Speciale Ghinea #7: intervista a Nina Ferrante
Benvenutx al settimo speciale di Ghinea!
Per questo numero recuperiamo il formato dell’intervista: il pomeriggio del 25 aprile abbiamo infatti avuto il piacere di chiacchierare via Skype con Antonia Anna Ferrante, autrice di Pelle queer maschere straight. Il regime di visibilità omonormativo oltre la televisione (Mimesis 2019). Questo speciale è la trascrizione delle riflessioni colte e saltellanti di Nina, come ce le ha raccontate.
Come si descrive lei stessa, Nina Ferrante è una studiosa e un’attivista terrona frocia e transfemminista. Appassionata di cultura pop, ha concentrato gran parte del suo lavoro nella critica femminista e queer della neo-televisione e dei nuovi media.
Nel suo libro, attraverso una analisi di alcune serie e show che presentano personaggi che fino a poco fa non trovavano alcuno spazio e denominazione (precludendone, così, l’esistenza nel dibattito dei diritti civili), Nina compie una disamina sullo stato attuale della rappresentazione delle identità non etero-normative nell’ambito della cultura commerciale e pop. Le identità queer fanno il loro ingresso nella narrazione dominante e sono finalmente presenti e riconoscibili. Sono però rappresentative della comunità, delle aspirazioni, dei modi e delle forme di esistenza, o sono addomesticate e assorbite per proporre una visibilità che non scontenti e non interrompa il monologo normativo?
La criticità di questa inedita presenza nel mainstream è estrema: l’inclusione attraverso la moderazione dei caratteri dissidenti delle identità queer costruisce dei simulacri inutili e dannosi. Così mentre la pratica della tolleranza si sostituisce a quella dell’accettazione, il modello aspirazionale della comunità queer viene depotenziato nella sua capacità di investire su alleanza alternative a quelle auspicate dal sistema eteropatriarcale.
Nina ci racconta come ricercando la legittimità attraverso lo sguardo e gli strumenti del padrone non c’è risoluzione possibile – felice o meno, non importa – per le identità queer. Bisogna concentrarsi su strumenti alternativi a quelli di chi impone attraverso l’assoggettamento e l’assimilazione la normatività, e che nella normatività trova la propria rassicurante meta, al fine di condurre una esistenza indisciplinata.
L’impianto metodologico del tuo libro Pelle queer, maschere straight traspone gli studi coloniali alla queer theory però senza perdere di vista il fatto che si tratta di oppressioni diverse, anzi, calcando l’esistenza di una dimensione di intersezione.
Trasponendo la categoria di performatività nel campo del razzismo e della postcolonia svolgendo la traccia dell’“imitazione coloniale”, può essere utile per muoversi all’interno di questa interpretazione dell’omonazionalismo. Il movimento omosessuale mainstream ha introiettato nell’ultimo ventennio la propria posizione di subordinazione e oggi, all’interno di un nuovo ordine del capitalismo postcoloniale, indossa la maschera straight. Indossata la maschera, l’omosessuale è, in quanto imita, ma non è, in quanto può essere smascherato in ogni momento come imitatore. Questo processo impedisce dunque il costituirsi come soggetto di autotrasformazione per l’omosessuale che ambisce solo a un’assimilazione subalterna. Se i capisaldi su cui regge questo nuovo ordine sono le politiche securitarie, il razzismo, l’islamofobia, anche l’omosessuale può imitare la normalità performandola in modo grottesco, esagerandola, producendosi come difensore dei valori della famiglia nucleare, promotore di campagne contro gli immigrati, supportando interventi militari in Medioriente, fornendo legittimazione culturale alle moderne crociate contro l’Islam, arruolandosi nell’esercito. (p. 44)
Ci puoi raccontare a livello di studio come hai traslato questa metodologia senza perdere di vista da dove proviene, la specificità del suo impianto?
Due cose: la prima è che il libro nasce dal confronto che ho fatto non soltanto coi testi, i libri, la ricerca, ma anche tanto con le mie comunità politiche. Il lavoro mirava a rendere accessibile una tesi di dottorato e farne, per chi volesse, uno strumento che potesse servire a qualcosa nelle comunità che producono pensiero trasformativo. Sono convinta che per molte questioni, e soprattutto per il femminismo e le questioni di genere, molto viene prodotto nelle comunità politiche, e solo in seguito l’accademia fa una sorta di traduzione, cioè mette a valore, a volte rubando, espropriando dalle comunità politiche, e traducendo questo pensiero in un linguaggio accademicamente accettabile. E quindi il lavoro è stato fatto in un tempo lungo che è quello della ricerca di dottorato, ed è passato altro tempo lungo – poiché sono una straprecaria della ricerca – prima di poterlo pubblicare, e quindi ora devo fare un lavoro di recupero non soltanto dei ricordi, ma anche le genealogie di quei percorsi.
Questo pezzo che sottolineavate ci tengo a dire che è una trama larga: è un pezzo che, nel suo cuore, avevamo elaborato insieme a delle persone che stavano nel SomMovimentonazioAnale per ripensare la questione del nazionalismo e dell’omonazionalismo in un periodo storico particolare che era quello, per esempio, dell’approvazione della legge Cirinnà. Ci interessava fare un ragionamento su come tutto l’immaginario che si era prodotto intorno a quel momento specifico ci interrogasse, anche come antirazziste. Molte di noi si sono rese conto di essere un po’ in conflitto con l’immaginario della nazione perché terrone: cosa significava per me questo tricolore e tutta la retorica della liberazione che segue sempre dei percorsi che vanno verso nord? Che cosa significava per noi da frocie poter provincializzare, nel senso di poter osservare da dei margini che non sono quelli del centro, della nazione, in cui si produce il discorso accademico?
E questa è una parte della genealogia. Un’altra parte è un po’ più vecchia, si tratta di un incontro che per me è stato particolarmente importante. Io per un periodo ho studiato a Parigi mentre nei nostri collettivi a Napoli c’erano delle persone che erano francesi, tra l’altro non bianche. Grazie a questi scambi ho cominciato a leggere Elsa Dorlin, teorica femminista black francese che ha fatto un grande lavoro di traduzione della teoria postcoloniale in un femminismo incarnato nella banlieu parigina. Le sue riflessioni traslano la teoria del mimetismo, che è stata molto approfondita nel pensiero postcoloniale, all’interno di percorsi che riguardavano le femministe della seconda generazione e quelle che si chiamavano le Indigènes de la République in Francia. Dorlin aveva scritto questo pezzo bellissimo (che è stato tradotto in italiano) che si chiama Performe ton genre: Performe ta race! che sostanzialmente prendeva tutta questa teoria del mimetismo e la declinava nella prospettiva di genere. Il punto è che quando hai degli strumenti così importanti devi farne buon uso per tradurli in qualcosa che sia utile nel pensiero e nella congiuntura politica in cui ti trovi.
