La ghinea di luglio
Benvenut@ a Ghinea, la newsletter che ha più mici* che autrici (*maschile sovraesteso per piacer di rima). Apriamo Ghinea con la primissima visita di R.N. con una riflessione a partire dalla Scuola Normale, accogliamo nuovamente Lino Caetani e la denuncia delle violenze carcerarie, chiudiamo con un’altra nuova ospite, Francesca Moretti, sulla recente (e tardiva) pubblicazione italiana di Perché non parlo di razzismo con le persone bianche. Con il consiglio di mettere su una canzone di Raffaella: buona lettura!
Il 16 luglio, in occasione della cerimonia della consegna dei diplomi, tre allieve della classe di lettere decidono di leggere un discorso che esula dal semplice ringraziamento e dal ripercorrere il percorso di studi affrontato. Scandito in tre parti, il discorso di Valentina Magnaghi, Valeria Spacciante e Virginia Grossi decide invece di andare a toccare alcuni dei nervi scoperti dell’università italiana e, in particolare, di alcune storture presenti all’interno dell’istituzione che le ha formate, intesa come una delle più subdole istituzioni totali ancora presenti sul nostro territorio, ossia la Scuola Normale Superiore.
La notizia, contro ogni aspettativa, è stata rimbalzata prima su alcuni quotidiani locali, per poi acquisire una sempre maggiore visibilità, tanto da figurare nell’album delle figurine dell’eccellenza Toscana del presidente della regione Eugenio Giani. Ad oggi il discorso delle tre allieve è diventato, come si dice, virale, e il video nella sua interezza può essere facilmente reperibile su Youtube o leggibile sul sito della rivista Il Mulino, nella quale possiamo anche leggere le firme di chi ha provveduto a scrivere questo testo collettivo. A distanza di una settimana è significativo però cosa sia filtrato nel colino dei meccanismi dell’informazione, e in che modo le ideologie dominanti nei confronti della scuola, delle donne, dell’eccellenza siano state in grado di stravolgere e respingere poche semplici parole più prossime a Realismo Capitalista piuttosto che a un trattato di macroeconomia. Grazie a questo meccanismo distorcente Repubblica poteva così titolare pochi giorni dopo “Pisa, l’accusa di tre neolaureate: ‘Disparità di genere, la Normale non fa abbastanza’” in modo da suscitare su Facebook tutta una serie di reazioni indignate che si chiedevano, con estremo timore e fastidio, se si sarebbero introdotte le quote rosa ai convegni, mentre il Tirreno scopriva con stupore che una istituzione prestigiosa era, incredibile a dirsi, un luogo in cui ancora oggi viene esercitata violenza simbolica, titolando “Pisa, le donne discriminate nel tempio della cultura”. Proprio a proposito di violenza simbolica è significativo, a distanza di quasi un mese, notare come in fondo del discorso delle tre allieve sia rimasto ben poco.
[Alt Text: tre file di 27 studenti uomini e una sola fila di 9 studentesse sedute posano per la foto di gruppo in bianco e nero della classe della Normale di Pisa anno 1910.]
