La ghinea di aprile
Benvenutu a Ghinea, la newsletter che compie due anni! Sebbene questo momento non consenta allegria e festeggiamenti, siamo felici di essere riuscite a creare uno spazio il più possibile condiviso, a disposizione di tuttx, e ringraziamo tutte le persone che hanno fatto in modo che questo avvenisse: chi ci legge, chi ha contribuito con parole e immagini e chi ci ha mandato critiche e consigli. Siamo dunque molto contente che il numero di oggi ospiti ben tre interventi esterni e due bellissime illustrazioni di Ester Orellana.
Questo mese torna Ludovica C. per parlarci di gender economics, ovvero la branca delle scienze economiche che studia l’interazione tra fenomeni economici e genere. È la prima di due puntate: in questa Ghinea Ludovica commenterà alcuni classici studi sulla “competizione” maschile e femminile, il mese prossimo tornerà per parlarci della nozione di “rischio” in termini di genere. Inoltre, Eleonora Casale ci aiuta a discutere la figura della Vergine Maria, costruita per rappresentare un deliberato modello escludente di femminilità. Poi, un estratto dal nuovo libro Rocket Girls di Laura Gramuglia.
Vogliamo ringraziare tutte le persone che hanno contribuito a Ghinea con il loro lavoro negli ultimi due anni: Chiara Sélavy, Rebecca Santimaria, Chiara Rizzi, Ester Orellana, Federica Bordin, Marta Corato, Elisa Cuter, Dario Denta, Marianna Crasto, Claudia Gifuni, Ornella Mignella, Martina Neglia, Alessia Ragno, Serena Talento, Stefania Serra, Caterina Massarenti, Francesca Balestrieri, Emelia Quinn, Francesca Morini, Marta Magni, Eleonora Casale, Simona Iamonte, Lino Caetani, Jonathan Bazzi, Enrico Gullo, Ludovica C., Celeste Zanzi, Sofia Racco, Elisa Lipari, Laura Gramuglia, Sara Paglia, Eugenia Giovanna Campanella, Fabiola Fiocco, Giulia Pistone e Victoria Chuminok. Grazie alla redazione di inutile, dove tutto è cominciato. E grazie anche a chi ci ha concesso un’intervista: il collettivo Feministas Non Gratxs ed Elia A.G. Arfini.
Buona lettura!
Competizione: tra esperimenti sociali e società matrilineari
di Ludovica C.
Molto spesso, quando i media riprendono un articolo scientifico per divulgarne i risultati, ne riassumono il contenuto in poche frasi. Allo stesso modo, anche il dibattito dei corridoi delle università che segue, ad esempio, un seminario o una pubblicazione, può tendere a concentrarsi su una singola idea contenuta nello stesso. In teoria, saper descrivere sinteticamente i risultati di un’analisi è una qualità, in pratica però può significare nascondere sotto il tappeto complessità che invece andrebbero tenute ben visibili.
Quello che segue è il tentativo di sviscerare una di queste affermazioni: le femmine sono meno competitive dei maschi. Nella letteratura scientifica economica si trovano diversi progetti di ricerca, basati su dati ricavati da esperimenti, i cui risultati mostrano delle differenze fra i due gruppi di partecipanti (uomini e donne) che, apparentemente, vanno in questa direzione. Uno dei problemi propri del campo scientifico, però, è proprio quello di fermarsi a un livello di analisi superficiale, che non cerca di verificare l’ipotesi, dandola forse per scontata: cioè che la differenza osservata dipenda dal genere, e non, piuttosto, da fattori sociali e culturali.
Tutti gli articoli descritti qui sotto fanno uso di esperimenti sociali: si tratta di una prassi scientifica comune a diverse discipline, in cui si mira a dimostrare una certa teoria circa il comportamento umano utilizzando, appunto, degli esperimenti. I partecipanti all’esperimento sono sottoposti, in un laboratorio, ad una situazione “fittizia” che riproduce quanto più fedelmente possibile l’interazione reale che gli scienziati vogliono analizzare. Di solito, quindi, i volontari svolgono delle attività stilizzate, che però hanno dei tratti in comune con le attività oggetto dello studio. È molto comune utilizzare dei premi in denaro, sia per invogliare i partecipanti a dedicare il loro tempo alla ricerca, sia per imitare il sistema di incentivi nella situazione che si sta studiando. Naturalmente, osservare un certo comportamento in laboratorio non significa poter concludere che quello stesso comportamento si verifichi anche “nella vita reale”: ci sono molti dibattiti circa la cosiddetta “validità esterna”, che è esattamente il problema di estendere anche fuori dal laboratorio le conclusioni tratte da un certo esperimento. Tuttavia, questo tipo di ricerca consente di avere intuizioni preziose circa fenomeni già noti, o aprire il campo a successivi studi che utilizzino anche altre metodologie. Questo articolo riassume il dibattito interno alla disciplina circa questo aspetto.
Un primo passo nella direzione dello studio del comportamento di uomini e donne in situazioni competitive è il paper del 2003 “Performance in Competitive Environments: Gender Differences”, scritto da Gneezy, Niederle e Rustichini, spesso citato quando si vuole affermare che le donne evitano gli ambienti competitivi. La tesi è che le donne preferiscono evitare di trovarsi in situazioni di competizione, proprio perché donne. Da dove viene però questo risultato?
Gli autori del paper hanno condotto questo esperimento: i partecipanti (studenti e studentesse dell’università Technion di Haifa, Israele) dovevano risolvere dei labirinti, cioè guidare un’icona, utilizzando le frecce del computer, verso l’uscita del percorso, evitando “i vicoli ciechi”. Il gioco si svolgeva secondo diverse modalità.
Nella prima (piece rate), ciascun(a) partecipante riceveva una somma di denaro per ciascun labirinto risolto (2 shekel), indipendentemente da quanti labirinti avevano risolto gli altri partecipanti.
Nella seconda (mixed tournament), il/la partecipante che riusciva a risolvere più labirinti vinceva 12 shekel, mentre gli altri non ricevevano nulla.