[Alt Text: ritratto di Elsa Dorlin durante una conferenza. Fonte.]
Nell’introduzione parli di “energie affettive” in sostituzione di ciò che viene dettato dall’alto o, più che dall’alto, dal centro, da cui ricavi un’idea di provincialismo positivo, inteso come “parlare dai margini”. Proprio perché parliamo di margini e di soggettività che non sono mai state poste al centro, e che tu osservi soprattutto nella trasmissione televisiva e nei canali di streaming online che le mettono al centro, ci domandiamo: ma quindi si può fare resistenza soltanto restando nel margine? Dev’essere la presa di posizione della queerness una scelta consapevole e costante di non affiliarsi e non accentrarsi? Come facciamo a spostare il focus sul margine anziché spostare il margine al centro? Ci rendiamo conto che non c’è una risposta definitiva, ma ci piacerebbe chiederti come vivi tu il margine e come fai a riposizionarti quando poi devi praticare la resistenza?
Questa è una bella domanda, per chi fa attivismo credo che sia quella che dovrebbero tenere come domanda introduttiva di tutte le assemblee e dei percorsi politici. Non posso dare una risposta né esaustiva né esclusivamente personale, ma posso portare contributi da quello che viene da me e intorno a me. Una cosa preliminare: io non ho potuto cambiare il titolo, Pelle queer maschere straight, provo a fare questa operazione nel libro, però neanche più di tanto. Quando faccio dei corsi all’università provo a dire per prima cosa “troviamo una parola per dire queer”. Finocchio? Frocio? Ricchione? Io sono napoletana, quindi mi esce ricchione, però mi rendo conto che altrove [si usano altre parole], poi declinare tutto al femminile destabilizza ancora di più. Credo sia un esercizio che permette di fermarsi un attimo per ridere, disturbarsi, interrogarsi su cosa significa produrre una “teoria ricchiona”, e credo che soprattutto quando questa cosa viene prodotta in uno spazio accademico sia importante farlo. In ambito anglofono la parola queer si è patinata, glamourizzata, e ha cominciato a significare tutt’altro, e in Italia è arrivata già nel pacchetto glitterato. Per noi che stiamo in questo spazio, la domanda costante riguarda non soltanto come stiamo nei margini, ma anche come possiamo utilizzare questo strumento per destabilizzare, per frocizzare le cose che stanno intorno a noi.
Credo che questo sia un po’ l’esercizio che dobbiamo fare in un momento in cui queer significa un sistema di parti, un pensiero accademico e quindi delle gerarchie all’interno dell’università. In che modo posso fare una capriola storta nei sistemi disciplinari, e permettere di guardare gli archivi, la produzione televisiva, la socializzazione? Come guardiamo questa cosa in modo destabilizzante? Che significa non affezionarsi a delle rappresentazioni sfiganti ma al contrario cercare di capire come destabilizzare in continuazione anche quello che si produce in termini di gerarchie nel femminismo.
Ultimamente io mi sono ritrovata a presentare il libro a Macao, un luogo occupato di Milano, mentre loro stavano facendo un percorso sulla Marciona: ormai tutto è cambiato, ma all’epoca era previsto che il Pride mondiale si tenesse a Milano, preceduto da alcune giornate di convention sul turismo “gay friendly”. Andando ad aprire il pacchetto “ufficiale” messo a punto dalle istituzioni milanesi, però, ci si rende conto che sono state prese tutte le parole relative all’“accoglienza”, ma rideclinate in un modo assurdo. C’è tutta una retorica, per esempio, del “turista cittadino”, oppure tra i maggiori sponsor fieristici c’è lo stato di Israele. E allora è interessante rideclinare tutta la questione che noi abbiamo fatto negli anni passati su omonormatività e omonazionalismo. Ormai i matrimoni sono una realtà anche in Italia, ma quella roba lì ci è ancora utile? In che modo? Cominciamo a riflettere su come si costruiscono all’interno della nostra città dei confini che sono prodotti dalla turistificazione, e in che modo le persone frocie sono agenti di questa costruzione di barriere, di meccanismi di consumo e sfruttamento che poi con Airbnb portano la gente a essere sloggiata dalle case o ad affitti inaccessibili.
Quindi abitare i margini significa innanzitutto fare privilege check e capire in che modo noi siamo parte di queste costruzioni di confini e discorsi di potere, e dall’altro lato capire in che modo fare delle capriole storte per destabilizzarli.
In Gli argonauti Maggie Nelson scrive “il capitalismo ci sta fottendo anche il queer” per indicare l’idea di commercializzazione del soggetto queer acquista visibilità e spessore solo nel momento in cui lo si può ridisegnare a seconda delle necessità del neoliberismo e del consumismo.
Un po’ l’immagine che mi viene in mente, e quello che viene spesso raccontato, è che le persone nere e le femministe sono entrate in una stanza in cui intorno a un tavolo c’erano i compagni e gli accademici che stavano studiando e costruendo un soggetto universale che era il soggetto proletario, e hanno detto “guardate, ci siamo anche noi” e hanno ribaltato il tavolo. Il queer è come le porte girevoli, entra e comincia a ribaltare il tavolo all’infinito: voi siete le femministe e avete rifatto il tavolo? E noi ve lo ribaltiamo di nuovo. La queerness è produrre questo ribalto perpetuo.
[Alt Text: collage di 12 delle 14 drag queen concorrenti alla nona stagione del programma; ognuna delle drag queen (tra le quali Peppermint) indossa un abito di colore diverso a ricomporre un arcobaleno Fonte.]
Difatti, sulle “Mostre Terrone Femminelle” tu scrivi che “è uno sfidare un modello di queer ideale che cancella le esperienze di eccentricità e dissidenza dai generi che esistono a livello locale”. Andando sulla linea del queer come parola glitterata che noi arriva piena di lucine e con poca resistenza politica, dobbiamo chiederti di parlarci della situazione RuPaul. Tu fai un’analisi non solo del programma RuPaul’s Drag Race(conosciuto in Italia anche come America’s Next Drag Queen), ma anche della sua struttura, da dove proviene e come viene televisizzata: anziché una sfida giocosa ci troviamo davanti a un metodo piramidale di sopraffazione, in cui un solo individuo definisce l’unico modello da seguire per diventare “persona drag”. Raccontaci anche come hai portato avanti questa analisi, se vuoi anche per espandere quella nota in cui segnali che, che per questioni di tempo, non hai potuto affrontare il caso Peppermint.