Il discorso articolato e complesso trattava infatti una serie di temi che riguardavano il finanziamento all’istituzione, il ruolo delle donne all’interno dell’accademia, la pressione legata a una visione del mondo performante e legata all’eccellenza, la competizione a discapito della cooperazione, e così via. Cionondimeno, di quasi 20 minuti di discorso ogni singolo pezzo è stato cannibalizzato e stravolto, e ad oggi il retweet e la condivisione sono solo diventati un mero esercizio di eristica: l’università è neoliberale o neoliberista? Perché le studentesse hanno deciso di partecipare al test di ingresso di una scuola d’eccellenza, se non volevano l’eccellenza? Perché non hanno parlato di diritto allo studio? Può una studentessa privilegiata parlare di privilegi? Ovviamente potremmo scomodarci a trovare una risposta a ognuna di queste obiezioni. Ci sono mille ragioni per cui unx diciottenne vuole provare il test di ingresso in Normale: ingenuità e inconsapevolezza, mancanza di disponibilità economica, imposizioni familiari. Certo, sappiamo che chi è all’interno della Scuola Normale muove comunque da una posizione di privilegio. Lo stesso Ambrosio, direttore della Scuola dal Maggio 2019, scopriva solo pochi mesi fa, con uno stupore stonato, che in fondo solo i ceti più abbienti riescono a superare il test di ammissione, poiché provenienti da famiglie ad alto capitale sociale e culturale. Non si vuole quindi con questo eliminare dall’analisi la considerazione che, effettivamente, quel pulpito ha un connotato specifico. E’ pur vero però che c’è un meccanismo perverso, sempre più diffuso e alimentato nelle nostre eco chambers, per cui risulta alquanto divertente e liberatorio smontare pezzo per pezzo l’autorità di chi prova a portare avanti un discorso. Se nel 1988 Spivak poteva chiedersi Can the subaltern speak?, oggi siamo chiamatx a interrogarci se sia veramente necessario, di fronte a un discorso del genere, portare avanti un identikit del mittente per legittimare o meno la sua voce.
Alla fine di tutto cosa rimane quindi di 20 minuti di accorato appello a un modello diverso di immaginare l’università e, più in generale, il mondo della cultura? Da un lato un paternalistico senso di stupore e ammirazione per tre giovani donne, in mano alle quali possiamo affidare il nostro futuro in un virtuosistico meccanismo di ritorno del femminino a un ruolo di cura accudente che ci può guidare in altri paradisi. D’altro lato invece, quel che ci rimane è solo il gioco delle soggettività. Così Claudio Giunta, grazie a un capolavoro di retorica di ammissione di colpa pubblicato qualche giorno fa sul Post, può dire di non sentirsi minimamente in credito nei confronti del meccanismo che le studentesse e gli studenti denunciano. Cos’è che a Claudio Giunta, eccellente normalista, non piace di quanto detto? Alla fine dei conti, in un complicato gioco di specchi e leve, riesce a ritornare al mittente l’accusa di neoliberismo e di meritocrazia: non solo le allieve sono riuscite ad assidersi tra l’eccellenza, dopo aver superato il test di ammissione. Esse contribuiranno inoltre al peggioramento del sistema universitario e della trasformazione di questa in un erogatore di servizi, importando in Italia anche i meccanismi di Rate My Professor. Di tutta questa accusa, ciò che colpisce è come stavolta la lente selettiva possa focalizzarsi non tanto sulla parità di genere, quanto invece sulla percezione di un attacco a una classe di cui lo stesso Giunta fa parte, ossia quella del corpo docente universitario.
Significativamente, a distanza di quasi un mese, c’è solo una parte del discorso che è stata ignorata, ossia le poche ma significative righe dedicate alla salute mentale. Nei giorni in cui Simone Biles si ritira dalle competizioni olimpiche per affrontare i suoi problemi psichiatrici, Repubblica ci ricorda ancora come ci sono donne che ce la fanno e donne che invece sono più fragili, in una comparazione fra l’atleta nera e Federica Pellegrini. La pressione sociale e psicologica esercitata dall’università, acuita all’inverosimile all’interno della Scuola Normale e alimentata dax sux stessx studentx, è quella che fa sì che si tende a registrare sempre di più un abuso di farmaci per poter performare meglio nei periodi di esami. In Italia però l’Università, come si sa, è un percorso a premi dove si può anche sbancare, e fa più notizia chi riesce ad accumulare, senza porsi limiti, ben cinque lauree in soli sei mesi. Da qualche parte, su qualche bacheca Facebook, qualche commento si augura che le nostre tre vestali cortesi, portatrici di una protesta dai toni moderati che ricorda la finezza delle signorine buonasera e dell’elegante Susanna Agnelli, diventino veramente l’eccellenza, facendo risuonare i loro nomi al di sopra di tuttx quex studentx passivx che invece continuano a frequentare l’università senza far parlare di sé.
R. N. conosce abbastanza l'università e la Scuola Normale, per quanto non sia considerata troppo ratificata per parlarne. Ha una gatta, le piace il cinema di genere.
