La ghinea di giugno
Benvenutx a Ghinea, la newsletter con i braghini perché fa caldo. Anche questo mese abbiamo molto da leggere e da imparare: David Primo ci parla della letteratura di matrice femminista che si è occupata di maschilità, Marco Reggio introduce la recente uscita Afro-ismo (già segnalata nella Ghinea di maggio), Fabiola Fiocco ci presenta l’artista turca Nil Yalter e Carlotta Cossutta esplora il valore politico dell’amicizia femminile negli scritti di Mary Wollstonecraft. Come sempre, ti invitiamo a scriverci se hai un’idea che pensi possa trovare spazio su Ghinea: saremo felici di leggerla e di parlarne con te.
Buona lettura!
Al di là dell’abbandono: un’introduzione agli sguardi femministi sulle vulnerabilità maschili
di David Primo
Maschilità ed esperienze di vulnerabilità maschile sono un argomento in larga misura intossicato da una certa, longeva tendenza a parlare delle sofferenze maschili non tanto come tema in sé meritevole di approfondimento ed elaborazione, quanto come una sorta di incantesimo per annullare la portata politica e sociale dei femminismi: “ahah, ecco vedete, anche gli uomini possono soffrire, scacco matto nazifemministe”.
È interessante notare che questi j’accuse, complessivamente etichettabili con il termine masculinism (Bunnin & Yu, 2004),non provvedono ad offrire agli uomini, per comprendere e affrontare le proprie esperienze di vulnerabilità, che dei blandi palliativi al gusto di entitlement e rancore, non di rado conditi con una spruzzata di nostalgia per i bei tempi andati. Si tratta di forme di recriminazioni ormai ben note e che prendono generalmente tre forme, rimescolate tra loro in diversa misura: 1) desiderio di un ritorno ai ruoli di genere tradizionali per il bene dell’umanità e della società; 2) rancore per il femminismo come causa dell’erosione dei diritti maschili; 3) accuse di abbandono, sempre rivolte al femminismo, per essersi dimenticato, nel proprio percorso, delle sofferenze maschili.
È proprio quest’ultima recriminazione la narrativa più diffusa quando il tema delle sofferenze maschili viene portato nel discorso pubblico, ed è una narrativa pure assai seducente in quanto sembra svelare il piccolo sporco peccato del femminismo: Madame le feminisme, come hai potuto non prenderti carico di cotanta sofferenza? Non era l’uguaglianza il tuo scopo?
Questa narrazione suon alquanto paradossale, in quanto vi è una longeva, variegata e fiorente letteratura di matrice femminista che ha discusso della questione dei soggetti maschili e delle loro forme di vulnerabilità, e se si ha la volontà. Ed è paradossale soprattutto perché si potrebbe semmai dire che se qualche passo in avanti è stato fatto su questo tema, come più in generale sulla comprensione delle dinamiche di genere, è merito in larga misura dei dibattiti nati nelle letterature femministe, assieme a quelli fioriti nei queer e nei trans studies.
Fino alla fine degli anni ’70 circa, il modello dominante di ricerca sulle maschilità era il paradigma dei ruoli sessuali, formulato in Psicologia da Terman & Miles (1936) e rielaborato in Sociologia da Parsons & Bales (1955). Tanto la versione psicologica quanto la sua riarticolazione sociologica condividevano un punto centrale: i ruoli sessuali, cioè ciò che ora più comunemente chiameremmo “ruoli di genere”, sono due, uno maschile ed uno femminile, ed è bene che gli uomini e le donne vi si adeguino.
Nel caso della Psicologia, il ruolo sessuale veniva definito come la naturale espressione del sesso assegnato alla nascita e, per questa ragione, il coronamento di una personalità sana e matura.
Ovviamente, per i due autori l’omosessualità non era altro che un caso estremo di inversione di ruolo sessuale ma con un importante distinguo nel caso dell’omosessualità maschile: la persona in posizione ricettiva era considerato il vero invertito, l’uomo pienamente femminilizzato, mentre la persona che assume un ruolo penetrativo era un semplice pervertito che comunque esprimeva un certo grado di maschilità. Nonostante il desiderio omoerotico sia stato in buona parte depatologizzato, va notato come questa dicotomia ricettivo-femminile/penetrativo-maschile resiste ancora con una certa forza nell’immaginario sessuale anche all’interno di alcuni spazi LGBTQ+ (Rinaldi, 2015).
