia nelle autorità sono quelli che percepiscono meno il rischio. Certamente, questi due studi non si occupano di propensione al rischio ma di percezione del rischio: pur essendo differenti però, le due nozioni sono collegate, e questi due esempi mostrano come il rapporto fra individuo e rischio è mediato da altri fattori (razziali, sociali, economici) più di quanto non lo sia dal genere.
Come nel caso della competitività poi, è interessante chiedersi cosa determini la differenza nella propensione al rischio media fra uomini e donne, ammesso che questa differenza sia quantitativamente rilevante. In questo studio viene condotto un esperimento in cui uomini e donne devono scegliere fra diverse lotterie, alcune più rischiose di altre, in due contesti diversi. Nella prima situazione, viene creata una stereotype threat, quel fenomeno per cui un gruppo oggetto di stereotipi percepisce dello stress generato dal desiderio di non confermare quello stereotipo: i/le partecipant* devono indicare il loro genere prima di iniziare il gioco, che gli viene descritto come atto a misurare la loro abilità matematica. Lo scopo è attivare nelle partecipanti, preoccupate di confermare lo stereotipo per cui “le donne non sono brave in matematica”, la forma d’ansia che ne deriva. In una seconda situazione invece (stereotype irrelevant), il gioco è lo stesso, viene descritto però come un test di “problem solving” e viene chiesto a* partecipant* di riportare il genere solo alla fine. In questo secondo caso non risulta nessuna differenza statisticamente significativa fra i due gruppi, mentre nel primo caso la differenza è ampia. Non è quindi il genere ad avere un effetto sulla propensione al rischio, ma gli stereotipi di genere, o i ruoli associati al genere.
Nella sua literature review, ovvero “panoramica” di articoli, Nelson riporta che in questo secondo gruppo di studi – quelli che cercano di isolare l’effetto di fattori socio-culturali sulla propensione al rischio – vengano osservate anche differenze più rilevanti (in termini quantitativi) degli studi che invece si concentrano solamente sulle differenze di genere.
Questi ultimi due elementi quindi, ovvero la rilevanza della differenza, e la presenza di altri fattori importanti nel determinare la propensione al rischio, rivelano non solo che i risultati così spesso citati sono comunicati male – come descritto nella prima parte di questo excursus – ma spesso anche fondati su un’analisi empirica non così convincente, che trascura di indagare quanto ampia sia una differenza, e che ignora altri fattori (non biologici) importanti.
Nelson riporta una frase, tratta da uno degli articoli menzionati, che trovo molto significativa: “Perhaps white males [on average] see less risk in the world because they create, manage, control, and benefit from so much of it”, ovvero “Forse gli uomini bianchi [in media] vedono meno rischi nel mondo perché lo creano, lo gestiscono, lo controllano e ne traggono benefici.”
Ludovica C. ha 25 anni e fa il dottorato in Economia a New York ma in realtà vorrebbe solo leggere tutto il giorno. Puoi seguirla su Twitter.
Mamme per la casa: il collettivo MOMS 4 HOUSING di Oakland, California (US)
di Chiara Rizzi
[Alt Text: un post del profilo Instagram di Moms4Housing, un gruppi di sostenitor-ici espone il cartello “Everyone deserves a home”, “ognuno si merita una casa”. Fonte.]
Come si collega il boom di Facebook, Twitter, Airbnb e di centinaia di piccole e grandi startup della Silicon Valley a un gruppo di mamme afroamericane senzatetto che decidono di occupare una casa vuota a Oakland?
In California nel 2019 c’erano centocinquantamila persone che vivevano per strada. Il numero di persone senzatetto a San Francisco è aumentato del 17% rispetto all’anno precedente. La California è anche lo stato con una delle più alte percentuali di milionari al mondo. Il divario tra ricchi e poveri è sempre stato ampio nei paesi capitalisti, ma questo scenario distopico in particolare è causato da due eventi ben specifici accaduti nel corso degli ultimi dieci anni. Primo, il fatto che la California si sia trasformata nel paradiso degli imprenditori e tra la Silicon Valley e i posti limitrofi siano nate alcune tra le compagnie più di successo che siano mai esistite. Secondo, la crisi dei mutui subprime del 2008, per cui migliaia di persone di reddito medio-basso si sono ritrovate la casa pignorata e molte di loro sono finite per strada.
La Silicon Valley richiede un capitale umano molto qualificato, che non è sempre riuscita a trovare in loco. Le Risorse Umane di tutta questa miriade di aziende setacciano da anni dipendenti dentro e fuori gli Stati Uniti per convincerli con buoni stipendi e lauti benefit a trasferirsi nell’assolata California, dove avranno poi bisogno di affittare una casa. A questo punto i proprietari, fiutando il trend, alzano l’affitto et voilà, il gioco è fatto. Così avviene la gentrificazione violenta di un posto: non importa se una persona ha abitato in una città per tutta la vita, se il suo stipendio non può competere con quelli di queste aziende cool, è fuori. San Francisco e le città vicine diventano troppo care e piene di ingegneri bianchi che lavorano per Uber o Airbnb, mentre la cameriera latina deve trasferirsi a due ore e mezzo di macchina per trovare una stanza che si può permettere.
Nel 2019, al picco di questa drammatica situazione abitativa, a Oakland – una città poco distante da San Francisco che subisce i fortissimi effetti della gentrificazione – si forma il collettivo delle Moms 4 Housing, “mamme per la casa”.
Dominique Walker, una delle fondatrici, racconta a Vogueche dopo avere studiato in Mississippi per l’università è tornata nella sua città natale e l’ha trovata stravolta. Nessuna delle persone che conosceva era più lì, i prezzi erano saliti, la città era completamente cambiata e per via della speculazione edilizia era un immenso cantiere. Negli anni dal 2017 al 2019 la popolazione di persone senza una casa ad Oakland è salita del 47%. Dominique si è ritrovata, notte dopo notte, a vivere in vari hotel perché non riusciva a trovare una casa in affitto a un canone accessibile. Il collettivo nasce dall’incontro tra Dominique e Misty Cross, un’altra donna con i suoi stessi problemi abitativi: Misty e i suoi quattro figli dormivano sui divani a casa di amici perchè non riuscivano a trovare una casa. La vita di Misty, peraltro, è resa particolarmente difficile dal fatto di aver dovuto imparare di nuovo a parlare e camminare a causa di una ferita da arma da fuoco cui è sopravvissuta nel 2006. Quando ha ripreso la parola, racconta, ha iniziato a lottare e non si è mai fermata.
[Alt Text: grafico che mostra il salario medio annuo della popolazione, suddivisa per genere ed etnia. Per poter abitare nella zona di Magnolia St. occorre un salario annuo di 86.900 dollari, e solo gli uomini bianchi lo raggiungono. Fonte.]