Ascoltiamo il grido delle persone carcerate
di Lino Caetani
La repressione avvenuta nelle carceri italiane nel marzo 2020 è stata brutale, come sempre: centinaia di persone sono state torturate, picchiate, umiliate, alcune sono state anche uccise. Quanto è avvenuto, come sempre accade, si è saputo subito, per chi voleva ascoltare, dalla voce delle parenti delle persone carcerate e dalla stessa voce di chi ha protestato nei giorni del lockdown.
Quando il ministro Bonafede ringraziava in parlamento le squadracce di polizia che avevano picchiato e torturato centinaia di detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, veniva applaudito da tutte le forze politiche e il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio approvavano tutto. In quei giorni, per chi voleva ascoltare, parenti dei detenuti raccontavano quanto accaduto, ciò che Bonafede distorceva nel suo racconto vittimista come violenze perpetrate ai danni delle forze dell’ordine.
Un anno dopo, un video [attenzione: il video contiene scene di violenza e percosse] ha mostrato in televisione quanto è accaduto, mentre una cinquantina delle forze dell’ordine che avevano fatto irruzione nel carcere campano per la loro spedizione punitiva viene adesso indagato dallo stesso Stato che le aveva ringraziate calorosamente poche ore dopo i fatti. Personalmente non ho voluto vedere quei video: sapevo già tutto da un anno, ho solo visto pochi fotogrammi con persone inginocchiate di fronte a divise blu con manganelli in mano.
Perché queste immagini sono uscite solo oggi e soprattutto perché sono uscite? Per rispondere a queste domande occorrerebbe stare dentro i meccanismi di potere per cui lo Stato sacrifica alcuni dei suoi zelanti servitori pur di far proseguire intatta la baracca di sopraffazione e di violenza che è il sistema carcere. Il processo a questi cinquanta poliziotti servirà soltanto a coprire le prossime violenze nelle carceri italiane. Già nel carcere di Santa Maria Capua Vetere in questi giorni si tolgono acqua e corrente elettrica per vessare ulteriormente le persone detenute; in quello stesso carcere, Natascia Savio (militante anarchica in carcerazione preventiva) ha portato avanti il suo sciopero della fame, perché allontanata migliaia di chilometri da casa per impedirle la difesa nel processo, prima di essere trasferita nel carcere di Rebibbia a Roma. Il 41 bis, una legge di tortura che è difesa anche a “sinistra”, è stato un cancro che si è esteso in tutto il sistema carcerario, per cui oggi ci troviamo di fronte ad una regressione incontrollabile delle condizioni di vita dei e delle detenute, mentre il sistema continua a prosperare.
Si parla sempre troppo poco del sistema carcere da un punto di vista economico, di quanto frutti alla pletora di personaggi che vi girano attorno, di quanto sia essenziale non solo per la repressione ma per la produzione e il profitto, in un vortice che è completamente scollegato da quanto accade nella società italiana, dai crimini di sangue o da qualsivoglia contesto sociale. La criminalizzazione permanente di ampie fasce sociali di popolazione oggi è legata alla prevenzione del conflitto sociale e al dispiegamento di quella ideologia del “decoro” per cui le città sono “ripulite dalla vita stessa, in nome della messa a profitto e della turistificazione”. Un esempio lampante di questa “guerra preventiva” è l’omicidio di Youns El Boussetaoui compiuto dall’assessore alla sicurezza della Lega di Voghera, Massimo Adriatici. Nei primi anni ottanta, un momento storico caratterizzato da rapimenti, guerre di mafia, lotta armata ed eroina nelle strade, la popolazione carceraria era un terzo di quella attuale. Il meccanismo si è sempre più diffuso e oliato col passare degli anni, e oggi ci troviamo in questa situazione assolutamente oscena, una situazione nella quale durante una pandemia si uccidono delle persone che vogliono sapere cosa sta succedendo fuori dalle mura della galera, perché vengono vietate le visite coi familiari e cosa può accadere con la diffusione del virus.