Nel caso della Sociologia, la necessità di una suddivisione dei ruoli è stata scollegata dalla biologia e motivata come una necessità tutta sociale. Per garantire coesione e stabilità sociale era secondo loro necessario suddividere una funzione strumentale, orientata all’azione e alla pragmaticità, e una funzione espressiva, cioè il cosiddetto lavoro emotivo. Ça va sans dire, la prima funzione viene assegnata agli uomini, assieme al governo della vita familiare, la seconda alle donne, assieme ad una posizione subordinata e di supporto. Guai a violare tale ordinata suddivisione, in quanto ciò causerebbe disordine, caos ed ogni possibile forma di deflagrazione sociale.
Intorno alla fine degli anni ’70, grazie all’incontro con le letterature femministe, in una parte del mondo della Psicologia interessato allo studio dei ruoli di genere iniziano a venir messe in discussione tanto la naturalità quanto la bontà dei ruoli di genere tradizionali. Vengono messi in campo, in particolare grazie ai lavori di Joseph H. Pleck (1981; 1995), nuovi concetti per analizzare le maschilità, che danno luogo ad un totale ribaltamento di paradigma. Tra di questi, in particolare, i concetti di malegender role strain e malegender role conflict permettono di sottolineare come gli sforzi (strain) per adattarsi ad un immaginario tradizionale di maschilità producano tanto modalità interpersonali rigide, sessiste e violente, quanto delle conseguenze negative anche per gli uomini che compiono tali sforzi (conflict).
L’adesione ad un ruolo maschile tradizionale non è quindi più considerata il naturale compimento di una costituzione sana e robusta, bensì l’esito di un processo di adeguamento alle pressioni sociali. Si inizia a parlare di maschilità e di genere con il tanto vituperato termine “ideologia”, con il quale si identifica né più né meno che un insieme di credenze e norme culturali che, nel caso della maschilità, definiscono i modi in cui gli uomini si devono comportare e le emozioni che possono esplicitare. Nel 1976 David e Brannon definiscono l’ideologia maschile tradizionale (per brevità, IMT) attraverso 4 massime:
1) No sissy stuff: evitamento di ogni comportamento che posse apparire femminile;
2) The big wheel: basare il proprio valore sul proprio successo;
3) The sturdy oak: non mostrare mai debolezze;
4) Give ‘em hell: amare il rischio e non disdegnare la violenza.
[Alt Text: copertina di Man’s Conquest, una rivista maschile degli anni Cinquanta. In questo periodo, negli Stati Uniti erano molto popolari i cosiddetti “sweat magazine”, indirizzati ai reduci della Seconda Guerra Mondiale. Oltre a consigli di allenamento o consigli per combattere la calvizie, queste riviste offrivano storie avventurose come escapismo rispetto alla vita familiare e monotona a cui i reduci erano tornati dopo la guerra. Nella copertina un uomo affronta a mani (e torso) nude due “granchi cannibali” e tra gli articoli proposti c’è “Perché sposare una donna vergine?”. Fonte.]
Questa prima definizione dell’IMT è stata negli anni arricchita e raffinata, dando luogo prima al Brannon Masculinity Scale (Brannon & Juni, 1984) e in seguito al più breve Male Role Norms Inventory (Levant et al., 1992), entrambi questionari utilizzati per valutare in quale misura gli individui hanno internalizzato un immaginario di maschilità tradizionale. Questi strumenti hanno avuto il merito di aver permesso di evidenziare empiricamente il legame dell’IMT sia con la giustificazione di condotte violente ed abusanti, sia con una lunga sequela di conseguenze negative sul piano fisico e psicologico – es. abuso di sostanze, stress, depressione, ansia, comportamenti non salutari, scarsa ricerca di aiuto in caso di malattia (per un buon riassunto: O’Neill, 2008).