Devo dire, come tutti i prodotti che ho deciso di analizzare l’ho fatto mossa dal piacere. Non mi sarei mai immaginata, non avevo desiderio di fare quella roba tipo “adesso vado con la penna rossa e sottolineo tutte le cose che fanno cagare”. Se sei mossa dal desiderio di studiare per cercare le cose che fanno cagare, stai evidentemente facendo una scelta, ma ti muove una passione triste che non ti darà l’energia per andare avanti. Quindi ho scelto delle cose che mi piacevano. Siccome ero caduta dentro RuPaul’s Drag Race ho pensato che, insomma, era l’oggetto perfetto per la mia ricerca. Poi, è strano, perché da lì sono andata a ritroso e ci ho trovato prima Paris Is Burning [documentario sulla scena delle ball newyorchesi degli anni ‘80, diretto da Jennie Livingston nel 1990], ci ho trovato Butler, poi ci ho trovato bell hooks, e poi ci ho trovato tutta una ricchissima letteratura che aveva letto [il programma RuPaul’s Drag Race] e analizzato la scena drag, cioè la scena delle ball, quando stava fiorendo. Ho scritto la tesi mentre, credo, andava onda la quinta stagione e adesso penso di averne anche perso il conto. Devo dire che, esclusa la stagione in cui ha vinto Sasha Velour, non l’ho più seguito perché ero veramente annoiata dal ripetersi di coazioni allo stare nel politicamente corretto, nel discorso della nazione, nel rinforzare il militarismo, la patria la famiglia nelle sue accezioni più deplorevoli.
Già una parte della mia delusione si era realizzata, però devo dire che dopo la quinta stagione sia diventato insopportabile. Notavo soltanto Sasha Velour, perché mi sembra che quello sia stato un vero e proprio dono che hanno fatto, come produzione televisiva, alla quantità di accademici che si sono messi a studiare RuPaul’s Drag Race. Cioè, io ho pubblicato con Routledge su RuPaul’s Drag Race, ed è l’unica pubblicazione decente a livello internazionale che ho! Lo dico perché sono al secondo tomo di quel libro, che sta raccogliendo nuove ricerche su RuPaul’s Drag Race: vi giuro che attorno al mondo ci sono una quantità di accademici che lo stanno studiando che io manco me lo potevo immaginare.
Io sono arrivata a RuPaul’s Drag Race in un modo un po’ strano, che era attraverso il lutto. È stata anche una cosa destabilizzante perché tutti quanti si aspettavano che occupandomi di drag queen ci fosse quella roba del “dai, facce ride”, e invece io ci sono entrata a lutto! Ovviamente un prodotto televisivo che dichiara e affonda le proprie origini nella tradizione delle ballroom degli anni ‘80 e ‘90 non può non portare con sé una serie di questioni che sono, appunto, l’epidemia di AIDS e il lutto. Inoltre, la significazione delle reti affettive nel sistema delle houses e che cosa significasse per queste comunità, in primo luogo, la costruzione di legami che siano emotivamente significativi, sostenibili, affidabili nel momento del bisogno, e, in secondo luogo, la questione del riconoscimento, declinato, tuttavia, in un modo molto diverso dalle politiche dell’accettabilità della legittimazione dei diritti. Io voglio essere riconosciuta perché so’ figa, perché faccio ridere e perché sono più donna, più passing, più ricca, posso produrre più opulenza di quanto non riesca a fare una donna bianca con i soldi in tasca. Insomma, credo che fino a quando RuPaul’s Drag Race ha permesso a questa tradizione di trovare nuova linfa per poter fiorire in nuove direzioni era un racconto che mi interessava analizzare, poi, quando il discorso è diventato “discorso della nazione”, i fiori erano già marci. Era interessante capire, però, anche quel punto di vista. Se noi diciamo che la performatività drag ci racconta qualcosa su come viene costruito il sistema dei generi, come copia senza originale, probabilmente è anche interessante capire in che modo esiste anche un drag della patria, no? In che modo viene costruito il discorso della patria e portato ai suoi eccessi, e che tipo di sistema può andare a far esplodere o validare? Mi sono ritrovata in questa grande contraddizione perché, come ho detto, non solo avevo lasciato andare il programma, ma ad un certo punto si sono presentati conflitti rispetto a quanto accadeva nella comunità trans, nello specifico, la protesta su come utilizzare un linguaggio che non fosse politicamente scorretto.
“The library is open!”. L’uso dello slur e delle varie traduzioni di queer sono funzionali anche ad alimentare anche una certa rabbia per tenersi vive e attive in una certa maniera, no? Quindi se ci vuoi parlare anche del PC e del linguaggio non politicamente corretto all'interno di RuPaul’s Drag Race, com’è cambiato e anche come cambia al di fuori della TV, che tipo di protesta c’è stata.
Il mio lavoro di ricerca si accompagnava anche a un lavoro di montaggio, ho utilizzato una metodologia che si chiama slash tape. Sono i fan video, su YouTube ce ne sono un sacco, per esempio quelli di Star Trek che fanno nascere la storia d’amore tra Kirk e Spock, ce ne sono su Law & Order, eccetera. Sostanzialmente si ritagliano i personaggi e li si mette all’interno di un’altra trama, ed è quello che io faccio con i personaggi delle varie serie televisive, materialmente con dei video. Sul reading in particolare, c’è un passaggio in Paris Is Burning in cui Venus [Xtravaganza] lo fa, dice “Touch this skin!” e accusa l’altra persona di essere un orangotango. Montando questa roba ho avuto un’illuminazione, perché una trans napoletana, diventata famosissima e virale, Laura la Divina, fa dei video da casa sua in cui dice: “Tocca: so’ liscia e senza nu pil’ e tu si’ King Kong spas’ ’o balcon’” [“Tocca: sono liscia e senza un pelo, e tu sei King Kong appeso al balcone”]. Mi ha colpito tantissimo che le due, in epoche storiche diverse, senza essersi conosciute, senza avere niente in comune, avessero utilizzato un repertorio che diceva le stesse cose.