Nella terza (random pay), un(a) partecipante selezionat* a caso vinceva 12 shekel, mentre gli altri non ricevevano nulla.
Nel primo e nel terzo tipo di gara, cioè negli ambienti non competitivi, non c’era nessuna differenza statisticamente significativa fra i risultati ottenuti dagli uomini e dalle donne. Attenzione: una differenza è statisticamente significativa quando i dati mostrano, attraverso opportune tecniche, non solo che un gruppo risolve in media più labirinti dell’altro gruppo, ma che questa differenza non è semplicemente dovuta al caso. Nel secondo tipo di gara invece, la performance delle donne non era statisticamente diversa dagli altri due casi, mentre quella degli uomini migliorava sensibilmente, creando quindi una differenza significativa fra i due gruppi. A questo punto i ricercatori hanno aggiunto un quarto tipo di gara (single sex tournament), uguale a quella del secondo tipo, ma in cui gli avversari erano o tutte donne, o tutti uomini. Per le partecipanti all’esperimento, in questo quarto caso la performance è migliorata, annullando di nuovo la differenza statistica rispetto agli uomini.
In questo grafico, si vede la performance media dei due gruppi: la linea tratteggiata implica che la differenza non è statisticamente significativa.
La conclusione che i ricercatori hanno tratto è che le donne sono meno brave in questo tipo di gioco quando sono coinvolte in una competizione con gli uomini. La spiegazione secondo la quale le donne sono più avverse al rischio, ovvero che preferiscono delle situazioni in cui il guadagno è meno incerto, non regge: il terzo modello di gara, quello in cui il vincitore è scelto a caso, è il più rischioso per definizione, dato che la vincita è slegata dalla performance, propria e degli altri, ma solo da un’estrazione, eppure in quel caso la differenza fra uomini e donne non è significativa, così come non lo è nel caso del torneo single sex. I ricercatori propongono quindi altre tre spiegazioni:
le donne credono di essere meno brave degli uomini in questo task (“mansione”) e questo le “inibisce” durante la competizione con loro;
le donne, pur non ritenendo di essere meno brave, subiscono quella che in psicologia si chiama “stereotype threat” (tradotto in italiano come “minaccia indotta dallo stereotipo”), cioè quel fenomeno per cui si teme di rientrare in uno stereotipo e quindi si prova ansia, che avrebbe poi l’effetto di peggiorare la performance;
le donne hanno preferenze diverse, e quindi si trovano più a loro agio in ambienti non competitivi, ottenendo quindi risultati peggiori nel caso di ambienti competitivi.
Il passo successivo è del 2007, quando il paper “Do Women Shy Away from Competition? Do Men Compete Too Much?” di Niederle e Vesterlund afferma che la spiegazione corretta sia l’ultima, cementificando nel discorso accademico l’idea che le donne siano meno propense a competere. Anche in questo caso si tratta di un esperimento, in cui i partecipanti devono sommare dei numeri. Come nel paper precedente, anche le autrici di questo paper hanno perseguito diverse modalità.
La prima modalità (piece rate) prevede, per ciascun partecipante, una vincita di 50 centesimi per ogni somma correttamente effettuata.
La seconda modalità (tournament) prevede, per il partecipante che ha risolto correttamente il maggior numero di operazioni, una vincita di 2 dollari per ogni risposta esatta.
La terza modalità (choice) dà ai partecipanti la possibilità di scegliere come effettuare i successivi round, se con pagamento piece rate oppure sotto forma di tournament. Prima di effettuare la scelta, i partecipanti vengono informati di quante risposte corrette hanno dato, cioè della loro performance assoluta. Gli viene anche chiesto di dichiarare quale credono che sia la loro performance relativa, rispetto agli altri partecipanti, per capire quanto la scelta dello scenario competitivo dipenda dalla percezione della propria possibilità di vincere.
Come nel caso del paper precedente, la differenza fra la performance media di uomini e donne non è statisticamente significativa. I risultati dell’esperimento mostrano che gli uomini scelgono più frequentemente delle donne la modalità competitiva, anche a parità di “bravura”. In parte, questo dipende dal fatto che gli uomini sovrastimano la loro performance relativa, molto più di quanto non facciano le donne: siccome tendono a credere più di frequente di essere fra i più bravi del gruppo, trovano più conveniente “rischiare” e scegliere la modalità tournament. Tuttavia, i dati mostrano che anche a parità di opinione circa la propria capacità di battere gli altri, la differenza rimane. Il grafico qui sotto mostra sull’asse verticale la frazione di partecipanti che sceglie la modalità competitiva, mentre sull’asse orizzontale vediamo quale è, secondo il partecipante, il suo ranking relativo. Quindi, per esempio, i due punti più a destra ci dicono che, fra gli uomini che ritenevano di essere i più bravi del loro gruppo, più dell’80% ha scelto il torneo, mentre fra le donne che ritenevano di essere le più brave del loro gruppo, meno del 60% ha scelto il torneo.
Il grafico mostra la percentuale di partecipanti che hanno scelto la modalità competitiva, in funzione della loro bravura percepita. Ci sono due curve, che rappresentano le scelte di uomini e donne. Entrambe le curve sono crescenti (ovvero, chi si ritiene più bravo sceglie più frequentemente di gareggiare con gli altri), ma anche a parità di bravura percepita la curva degli uomini è più alta di quella delle donne.
Nell’Handbook of Experimental Economics (2016), nel capitolo intitolato Gender, Niederle, autrice di entrambi i paper di cui abbiamo parlato fin qui, scrive:
Summarizing the evidence presented in this chapter, I find that there are large gender differences in reaction toward competition, with women shying away from competition with men and women underperforming when competing against men. These differences persist and are only somewhat reduced when controlling for beliefs about relative performance as well as risk aversion.
(Riassumendo i risultati presentati in questo capitolo, trovo che ci siano delle notevoli differenze di genere nella risposta alla competizione, ovvero che le donne rifuggono la competizione con gli uomini e danno una presentazione peggiore del solito quando competono contro i maschi. Queste differenze sono persistenti e sono ridotte solo in parte quando si tengono in considerazioni le opinioni circa la propria abilità relativa e l’avversione al rischio.)