Le due donne iniziano a confrontarsi, pensare a soluzioni per la loro situazione e ne parlano attivamente all’interno della loro comunità. A novembre viene loro segnalata da alcuni membri del quartiere una casa a due piani vuota da due anni, al 2928 Magnolia Street. La porta è aperta: Walker e Cross ci entrano e la occupano, senza informare i proprietari. Sono solo loro due a questo punto. Ma chi sono i proprietari? Un grandissimo gruppo immobiliare specializzato nella vendita e gentrificazione dei quartieri, il Wedgewood Group, che possiede centinaia di case in California.
Questo gruppo immobiliare, insieme a molti altri, ha una strategia predatoria ben precisa: prendere di mira e acquistare case e appartamenti in quartieri “svalutati”, abitati soprattutto da afroamericani, ristrutturarle, alzare l’affitto e cacciare gli abitanti, che verranno rimpiazzati da piacevoli lavoratori del tech bianchi e con reddito più alto. Le case spesso vengono acquistate e lasciate vuote finché il quartiere non diventa più prestigioso. Questa pratica è talmente diffusa e accettata da avere una pagina dedicata su Investopedia, uno dei più famosi siti web che offre consigli sulle migliori strategie d’affari, ed è una cosa considerata normale tra chi è ricco e vuole investire. Gentrificare un quartiere rende bene. Tra il 2007 e il 2011 gli investitori hanno comprato il 42% delle case che sono state pignorate, e di queste più del 90% si trovavano in quartieri a basso reddito. Questo è anche il caso della casa in Magnolia Street occupata dalle Mom 4 Housing.
L’obiettivo nell’occupare questa casa specifica è duplice: avere finalmente un tetto e porre l’accento sulla loro condizione di donne senzatetto in una città che le vuole cacciare, evidenziando i danni della speculazione edilizia e di queste aziende-mostro che guadagnano sulla necessità delle persone che hanno bisogno di una casa.
La casa è un diritto, dicono chiaramente. E su questa base, tramite un’avvocata, rifiutano l’ingiunzione di sfratto del Wedgewood Group, che arriva tre settimane dopo l’occupazione della casa. Il giudice delibera contro di loro, ma Walker e Cross si rifiutano di andarsene.
[Alt Text: il vicinato circonda la casa di Magnolia St. ed esibisce cartelli e striscioni di rivendicazione, come “Casa per tuttx”, o di denuncia, come “Oakland: quattro case sfitte per ogni senzatetto”. Fonte.]
Quando la polizia arriva per sgomberarle, arrestando Cross, è proprio in quel momento che il quartiere si dimostra solidale: in centinaia tra vicini e sostenitori arrivano per lottare a fianco a loro, al grido di “Sfrattate gli speculatori!” e “Casa per tuttx!”. Grazie a tutte le persone che le hanno sostenute e all’esposizione mediatica, riescono ad allargare il loro collettivo e a ottenere che l’immobile venga venduto a un fondo che si preoccupa di mantenere i prezzi delle case accessibili per i residenti. Non si sa ancora, però, quando Walker e Cross potranno trasferirsi nuovamente nella casa. Nello stato e nella nazione più ricca del mondo, tuttavia, affidarsi a fondi caritatevoli non può essere la soluzione a un problema che di anno in anno peggiora.
La California al momento è uno degli stati con le regole più rigide riguardo l’emergenza coronavirus: è obbligatorio shelter-in-place, stare a casa e limitare il più possibile gli spostamenti. Ma come può stare a casa chi una casa non ce l’ha? Il governatore Gavin Newsom ha stanziato 50 milioni di dollari per affittare stanze in hotel che diano rifugio alle persone senzatetto durante la pandemia, ma per ora solo quindicimila stanze sono state trovate. Il numero delle persone senzatetto in California è dieci volte tanto.
La lotta per il diritto alla casa negli Stati Uniti è portata avanti soprattutto da persone non bianche, solitamente quelle con il tasso più alto di povertà e più a rischio di rimanere senza un tetto sopra la testa. Il 60% delle persone morte per coronavirus in questi mesi è nera. Quante di loro non avevano una casa o vivevano in spazi che non permettevano il distanziamento sociale? Quante di loro facevano lavori a rischio, non certo dentro un pulito ufficio di startup? Quante di loro sono state cacciate dalle città dove hanno sempre vissuto perché un gruppo di investitori ha deciso che il quartiere andava riqualificato e reso più abitabile e confortevole per le persone bianche?
Le Moms 4 Housing stanno combattendo una battaglia che ci deve coinvolgere tutt* nei prossimi mesi e anni. Ripetiamolo: la casa è un diritto, fuori gli speculatori dai nostri quartieri e dalle nostre città. Negli USA, in Italia, e ovunque.
Chiara Rizzi vive e lavora a Praga, è appassionata di urbanistica e di Europa dell'Est. Puoi seguire il suo canale Telegram dedicato a turismo e gentrificazione, e la trovi su Twitter.
È stata ufficialmente criminalizzata la mutilazione genitale femminile (MGF) in Sudan
Se ti è piaciuta l’analisi della figura di Maria offerta da Eleonora Casale nella Ghinea di aprile, puoi approfondire ed espandere l’argomento ascoltando questa intervista a Kathleen Gallagher Elkins, autrice del saggio Mary, Mother of Martyrs: How Motherhood Became Self-Sacrifice in Early Christianity.
Secrets of the Surface: The Mathematical Vision of Maryam Mirzakhani è un documentario sulla la prima (e finora unica) matematica ad aver vinto la medaglia Fields. Contiene brevi interviste ad alcune ragazze, allieve della scuola di Teheran dove Mirzakhani stessa ha studiato, le quali raccontano come la sua storia abbia permesso anche a loro di approcciarsi alla matematica sapendo che non era un “boys club” (un ambiente esclusivo per soli maschi).
In questi giorni si sarebbe potuto pure discutere di femminismo e di corpi delle donne – come è accaduto – ma lo si sarebbe dovuto fare prestando attenzione anche a quelle prospettive decoloniali, elaborate in contesti altri da quelli bianchi e occidentali, che mostrano come i percorsi di liberazione delle donne siano plurali e passino tanto dallo scoprire i corpi, quanto dal coprirli, e che questi percorsi possano avvenire fuori e dentro contesti religiosi.
Su Femministerie, la studiosa di femminismi islamici Renata Pepicelli commenta le reazioni alla conversione di Silvia Romano.
La questione dell’autodeterminazione delle libere soggettività transgender: la parola alle persone trans.
Il 22 maggio la legge 194/78 ha compiuto quarantadue anni, ma visto come viene applicata c’è poco da festeggiare. Dinamopress ha pubblicato le infografiche nate dalla collaborazione tra Non Una Di Meno, Obiezione Respinta e IVG-ho abortito e sto benissimo, che fotografano la situazione dell’aborto in Italia e avanzano delle proposte per far sì che diventi finalmente un servizio accessibile a tuttx.