In questi giorni, commentando le immagini di Santa Maria Capua Vetere, si stanno dicendo sui media nazionali le solite sciocchezze sulla Costituzione, sui diritti umani e sulla funzione rieducativa del carcere. Sciocchezze oscene, come sempre: le guardie violente di Santa Maria Capua Vetere, così come quelle di Modena e delle altre galere di questo sventurato paese, sono soltanto dei meri esecutori materiali di un progetto repressivo che è alla luce del sole ed è portato avanti dallo Stato nelle sue varie istituzioni, cariche e funzioni, dalle più alte in giù. Non c’è bisogno di nessuno scoop o filmato girato di nascosto, è la solita dinamica portata avanti dallo Stato italiano, dal G8 di Genova del 2001 tornando indietro al 28 dicembre 1980, quando fu repressa nel sangue la rivolta nel carcere di Trani.
Alla fine di questo articolo mi rendo conto di aver dipinto un quadro piuttosto fosco della situazione. Mi piacerebbe chiudere non con un generico sentimento di ottimismo o di speranza, ma rendendo almeno giustizia alle persone che dentro le galere conducono una lotta con grandissimo coraggio e tantissima dignità (una parola che è spesso abusata, ma in questo caso è vera). Ho avuto modo di ascoltare la voce dei detenuti di Santa Maria Capua Vetere qualche giorno fa: uno di loro gridava a tutta voce “libertà!”. Altri detenuti lanciavano un “grazie!” rivolgendosi al gruppo di solidali venute a dare coraggio alle persone detenute ed a Natascia in sciopero della fame. Sarebbe bello che questi presidi siano sempre più affollati. Ora che la politica, finalmente, si rivela per quello che è, un luogo della menzogna e del parlare doppio, utile solo a personaggi in cerca di carriera, resta invece aperto questo spazio di lotta, che richiede però il coraggio di schierarsi a fianco di persone che il coraggio ce lo stanno insegnando, ce lo hanno insegnato nei giorni di marzo 2020 e ancora oggi ce lo insegnano.
Puoi leggere altri contributi di Lino Caetani qui, qui e qui.
[Alt Text: Raffaella in piedi a sinistra senza capelli vestita da disco queen, a destra un gruppo di cinque persone vestite in abiti semi-bondage \ punk la guardano. Immagine dal programma Ma Che Sera, 1986.]
Raffaella Carrà, punk prima di te.
Il calcio e il tifo, valvole di sfogo in cui riesce a farsi largo la violenza di genere.
Una volta alla settimana, un gruppo di preganti si dà appuntamento di fronte al reparto di ginecologia dell’Ospedale Sant’Orsola di Bologna, appende uno striscione contro l’aborto e recita il rosario. Il 30 giugno, durante la settimana transfemminista che ha preceduto il Rivolta Pride, il collettivo Mujeres Libres è andato a occupare lo stesso spazio, per impedire che * pazienti venissero infastidit* e per ribadire il nostro diritto di scelta sui nostri corpi. Dal loro comunicato:
Già nel 2014 ci siamo accorte di questa violenza psicologica giudicante perpetrata tranquillamente in un luogo pubblico e laico, proprio davanti all’ingresso di ginecologia, dove passano le donne che fanno scelgono l’ivg e il personale medico che lo pratica. Per questo decidemmo di richiamare l’attenzione con dei presidi svolti in contemporanea ai no-choice,con la controinformazione femminista e con l interruzione del consiglio comunale per portare la questione all’ordine del giorno.
Nessuna risposta da parte dell’amministrazione, se non un semplice “non possiamo impedire alla gente di pregare”. Non ci stupiamo di questa risposta, tuttavia,con le nostre azioni siamo riuscite a ottenere che i preganti no-choice si spostassero dall ingresso antistante a ginecologia dove passano le donne, al retro , in un punto più distante, dove incontrare il loro inquietante sguardo giudicante è molto meno immediato: infatti è importante che nessuna donna li incontri nel percorso della loro scelta e per questo è un bene monitorarli e segnalarli.