Interessante notare che questa associazione non si presenta unicamente laddove vi è una piena adesione comportamentale all’IMT, quanto, più in generale, quando essa viene interiorizzata come misura di valore del maschile. Ciò si rende, ad esempio, evidente quando anche uomini che sembrano incarnare modalità più morbide di maschilità arrivano a giustificare, in modo più o meno esplicito, le molestie sessuali compiute dagli uomini come una conseguenza di un’incontenibile ed innata voracità sessuale maschile. Parimenti, non è necessario incarnare pedissequamente la IMT perché la sua dannosa influenza psicofisica si faccia sentire. Quando essa viene a stabilirsi, in modo più o meno esplicito, come il proprio ideale di riferimento di maschilità, può infatti essere proprio la sensazione di essere in difetto verso di essa a produrre vissuti depressivi, problemi di autostima o dannosi comportamenti di ipercompensazione.
Per riassumere, mi preme ribadire due punti essenziali:
1) Già per questo paradigma teorico è evidente che non vi è alcuna contraddizione nel fatto che le norme culturali sulla maschilità possono produrre sia un clima misogino e omolesbobitransfobico, sia forme di vulnerabilità psicofisica negli uomini.
2) Lo studio delle conseguenze negative della maschilità sugli uomini si definisce proprio grazie ad un dialogo con i femminismi.
Il Gender Role Strain Paradigm diventa velocemente il punto di riferimento in Psicologia Sociale per lo studio delle maschilità. Nella sua prima formulazione, tuttavia, conteneva dei buchi teorici piuttosto consistenti. Tra questi, in particolare, pur iniziando ad introdurre l’idea di una declinazione al plurale delle maschilità – si parla infatti di gender ideologies, di cui la IMT rappresenta una declinazione specifica – lo fa all’interno di un modello ancora piuttosto statico. Tendeva, ad esempio, a considerare invariabilmente la IMT come il modello di maschilità socialmente dominante, idea che cozza non poco con la variabilità dei modelli di maschilità dominanti in diversi luoghi ed epoche. Mancava, inoltre, un discorso complessivo sia sull’organizzazione sociale delle diverse forme di maschilità, sia sul collegamento tra quest’ultima e l’organizzazione sociale dei generi. Sarà grazie ad una nuova rivoluzione paradigmatica che nella metà degli anni ‘80 si stava stagliando sull’orizzonte accademico australiano che la comprensione delle maschilità verrà ulteriormente raffinata.
[Alt Text: copertina della seconda edizione di Masculinities di Raewyn Connell.]
Tale rivoluzione ha come principale fautrice la figura di Raewyn Connell che, nel 1985, pubblica assieme a Tim Carrigan e John Lee un articolo intitolato Towards a New Sociology of Masculinity. A partire da una matrice di pensiero femminista influenzata dal pensiero di Antonio Gramsci e, in una certa misura, dal pensiero psicoanalitico, in questo articolo viene completamente ridefinito il modo di pensare alle maschilità. Il punto di partenza è la volontà di creare un modello per comprendere in quale modo i diversi stili di maschilità sono organizzati socialmente, connettendo tale organizzazione ai processi macroeconomici e politici entro cui si realizzano le relazioni di genere. I punti di partenza della loro proposta sono due:
1) All’interno di uno stesso contesto storico-sociale convivono diversi stili di maschilità ma questa convivenza non è né pacifica, né orizzontale: non tutte le maschilità sono infatti valorizzate allo stesso modo.
2) Nonostante questa pluralità, in termini generali si possono identificare delle asimmetrie sociali sistematiche in diversi campi sociali che favoriscono gli uomini presi come gruppo. Connell (1987, 2000) fa in particolare riferimento a quattro arene principali di disuguaglianza: suddivisione del lavoro, differenziali di potere istituzionale a livello sociale e politico, organizzazione della vita sessuale e affettiva (cathexis) secondo il modello della famiglia, segmentazione dei generi nel sistema simbolico (es. linguaggio e prodotti di costume). Gli effetti di queste asimmetrie, tuttavia, non si distribuiscono equamente tra tutti i singoli uomini.