[Alt Text: le proposte dei gruppi femministi per superare l’emergenza sanitaria relativa all’IVG, divise in quattro punti: eliminare la settimana di riflessione, autorizzare la somministrazione della RU486 nei consultori e senza ricovero, somministrare la RU486 fino alla nona settimana come fanno già in 12 paesi europei, rifinanziare i consultori.]
Esce finalmente in Italia Afro-ismo. Cultura pop, femminismo e veganismo nero di AphKo e Syl Ko, tradotto da feminoska di Lesbitches (che ne propongono il primo capitolo) e disponibile per l’acquisto sulla piattaforma Produzioni dal basso. Per l’occasione, animAliena ha tradotto un’intervista a Syl Ko. Di Afro-ismo ci aveva parlato Emelia Quinn nella Ghinea di novembre 2018:
In Aphro-ism: Essays on Pop Culture, Feminism, and Black Veganism from Two Sisters, Aph e Syl Ko esplorano la politica di stampo colonialista applicata alla categoria di "animalità", un'invenzione coloniale imposta come definizione sia dei corpi degli animali non umani che quelli degli animali “non del tutto umani”. Proseguono argomentando che “quello che le persone nere esperiscono non è un’oppressione ‘uguale’ a quella degli animali non umani: è parte della stessa oppressione” (90). Non esistendo alcuna proprietà generica e universale pertinente al termine “animale” che possa accuratamente e/o adeguatamente definire la moltitudine di esseri viventi accomunati nella categoria, le Ko assumono che il termine derivi da ideali bianchi ed eurocentrici elevati a parametri di ciò che conta come “umano”. Per certo, il concetto di “animalità” è parte di una lunga una storia che le Ko definiscono “un’arma razzista adoperata dalla supremazia bianca” (11) per distinguere i corpi non bianchi come “meno umani”. Per questa ragione le sorelle Ko ritengono che il binarismo umano/animale usato per giustificare lo sfruttamento degli animali perpetui una logica razzista che mette allo stesso livello l’“umano” con la supremazia bianca.
La politica del femminismo vegano nero ambisce a riflettere sulle cause strutturali e simboliche dell’oppressione: anziché ribadire semplicemente che le persone nere e di colore dovrebbero essere trattate come esseri umani e non come animali, si preferisce porre in discussione i preconcetti su cui si basa il trattamento degli animali. La mera accoglienza del suddetto argomento costituirebbe “un’aperta accettazione dello stato negativo di ‘animale’ […] che […] corrisponde a una tacita accettazione di un sistema gerarchico fondato su distinzione razziale e sulla supremazia bianca universale" (45). Ulteriori studi sul black veganism posso essere consultati presso questo sito, nel libro di Breeze Harper Sistah Vegan: Black Female Vegans Speak on Food, Identity, Health, and Society (2009) e presso il blog Sistah Vegan.
Nel suo ultimo libro pubblicato a febbraio, The Force of Nonviolence, Judith Butler identifica la nonviolenza come esempio di resistenza politica attiva alle forme più subdole e meno riconoscibili di violenza, per esempio quelle messe in atto attraverso precise scelte politiche volte a escludere o a creare diseguaglianze. Ora che gli Stati Uniti sono duramente colpiti dall’emergenza COVID-19, la lente di Butler risulta utile per guardare all’incidenza della malattia nelle comunità povere e tra le minoranze etniche e riconoscere la violenza, mirata e deliberata, che vi sta all’origine. Di questo ha parlato a lungo con Francis Wade di The Nation.
Il 6 maggio, proprio all’inizio della Fase 2, Federica Timeto ha immaginato per il manifesto un post-epidemia di autentica liberazione per tutti gli animali, umani e non.
[Alt Text: copertina del saggio di Sarah Schulman Conflict is not Abuse (2016), sullo sfondo di un cielo nuvoloso al tramonto il sottotitolo chiarisce la materia del libro: “Overstating Harm, Community Responsibility and the Duty of Repair”. Fonte.]
Scrivere del saggio del 2016 di Sarah Schulman Conflict is not Abuse presenta una serie di problemi lessicali: dato che nessuno dei lavori di Schulman è stato tradotto in italiano significa, per prima cosa, assumersi la responsabilità di proporre una traduzione di appoggio – provvisoria – dei concetti trattati, e dei loro nomi. La difficoltà principale, in realtà, è nel fatto che il pensiero italiano non possiede la stessa varietà di vocabolario (attenzione: non inferiore o insufficiente, ma semplicemente diversa) della speciale branca di sociologia narrativa di cui Schulman fa sfoggio.
In italiano “abuso” è, già di per sé, l’eccesso visibile, l’azione violenta, la costruzione illegale: ha il potenziale di un’azione generica, può avere valenza sia materiale che concettuale, suscitare reazioni ed effetti per una persona sola, un gruppo ristretto, una comunità allargata. Tradurre Conflict is not Abuse in “Conflitto non è abuso” è fuorviante rispetto all’operazione di estensione concettuale che Schulman tenta con il suo saggio. Riportare il significato angloamericano di abuse al suo valore polisemico più ampio – l’uso di qualcosa in una maniera nociva o moralmente sbagliata, il trattamento ingiusto, violento o crudele di una qualunque persona – è quello che Schulman si propone di fare. Abuse/abusive non è necessariamente o principalmente una caratteristica delle relazioni romantiche precipitate nel disagio, piuttosto, una parola che identifica e descrive relazioni tra pari in cui l’equilibrio è sbilanciato da violenze di vario tipo.
In italiano, però, togliere l’abuso dal conflitto sembra fare un torto alla diffusione dell’idea alla base di una presa di coscienza, individuale e collettiva, che può salvare vite. Significa complicare, quasi contraddire un concetto – quello della violenza di genere – che è ancora troppo debole nel dibattito italiano. In italiano parliamo di “violenza domestica”, “relazione violenta” per indicare quello che in inglese è, semplicemente, abuse. Infatti è comune l’uso dell’originale inglese anche in conversazioni italiane tra conoscitrici della materia, capita di incontrare l’errata italianizzazione “abusivo”, si sta facendo spazio la versione “abusante” o “maltrattante” per indicare sia la relazione che la controparte aggressiva. Finché il linguaggio stesso per descrivere il contesto di femminicidi, abusi sessuali e violenze domestiche resta gergo tecnico, dal suono grezzo e innaturale quando inserito in un discorso ordinario, la liceità del problema che vuole illustrare resterà incerta e contestabile. Importare strutture concettuali e pratiche testate in contesti peculiari, cercare di applicarle senza adattamenti, restrizioni, aggiunte a contesti politici, culturali e soprattutto linguistici diversi: un atteggiamento a volte ingenuo e spesso pericoloso, da controllare anche quando si affronta la lettura-commento di un testo ibrido come quello di Schulman. Il rischio di fornire contro-argomentazioni ai detrattori della violenza di genere, o suggerire che ogni tipo di violenza subita possa essere decostruita come un semplice caso di conflitto, o insinuare che senza prove non è possibile credere alle vittime, tuttavia, non ci appare come un’eventualità tale da farci desistere dal considerare, attraverso le argomentazioni di Schulman, le criticità al sistema concettuale, sociale e legale che stiamo creando. Il pericolo, al contrario, non sussiste una volta letto per intero il testo di Schulman. D’altronde, una delle citazioni di Edward Said scelte da Schulman stessa in apertura del secondo capitolo lo chiarisce: “la critica deve essere intesa come qualcosa che potenzia la vita”.