Personalmente, trovo molto rilevante che questa frase sia inserita in un Handbook cioè un manuale: viene presentato quasi come un dato di fatto che le donne non amino la competizione, e che questo le porti ad ottenere risultati peggiori degli uomini quando si trovano a competere contro di loro. Ammettiamo, astraendo da considerazioni tecniche circa l’affidabilità di questi numeri, che effettivamente questi esperimenti siano indicativi di una reale tendenza delle donne ad evitare i contesti competitivi. Dedurre da questo che ci sia qualcosa intrinsecamente connesso ad una presunta “indole femminile” che porta le donne ad evitare “naturalmente” la competizione significa fermarsi a un livello superficiale di analisi. La questione veramente interessante, infatti, è la domanda successiva che sorge spontanea dopo aver letto questi articoli: per quale ragione le donne in questo esperimento hanno scelto con più frequenza la modalità non competitiva?
Proprio per rispondere a questa domanda, nel 2009 Gneezy, Leonard e List hanno condotto lo studio “Gender Differences in Competition: Evidence from a Matrilineal and a Patriarchal Society”, in cui hanno condotto esperimenti simili a quelli che ho descritto sopra in due società molto diverse: quella dei Masai, in Tanzania, e quella dei Khasi, in India. La società dei Masai è fortemente patriarcale; per esempio, come riportato nel paper stesso, quando a un uomo Masai viene chiesto quanti figli ha è comune che risponda contando solo i figli maschi. I Khasi sono invece una società matrilineare: questo non significa che la società sia matriarcale (gli autori riportano che la letteratura sociologica è unanime nel concludere che non esista più una società puramente matriarcale), ma che la famiglia è organizzata attorno alla casa, di proprietà della donna, e che passa in eredità di madre in figlia. Presso i Khasi, le donne detengono molta autorità per le decisioni familiari e, quando una donna si sposa, è il marito ad andare a vivere presso la casa della moglie. È interessante notare che nei dati degli autori i partecipanti donne sono in media più ricche degli uomini presso i Khasi, mentre il contrario è vero per lo studio condotto in Tanzania. Analogamente, fra i Khasi il 40% delle donne partecipanti si configura come “capofamiglia” (contro il 36% degli uomini), mentre questo è vero solo per il 18% delle donne Masai (contro l’85% degli uomini).
L’esperimento congegnato in questo caso prevedeva che i partecipanti lanciassero una pallina da tennis in un secchio: il compito è stato scelto in modo da non ricordare alcuna attività quotidiana che fosse specifica di un certo genere, e in modo che non ci fosse nessuna differenza sistematica di performance fra un genere e l’altro. Anche in questo caso sono state create due modalità diverse: quella non competitiva prevede un pagamento di 20 rupie per i Khasi (e 500 shillings per i Masai) per ogni “canestro”; quella competitiva prevedeva un pagamento esattamente triplo per ogni canestro, ma solo per chi avesse fatto più canestri degli altri. In questo paper i ricercatori hanno messo in pratica un solo round per ciascun partecipante, che poteva scegliere secondo quale delle due modalità volesse giocare.
Questo grafico mostra sull’asse verticale la proporzione di partecipanti che hanno scelto la modalità competitiva: come nei primi due paper analizzati, fra i Masai i maschi mostrano di preferire più spesso delle donne questo tipo di gare, ma nei Khasi questa tendenza è invertita, e sono le donne a scegliere più frequentemente il torneo.
Se escludiamo che le donne Khasi abbiano qualche caratteristica “naturale” che le renda diverse dalle donne Masai, come mi sembra ragionevole fare, credo che i risultati di quest’ultimo paper mostrino quindi che non è vero che le donne, in quanto tali, non amano la competizione. Sembrerebbe anzi lecito pensare che i valori, le regole della società in cui cresciamo determinino i nostri comportamenti ben più di quanto non faccia il nostro genere.
Questo breve excursus nel campo della ricerca in quella che si chiama gender economics può essere l’occasione di riflettere su quello che sembra essere un meccanismo molto frequente in questo campo, ovvero concludere che ci sia una certa differenza nel comportamento economico di uomini e donne, senza andare ad indagare sulla ragione sottostante a questa apparente differenza.
Il mese prossimo, cercherò di analizzare un’altra dimensione in cui la letteratura economica riporta che le donne siano diverse dagli uomini, ovvero la propensione al rischio. Si dice che le donne sono più “risk averse” degli uomini, ovvero che evitino più frequentemente le situazioni di rischio, ma ci sono degli studi che analizzano su cosa si fondi questa affermazione, mettendola in discussione.
Ludovica ringrazia Alexander per la sua presentazione dedicata ai tre paper che ha descritto qui. Ringrazia anche il Gender Reading Group della New York University, in seno al quale si è svolta la presentazione.
Ludovica C. ha 25 anni e fa il dottorato in Economia a New York ma in realtà vorrebbe solo leggere tutto il giorno. Puoi seguirla su Twitter.
Vergine, madre e sposa
Il revenge porn, la Vergine Maria e l’archetipo di donna dell’Italia contemporanea
di Eleonora Casale
[Alt Text: illustrazione di Ester Orellana. La Madonna – La Vergine annunciata di Antonello Da Messina (1476) – è velata di blu e circondata da un serpente. sta leggendo un libro e sulla sua aureola ci solo le parole “Mulier virilis - Virgo - Vidua - Mater”.]