Se da un lato bisogna resistere alla tendenza a omogeneizzare tutte le esperienze di queer, dall’altro lato bisogna riconoscere che, per esempio, la questione dell’insulto è sempre stata uno strumento di autodifesa e, allo stesso tempo, autonarrazione: determinate cose tu non me le puoi dire perché sei fuori dalla comunità, io le posso dire alle persone della mia comunità, anzi, te ne dico anche di peggio a te. Quindi c’è tutta una questione che riguarda la politica dell’insulto che noi frocie conosciamo bene come appropriazione, ribaltamento e pugno in faccia. A un certo punto nella serie nasce un po’ di questo dibattito ed è intervenuto anche Jack Halberstam su tutta la questione del trigger warning e su come ci debba essere una tutela e uno spazio ovattato in cui gli studenti di queer studies si devono trovare, in cui la narrazione televisiva si deve svolgere per l’accettabilità. La questione è che certe cose io le posso dire e tu non le puoi dire. Parafrasando quello che dice Halberstam: non ti posso fare dei trigger warning sull’architettura nazista e sui video che mostrano dei corpi dicendoti “stai attento, potresti esserne affascinato!”. Quella è la contraddizione in cui ti ci ritrovi tu, e ti ci devi saper gestire. Tutto questo, però, ha un senso anche ammettendo che il politicamente corretto è un modo di addomesticare quella comunità.
C’è un’espressione di Fanon che mi piace, anche se non la ricordo bene, dice qualcosa del tipo “il bianco non ferisce la lingua”, ed è quello che è successo dentro RuPaul’s Drag Race. C’è stata prima un’intera fase in cui abbiamo ripulito il linguaggio, dopodiché, però, con una serie di interviste RuPaul declina l’opportunità di avere delle donne trans all’interno del programma. Anche per questo bisognerebbe fare una serie di disclaimer: che cosa significa una donna trans? Perché molte di quelle donne si potevano autorappresentare, autodefinire e narrare socialmente come trans da molto prima di stare nel programma. Il punto è che RuPaul s’era preso la briga di definire cos’è trans, e fare un discorso assurdo sul fatto che sono la terapia medica o l’intervento chirurgico a definire la transness di una persona. Una volta descritto questo perimetro – che comunque non è univoco nella comunità trans – RuPaul decide di tenere fuori tutta una serie di persone. Penso che questo discorso gli sia tornato indietro come un boomerang sulle gengive, perché nelle serie successive tutta questa roba qui l’ha dovuta un pochino ridefinire. Però è interessante notare come ci sia stato, a un certo punto, un livello di sicurezza di sé tale da potersi permettere di raccontare anche quali sono le parole ultime e definitorie della soggettività trans.
In parte si tratta, forse, dell’assimilazione finale: prendersi il ruolo di potere e quindi, anziché farsi portavoce, fare la voce che assolutizza e decide. Poi il caso Peppermint [prima concorrente apertamente transgender del programma] fu particolarmente sconvolgente perché, con molta serenità, RuPaul disse qualcosa sulla linea di sì, è vero, lei si identificava già come donna, però non aveva mica ancora l’impianto al seno [intendendo che non avesse davvero completato la transizione]. Quindi quali e quanti sono i gradi e i criteri? Quanto uomo o quanto donna? Tanto sembra esistere solo un codice binario ed è RuPaul a decidere l’altezza dell’asticella. Fu un momento abbastanza terrificante.
Poi, soprattutto, quale operazione chirurgica è definitoria o meno? Perché come ci insegna il reading di Alaska a Detox, “è illegale scopare con te perché nessuna delle tue parti del corpo ha più di diciotto anni”.
[Alt Text: il cast di Orange Is the New Black. Fonte.]
Passiamo a Orange Is the New Black, che è una serie forse più famosa e più seguita rispetto alla dimensione RuPaul’s Drag Race soprattutto in Italia. Tu proponi una rielaborazione dell’idea di lesbica come soggetto politico al fine di annullare la categoria maschile intesa come potere egemonico, economico e sociale. È possibile partire da questa tua idea della lesbica come soggetto politico per provare a capire la situazione dei movimenti lesbici separatisti attuali, quelli non transfobici perlomeno? Senza voler fare come RuPaul e decidere noi la linea tra cosa è transfobico e cosa non lo è, cosa è giusto e cosa è sbagliato all’interno della comunità lesbica, forse si è un po’ persa di vista una certa necessità di rispecchiamento del soggetto lesbico in altri soggetti lesbici. E questo è successo perché si è tentato di depoliticizzare il soggetto lesbico. Quindi poi ci ritroviamo con chi alza la voce, che di solito sono le stesse persone che poi muovono violenza verso il prossimo anziché cercare di rafforzare la propria identità, la propria situazione intesa come potersi situare nel mondo e nelle comunità nella maniera che ritiene più giusta.
Questa è una domanda difficilissima. Devo dire che tutta la parte su OITNB se la riscrivessi oggi probabilmente la scriverei in modo molto diverso, perché sono successe delle cose importanti nel frattempo.
La prima sono degli incontri personali e accademici. Da allora ci sono stati per esempio i laboratori e le traduzioni di [Monique] Wittig. Con laboratori intendo, per esempio, i laboratori che ha fatto Rachele Borghi per Agape, e tutto il lavoro che è stato fatto di risignificazione degli scritti di Wittig, anche un po’ di messa a lavoro di un pensiero che riguarda cosa significa l’essere lesbica politicamente, incluso un lesbismo radicale messo a lavoro oggi nella nostra congiuntura. Credo che quegli incontri personali e quelle letture abbiano, di fatto, arricchito quel mio vecchio punto di vista. Per esempio, alcune delle espressioni che ho utilizzato non erano veramente appropriate, oggi le avrei ripensate con più cura. E soprattutto da lì a oggi è successo Non Una Di Meno. Credo che questo rappresenti, da un lato, un grande avanzamento del transfemminismo in Italia, il che significa uno spazio più ampio del femminismo, da cui però certe soggettività lesbiche si sono sentite escluse, reagendo con un atteggiamento di difensiva, ma anche di grande arretramento.
Quindi la sfida che noi abbiamo come lesbiche, in questo momento, è comprendere qual è il nostro posizionamento e il nostro contributo in questo spazio transfemminista. Non soltanto in termini solidaristici per chi ci sta intorno, ma capire in che modo noi definiamo le questioni che riguardano la salute dei corpi, l’autodeterminazione, l’accesso al reddito e la violenza in una prospettiva che non sia soltanto solidale con le soggettività trans o le nostre compagne e sorelle che non hanno accesso all’aborto o sono all’interno di relazioni violente. Capire qual è il posizionamento delle lesbiche è il punto di vista e la chiave di lettura in questo transfemminismo. Credo insomma che avremmo dovuto reagire e ricostruirci come soggettività politica in questa prospettiva.