Schulman non è una negazionista dell’abuso relazionale, al contrario, legge simili dinamiche di abuso in contesti che non hanno nulla a che fare col genere, o molto più grandi di famiglie e coppie. La metodologia di Schulman è mista, volutamente non accademica, ma aneddotica, la ricerca fondata prevalentemente sull’esperienza piuttosto che sull’esperimento o la statistica, il lessico di lavoro preso in prestito da conversazioni private, corsi di aggiornamento, email e racconti di terzi. Sarah Schulman è una scrittrice e attivista statunitense, insegna all’università pubblica di New York e si occupa soprattutto della storia dell’epidemia di AIDS negli USA tra gli anni ’80 e ’90. Il suo pensiero è radicato nei luoghi in cui vive e informato dalla storia geopolitica che ha vissuto, e questa specificità contribuisce a complicare la traduzione e l’applicabilità delle sue idee nel nostro contesto. Il principio secondo cui Schulman pensa è lo stesso che applica alla sua scrittura creativa, buon senso piuttosto che pratica filosofica: “C’è un motivo per cui le persone agiscono in un certo modo”, “Le verità possono essere multiple, e sono rivelate dall’ordine degli eventi”. I suoi casi studio sono litigi tra coppie di amiche lesbiche, storie di persone con HIV discriminate dalla legislazione canadese attraverso l’obbligo di dichiarazione della sieropositività, l’occupazione israeliana in Palestina, incomprensioni con studenti o colleghi docenti, il razzismo violento della polizia statunitense. La dinamica di potere comune a tutti gli esempi di Schulman si riduce al quesito: come reagisce la comunità quando esiste un conflitto tra i suoi membri? Cerca di distinguere il conflitto normativo – il litigio fisiologico che nasce dalla differenza – dall’abuso di potere? Se sì, incoraggia la comprensione tra le parti oppure ripudia, a mo’ di capro espiatorio, la controparte a cui viene data la colpa? E se riscontra un abuso, si sforza di promuovere una qualche forma di giustizia riparativa?
Al centro della mia visione c’è il riconoscimento che, prima di tutto, la fonte della risoluzione è nella comunità attorno al Conflitto. La comunità detiene la responsabilità di opporre resistenza davanti a una reazione eccessiva alla differenza, e offrire alternative di comprensione e complessità. Dobbiamo aiutarci a vicenda per indicare e contrastare il ruolo dell’esagerazione del danno (‘overstating harm’) invece di usarla per giustificare crudeltà.
Schulman lamenta la tendenza a usare abuse esclusivamente nel contesto del regolamento di questioni private, ed è critica rispetto alla prassi che ha stabilito abusive come parola d’ordine, epiteto insindacabile per distinguere la persona “buona” da quella “cattiva”. Ormai, secondo Schulman, sembra sufficiente pronunciare la parola abuse o usare frasi fatte come he’s abusing me, o she’s abusive, per vedersi garantite attenzione, protezione e, soprattutto, la parte della ragione. Ma, ci ricorda, esistono zone grigie molto più comuni e sfumate (e complesse) di nette divisioni tra bianco e nero. Tradotto in italiano, il problema sembra non sussistere perché la lingua non permette un’ambiguità tale: nessun* direbbe del/la partner “è abusante” o “mi abusa”, la richiesta di aiuto implica in sé la descrizione precisa dell’azione commessa – “mi picchia”, “mi impedisce di uscire”, “controlla il mio conto corrente”, ecc. – e proprio questa precisione, come vedremo più avanti, permette una migliore valutazione caso per caso, oltre che traslare la prassi oltre la violenza domestica o di genere. Schulman ammonisce contro la “verginità etica” che si accaparra chi si definisce “vittima”: uno status di intoccabilità garantito dall’assenza di domande o richieste di spiegazioni da parte della comunità che attornia i soggetti. In un Twitter thread che abbiamo segnalato nella Ghinea di novembre, Vincenzo Latronico scrive che non è necessario credere subito, però bisogna aspettare a dubitare. Ci sembra che entrambi stiano indicando una sfumatura etica essenziale: nel momento in cui una persona lamenta un’ingiustizia è doveroso credere che il suo dolore sia valido, meritevole di indagine e fact-checking. Dare ragione senza ombra di dubbio alla controparte che si definisce offesa, perché corrisponde all’identikit della vittima tipo, perché è una donna contro un uomo, o la persona opposta a quella che vogliamo cancellare.
Il binarismo vittima/abuser, scrive Schulman, semplifica la confusione etica stabilendo a priori torti e ragioni, cancellando l’idea che la relazione è creata da azioni e reazioni di più parti, ognuna con una propria versione, preoccupazioni e diritti da tenere in considerazione. La responsabilità cui accenna Schulman non è ammissione di colpevolezza, o una variante di “eh ma l’avrai provocato!”, quanto una valutazione della propria presenza, una riflessione sul proprio ruolo all’interno della relazione. E ognun*, a prescindere dai torti subiti, ha una responsabilità rispetto a quello che dice e fa: “Avanzare un’accusa non ci dà ragione, arrabbiarsi non ci dà ragione, rifiutarsi di comunicare non ci dà ragione. Invece, tutte queste cose potrebbero farci sbagliare di grosso”. Il paradosso, Schulman nota, è che mentre molte persone, soprattutto donne, faticano a riconoscere e a vedere riconosciuto l’abuso fisico, psicologico, economico di cui sono vittime, molte altre persone, donne incluse, definiscono “abuso” situazioni e sentimenti che non riescono a controllare, risolvere o negoziare, anche se si tratta di conflitti in cui hanno una parte di responsabilità.