Il 10 aprile 2020 Wired Italia ha pubblicato una seconda inchiesta sui gruppi Telegram che hanno come scopo la diffusione non consensuale di immagini e video intimi di donne e minori. Ciò che ne è emerso è un network di proporzioni spaventose (si parla di più di 21 gruppi Telegram che raggiungono anche la quota di oltre 50 mila iscritti, con una mole complessiva di 30 mila messaggi al giorno) nei quali vengono scambiati, per denaro o per puro sadismo, revenge porn e pedopornografia. Inoltre, vengono organizzate azioni di stalking grazie alla condivisione di nomi e cognomi delle vittime, indirizzi, numeri telefonici e altri dati sensibili. Si tratta di dati reperiti sui social, video e immagini condivise dalle vittime con ex partner o amici e, nei casi più inquietanti, condivise dagli stessi genitori che fanno circolare le foto dei figli e delle figlie. Le conseguenze di queste azioni sono state devastanti, non solo la salute psicologica delle vittime, ma anche la vita lavorativa: ci sono donne che sono state licenziate dal proprio posto di lavoro.
Questa vicenda, che con lo scorrere degli anni e nel parziale silenzio delle autorità assume dimensioni sempre più mostruose, dimostra chiaramente quanto ancora la società italiana contemporanea sia ancorata alla propria struttura patriarcale e maschilista. In un contesto dove la lotta per l’emancipazione femminile si fa sempre più dura e sempre più voci si aggiungono al coro di protesta, le pratiche di violenza patriarcali traslano dal fisico al virtuale e quegli stessi corpi, quelle stesse menti che con fatica e sacrificio hanno imparato ad accogliere la propria materialità, vengono puniti. La volontà di punizione sistematica della donna che si emancipa e si appropria della propria sessualità e del proprio potere decisionale è tipica di una struttura maschilista e fallocentrica del pensiero, a sua volta figlia diretta dei sistemi patriarcali.
È impossibile, davanti a uno scempio di tale portata, non fermarsi a riflettere come sia possibile che nel 2020 il sistema patriarcale sia ancora così coriaceo. È impossibile non fermarsi a provare a ripercorrerne i passi e comprenderne più profondamente le radici. In Italia, il patriarcato si è da sempre accompagnato ed è stato mutualmente sostenuto da un’altra forma di controllo sociale, ancora più profondamente innestata nella mentalità comune: il cattolicesimo. Per accorgersi di quanto pervasiva sia la morale cattolica nell’Italia contemporanea basta osservare il risultato del sondaggio condotto dal Pew Research Center nel 2017: su un campione di 1.804 rispondenti, l'80% degli italiani si dichiara cristiano (di cui 78% cattolici e 2% altri cristiani), il 15% si dichiara di nessuna religione mentre il 5% professa un’altra religione non cristiana. Se fosse solo una questione di fede individuale non sussisterebbe alcun tipo di problema, ma l’ingerenza della struttura ecclesiastica sconfina dalla vita privata all’organigramma sociale e statale: la revisione dei Patti Lateranensi si è conclusa solo nel 1985, ad oggi l’otto per mille è ancora automaticamente devoluto alla Chiesa Cattolica se non altrimenti specificato, sempre ad oggi la Chiesa Cattolica è beneficiaria di tutto un complesso sistema di esenzioni fiscali e, per una popolazione complessiva di 61.597.452 persone, il numero di chiese sul territorio italiano è di circa 100 mila, 25.610 parrocchie, 43.523 presbiteri e 4.441 diaconi permanenti.
Prima di proseguire, è necessario fare un’importante distinzione: in questo articolo non si vuole in alcun modo attaccare la fede cristiana e cattolica in quanto tale e coloro che si identificano di fede cristiana e/o cattolica, perché non è il sentimento della fede a voler essere analizzato. Ciò che si vuole qui osservare è la religione cattolica secondo i suoi archetipi e modelli simbolici, a loro volta divenuti modelli comportamentali. Fede e morale sono due concetti filosofici e individuali fortemente distinti, ed è da questo punto che si desidera partire.
Il cristianesimo più in generale e il cattolicesimo più nello specifico, se valutato attenendosi strettamente a quanto trasmesso dai Vangeli, non è una religione maschilista di per sé. Anzi, è una religione fortemente accogliente ed inclusiva (e da questo in parte deriva la sua forza): basti pensare che, nei Vangeli, Gesù è il primo a rendere giustizia alle donne come gruppo sociale emarginato, spesso con le donne si accompagna e sono le donne ad essere le prime testimoni della sua resurrezione. Tuttavia la struttura sociale e normativa derivata dalla religione non è quasi mai aderente al credo originario: così abbiamo magisteri e strutture di potere riservate ai soli uomini e una forma di normatività soffocante che vuole la donna cattolica come sposa, madre, vergine perpetua o peccatrice, nient’altro che questo.
È impossibile in questo senso non coglierne la profonda struttura patriarcale ed è interessante ciò che Michela Dall’Aglio scrive per Doppiozero, sottolineando quando sia dannoso l'assetto maschilista del cattolicesimo, sia per questioni pratiche che per questioni teologiche. Patriarcato e cattolicesimo sono due strutture di regolazione sociale, due modi per normare la vita dell’individuo all’interno della comunità e il funzionamento della comunità stessa: il cattolicesimo del resto, come tutte le fedi e le ideologie, è un complesso insieme di valori che trascendono la spiritualità per farsi morali, sociali e politici.
Fatta questa necessaria premessa, la seconda domanda che sorge nell’analizzare le figure archetipiche della religione cattolica che tanto influenzano il pensiero comune è: qual è la figura femminile principale del sistema narrativo e valoriale della religione cattolica? La risposta è Maria – In ebraico מרים, Myrhiàm; in aramaico Maryām; in greco Μαριάμ Mariam, Μαρία/Μαρίη María; in arabo مريم, Maryam – detta anche Maria di Nazareth, la madre di Gesù Cristo.