Per tenere insieme la pluralità dei generi, la gerarchia tra le maschilità e le asimmetrie di genere, Connell suggerisce che il vertice della gerarchia interna delle maschilità sia occupato da quel set di comportamenti, valori e atteggiamenti che, all’interno di uno specifico contesto storico-sociale, vengono definiti come “tipicamente maschili” e, in tal modo, legittimano l’esistenza di una serie di asimmetrie di genere facendole apparire come semplice conseguenza delle naturali differenze nelle predisposizioni maschili e femminili. Ad esempio, fintanto che la “razionalità” viene definita come la massima espressione del genio maschile, è legittimo che siano gli uomini ad occupare in maggior misura posizioni di governo in quanto ritenuti più affidabili.
Per identificare questa maschilità viene utilizzato non casualmente il termine egemone, derivandolo da Gramsci, allo scopo di sottolineare come tale maschilità contribuisca al mantenimento delle asimmetrie di genere non tanto attraverso processi di dominazione, bensì generando consenso sulla naturalità di quelle disparità.
Come si può intuire, all’idealizzazione di un certo significato di “maschilità” consegue una svalutazione di tutti quegli stili di maschilità che da tale ideale maschile si discostano. Se, infatti, la maschilità egemone rappresenta il modo più onorabile di essere uomini in un certo contesto, discostarsi da esso significa essere uomini non sufficientemente o correttamente maschili. Tali discostamenti sono pensati però in modo progressivo e non come una dicotomia “ideale-orrore”. Il modello costruito dalla teoria della maschilità egemone è infatti estremamente complesso e prevede numerose posizioni nel campo delle maschilità: maschilità complici, maschilità marginalizzate, maschilità di protesta, maschilità dominanti, maschilità dominatrici e le maschilità subordinate. Queste ultime, in particolare, costituiscono una delle posizioni più precarie nella gerarchia delle maschilità.
Con questa categoria si identificano quei set di comportamenti, valori e atteggiamenti che, all’interno di un determinato contesto storico-sociale, vengono comunemente interpretati, quando agiti da un uomo, come segno di una scarsa maschilità. Rappresenta, sostanzialmente, l’antitesi per eccellenza della maschilità egemone, il punto in cui la distinzione tra ciò che è maschile e ciò che è femminile viene messa in discussione. E se salta la distinzione, casca il palco delle asimmetrie.
L’esempio tipico utilizzato è quello del desiderio omoerotico maschile: se il desiderio eterosessuale viene considerato l’apoteosi della maschilità, il desiderio di un uomo per un altro uomo è al tempo stesso considerato segno che tale uomo non è abbastanza uomo e prova materiale che all’interno di un’identificazione maschile può svilupparsi un desiderio socialmente definito come femminile. Questo stesso esempio però di potrebbe fare anche con altre caratteristiche: l’intensità del desiderio sessuale, l’espressione di vulnerabilità (“sii uomo”), la postura (il vecchio giochino del “guardati le unghie”), la tonalità della voce (le battutine sugli uomini muscolosi con voce acuta) e così via.
[Alt Text: immagine dalla sit-com The Big Bang Theory in cui tutto il cast è seduto attorno a un tavolino nell’appartamento di due dei personaggi. Secondo questo video, The Big Bang Theory propone lo stereotipo dell’”adorkable misogynist”, vale a dire il maschio che non soddisfa i criteri fisici e caratteriali dell’eroe e che proprio per questo può esercitare diverse forme di misoginia e sessismo senza essere percepito come aggressivo, bensì goffo e tenero. Fonte.]
Qui si arriva al punto essenziale della questione: se le maschilità subordinate rappresentano un punto di potenziale messa in discussione nella distinzione (asimmetrica) tra ciò che è di competenza maschile e femminile – si pensi ad esempio il significato dell’esistenza di uomini “emotivi” per l’idea che essendo l’uomo più razionale allora sia egli a dover governare –, delegittimare tali maschilità diventa un meccanismo essenziale per rimarcare quel confine. In questo modo il confine si fa non solo carne ma anche sofferenza: la sofferenza di essere in bilico sul confine di un abisso sociale.