L’ingiustizia permessa dalla lingua inglese che Schulman denuncia, però, non è affatto affine al victim-blaming, all’atmosfera pretestuosa di “caccia alle streghe”, al terrore di essere denunciati – metooed – sotto il regime della cancel culture. Al contrario, Schulman si chiede come e quando è successo che solo denunciandosi come vittime di un abuso si ha la garanzia che il proprio dolore verrà riconosciuto e preso sul serio. In una società che raziona compassione e strumenti di supporto, drammatizzare il proprio conflitto per sollecitare attenzione è la mossa più elementare. Ogni sofferenza è legittima – percepire violenza come tale la rende autentica – ma nessuna sofferenza legittima la perpetrazione di altri attacchi. E se la distinzione tra conflitto e abuso non è chiara, anzi, se i due concetti vengono trattati come sinonimi di una stessa violenza, il ciclo dell’aggressività si autoalimenta.
A Schulman non interessa, o forse non si perita di definire che cosa costituisce un abuso, preferisce recuperare il potenziale evolutivo del conflitto, e separare i due concetti osservando dinamica e carattere del potere. Se si tratta di power struggle, “lotta di potere”, è un conflitto tra volontà e desideri discordi, da risolvere senza dichiarare un vincitore, ma esplorando uno spazio di evoluzione per le parti. Se si tratta di power over, “presa di potere”, l’abuso è inevitabile perché il controllo della relazione è sbilanciato. Schulman non spiega come orientarsi nella zona grigia tra lotta e presa di potere: invita a usare buon senso, individuale e soprattutto comunitario.
Schulman fa risalire alla prassi culturale dell’esagerazione del danno (“overstating harm”) la tendenza a fondere conflitto e abuso:
Senza in alcun modo minimizzare il ruolo della violenza nelle nostre vite, osservo, simultaneamente, come l’amplificazione retorica della minaccia confonde l’assenza di azioni, il conflitto normativo e la resistenza con l’abuso autentico hanno prodotto una diffusa pratica di esagerazione del danno. E l’esagerazione del danno spesso si esprime con il ripudio (“shunning”), il rifiuto letterale di parlare di persona con un altro essere umano, o un gruppo di persone, un’esclusione delle loro informazioni, l’attivo impedimento che una persona possa essere ascoltata e la presunzione che non esistano.
Quando qualcosa come un litigio, un’opinione diversa, una delusione, un fenotipo, la sieropositività, la resistenza all’occupazione militare viene ricostruita e raccontata come un attacco, secondo Schulman si tratta di drammatizzazione. È mediante la complicità del gruppo – il sistema di amici, “the cadre of friends” – che si elabora una definizione del danno tale da renderlo risultato di un abuso, invece che scontro tra parti in conflitto. Un gruppo che alimenta un pensiero distorto, pretende alti livelli di controllo dei suoi membri e non tollera differenze o autocritiche opera secondo un’ideologia suprematista le cui basi, però, possono essere radicate in un trauma passato o condizionamenti legati a stati d’ansia o malattia mentale, oppure frutto di una fabbricazione politica. In sostanza, condizionamenti che impediscono di considerare il quadro generale di una situazione e immaginare conseguenza a lungo termine per tutte le parti in causa.
Se la comunità è il crocevia delle definizioni di conflitto, abuso, punizione e riappacificazione, Schulman indica nella conversazione lo strumento più efficace per avvicinarsi alla risoluzione del conflitto. Tuttavia, è importante sottolineare che Schulman sceglie volutamente di limitarsi alla gestione del conflitto che non ha bisogno di ricorrere all’assistenza istituzionale. La giustizia di cui Schulman parla, infatti, non è da intendersi come obiettivo legale, e gli atti punitivi che descrive non sono penali, ma sociali. Non immischiarsi, badare ai fatti propri, rifiutare l’argomentazione contraria di amici, nemici e potenziali alleati se contraddice quella in cui vogliamo credere, dimostrare lealtà accettando come oggettivi resoconti di una sola persona, pensare per slogan riduttivi come believe all women, no means no (cui aggiungiamo not all men e all men are trash): pratiche sociali assimilate come diritti che Schulman definisce distorte, alla base di una logica fatalistica per cui “[...] il desiderio di riparazione è inteso come un assalto, la proiezione di fantasie negative è intesa come un diritto”.
Il controllo sociale basato sulla colpa e sulla vergogna causa resoconti semplificati in cui la complessità di ogni persona è necessariamente ridotta ai minimi termini per attrarre il beneficio della fiducia e il supporto della comunità: “In un mondo basato sulla colpa, le donne devono essere chiare per essere innocenti, quindi, sfortunatamente, evitare la colpa significa evitare la complessità, le contraddizioni, le ambivalenze”. “Capire che cosa sta succedendo è più importante che decidere chi punire”: fare domande è opportuno, fare le domande giuste è importante: “di cosa hai paura?”, “sei in pericolo, oppure di senti a disagio, arrabbiat_, ferit_?”.
A volte una persona nella nostra vita – amico, studente, vicina, parente – fa insinuazioni negative rispetto una terza persona (“è un abuser/partner violento”, “è una stalker”) e vuole che trattiamo con freddezza, escludiamo o puniamo in altri modi questa persona. La nostra prima responsabilità è determinare se la persona si trova esposta a una vera minaccia di violenza fisica. Se non lo è, dobbiamo chiedere di ripercorrere insieme l’ordine degli eventi in modo da rivelare le complessità della situazione e della sua storia. Non è etico ferire qualcuno solo perché ci è stato chiesto di farlo.
Il compito immediato che Schulman raccomanda per chi si trova a convivere in comunità con persone le cui azioni inaspriscono in gravità (“people who are escalating”) è capire quale trauma passato o paura per il futuro causano l’inasprimento della reazione nel presente: “questa è la responsabilità dell’amicizia autentica, la vera definizione dell’amore”. Nominare il dolore, indagarne l’origine, rintracciare responsabilità non per punire, ma per comprendere, accettare che il conflitto è causato da uno scontro tra le parti, ognuna delle quali include simultaneità di motivazioni, sfumature, debolezze e aree grigie, aprirsi all’autocritica, offrire o cercare aiuto: sono le azioni che la persona e il gruppo intenzionati a risolvere conflitti e riparare i danni degli abusi vogliono intraprendere.
Per approfondire: conferenze pubbliche di Sarah Schulman, e recensioni che evidenziano pro e contro della proposta di Schulman.
FATTO DA NOI
Marzia ha raccontato della poesia di immersione ed evasione di Patrizia Vicinelli come parte di FuoriClasse: appunti per una scuola eco-transfemminista (Non Una Di Meno – Milano e di Fridays For Future Milano).
Francesca ha riflettuto, per Il Tascabile, sul racconto dell’epidemia nel romanzo Jane Eyre di Charlotte Brontë per parlare di gestione dell’emergenza sanitaria, dimensione collettiva del lutto e il rischio della gentrificazione del disastro quando si progetta un “dopo”. Ne ha poi parlato con alcune studentesse del liceo Ariosto di Ferrara in un’intervista per BookBlog, il canale delle ragazze e dei ragazzi del Salone del libro di Torino.