Eva ancor vergine e incorrotta concepì la parola del serpente e partorì disobbedienza e morte. Maria invece, la Vergine, accogliendo fede e gioia quando l'angelo Gabriele le recò il lieto annuncio [...] rispose : ‘Mi avvenga secondo la tua parola’. Da lei è nato costui del quale abbiamo mostrato che parlano tante scritture ; per mezzo del quale Dio annienta il serpente ingannatore e gli angeli e uomini a lui somiglianti, e libera da morte coloro che si pentono e credono in lui. (Giustino, Dialogo con Trifone, Edizioni Paoline. Dial 100: PG 6, 709-712)
Maria, madre di Gesù, venerata dai cristiani come modello di fede e santità, viene variamente descritta nei Vangeli che ne danno poche ma salienti notizie. Dal Vangelo più antico, quello di Marco, che la nomina quale madre di Cristo che vorrebbe impedirgli di predicare, al Vangelo di Matteo, che ci narra del concepimento “per opera dello Spirito Santo” e dove viene menzionata solo occasionalmente; poi con Luca, che la esalta nella sua consapevolezza di divenire la madre del Messia, fino al Vangelo secondo Giovanni, dove, pur se pochi, gli episodi la pongono subito come intermediaria prescelta nei rapporti fra i fedeli e suo Figlio. Con il Concilio di Efeso del 431, Maria fu proclamata “Madre di Dio”. Da quel momento la devozione per la sua figura si diffuse in modo inarrestabile, soprattutto a cominciare dal Medioevo grazie ai filosofi cristiani. Una donna, una madre, ma anche un modello di fede e un simbolo di purezza.
Leggendo le tante e ben note preghiere dedicate a Maria, se ne possono desumere i caratteri: Maria è in primo luogo madre, sposa, vergine. È interessante osservare di quanti uomini Maria sia sposa, a quante entità sia subordinata: Maria è in primo luogo sposa di Giuseppe, ma anche sposa di Dio e in seguito sposa spirituale di Gesù e dello Spirito Santo (secondo il principio della Trinità dove l’Uno è Trino). Spesso chiamata regina, Maria accetta umilmente e in maniera incondizionata il compito che Dio decide di affidarle. In questo senso Maria, secondo la dottrina del libero arbitrio, sceglie consapevolmente il suo destino e così facendo si autodetermina, o meglio, crede di autodeterminarsi. Ciò che accade è che Maria sceglie di essere scelta per un ruolo e un destino determinati, rendere carne il figlio di Dio che morirà sulla croce e nel momento in cui pronuncia quel fatidico “sì”: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola.” (Lc 1,38) Maria perde i suoi caratteri individuali e si archetipizza, divenendo così “La Madre”. La questione è dubbia: se da una parte l’assertività di Maria può essere percepita come un’intrinseca consapevolezza del suo traslare da persona ad archetipo, dall’altra si può facilmente obiettare che, in una situazione così soprannaturale e spaventosa, il “sì” fosse l’unica opzione possibile.
Maria viene scelta da Dio in quanto agnello paziente e passivo, disposto ad accettare acriticamente una scelta che giunge da un’entità superiore. Maria è benevolente, è accogliente, è anomala tra le donne e scelta proprio per questa sua anomalia, per questa sua umiltà incondizionata. Maria è ubbidiente, misericordiosa, sempre pronta al perdono, paziente, dolce, incorruttibile, passiva e mai gioiosa, bensì in uno stato di perpetua sofferenza e accettazione. Ma sopra ogni cosa, ciò che più di tutte le altre spicca e fa assurgere Maria a vero e proprio fenomeno simbolico, è la sua verginità. Maria, infatti, grazie all’intercessione divina, concepisce Gesù senza alcuna forma di atto sessuale e resta sostanzialmente “immacolata”, senza macchia. Maria viene spesso definita “speculum sine macula”, specchio senza macchia, dove l’assenza di macchia sta per l’assenza di peccato e quindi l’assenza di atto sessuale e il suo essere specchio sta nel suo riflettere l’essenza di chi le si para dinnanzi, che si scopre per ciò che è. E cosa esiste di più passivo, di più vuoto di uno specchio?
[Alt Text: illustrazione di Ester Orellana. Maria, vestita e velata di blu, ascolta le parole “Ed ecco concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù” e risponde “NO”.]
Ed è così che il concetto di verginità e quindi di astensione, principalmente da parte della donna che è peccatrice per eccellenza, dagli atti sessuali volti a scopo non procreativo diventa sinonimo di bellezza e quindi, secondo il precetto greco di kalos kai agathos, bello e dunque buono, imperativo morale. La verginità, nel cristianesimo, è la forma più alta di rifiuto e superamento della corporeità e del desiderio sessuale e diventa un modo per descrivere la santità, perdendo il suo significato teologico e diventando sempre più un oggetto preferito, a livello quasi morboso, dalla predicazione morale e comportamentale sul contegno femminile. Nella cristianità la donna, figlia di Eva, la ribelle per eccellenza, può salvarsi solo rinunciando alla propria femminilità (simbolo archetipico di debolezza, irrazionalità, imperfezione) attraverso o la verginità perpetua o la maternità. Si va così formando un ideale di donna cristiana che rispecchia tali schemi sociali, riassumibili nella precettistica di una bellezza interiore da curare e una esteriore da trascurare.
Elena Giannarelli ha individuato alcuni modelli femminili tipici nella letteratura cristiana antica: la mulier virilis, la virgo, la vidua e la mater. Tutti hanno come riferimento base la figura di Maria, con i relativi atteggiamenti di fede, obbedienza, umiltà, modestia, prudenza, castità, innocenza, che le sono tradizionalmente attribuiti.
Maria dunque, inconsapevole epicentro normativo, è la prescelta tra tutte le donne, colei che è diversa dalle altre. Così, Maria assurge a ideale mentre il resto delle donne viene denigrato in quanto “non ancora” come Maria. Un esempio tipico dell’esaltazione della bellezza e santità di Maria a scapito delle altre donne si riscontra in Bernardo di Chiaravalle, cantore della Madonna. Nelle sue Sentenze (Vol. III, 87), Bernardo da Chiaravalle vede in Maria un’idealizzazione della donna, aderente ai modelli della letteratura cortese del suo tempo: Maria è la donna perfetta perché casta, feconda, vergine e madre. Maria è speciale, la si può elevare sopra gli angeli e gli uomini.