Una sofferenza duplice in quanto inflitta sia tramite violenza esterna, sia, laddove sia stato interiorizzato il valore normativo della maschilità egemone, violenza interna. In questa seconda forma di sofferenza, la maschilità egemone agisce quindi non solo come vertice di una gerarchia, ma anche come centro gravitazionale attorno a cui ruota la possibilità di costruirsi un’immagine di sé positiva. E la potenza di questo meccanismo sta proprio nel fatto che la propria esperienza quotidiana di vulnerabilità o viene motivata come una prova della propria inadeguatezza, oppure viene “spostata”, attribuendone la causa ad altri bersagli, tipo il “neofemminismo”, piuttosto che andare ad interrogare i processi entro cui tali vulnerabilità vengono prodotte.
I punti che mi preme aver fatto emergere sono due. In primo luogo, l’idea che il femminismo non si occupa e non si è mai occupato di esperienze di vulnerabilità maschile è semplicemente falsa, tanto che esiste un’intera branca di studi interdisciplinare e di matrice femminista che si è occupata di ciò: Critical Studies on Men & Masculinities. In secondo luogo, l’esistenza di esperienze di vulnerabilità maschile non è in contraddizione con l’esistenza di asimmetrie di genere, semmai è un tassello fondamentale affinché esse vengano prodotte e mantenute. Ci sono più di quarant’anni di ricerche che parlano di ciò. Se qualcosa va messo urgentemente in discussione, sono proprio i meccanismi che sostengono questi processi.
Per approfondire:
Connell, R. W. (1996). Maschilità. Identità e Trasformazioni del Maschio Occidentale. Milano: Feltrinelli
Connell, R. W. (2009). Gender: In World Perspective. Cambridge: Polity Press.
Ferrero Camoletto, R. & Bertone, C. (2016). La Fragilità del Sesso Forte: Come Medicalizzare la Maschilità. Milano: Mimesis
Levant, R. F. & Wong, Y. J. (2017). The Psychology of Men & Masculinities. Washington: American Psychological Association
Mosse, G. L. (1997). L’Immagine dell’Uomo. Lo Stereotipo Maschile nell’Epoca Moderna. Torino: Einaudi
Rinaldi, C. (2019). Maschilità, Devianze, Crimine. Parma: Meltemi
Riferimenti bibliografici citati
Brannon, R., & Juni, S. (1984). A Scale for Measuring Attitudes Toward Masculinity. JSAS Catalog of Selected Documents in Psychology, 14(6).
Bunnin, N. & Yu, J. (2004). Masculinism. In N. Bunnin & J. Ciment (a cura di), The Blackwell Dictionary of Western Philosophy (1st ed., 411). Malden, MA: Blackwell Publishing
Carrigan, T., Connell, B., & Lee, J. (1985). Toward a New Sociology of Masculinity. Theory and Society, 14(5), 551-604.
Connell, R.W. (1987). Gender and Power. Society, the Person and Sexual Politics. Palo Alto, CA: Stanford University Press.
Connell, R.W. (2000). The Men and the Boys. Berkeley, CA: University of California Press.
David, D. & Brannon, R. (1976). The Forty-Nine Percent Majority: The Male Sex Role. Reading, MA: Addison-Wesley.
Levant, R. F., Hirsch, L., Celentano, E., Cozza, T., Hill, S., MacEachern, et al. (1992). The Male Role: An Investigation of Norms and Stereotypes. Journal of Mental Health Counseling, 14, 325-337.
O’Neil, J. M. (2008). Summarizing 25 years of Research on Men’s Gender Role Conflict using the Gender Role Conflict Scale. The Counseling Psychologist, 36, 358–445.
Parsons, T. & Bales, R. F. (1955). Family, Socialization and Interaction process. Glencoe: Free Press
Pleck, J. H. (1981). The Myth of Masculinity. Cambridge: MIT Press.
Pleck, J. H. (1995). The Gender Role Strain Paradigm: An Update. In R. F. Levant & W. S. Pollack (a cura di), A New Psychology of Men (pp. 11–32). New York: Basic Books.
Rinaldi, C. (2015). “Rimani maschio finché non ne arriva uno più maschio e più attivo di te”. La costruzione delle maschilità omosessuali tra normalizzazione, complicità e consumo. Ragion Pratica, 2, 443-462.