Dà un sacco di fiducia, perché significa che questi tavoli di discussione possono davvero funzionare. C’è un momento in cui si ritorna a guardarsi dentro per agire assieme.
Il punto è che alcune discussioni (forse non conviene manco nominarle, tanto ce le abbiamo tutte presenti) sono state talmente tanto polarizzate sulle posizioni più disparate, che alla fine le posizioni di buonsenso non riescono a emergere. La complessità non riesce a emergere, perché se le questioni sono “o… o” tutta l’attenzione e la cura che ci vengono richieste nel posizionarci in questioni che non hanno invece un’esclusività, non hanno spazio per potersi inserire.
Niente da aggiungere, è esattamente questo: la complessità dell’identità e dei soggetti. Ce l’aveva già detto Hannah Arendt, forse dovremmo cominciare a tenercelo a mente un po’ più regolarmente.
Posso aggiungere una cosa? Il capitolo su OITNB ovviamente, da lesbica, per me era un capitolo in cui ci poteva essere più spazio di autonarrazione. In realtà poi non lo è, ma lo è nei termini in cui in quel capitolo c’è anche molto la frustrazione di doversi confrontare con un femminismo che non ha voluto ripensare se stesso e che non riesce a riconoscere in continuazione anche le linee di potere e le chiusure, le gerarchie epistemologiche che ha prodotto al suo interno, sia nello spazio della politica che nello spazio dell’accademia. Quindi parlare della lesbica per me non è stato uno spazio autoaffermativo nei termini dell’affettività o del corpo – perché si parla di altri corpi in quel capitolo – ma invece è stato un modo per potermi posizionare nello spazio politico e nello spazio dell’accademia in termini anche di dialettica.
Il capitolo è molto vario in questo senso, nonostante possa apparire un po’ didascalico perché va a osservare delle identità, per così dire, specifiche riproposte sullo schermo. Tu ragioni sul disciplinamento dei corpi e delle identità dissidenti per poter rinforzare delle politiche di oppressione a diversi livelli. Il discorso all’interno della prigione non va che a rinforzare ciò che viviamo fuori e viceversa. C’è un passaggio in particolare, in chiusura, che è interessante perché parla della messa in uso delle tecnologie, che arriva dopo aver fatto uso della tradizione conoscitiva e argomentativa in lingua italiana, soprattutto Carla Lonzi. Raccontaci, per esempio, dell’uso del cacciavite per come lo definisci tu, completamente spogliato della sua carica simbolica patriarcale, non addomesticato, spoglio del suo potere iniziale e ricaricato di altri valori.
Ho cercato di fare questo lavoro a partire dagli oggetti perché mi ero proprio chiesta – visto che analizzo il caleidoscopio delle identità sempre più piccole, ma comunque sempre fisse – come posso de-essenzializzare il discorso sulle identità? Magari ritornando alla materia e al racconto degli oggetti. E quindi utilizzo lo specchio per raccontare la relazione col femminismo e l’auto-osservazione, poi utilizzo il cacciavite e lo ridefinisco. Nella tradizione degli studi culturali c’è questa cosa che viene da Stuart Hall, il cosiddetto floating signifier, un significante che cambia in continuazione significato a seconda del contesto in cui si trova. Proprio come nella serie [OITNB] questo oggetto diventa, in momenti diversi, un regalo, qualcosa che ti puoi far dare dalla polizia, un’arma per uccidere qualcuno, torna a essere un dono, diventa un dildo. Provo ad analizzare i diversi usi di questo oggetto fino a quando poi non diventa dildo, e ci interroga su tutta una serie di questioni come la tecnologia prostetica del gender. D’altro canto, però, seguire il cacciavite mi ha permesso di poter entrare in una relazione anche dialettica con un certo femminismo, e lo dico con molta umiltà, perché ritengo Lonzi uno dei punti di riferimento più importanti del pensiero femminista italiano, e di conseguenza è anche molto studiato, ben conosciuto e anche ben custodito da un certo femminismo. Quindi, poter dire che messa a lavoro [Lonzi] può raccontare anche di altri percorsi e altre storie e altri femminismi è un azzardo...
…che funziona! È possibile mettere a lavoro Lonzi come hai fatto tu.
Non so se chi la custodisce sarebbe d’accordo, è quello che succede anche ad altre femministe italiane. Io sono napoletana e penso a Lina Mangiacapre, no? Anche lei è ostaggio di un certo femminismo che non ne vuole leggere la potenzialità in un discorso che faccia nascere il femminismo come frattura epistemologica e politica. Quindi torniamo a quello che ci dicevamo prima: in che modo noi continuiamo a produrre nuove fratture all’interno dei nuovi sistemi gerarchici? Per esempio, tutta la questione della donna clitoridea che però potrebbe provare il dildo: sarebbe un modo per ripensare come non scrivere nuove verità sul sesso e poter provare, invece, a continuare a interrogarci su come mettere a lavoro quella teoria.
Quel capitolo, tra l’altro, nasce da un articolo che ero stata invitata fare su una lettura di Elena Ferrante e Goliarda Sapienza. Era un seminario della Società delle letterate, avevo provato a leggere, un po’ perché mi sembrava che fosse già nelle pieghe del testo, la relazione tra Lila e Lenù [le protagoniste della tetralogia L’amica geniale di Elena Ferrante] come una relazione che ha anche dell’erotismo carsico, una relazione tra due archetipi di donne. Il punto è, in che modo poi non far diventare questi archetipi delle figure che non si possono più toccare? Perciò opponevo a loro L’arte della gioia. Modesta, la protagonista del romanzo, è un modello che invece incarna una femminilità dissidente, una maternità all’interno di una comunità che non è segnata soltanto dalla linea del sangue, ma da relazioni emotivamente affidabili e costruite su altri legami, una sessualità destabilizzante e orrifica. Mi sembrava che la contrapposizione funzionasse bene, e ho provato a rimetterla a lavoro anche in questo testo.
[Alt Text: ritratto di Goliarda Sapienza. Fonte.]