Dall’altro lato della barricata vi è Eva, che è tutte le donne, simbolo di peccato per eccellenza, di morte e di errore. E in questo binomio che risulterà esiziale, Eva-Maria, le donne concrete saranno tutte accomunate ad Eva mentre Maria si staglierà sempre più unica e privilegiata al di sopra dell’umanità, volto tenero e misericordioso di un Dio sempre più giudice inflessibile. Avvocata, consolatrice, mediatrice, la madre tenera che intercede per tutti i peccatori e si duole della sorte di ciascuno. E infine, Maria non invecchia. Non decade, perché perfetta, non sente il tempo passare perché investita di una grazia che non è riservata alle altre, peccatrici in quanto appartenenti al genere femminile. E come e quanto ha pesato questo suo non invecchiare, e quanto ancora ci stiamo facendo i conti.
In conclusione, i gruppi di Telegram e la figura dell’innocente Maria, inconsapevole simbolo di castità e perfezione, dimostrano come l’immagine della donna sia anticamente e profondamente normata: una donna non può invecchiare, non può provare rabbia, non può autodeterminarsi, non può scegliere e, soprattutto, non può godere liberamente e autonomamente del e attraverso il proprio corpo. Non può gioirne. La pena è la gogna mediatica, lo stupro virtuale collettivo come estremo e apocalittico regolatore sociale per quelle femmine considerate tracotanti che, per una volta, hanno osato la fierezza di non voler essere Maria.
Bibliografia e consigli di lettura:
Per meglio comprendere come le religioni e le ideologie siano forme di regolazione sociale, si rimanda a A. Costabile, P. Fantozzi, P. Turi, Manuale di sociologia politica, Carocci 2006.
Selene B. Zorzi, Bellezza in epoca cristiana: la bella donna sospetta. Nel testo, parlando dei modelli individuati da Elena Giannarelli, si fa riferimento a pp. 170-171.
Quanto la figura di Maria bella, eternamente giovane e senza ruga, abbia pesato con funzione schiacciante sulle donne lo ha ricordato in modo vivace Michela Murgia in Ave Mary, Einaudi 2011.
Eleonora Casale ha 26 anni, è nata e vive a Milano, fa la copywriter di professione ma non ha idea di come si faccia a parlare di se stessi in terza persona senza sembrare ridicoli. Alle elementari ha scritto un romanzo fantasy sui quaderni di matematica al posto degli esercizi sulle divisioni; questo, oltre a regalarle una nota disciplinare, le ha fatto prendere una cotta per la scrittura che col tempo si è trasformata in amore. Complicato, come tutti gli amori. Laureata in Beni Culturali prima e in Comunicazione per l’arte poi, compensa le sue evidenti carenze sociali con il giardinaggio, lo sport, la lettura spasmodica di qualsiasi testo e l’esercizio costante del senno del poi. Puoi seguirla su Instagram.
Ester Orellana disegna @disegniniesterini su Instagram.
È online la nuova biblioteca digitale delle donne, col suo ricco archivio di riviste, manifesti e libri consultabili e scaricabili da chiunque.
L’emergenza sanitaria, l’isolamento e la recessione in arrivo sembrano aver esaltato indifferenza e individualismo. Le settimane in cui si cantava e si applaudiva dai balconi, rituale illusorio in cui si è creduto di trovare un collante sociale, sono ormai lontane: restano invece gli sceriffi alla finestra, i titoli di giornale sulle scuse più incredibili per poter uscire di casa, il controllo orizzontale che si somma a quello, già stringente e spesso assurdo, esercitato dalle forze dell’ordine. Nicoletta Poidimani indica nel suo blog alcuni esempi positivi di caring communities e li individua in gruppi che hanno dovuto imparare la solidarietà per far fronte all’oppressione o all’aggressione: comunità indigene dell’America Latina ma anche città dell’Irlanda del Nord stanno scegliendo di rispondere alla pandemia rafforzando le reti di cura reciproca e di attenzione ai bisogni (materiali o psicologici) altrui, "con una particolare sensibilità nei confronti di quei soggetti più “fragili” [...] che nel resto d’Europa pagano il prezzo più caro: oggi più che mai, infatti, carcerati, senza tetto, poveri, disabili e anziani rappresentano l’inutile se non l’abietto."
Su Giap, Filomena “Filo” Sottile prende le mosse dalla sua esperienza di donna trans per raccontare le ripercussioni dell’emergenza coronavirus sulla comunità LGBTQ+.
Due ore ben spese: Silvia Federici presenta il suo ultimo lavoro, Genere e capitale. Per una lettura femminista di Marx, sul canale YouTube di DeriveApprodi.
[Alt Text: ritratto fotografico di Silvia Federici. Fonte.]
Il numero di atti xenofobici e violenze razziste legate alla diffusione del Coronavirus si riscontrano altissimi in tutto il mondo, diventando tanto elevati di numero e comuni che addirittura è già consultabile una specifica pagina Wikipedia. Nel corso della storia, le minoranze sono state sempre quelle più afflitte dalle pandemie: la salute pubblica diviene lo schermo utile a propagande e azioni basate su discriminazione e pregiudizi. Le tesi cospirazioniste che ricalcano le storie di avvelenamento dei pozzi trovano terreno fertile e distolgono l’attenzione dalla risposta agli eventi e dai problemi strutturali. La pandemia sta soprattutto rivelando quanto radicata sia la centralizzazione medica del soggetto bianco rispetto a qualsiasi altra comunità. I consigli per monitorare la propria salute da casa sono dati senza preoccuparsi dei corpi diversi, e ciò nonostante siano soprattutto i soggetti BAME (persone nere e appartenenti a minoranze etniche) sono impiegate a diversi livelli nei lavori di cura ospedaliera e che quindi che “non hanno la possibilità di restare a casa e servono il loro paese mettendo la propria persona a rischio”. Ci troviamo davanti a una questione di (in)giustizia sociale, economica, e razziale. Come osserva Sarah Hendriks, UN Women policy director, “una risposta efficace alle pandemie deve tenere conto delle dinamiche di genere in maniera significativa”.