FATTO DA VOI
Su Instagram continuano gli approfondimenti letterari curati da Martina Neglia: a maggio ha coinvolto Sara Deon in un’avventura russa, da cui sono nate due conversazioni su Marina Cvetaeva, e su Anna Achmatova e Nina Berberova. Con Monia Valente ha invece dialogato di Edith Södergran e Karin Boye. Martina ha anche partecipato al progetto #donneoblique della casa editrice Safarà e chiacchierato con Cristina Pascotto di Una ragazza lasciata a metà, il romanzo d’esordio di Eimear McBride.
Su L’indiependente, Elisa Lipari recensisceFemminili singolari di Vera Gheno.
Novità indipendenti in italiano: la newsletter sullo sport femminile Zarina e il podcast Le intrepide.
UN LIBRO
Postporno. Corpi liberi di sperimentare per sovvertire gli immaginari sessuali di Valentine aka Fluida Wolf (2020)
[Alt Text: ritratto di Valentine aka Fluida Wolf durante l’intervista nuda con Le sex en rose. Fonte.]
Nel 2017 Ovidie, con il suo documentario Pornocratie. Les nouvelles multinationales du sexe denuncia l’orribile realtà della fruizione di pornografia odierna. Mentre le produzioni indipendenti sono al collasso, MindGeek gestisce quasi in solitaria l’enorme mole di pornografia gratuita online presente sui diversi canali che nel tempo ha acquistato e raccolto sotto il proprio ombrello finanziario. La violenza capitalistica affligge nel quotidiano le persone coinvolte in questa industria e i dati rivelano che “l’80% del materiale messo online da queste piattaforme non è stato né da loro acquistato né messo lì con il consenso di chi l’ha prodotto o di chi vi ha recitato”.
Guardare la pornografia, guardare alla pornografia, praticare la pornografia: ma cosa vuole dire pornografia, dal suo etimo alla sua multipla evoluzione e declinazione a livello mondiale nelle forme e nei modi più disparati? Cosa vuole dire compiere un superamento del porno brutale gestito dalla MindGeek per una pornografia che liberi e soddisfi?
Il postporno non è solo un’alternativa al porno mainstream ma una pratica consapevole di soggetti politici (perlopiù anonimi) che si sottraggono ai sistemi di produzione, commercializzazione, e fruizione mainstream. E se è vero che può essere “alternativo, amatoriale, casalingo, indie”, il postporno “non è solo questo” (Lucía Egaña Rojas).
Il libro di Valentine (aka Fluida Wolf), ripercorre i significati della pornografia a partire dalla sua radice e fino all’orizzonte della liberazione di ogni corpo e ogni desiderio: si attraversano quindi i moti abolizionisti deu lavoratoru del sesso, il porno femminista, l’incontro e la fioritura di teorie sessuali e pratiche di condivisione del sapere sessuale, il pornoterrorismo e molto altro ancora.
Con spirito critico perfettamente calato nella dimensione socio-politica, e con riferimenti nominali e testuali a persone, manifesti, ed eventi utili a una ricerca a seguire, Valentine osserva come negando una soggettività attiva au sex workers l’abolizionismo depone il potere nelle mani delle istituzioni governative che, come per i produttori di pornografia, sono composte (soprattutto) da soggetti maschili. Attraverso la delega legislativa che regola l’esistenza lavorativa si impone una cancellazione affatto risolutiva a livello sistematico e che, invece, va ad alimentare la disparità rappresentativa, mettendo a tacere le richieste legittime delle lavoratrici del campo sessuale (il femminile è voluto per indicare anche la disparità di genere nel campo del lavoro sessuale, dove soggetti femminili e/o non-maschili ad oggi subiscono maggiormente la cancellazione e l’abuso).
La pornografia diventa una lente attraverso la quale osservare le dinamiche di potere nel mondo eteropatriarcale che classifica il piacere di tuttu come inadeguato, rafforzando in ogni contesto pratiche di sottomissione e falsata rappresentazione. Come nei diversi campi del lavoro e delle arti, attraverso il femminismo si sono avviate una serie di pratiche di riscrittura e di produzione di materiale che rispondesse alle esigenze erotiche diversificate. Questo materiale resta universalmente fruibile e godibile ma viene prodotto in un orizzonte che mette il desiderio femminile come target principale, svelando possibilità di erotismo fino ad allora ignorate anche dagli uomini (come nel caso di Candida Royalle, Femme Productions).
Ma da dove si comincia a contare il tempo del post-porno?
La geografa e attivista queer Rachele Borghi, del collettivo Zarra Bonheur, nel suo fondamentale articolo dal titolo “Postporno. Questo porno che non è un porno”, considera “a public cervix announcement” [“un annuncio di servizio/cervice pubblicu”, ndr] un momento di rottura esplicita.
In questo evento vulvocentrico, Annie Sprinkle compie di fatto una serie di rovesciamenti che marcano la distanza dal mainstream e dai ruoli assegnati (ai soggetti come al porno stesso). L’evento risponde esattamente a quello che descrive il titolo: un servizio pubblico (la lezione), fruibile nella pratica (le persone sono invitate a prendere parte all’evento fisicamente), l’uso di una terminologia della sfera dominante (annuncio) solitamente messa a servizio dell’idiozia di certe strutture del sapere che non rispondono alle esigenze di conoscenza dei corpi e delle molteplici funzioni oltre-figurative e, soprattutto, attraverso la forte ironia che ne contraddistingue, uno scardinamento della carica sessuale dai flussi normativi.
Nell’esperienza, che è personale e condivisa, Valentine ci accompagna nel suo percorso formativo e di liberazione che è anche collettivo e fatto di luoghi e di riflessione sugli stessi. Ci si concentra su Barcellona nei primi anni del duemila: “Queeruption, tenutosi in una vecchia fabbrica occupata nel 2006, è un momento di svolta per la nascita della postpornografia barcellonese e sottolinea come il discorso postpornografico si dia prevalentemente ai margini delle istituzioni e indipendentemente da queste”. E ci si sposta poi a Roma, al Ladyfest, con le pratiche del desiderio di Slavina e il workshop sull’eiaculazione per fiche di Diana J. Torres. Non manca una riflessione geopolitica su discorsi e pratiche di egemonia culturale (a partire dalle riflessioni di Sam Bourcier), per domandarsi: da dove viene il postporno e come viene riletto nell’esperienza decolonizzata, se possibile? Valentine presenta esempi di uno sguardo postcoloniale su termini e pratiche nell’America-Latina, citando ad esempio le azioni urbane non-consensuali che rovesciano la violenza del potere (dalla “scoperta” delle americhe – come presentata nei curricula scolastici eurocentrici – fino alle dominazioni odierne) e a questo falso eroismo rispondono con erotismo terroristico.