Attraverso Sara Ahmed indichi i modelli di felicità super eteronormativi in cui la felicità stessa a un certo punto viene posta come il fine di un percorso, anziché essere messa in discussione e resa essa stessa parte di un processo. Proponi di sottrarsi alla felicità come meta, adoperandola, invece, al fine di reinventare condivisione. Con la rinegoziazione dei rapporti, la gestione delle vicinanze e delle lontananze affettive si crea sulla base delle gioie che si è in grado di darsi a vicenda. Diventa così possibile sottrarsi a una sorta di intimità imposta, che spesso finisce per danneggiare la felicità, mentre la condivisione per scelta porta, ed è in qualche maniera compartecipe alla gioia. Come creare e reinventare una kinship, che tu traduci con “parentela radicale”?
La ricerca era nata in un momento particolare, la perdita di mio padre dopo una malattia che era stata molto lunga, e particolarmente intensa nell’ultimo anno. In quello spazio, ovviamente, ho dovuto fare un percorso che era personale, e che riguardava la questione del lutto e la questione delle reti emotive. Chi di noi non si è trovata nella vita a destabilizzare tutto quello che abbiamo dato per certo, in termini di legami familiari? E anche tutto quello che significano: sapere di poter contare sempre su qualcuno, che quello è anche un po’ un cappio, sapere che se anche hai dei problemi economici puoi ritornare sempre in una casa, ma quella casa può anche essere un posto, alle buone, di grande frustrazione, se non, per alcune, un posto un po’ pericoloso, una prigione. Sapere che allo stesso tempo abbiamo una possibilità di costruire altri legami familiari, che può essere anche costruire un’altra famiglia intesa come nucleo, o costruire attorno a noi delle reti, delle ragnatele che nel momento in cui cadiamo ci possono tenere. Però il punto è la questione del potersi affidare: quante di quelle reti sono emotivamente affidabili ed economicamente sostenibili?
Ovviamente in un momento in cui, per la mia biografia, queste domande erano al centro dei miei pensieri, anche se avessi voluto fare una ricerca su tutt’altro, di fatto in continuazione facevano eco queste domande. Tutto quello che stavo chiedendo a me stessa su che cosa significasse “parentela”, che cosa significasse la costruzione di comunità e quanta fiducia possiamo mettere nel desiderio di costruire. Non è soltanto una questione di pretendere la fiducia negli altri, no? È anche riconoscere in se stesse il desiderio di volersi affidare. Dato che noi non abbiamo delle esperienze che ci insegnano la possibilità di poterlo fare, io lo dico nel libro, è come una danza contact: devi avere la certezza che l’altro ti tenga ma neanche paura a buttarti.
È un po’ la tensione di chi si interroga, io ho utilizzato la parola “parentele radicali”, però in Italia ci sono comunità che si sono interrogate sulla famiglia, sulle altre intimità e su modi di pensare le relazioni fuori da ciò che abbiamo imparato nella nostra società dal patriarcato, dal capitalismo, dalla religione, dai nostri genitori. Poi, paradossalmente, la cosa incredibile è che mia madre ha avuto un modello di comunità, sebbene non una comunità di fricchettoni, allargata molto più di me, perché sua madre è un’operaia, lei è cresciuta con le sorelle di sua madre, e le altre sorelle pure erano operaie… quindi è cresciuta in un campo di relazioni estese, mentre noi abbiamo dei riferimenti che sono sempre più stretti. Si tratta, quindi, di un lavoro di liberazione e di emancipazione, fatto un po’ nei legami che devi recidere, ma soprattutto in tutto ciò che devi tessere. Molto spesso questa tessitura avviene nei momenti difficili, avviene nei momenti in cui ti confronti con la malattia, con il lutto. Pensate a tutto ciò che ha prodotto il riconoscimento collettivo del lutto nelle comunità che si confrontavano con l’epidemia di AIDS negli anni ‘90, il riconoscimento dei legami avveniva nella performance collettiva, anche dei funerali stessi.
Detto questo, mentre facevo la ricerca, una delle mie professoresse a un certo punto mi ha detto “Nina, già tu sei lesbica, non fare The Well of Loneliness [romanzo del 1928 di Radclyffe Hall, tra i primi nel mondo anglofono a trattare apertamente di lesbismo], di lesbiche che parlano di questa roba ce ne abbiamo già troppe”. Non è un percorso di allontanamento dalla felicità, ma al contrario è un percorso per mettersi scomode nella scomodità e dire: ci sono un sacco di situazioni in cui, anche quando dobbiamo fare dei check dei nostri privilege, dobbiamo semplicemente ascoltare e metterci scomode nella scomodità. Pensare che quel pungolo che teniamo dietro il culo è quello che ci permette di non strutturare mai delle nuove relazioni di potere, perché siamo lì e non ci mettiamo con il culo pesante. E questo è il lavoro della feminist killjoy, la guastafeste: non è che noi rifuggiamo i momenti di felicità – perché fortunatamente da questo punto di vista io sono spinoziana nella ricerca di passioni che mi rinforzano – piuttosto, non trovare nessun momento di complicità nei discorsi razzisti, della nazione o che in qualche modo riproducono degli stereotipi di genere… tutto quello che ci accade la sera di Natale, per intenderci. Questo è il lavoro della feminist killjoy, che è stato recentemente tradotto in italiano, grazie a Lesbitches e al lavoro continuo che fanno di produzione di parole per chi vuole parlare in italiano di questa teoria, e per chi vuole usare negli spazi politici parole ad alta potabilità. Io comunque mi sento ormai oltre la femminista guastafeste e credo di essere già arrivata alla femminista grinch.
[Alt Text: fotogramma dalla serie Transparent. Maura seduta in abito rosso si guarda meravigliata allo specchio mentre Davina, amica e mentore, fa altrettanto alle sue spalle Fonte.]
Uno dei problemi che sorgono importando il modello di famiglia in un contesto queer riguarda le parole. Per esempio, a RuPaul ci si definisce come mamma Ru, quindi si crea una famiglia drag sulla base del riconoscimento, della compatibilità identitaria, politica, affettiva, e come giustamente sottolineavi prima soprattutto di fiducia. Si tratta quindi di un concetto di famiglia che si oppone all’idea del castigo e del dovere patriarcale: una famiglia di elezione. Però le parole restano quelle. Come possiamo smarcarci davvero dal materno simbolico se continua a esistere una mamma Ru? C’è un possibile paragone col trovare finalmente una nuova madre che è una madre nascosta in Maura di Transparent, a cui viene dato il nome di Moppa. Quanto inventare nuove parole, allontanandoci così da un lavoro di riappropriazione e andando verso uno di reinvenzione del linguaggio, può essere funzionale a immaginare nuovi modelli e poi a metterli in pratica?