Ripensare è più importante di riaprire: “Per una politica che provi a immaginare un mondo possibile e non solo ad amministrare le emergenze”
Leggere Svjatlana Aleksievič durante la pandemia.
È morta Phyllis Lyon, pioniera del movimento lesbico americano. Dopo oltre 50 anni di relazione e di lotta per la visibilità e i diritti della comunità lesbica, nel 2008 Phyllis Lyon si unisce legalmente alla sua compagna di vita e di attività politica: Del Martin. Prime spose nello stato della California, Martin muore poche settimane dopo la celebrazione del loro matrimonio e, purtroppo, all’inizio di questo mese ci lascia anche Lyon. Rest In Power.
Un corto di Agnès Varda inedito: La petite histoire de Gwen la bretonne (2008).
FATTO DA NOI
Gloria è stata ospite delle amiche di Ricciotto per parlare di Emma, il più recente adattamento da un romanzo di Jane Austen – e per parlarne bene! La regista Autumn de Wilde ha deciso infatti di non enfatizzare l’aspetto sentimentale della storia ma di raccontarla con un registro comico che discende in verticale dalla screwball comedy, e questa impostazione risulta molto fresca e originale rispetto allo standard delle trasposizioni austeniane su schermo.
Da febbraio, ogni mattina Gloria condivide una citazione di Theodor Adorno su Telegram. Il canale si chiama Buongiorno con Adorno e ci si iscrive qui.
Marzia ha chiacchierato con la nostra amica Martina Neglia della poesia di Amelia Rosselli in una live su Instagram.
Francesca ha recensito per Il Tascabile il memoir/saggio narrativo Suite per Barbara Loden di Nathalie Léger, pubblicato nella traduzione di Tiziana Lo Porto da La Nuova Frontiera. Barbara Loden è una figura ancora poco conosciuta al di fuori dell’ambiente cinematografico, ed è facile confondere il testo di Léger per una biografia critica. Il progetto di Léger, tuttavia, è più ampio, e include la storia di Loden e del suo film più celebre, Wanda (1970), in una riflessione sulla vita di sua madre, sulle biografie delle donne-artiste più quiete che si estende in tre libri di saggistica narrativa. Francesca aveva già scritto di Barbara Loden e di Wanda, specificatamente del suo valore come film femminista di culto, qui.
[Alt Text: un fotogramma del film Wanda, l’attrice e regista Barbara Loden nella parte di Wanda guarda alla sua sinistra mentre il sole tramonta. Fonte.]
FATTO DA VOI
Federica Arenare e Marco Giacomazzi fanno parte della squadra di volontari/e che ogni anno organizza con amore RiFestival, il festival dell’antropologia. La pandemia non ha permesso che l’evento si svolgesse, e così è stato riconvertito a podcast. Nel frattempo, Marco e Federica curano con altrettanto amore una rassegna settimanale.
Martina Neglia ha scritto per L’Indiependente del romanzo Consenso di Saskia Vogel (che noi abbiamo presentato insieme all’autrice a settembre, alla libreria La confraternita dell’uva di Bologna). Con Saskia Vogel ha creato un glossario di parole chiave che sono sia una lente sul suo romanzo che dei “contenitori sicuri da custodire e riempire di nuovo significato”.
Si può seguire su YouTube la breve lezione di Federica Bordin su cinema e femminismo, una veloce panoramica sulle donne nei film (come oggetti, come soggetti, come autrici) dalle primissime pellicole agli anni Settanta. Questo intervento fa parte del progetto FuoriClasse organizzato da NUDM Milano e Fridays for Future. Federica è anche un'amica di Ghinea: infatti, ha contribuito sia allo speciale Akerman che allo speciale Varda.
Durante la quarantena Martina Lodi “non ha imparato a suonare uno strumento, non ha iniziato a fare ginnastica quotidianamente e non ha letto Guerra e Pace”. Però ha riflettuto sulla sostenibilità dell’alimentazione onnivora.
Chi era Francesca Woodman? Su Supplemento, il blog di inutile, Francesca Astarita tenta di conoscerla attraverso i suoi diari.
UNA MUSICISTA
St. Vincent
Pubblichiamo un estratto dal libro Rocket Girls di Laura Gramuglia, illustrato da Sara Paglia. Rocket Girls attraversa la storia del rock tracciando cinquanta brevi ritratti di donne che hanno contribuito a farne la storia — da Tracy Chapman a M.I.A., da Patti Smith a Fiona Apple. Per Ghinea abbiamo scelto St. Vincent. Ringraziamo l’autrice, l’illustratrice e la casa editrice Fabbri per questo regalo.
[Alt Text: ritratto illustrato di St. Vincent. Puoi vedere (e acquistare) gli altri lavori dell’autrice, Sara Paglia, sul suo sito.]
Birth In Reverse
Oh what an ordinary day
Take out the garbage, masturbate
I’m still holding for the laugh
in “ST. VINCENT”, 2014
Cosa c’è di straordinario nell’iniziare una giornata portando fuori la spazzatura e masturbandosi subito dopo? Nulla, è un giorno qualsiasi, secondo St. Vincent. Non sono molte le artiste che citano apertamente la masturbazione, ma dalla musica di questa cantautrice americana, disco dopo disco, si pu imparare quanto possa essere straordinario l’ordinario. Benvenuti nel favoloso mondo di St. Vincent, al secolo Annie Clark.
Nel 2019 la giornalista e attivista inglese Caroline Criado Perez pubblica un saggio dal titolo Invisible Women in cui denuncia i campi e le attività umane in cui la donna non viene presa in considerazione: dai manichini dei crash test progettati fino a poco tempo fa per riprodurre solo i conducenti e i passeggeri maschi, ai dosaggi dei farmaci calcolati in base al metabolismo maschile, ai giubbotti antiproiettile che non considerano la struttura anatomica femminile. Ecco perché abbiamo bisogno di donne alla guida di istituzioni, aziende, governi: perché abbiamo un disperato bisogno di essere rappresentate.