Cosa succede se pubblichi online un racconto fantascientifico sulla transizione di genere, usando un titolo che richiama un meme transfobico, e nessuno sa chi tu sia?
Appunti sul ventennale di Genova.
Si raccolgono donazioni per finanziare l'edizione 2021 del Some prefer cake, storico festival di cinema lesbico che si tiene a Bologna.
Borgo Sud di Donatella Di Pietrantonio: un pellegrinaggio nei ricordi.
L’impatto della pandemia sulle persone migranti: più penalizzate negli spostamenti e nelle richieste di asilo, più esposte al virus perché spesso impiegate nei cosiddetti lavori essenziali, più discriminate nell’accesso a cibo, riparo o misure finanziarie di emergenza.
Pinkwashing urbanistico quello promosso a Roma dall’Atac, azienda dei trasporti, con la creazione della Linea Fuxia: qui una riflessione di Lucha y Siesta e del Master Studi e Politiche di Genere, che rifiutano categoricamente di essere realtà ridotte alla visita “turisticotransfemminista” e reclamano invece la propria autogestione e indipendente capacità di fare rete.
FATTO DA NOI
Lo scorso luglio abbiamo preparato un libretto composto da alcuni dei nostri contributi preferiti tra quelli pubblicati fino a quel momento. Se te lo sei perso, o se ti sei iscritt* da poco, si chiama Ghinee scelte e puoi scaricarlo qui.
Il nuovo film di Kelly Reichardt, First Cow, tocca i temi dell’amicizia maschile spogliata di machismi e reticenza emotiva, dell’affermazione di un modello economico di tipo capitalistico negli Stati Uniti e delle gerarchie che ne risultano; e lo fa rivisitando il genere western non solo nella forma, ma anche polverizzando l’epica grandiosa su cui il western poggia e che al contempo alimenta. Gloria ne discute nel podcast Ricciotto, con Federica Bordin e Aldo Fresia. Puoi leggere un nostro commento sul precedente western di Reichardt, Meek’s Cutoff, sulla Ghinea di marzo 2020.
[Alt Text: frame dal film First Cow. La mucca Evie attraversa il fiume a bordo di una barca di legno. Dietro di lei un uomo sta remando, e sullo sfondo c’è un bosco. Fonte.]
FATTO DA VOI
Il 19 luglio è uscito, per asterisco edizioni, il volume Architetture del desiderio. Il cinema di Céline Sciamma. Contiene contributi di Chiara Zanini, giornalista e critica cinematografica che cura la newsletter Cineaste, Federica Fabbiani Galleni, autrice di Sguardi che contano. Il cinema al tempo della visibilità lesbica e creatrice del podcast Reno, 1959, Elisa Cuter e altre.
Paola Moretti scrive di Ingeborg Bachmann, Elfriede Jelinek e Marianne Fritz, e della loro "letteratura antipatria". Di Jelinek aveva parlato anche nel pezzo Ultracorpi, che puoi trovare (ri)leggendo la Ghinea di febbraio.
Elisa Lipari su “la riscrittura dei padri” per Il Tascabile.
UN LIBRO
Perché non voglio più parlare di razza e perché penso sia ancora necessario parlarne
di Francesca Moretti
[Alt Text: copertina del saggio Perché non parlo più di razzismo con le persone bianche di Reni Eddo-Lodge, pubblicato questo mese da edizioni e/o con la traduzione di Silvia Montis.]
Ho smesso di affrontare l’argomento “razza” con le persone bianche. Non con tutte, solo con la stragrande maggioranza che rifiuta di ammettere l’esistenza di un razzismo strutturale e dei suoi sintomi. Non posso più affrontare l’abisso di dissociazione emotiva che si spalanca sui loro volti quando una persona di colore – di qualsiasi colore – racconta la sua esperienza. Vedo i bianchi chiudere gli occhi, lo sguardo farsi duro, freddo. È come se nelle loro orecchie venisse versata melassa, ostruendone i canali uditivi. È come se non riuscissero più a sentirci.