Su questa roba qui Judith Butler, credo ne La rivendicazione di Antigone, parla di parole violente. Per esempio la parola madre, però messa su una persona con i baffi che allatta da un seno che non esiste una figlia che non è uscita dalla sua pancia, come avviene in Paris is burning: quella roba lì prende la parola madre e la porta oltre i confini di dove dovrebbe stare e li fa esplodere. Quindi ci sono delle parole che utilizzate fuori dal loro perimetro hanno un uso deflagrante anche del significato che portano con sé.
Tra l’altro sulla questione degli archetipi io ero entrata nella questione della dialettica col femminismo. Mi sembra un concetto un po’ complesso che non vorrei buttare lì, ma la legge del padre è quella che viene continuamente messa in discussione perché sono le leggi che noi socialmente riconosciamo come nostri limiti e che possiamo sfidare. La legge della madre è quella che teniamo dentro di noi e che è molto più difficile sfidare perché quando la metti in discussione stai mettendo in discussione te stesso, perdi veramente i punti di riferimento quando lo fai. E quindi se la legge del padre è la rappresentazione sociale del patriarcato la legge della madre è il femminismo, e se io questa madre la sfido mi destabilizzo ulteriormente perché perdo il punto di riferimento più importante. Però questo è un altro discorso rispetto alle parole.
Poi c’è un’altra questione che riguarda l’invenzione di un linguaggio produttivo. Wittig è maestra di questo. La difficoltà di riportare certe autrici in altre lingue è proprio questa: hanno inventato una lingua per raccontare delle cose che non esistevano ancora. Tutto il dibattito sulla traduzione di tutte le parole gender neutral o la questione dei pronomi riguarda questo: la comunità che ha il bisogno politico di questi termini deve fare lo sforzo produttivo e immaginativo di produrre una lingua per immaginare se stessa. E quindi non basta l'accademia illuminata nella produzione di una lingua, ma serve un’intera comunità che abbia bisogno di una lingua per parlarsi.
Un passaggio molto bello nel tuo testo è quando parli della “mascolinità mortificante” e di come vediamo in azione diverse identità in una stessa situazione, in particolare quando ti soffermi su l’idea di autorevolezza anziché di autorità in modo da segnare la propria esistenza identitaria anziché imporre il proprio ruolo, perché poi che ruolo ha il potere nelle dinamiche queer?, possiamo sperare che diventino completamente esenti da questa sovrastruttura?
Durante la cena di Shabat la famiglia (allargata) si riunisce a tavola composta di sole identità non-maschili. Len, ex-marito di Sara, arriva in anticipo a prendere i bambini con cui trascorrere il weekend e "con l’argomento di proteggere i bambini, si scaglia con violenza contro il gineceo" (p.61), minacciando addirittura di evirarsi nell'ipotesi che questo gesto "renderebbe tutto più facile”. Lì c’è un dialogo importante che riporti, quando Maura si rivolge direttamente a Leonard, l’ex marito di Sara, e gli dice “Leonard, mi dispiace. Ho sbagliato io. Avrei dovuto chiamarti. Caro, avrei dovuto invitarti a prenderci una cosa e avremmo dovuto parlare. Ma non l’ho fatto.” (p.61). Ci ha dato l’idea di un parlare proprio da uomo a uomo come se Maura avesse dovuto prima di tutto rendere consapevoli tutti gli uomini che si stava sottraendo a questo ruolo patriarcale e di figura maschile.
Io l’ho sempre letto diversamente quel passaggio, come invece un “probabilmente avremmo dovuto coinvolgerti e non farti ritrovare già all’interno di una cosa in cui tu avevi un ruolo che non avevi scelto”. L’ho letto come un gesto di cura e non come un confronto alla pari tra maschilità.
Non che Maura lo andasse ricercando ma si fa quasi necessario ristabilire una orizzontalità come percepita da Leonard – da uomo a uomo, anziché da persona a persona –; Leonard è incapace di vedere quella stessa persona che conosceva come Mort vestire i panni di Maura (che sono l’esaltazione della sua vera identità). E questo apre una questione rispetto all’alleanza: cosa significa essere alleati della comunità queer senza essere nella comunità queer? Basti pensare che molte persone rivendicano la A all’interno della sigla LGBTQA come per alleati. Torniamo alla questione dell’accettazione: in che senso veniamo accettati? Quando abbiamo cominciato a chiedere di essere accettati invece che tentare di detronizzare queste strutture come nobili e ghigliottinare? Perché dobbiamo moderare le eccentricità e preoccuparci di piacere e di essere capiti quando effettivamente c’è un vocabolario diverso, a cui tra l’altro viene offerto l’accesso? Leonard mi era sembrato una figura interessante da questo punto di vista perché si dichiare un alleato, cioè una persona pronta a mettersi in discussione (seppur con tante varianti perché la storia poi richiede diverse cariche emotive ed è giusto che sia sfaccettato), ma cosa significa essere alleato della comunità senza fare parte della comunità?
Non mi ricordo cosa ho detto al mio ultimo amico etero che ha smesso di parlarmi… Un esempio molto carino è Queers Read This, un pamphlet che trovate facilmente anche online e che fu distribuito al Pride di New York nel 1990. Qualche mese dopo Teresa De Lauretis usa per la prima volta la parola queer nell’università e quindi c’è questa diatriba su chi l’ha usato prima tra questi anonimi queer, anzi questi anonimi ricchioni, e Teresa De Lauretis che ebbe l’illuminazione. Probabilmente nessuno dei due e già girava nella comunità. Comunque loro scrivono questo pamphlet e mettono sulla piazza l’odio che hanno per tutte le figure pubbliche, per Reagan, per “the fucking Pope” e infine hanno parole dolci anche per i loro amici etero che o sono disponibili a prendersi un mondo che è completamente ribaltato e in cui quindi si ritrovano a non avere più nessun tipo di privilegio oppure è meglio che si stanno zitti pure loro: shut up and listen. Però se noi ci riflettiamo la bomba non è contro il papa, né contro Reagan né contro gli amici etero: la bomba è all’interno di una comunità che si dice “tu poi tornerai a casa e quello che cercherai di fare è startene nella tua coppia, nella tua famiglia che riproduce in tutto e per tutto quello che vedi dai tuoi amici etero, ti chiuderai in dei bar che sono soltanto per te all’interno di un villaggio che è soltanto per te e in cui non darai fastidio a nessuno”.