Teoria ed esperienza si mescolano, una lettura approfondita diPornotopia di Paul B. Preciado e una pratica eco-femminista di canalizzazione del desiderio verso e attraverso gli elementi naturali (“Che sensazione dà strofinare un corpo contro un tronco? Che cosa si prova nel farsi accarezzare dai petali di un fiore? Quali risvegli ci provoca infilare le nostre dita nel terriccio bagnato?”) sono vie percorribili in direzione del postporno e dentro il postporno. Non importa come si arrivi al postporno, l’importante è starci comod*; e questo lo permette il fatto che ogni corpo, ogni identità, ogni orientamento sessuale è non solo considerato valido ma esaltato, apprezzato. La fantasia di un soggetto si rivela la base per un’altra, ci si rimpalla la gioia del desiderio, si centralizza l’esperienza erotica come politica.
Come ci ricorda anche Annie Sprinkle nel trailer di FEMALE EJACULATION & Other Mysteries Of The Universe: ogni cosa è politica. Ogni cosa è erotica. E allora godiamone.
UNA PITTRICE
La conciliazione degli opposti nel percorso messicano di Remedios Varo
di Celeste Zanzi
[Alt Text: ritratto fotografico in bianco e nero di Remedios Varo. Fonte.]
Se il clima iconoclasta della Parigi surrealista anni Venti e Trenta tende a recuperare la parte dell’essere umano che la cultura ha mutilato, e vede la ricerca di comunicazione con l’irrazionale concretizzarsi in forme di produzione pittorica razionalizzate in cui l’artista ricerca una fusione col mondo Altro, è in Messico che questa attività compiutamente si realizza per Remedios Varo. Il Messico diventa infatti lieu électif per il cammino spirituale e artistico di Varo che, attraverso gli studi esoterici e in particolare alchemici, trova una nuova consapevolezza di sé e una profonda connessione con questo territorio.
Remedios Varo nasce il 16 dicembre 1908 ad Anglés, in Spagna. Sin da bambina viaggia moltissimo insieme al padre, ingegnere specializzato in opere idrauliche. I frequenti spostamenti la segnano: è infatti attraverso l’incontro con culture, usi e costumi sempre diversi che avviene la sua prima formazione, al di fuori del campo istituzionale. Sin dall’infanzia si dimostra insofferente ai percorsi educativi tradizionali, preferendo agli insegnamenti impartiti dalle monache del collegio che frequenta la lettura di romanzi fantastici, la scrittura e la pittura. La famiglia nota questo talento e il padre, contravvenendo alle norme dell’epoca che prevedevano la concessione di simili opportunità soltanto ai figli maschi, decide di iscriverla all’Accademia di San Fernando di Madrid. Una scuola prestigiosa, in cui Varo si ritrova immersa nello spirito innovatore che pervadeva l’ambiente artistico spagnolo del periodo.
Dopo gli studi accademici, per allontanarsi dal perbenismo spagnolo e raggiungere così una prima indipendenza, sposa Geraldo Lizarraga, compagno di studi e artista politicamente impegnato che sogna, come lei, uno stile di vita più bohémien, in contrasto con la vigente attitudine borghese del mondo loro circostante. I due si trasferiscono a Parigi nel 1931, lasciandosi alle spalle i disordini civili e le guerriglie interne che seguono l’avvento della Seconda Repubblica, dopo anni di dittatura militare, e il cui risolvimento sembra lontano dal raggiungersi. Alla difficile situazione politica spagnola Remedios e Geraldo preferiscono il vivace ambiente artistico parigino, che sarà luogo di liberazione in cui far fluire gli impulsi creativi. La partecipazione alle conversazioni degli intellettuali dell’epoca nei cafés introduce Varo a un nuovo mondo, è la scintilla della sua maturazione in campo pittorico. In questi anni Varo si dedica anche allo studio delle scienze esoteriche che, come vedremo, saranno fondamentali nella sua produzione.
Al soggiorno parigino segue un periodo trascorso a Barcellona, città più liberale e cosmopolita rispetto a Madrid, in cui Varo continua a partecipare alle attività artistiche, ma che dovrà abbandonare quando la Repubblica, ormai in crisi irreversibile, non riuscendo a mantenere la stabilità interna tradisce la promessa di un regime progressista: nel 1936, a seguito di una escalation di violenza, Francisco Franco instaura un nuovo regime dittatoriale. Varo torna a Parigi l’anno seguente insieme al poeta Benjamin Péret, suo nuovo compagno, ma questo secondo periodo parigino diventa un esilio forzato quando Franco chiude le frontiere spagnole a tutti coloro che hanno avuto contatti con la Repubblica: l’artista è ormai compromessa dalla frequentazione con Perét, pubblicamente partecipe delle attività comuniste in terra spagnola, e non può più fare ritorno alla sua terra. Nel 1939, allo scoppio del Secondo conflitto mondiale, Varo si ritrova ‘‘straniera’’ in Francia: rischia di essere deportata in Spagna, in cui dovrà subire la dittatura di Franco e, per via della relazione con Perét, l’esecuzione. Dopo un arresto, e dopo l’entrata dei tedeschi a Parigi nel 1940, la necessità di fuga si fa concreta. Per via dei precedenti politici di Perét non viene loro concesso l’ingresso in terra statunitense, e i due decidono di ripiegare sul Messico, che offre protezione a tutti i rifugiati spagnoli e a tutti i membri delle brigate internazionali che si trovavano in Francia. Nel 1941 arrivano a Città del Messico, città in cui Varo, negli anni a venire, stabilirà la sua reputazione artistica e continuerà il suo viaggio, non più materiale ma soprattutto spirituale.
Il territorio sudamericano si configura come antitesi della cultura europea, con la sua cultura non domata dalla logica e una tendenza animista che carica di significato spirituale il quotidiano e con la sua spontanea attitudine alla percezione soggettivata. È in questa alterità che Varo trova una consonanza con il proprio mondo interiore: il Messico è il luogo in cui sente di poter vivere in
L’arte vitalista, fluida, che nasce dalle profondità dell’io, sviluppata da Varo in questo periodo vede la dimensione sovrannaturale in cui domina l’illogico come direttamente connessa con le forze della natura. La donna, collegata a questi poteri, è in grado di aprirsi un varco nel percorso verso l’ignoto, per raggiungere uno stato superiore di consapevolezza. Il mondo nascosto si pone allora come alternativo a quello sottoposto al controllo razionale, e Varo lo rappresenta con un linguaggio nuovo: unisce la propria femminilità alla funzione creatrice, diventando depositaria di una conoscenza ermetica. L’uso di immagini simboliche si ricollega quindi alle rappresentazioni esoteriche, che nascondono nei segni significati riconoscibili soltanto dagli iniziati. La produzione artistica è densa di riferimenti al viaggio intrapreso verso questa conoscenza che supera le contingenze materiali ed entra nel reame dello spirituale.