Come Reni Eddo-Lodge, ho smesso anche io, da tempo, di parlare di razza con la stragrande maggioranza delle persone bianche che mi circondano. Forse se ci penso bene, ho smesso di parlare di razza con tutte le persone bianche e italiane che mi circondano in nome del famoso adagio che dice che non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire.
Alcuni – bianchi, ça va sans dire – mi hanno detto che questa scelta mi costringe a vivere nella mia bolla (quale bolla? Quella di Twitter?) e che invece, anche in quanto studiosa, dovrei aprirmi di più, essere meno indolente. Ciò che non capiscono però è che la mia, come quella dell’autrice di Perché non parlo più di razzismo con le persone bianche è una scelta dettata dal puro e semplice istinto di sopravvivenza, per salvaguardare la mia sanità mentale (altro argomento tabù insieme al razzismo strutturale). Quando parlo con persone che non sono mai state razzializzate, infatti, spesso mi ritrovo protagonista di un gioco al ribasso in cui si nega, anche senza avere cattive intenzioni, la mia individualità e il mio sentire specifico a favore di un perenne sviamento da una possibile assunzione di colpa, restituendo così un’immagine più piatta e meno reale del fenomeno. Ma, come ricorda Toni Morrison in L’origine degli altri, l’immagine domina sempre più il nostro modo di organizzare il mondo, spesso contaminando la conoscenza, talvolta diventando essa stessa conoscenza.
Con il dovuto entusiasmo mi sono approcciata dunque al testo di Eddo-Lodge, arrivato nel nostro paese, mi permetto di dire, con un colpevole ritardo e probabilmente pubblicato sull’onda della mobilitazione che si è scatenata dopo l’omicidio di George Floyd, più saliente, giornalisticamente parlando, rispetto alle numerose morti avvenute in Italia, la cui matrice razzista sembra innegabile. In modo un po’ provinciale, quello che avviene sul territorio statunitense sembra da sempre più coinvolgente sia a livello emotivo che giornalistico: ad esempio, tutti sanno chi è George Floyd ma pochi sanno chi sia e cosa ha rappresentato nel nostro paese l’uccisione di Jerry Essan Masslo. Di questo fenomeno parla la stessa autrice, riferendosi al contesto britannico, invocando una riflessione sul razzismo istituzionale che sia autonoma rispetto alle forme dell’attivismo americano.
Tralasciando il dibattito sulla scelta del titolo italiano, dove si è preferito usare il termine “razzismo” invece che il più fedele “razza” – la traduttrice Silvia Montis in merito afferma che l’idea stessa di razza è figlia del razzismo, e nella visione dell’Autrice era impossibile parlare del secondo senza riferirsi alla prima – trovo che questo saggio sia un testo fondamentale per capire le forme che ha assunto e l’origine e l’evoluzione del razzismo nel Regno Unito. Volontariamente segnalo che questo è un testo che deve essere necessariamente contestualizzato, che tratta di una storia per certi versi uguale e diversa dalla nostra. Lo dico non tanto per assolvere gli italiani, tutt’altro, ma per stimolare qualche volenterosə ad attuare lo stesso lavoro di ricerca e ricostruzione storica portato avanti dall’autrice, un po’ come ha fatto Igiaba Scego con i suoi romanzi di approfondimento sul tema del colonialismo italiano.
Spesso la gente mi chiede, con la massima serietà, cosa dovrebbe fare per mettere fine al razzismo. Il lavoro antirazzista – la logistica, la strategia, l’organizzazione – dev’essere guidato da chi è più colpito dall’ingiustizia. Ma credo che i bianchi consapevoli delle discriminazioni abbiano un ruolo incredibilmente importante in questa battaglia. […] Care persone bianche, dovete parlare di razzismo con altre persone bianche. Si è possibile che vi bollino come radicali ed estremiste, ma avete molto meno da perdere rispetto a noi.