La questione è appunto: a me interessa poco entrare in dialettica con l’alleato, a me quello che interessa capire è se sto costruendo con le altre frocie un mondo talmente destabilizzante per cui non è possibile starci comodi per chi ha privilegi. Per cui il mio discorso non è un discorso che deve produrre un ideale queer a cui gli altri devono essere all’altezza leggendosi tutti i Tumblr, i meme, i blog di queer 101 su mental health, body positive e tutte queste robe qui, un linguaggio per parlare perfettamente di tutto e poi io mi ritrovo che non sono mai all’altezza di questo cazzo di ideale perché le mie relazioni devono essere messe al vaglio di un’intera comunità… cioè, no.
La questione è come non produciamo degli ideali queer in cui ci mettiamo comodi col culo pesante e alla fine la frocia non può più nemmeno venire a farti un privilege check di qual è la tua posizione. Credo che questo faccia anche un po’ la differenza tra autorità e autorevolezza, perché l’autorità si configura all’interno di una relazione di potere che si passa verticalmente, l’autorevolezza invece si muove su un piano che è completamente orizzontale e che si annoda: la tua posizione all’interno di quello spazio è data da una rete di fiducia che si costruisce attorno a te e che è molto fluida.
[Alt Text: fotografia del pamphlet Queers read this. Fonte.]
Posso aggiungere una cosa? Quando è cominciata la quarantena io ho avuto un momento di grandissimo scoramento e tra l’altro me ne sono resa conto solo dopo averlo scollinato. In questo sgomento non riuscivo a trovare senso in niente di ciò che si facesse intorno, sia nei percorsi politici collettivi che nella mia ricerca personale che nel mio posizionamento. Però c’è stato un momento che è stato proprio una luce è cioè quell’incontro tra Angela Davis e Naomi Klein, perché ho sentito per la prima volta, e Angela lo riesce a dire sempre meglio, che la situazione in cui eravamo ci permetteva di avere delle idee molto chiare per poter fare delle rivendicazioni estremamente radicali. Non è tanto il discorso retorico “tanto peggio tanto meglio” perché qui tanto peggio tanto peggio per tutti, quanto poter parlare di basic income o un’altra relazione non coloniale con il pianeta, o della crisi del capitalismo. Ma non in termini retorici, bensì con una serie di rivendicazioni anche sulle prigioni, che è qualcosa su cui non siamo mai tutti d’accordo, però in questo momento è tutto talmente evidente che la radicalità è proprio il minimo della rivendicazione. E quindi il potere si riconfigurerà in modo particolarmente autoritario però è proprio perché noi abbiamo le idee molto chiare sulla possibilità di rivendicazioni radicali che siamo estremamente pericolosi e potenti: è un momento in cui possiamo liberarla, la nostra potenza.
Prima di chiudere, dopo l’uscita di Pelle queer maschere straight hai collaborato al volume Femminismi futuri e a Le promesse dei mostri di Donna Haraway. Ce ne puoi parlare?
Finita questa ricerca sono rimasta sul tema delle relazioni. Contemporaneamente nasceva un gruppo di letture che in un primo momento si è interrogato a partire da letture più teoriche come il Manifesto xenofemminista del gruppo Laboria Cubonicks e poi Xenofemminismo di Helen Hester. All’epoca non era ancora uscito Staying with the trouble di Donna Haraway ma era uscito un saggio, che ho anche tradotto, su Chtulucene. E quindi eravamo partite da questa teoria che immaginava diverse questioni proiettate nel futuro, poi ho ho avuto un incontro di amorosi sensi con Cruising Utopia: the Then and There of Queer Futurity di Josè Muñoz, secondo cui per liberarci dal fantasma del “qui ed ora” dobbiamo cominciare a guardare al futuro. Questo è anche interessante perché negli studi queer la regola è sempre stata “no future”, invece Muñoz comincia a dire: questo “no future” però è uno scritto bianco pieno di privilegi! Dov’è il bambino queer? Dove sono l’esercito di badanti e una comunità intera che è esclusa dalla riproduzione in termini di giustizia riproduttiva? Soprattutto quello che fa Muñoz è dire che noi dobbiamo fare lo sforzo di guardare, perchè “queerness is not yet here” ma dove si sta producendo? In un orizzonte che noi possiamo guardare attraverso gli sforzi immaginativi. Quindi lui guarda molto alle avanguardie, l’arte, la poesia, le performance.
E così abbiamo cominciato a leggere la fantascienza femminista, soprattutto quella degli anni ‘60 e ‘70. Siamo tutte persone che vengono da dei percorsi molto diversi e quindi questa fantascienza ha prodotto degli incontri molto diversi: c’è per esempio il saggio molto bello di Olga Solombrino che parla di un possibile futuro palestinese, oppure Roberta Colavecchio che parla di solarpunk, ci sono semi, ci sono donne fuggitive nere, afrofuturismo, insomma ci sono un un sacco di futuri in Femminismi futuri. Io mi occupo soprattutto di tecnologie nel mio saggio. La fantascienza femminista ha una questione diversa dalla distopia (che è una fantascienza universale maschile), che è non solo nella capacità di emanciparsi da dei futuri di mondi da colonizzare, eugenetica, e così via. Octavia Butler (una donna nera), Ursula K. Le Guin e le altre hanno scritto figure femminili non solo non identitarie (quindi non segnate dalla linea del genere, e che magari si riproducono attraverso tentacoli) ma soprattutto capaci di utilizzare qualcosa che è oltre il linguaggio e oltre la tecnologia: l’empatia. La fantascienza femminista racconta di figure empatiche e iper-empatiche e questo è stato il modo in cui io sono entrata in discorsi che riguardano invece le ecologie politiche. Adesso mi occupo di compost come modo per poterci pensare in un assemblaggio tecno-ecologico con un pianeta che vive una condanna e per poter cominciare a costruire rifugi. E questo è quello che c’è anche nelle conclusioni de Le promesse dei mostri, che è il saggio di Donna Haraway tradotto dopo tanti anni da Angela Balzano.
[Alt Text: dettaglio dalla copertina del saggio di Nina Ferrante. Illustazione di un volto di donna frammentato dalle righe dello schermo.]
Grazie a Nina per il tempo che ci ha dedicato e la generosità con cui ha condiviso le sue riflessioni insieme a noi.
Ci leggiamo per la Ghinea di maggio!
Un abbraccio.
Francesca, Gloria e Marzia.