[Alt Text: La Llamada, 1961. Fonte.]
Varo dipinge in La Llamada un alter ego di se stessa: la Donna rappresentata è misteriosa detentrice di poteri, non ascrivibile a un ruolo subordinato all’uomo. Varo fa uso del misticismo per orientare la visione della femminilità verso un mondo in cui l’irrazionale domina e l’artista, carica di potere creativo e generativo, la Donna dipinta accetta la “Chiamata’’ mentre le figure intorno a lei appaiono sonnolenti, immobili: è lei la protagonista in grado di far uso della materia magica per accedere a una realtà superiore. La Donna illuminata produce intorno a sé una luce mistica, eterea. La chiamata è il primo stadio del viaggio che rende l’artista (colei che compie l’atto di camminare, l’iniziata all’esplorazione mistica), dotata di una luminosità ultraterrena che irradia un potere sconosciuto alle figure grigie rappresentate nello sfondo intorno a lei. Il viaggio mistico è quello dell’alchimista, che mediante la trasmutazione degli elementi purifica la materia e, nel proprio percorso terreno, raggiunge la conoscenza autentica, arrivando così a conoscersi e riconoscersi, senza scissioni fra materialità e spiritualità. Gli stadi alchemici sono stati essenziali dell’esistenza, e la metamorfosi spirituale che conduce alla conoscenza di sé, all’elevazione dello spirito, trova infatti un parallelo nelle figure rappresentate da Varo.
[Alt Text: a sinistra, Rompiendo el círculo vicioso, 1962. Fonte. A destra, Luz emergente, 1962. Fonte.]
In Rompiendo el circulo vicioso Varo dipinge una donna elettrificata che si impadronisce del controllo e si libera dalla passività e dalle limitazioni: le corde, metafora della condizione umana, non la possono più contenere. Accede così allo stato di demiurgo, e può avventurarsi nel suo cammino. La foresta che le appare nel petto è simbolo della sua appartenenza alla natura, il luogo dove abita il suo inconscio, a cui può finalmente accedere ora che ha rotto il circolo vizioso, permettendo alla sua energia di fluire liberamente. In Luz emergente la ricerca personale della conoscenza spirituale viene visualizzata attraverso la figura di una donna che fuoriesce dall’oscurità ed entra nella luce, lacerando la carta da parati che la conteneva: l’artista rinasce così come portatrice di verità, resa simbolicamente attraverso il lume acceso che porta con sé.
La conquista di uno stato di coscienza superiore attraverso il superamento della condizione che impedisce l’illuminazione la rende creatrice in perfetto accordo con il mondo naturale. L’alchimia viene infatti studiata come via per una conoscenza autentica che si astrae dal sistema logico per orientarsi verso il meraviglioso, aspirando al raggiungimento di uno stato di conciliazione. La conciliazione degli stati contraddittori è infatti un raggiungimento analogo a quello conseguente il processo di trasmutazione alchemica. Nell’itinerario alchemico di lavorazione della materia che conduce gradualmente alla metamorfosi personale e spirituale dell’alchimista si succedono quattro processi: nigredo, associato alla terra e al piombo, fase di caos, decomposizione e separazione; albedo, associato all’acqua, fase di purificazione; citrinitas, associato all’aria, fase di sublimazione e combustione e per ultimo rubedo, associato al fuoco in cui avviene la fusione tra maschile e femminile e il matrimonio tra anima, spirito e corpo.
[Alt Text: Renacer, 1960. Fonte.]
I mutamenti e i passaggi alchemici sono quindi concepiti come stadi essenziali dell’esistenza, in cui l’artista si pone in metamorfosi fisica e spirituale continua per arrivare alla conoscenza di sé e realizzare il proprio potenziale. In Renacer il colore rosso è associato alla rubedo, fase finale di trasmutazione e rinascita del soggetto che compie il percorso alchemico, cui allude il titolo. La figura osserva il riflesso della luna, simbolo della transizione ciclica della natura, in una coppa. Varo si fa portatrice di una metafora potente di creatività, costruendo nei dipinti rappresentazioni di un mondo in cui il percorso che porta alla conciliazione degli opposti rende l’artista-alchimista portatrice di Verità.
Varo riconosce in questo processo metamorfico il proprio percorso artistico ed esistenziale, e ne fa uso per interiorizzare la propria Musa, che diventa incorporata nel sé: non più oggetto passivo ma soggetto fuso in un insieme, nell’unità integrale e psichica che annulla la dualità corpo/mente assimilando la corporeità nella trascendenza. Questo processo porta infatti al superamento della complementarità, all’unità degli opposti che annulla la dualità per cui il corpo e la carnalità vissuti come sessualità non corrompono l’attesa rigenerazione (ultima fase del processo alchemico), ma anzi coadiuvano il suo manifestarsi, e l’esperienza terrena vissuta nella propria corporeità si assimila alla luce che invita a una elevazione verso il trascendente. Il matrimonio alchemico (in cui la materia grezza è diventata pietra filosofale), è quindi inteso come rebis, unione degli opposti, e viene rappresentato simbolicamente come un androgino, fusione dell’elemento maschile e femminile che in equilibrio dinamico concorrono all’armonia.
[Alt Text: L’androgino-alchimista intentx all’atto creativo in Armonia, 1956. Fonte.]
In Messico Varo continua, lungo il corso degli anni Quaranta e Cinquanta e fino alla morte, avvenuta nel 1963, a elaborare una personale narrazione delle possibilità connesse alla presa di coscienza che si fa motore di metamorfosi, in costante rapporto con il mondo naturale. L’importanza rivestita dal luogo, in cui la magia è pratica quotidiana e questo senso del magico permette di annullare la distanza fra reale e percepito, nella maturazione artistica di Remedios Varo è testimonianza diretta dell’importanza che riveste il contesto sociale in cui operano gli artisti.
Celeste Zanzi è cresciuta in una casa il cui inno ufficiale è You Don’t Own Me di Lesley Gore e il culto ufficiale è Edith Piaf. Ha sempre vissuto vicino al mare. La sua vita è un pasticcio caotico ma ha una colonna sonora orecchiabile. È brava ma non si applica, e sta ancora cercando di capire cosa vorrebbe fare da grande.
Ringraziamo Ludovica, Chiara, Celeste per i loro contributi, e la casa editrice Eris per averci proposto il testo Postporno. Ci rileggiamo il 30 giugno!
Un abbraccio.
Francesca, Gloria e Marzia