Nel 2016 St. Vincent inverte la rotta: invece di adattarsi passivamente a una chitarra elettrica pensata per un corpo maschile, progetta uno strumento che segue meglio l’anatomia femminile, dedicandolo “a tutte quelle persone che non si trovano a proprio agio avendo tra le mani un modello standard di chitarra, che siano musicisti di piccola statura o con le tette”. Grazie al seguito e alla popolarità raggiunta, la musicista riesce a mettere sul mercato un modello di chitarra nuovo, ergonomico, più leggero e sottile e che tiene conto del seno:
Per come sono fatta, non riesco a suonare una Seventies Les Paul o una Sixties Strat, avrei bisogno di viaggiare in tour con un chiropratico. Sono chitarre fantastiche, ma a causa del loro peso sono impraticabili e poco funzionali per una persona come me.
A quanto pare una donna che non solo imbraccia uno strumento, ma ha anche idee precise su come farlo, fa notizia. Ma d’altronde Annie Clark, da quando più di una decina di anni fa è entrata da solista nel mondo della musica, non ha mai smesso di interrogarsi sui significati di essere una donna nel rock:
“Credo che il personale sia politico. Essere una donna forte è comunque una dichiarazione femminista. Per raramente penso al mio genere e al mio sesso, c’è molta fluidità all’interno del genere e dell’identità sessuale. Il femminismo oggi è importante perché viviamo in un’epoca in cui non c’è parità tra i generi, ma credo che in futuro arriveremo a un punto in cui parleremo solo di umanesimo, perché uomini e donne avranno le stesse possibilità e la stessa considerazione”.
Nel frattempo ci sono ancora molte battaglie da combattere, a cominciare dalla presenza femminile sui cartelloni dei più grandi festival estivi. Soltanto nel 2019, alla sua 19° edizione, il Primavera Sound di Barcellona è arrivato ad avere una parità di genere nella propria lineup. Altre storiche rassegne, a oggi, non se la sentono di correre questo “rischio”, nonostante a eventi del genere la maggior parte del pubblico sia femminile. Ad anticipare il cartellone della manifestazione spagnola, l’hashtag #TheNewNormal: di nuovo, l’ordinario che tenta di diventare straordinario e viceversa.
St. Vincent nel corso della carriera cambia spesso pelle, gioca con la propria immagine, accumula collaborazioni (ha fatto un disco con David Byrne) e produce il lavoro di colleghe stimate come le Sleater-Kinney, ma soprattutto cerca di colmare il divario tra donne e uomini nell’industria musicale: “Sento di essere molto fortunata a poter assumere delle donne, perché sono una donna. Non mi sento minacciata da loro, anzi, le incoraggio e mi piace esserne circondata”.
Per l’album Masseduction Annie ha scelto l’ingegnere del suono Laura Sisk, già al fianco di Lorde, Eminem, Shakira, P!nk, Sia, Taylor Swift, Sigur Rós e molti altri artisti di prima grandezza. Pensare a una donna dietro a un mixer è ancora, nel 2019, piuttosto inusuale per molti giornalisti del settore, ma la storia insegna che ci sono signore che hanno combattuto per queste posizioni fin dagli anni Cinquanta: Cordell Jackson e Bonnie Guitar, per esempio, sono state due pioniere della produzione; Leslie Ann Jones, già road manager e poi tecnico del suono, negli anni Settanta venne estromessa dalle registrazioni a causa di alcune mogli troppo gelose; Susan Rogers, tecnico del suono di Crosby, Stills & Nash, ma anche di Prince, sa che la maggior parte delle donne che sceglie questo mestiere deve affrontare una lunga strada in salita: “Se una donna fa un ottimo lavoro, aiuta se stessa e tutte le altre che vengono dopo di lei. Se non è eccezionale, renderà le cose difficili per la prossima che ci proverà. Gli uomini, di solito, tendono a essere giudicati individualmente”.
Questo gap, St. Vincent prova a colmarlo a colpi di sorellanza:
Come in tutti i luoghi di potere, è necessario potersi sedere al tavolo. Se non sei al tavolo, sei sul menu. È quindi importante avere più donne in posizioni di potere per dare una possibilità a chi, per ragioni di sfortunato sessismo sistemico, non ne ha avuta ancora nessuna.
Annie Clark sa bene che la voce di St. Vincent verrà ascoltata. La sua è una condizione di privilegio e da questa posizione può permettersi di continuare a fare musica e a parlare di uguaglianza. Vestirsi in latex senza perdere credibilità, indossare calzature vertiginose e ironizzarci sopra: “Che cosa provo a cantare con i tacchi? Aiuta la postura, ma pu anche farmi traballare e questo mi piace”. Annie non è perfetta, anzi, è lei la prima a raccontare i suoi lati più fragili quando ammette di essere ricorsa ai farmaci per arginare gravi episodi di ansia. Ma è anche così che riesce a mantenersi se stessa. “Le ragazze possono arrivare dappertutto. Mia mamma non lo chiamava ancora femminismo, ma qualcosa di innato nel nostro DNA.”
Laura Gramuglia è speaker, dj, autrice.
È stata tra i conduttori di Weejay a Radio Deejay. Ha scritto di musica e donne su Rolling Stone, Tu Style, Futura e ha collaborato al lancio della piattaforma online radio e podcast Spreaker.
Per Arcana ha pubblicato Rock in Love: 69 storie d’amore a tempo di musica, Pop Style: La musica addosso e Hot Stuff: Cattive abitudini e passioni proibite. L’erotismo nella musica pop. Per Fabbri Editori Rocket Girls: Storie di ragazze che hanno alzato la voce. Su Radio Capital è autrice e conduttrice dei programmi Rock in Love, Capital Hot, Capital Supervision e Rocket Girls.
Come sempre ringraziamo le ragazze che ci hanno aiutato per questa Ghinea per il tempo e la pazienza e ti invitiamo a scriverci se ti piacerebbe fare parte di questo spazio. Noi ci rileggiamo, puntuali, tra un mese. O meno di un mese?
Un abbraccio virtuale.
Francesca, Gloria e Marzia