Sono onesta: ho approcciato questo libro, che in alcuni passaggi ho trovato davvero notevole, con un certo scetticismo. Mi sembrava un manuale scritto, in modo paradossale, per parlare esclusivamente ai bianchi. Ricordo che lo scorso anno, con la definitiva affermazione del movimento, o meglio dei movimenti, Black Lives Matter, tutti si erano affrettati ad acquistare su Amazon Why I’m no longer talking about race to white people e White Fragility (quest’ultimo, mi piace ricordare, è scritto da una donna bianca, Robin Diangelo). L’impressione era che anni e anni di razzismo strutturale e connivente silenzio potessero essere assolti, compresi e decostruiti solamente attraverso il potere magico della lettura. Forse vedevo il successo di questi libri come un’altra delle molteplici forme di anti-razzismo performativo. Tutto questo mi aveva colpevolmente instillato una certa diffidenza.
Durante la lettura del testo, mi sono ritrovata nelle storie raccontate nei capitoli dedicati al privilegio bianco, soprattutto quando si parla dello scottante tema delle adozioni interraziali, della paura di “un pianeta nero” e del dibattito sulla consonanza tra razzismo e classe. Mi sono sentita validata quando ho letto che le lotte contro le disuguaglianze non deve essere necessariamente l’ennesimo fardello di cui gli uomini e le donne nere si devono far carico.
Ma ciò che ho trovato davvero efficace sono le riflessioni sulla necessità di un’idea intersezionale di femminismo e l’abbandono di una prospettiva che sia escludente e bianca. Se, come diceva John Lennon, “Women are the n****r of the world”, che posizione occupano le donne nere?
In questo senso, dunque, mi sento di sposare la tesi di Reni Eddo-Lodge, secondo cui la lotta femminista non può ripiegarsi ad una mera richiesta di uguaglianza tra i generi e men che meno con la visione che punta ad inglobare le donne in un mondo del lavoro costruito dagli uomini per gli uomini. Il femminismo deve essere un movimento che agisce per liberare tute le persone lasciate ai margini da un sistema creato apposta per farle fallire. Tale definizione, mi sembra molto più esaustiva, di quella data qualche anno fa da Chimamanda Ngozi Adichie che, riletta a posteriori, sembra aver incentivato la popolarizzazione di una visione piuttosto liberista del movimento. Se per Adichie “feminist: a person who believes in the social, political and economic equality of the sexes”, Eddo-Lodge dà una definizione più sfaccettata, chiedendosi innanzitutto come mai il movimento riesce a capire il patriarcato ma fatichi a comprendere la bianchezza come struttura politica.
Il femminismo ha bisogno di pretendere un mondo che ammetta l’esistenza di una storia razzista assumendosene le responsabilità, in cui le riparazioni siano distribuite in maniera equa, in cui il concetto di razza venga decostruito da cima a fondo.
Evito proclami del tipo “questo libro andrebbe fatto leggere nelle scuole”, perché non è questo il punto. Però vorrei che in qualche modo, contrariamente a quello che ho detto qualche riga più sopra, alcune riflessioni prodotte a ridosso di questo testo valicassero il muro che divide le persone che subiscono forme di razzismo e quelle che invece lo perpetrano, consapevolmente o meno. Forse la morale di questo testo è che, dopo un lavoro di profonda problematizzazione di quello che è stato e di ciò che siamo ora, dovremmo tutti provare ad immaginare una realtà migliore, non per noi ma per le prossime generazioni. Come dice Eddo-Lodge, “dobbiamo immaginare e sperare in qualcosa prima di batterci per essa, i valori utopici sono ideologici tanto quanto le fondamenta politiche del mondo attuale”.
Francesca Moretti ha un dottorato in Comunicazione Ricerca e Innovazione presso l’Università La Sapienza di Roma. Durante il suo percorso di studi si è occupata principalmente di crowdfunding per il mondo dell’audiovisivo ma anche di cinema e celebrity studies. Ha scritto per Afroitalian Souls, webzine dedicata alla diaspora africana in Italia, The Submarine, Vice e Il Libraio.
Grazie a R., Lino e Francesca per aver contribuito a questo numero di Ghinea! Noi ci rileggiamo... prima del previsto.
Un abbraccio!
Francesca, Gloria e Marzia