Terman, L. M. & Miles, C. C. (1936). Sex and Personality. Studies in Masculinity and Femininity. New York: Mcgraw-Hill Book.
David Primo è Dottore di ricerca nel corso di dottorato in “Scienze Sociali: Interazioni, Comunicazione e Costruzioni Culturali” dell’Università degli Studi di Padova con precedente formazione in Psicologia della Personalità (triennale) e Psicologia Sociale (magistrale). Si è occupato principalmente di studi critici sulle maschilità, processi di soggettivazione nel campo delle sessualità e prospettive epistemologiche queer. Si è avvicinato alla ricerca come uomo cisgender bianco bisessuale a partire da un posizionamento politico radicato nella militanza prima all’interno del SAT-Pink (Servizio Accoglienza Trans/Transgender) di Padova e Verona e ora con Non Una Di Meno Treviso.
Grazie all’aiuto di alcune compagne avevamo già raccontato in Ottobre delle rivolte in Cile, moti locali che grazie alla collaborazione femminista transnazionale avevano trovato risonanza a livello globale. La pressione delle proteste in strada aveva portato a una svolta epocale: la revisione secondo referendum della costituzione cilena, ad oggi ancora eredità diretta della dittatura di Pinochet. Il referendum avrebbe dovuto avere luogo il 26 Aprile ma a causa del rischio di contagio in caso di assembramento alle urne è stato rinviato al prossimo Ottobre. Le misure di confinamento imposte sul territorio cileno, in diversi comuni e soprattutto nella capitale, Santiago del Cile, sono state selettive; il lockdown delle aree con più contagi (o ritenute a più alto rischio di contagio) sono da settimane controllate militarmente dall’esercito e dai carabineros nel tentativo di reprimere con la forza le proteste cittadine per la mancanza di beni alimentari. Non sorprende che Pinera, che aveva già fatto ricorso all’imposizione del coprifuoco durante le rivolte di ottobre, usi politicamente questo lockdown per indebolire l’opposizione in diversi modi.
Eclatante è il caso della denuncia dei Carabineros nei confronti de Las Tesis, collettivo femminista autore della canzone di denuncia della violenza di genere perpetuata delle forze dell’ordine. Il testo e l’azione performativa, che hanno trovato espressione e traduzione a livello internazionale, sono ad oggi oggetto di studio artistico e sociologico. Il poeta e accademico Felipe Cussen ha scritto una lettera aperta (condivisa in un secondo momento da artistx e accademicx) che discute l’improbabile interpretazione letterale del verso ‘fuego a los pacos’ presente nel video ora rimosso dal web; la denuncia, che riporta le frasi incriminate completamente decontestualizzate dalla forma di manifesto artistico-culturale, si rivela per quella che è: la strumentalizzazione degli eventi al fine di creare un precedente di intimidazione e censura nei confronti di ogni tentativo di insubordinazione alla violenza di stato, da reprimersi con quella stessa violenza di stato denunciata in un video rilasciato lo stesso giorno di quello incriminato.
Prima di discutere la transfobia violenta generata dalle dichiarazioni di una figura di spicco della letteratura per young adults, è utile leggere una storia della sorellanza intersezionale che ci prepari culturalmente, criticamente, ed emotivamente ad affrontare certi orrori.
Già da tempo JK Rowling aveva lasciato intendere le sue posizioni transfobiche, questo mese ha deciso di dar loro voce in maniera netta con un intervento che si può leggere sul sito personale dell’autrice e che è stato immediatamente smascherato nella sua infondatezza. La notorietà della scrittrice però rende difficile contrastare questo manifesto di vera e propria disinformazione, come spiegato punto per punto in questo video. Nel testo di JKR troviamo riferimenti alla ROGD, un acronimo per Rapid Onset Gender Dysphoria: lo studio del 2016, che è stato ripetutamente criticato da attivistx e accademicx sia a livello metodologico che contenutistico, si concentra sulle reazioni dei genitori di soggetti che si identificano come non-cisgender. La fattualità del report è stata completamente falsata e, nonostante il certosino lavoro di debunking, è su queste indagini non scientificamente rilevanti che i gruppi TERF fanno leva per creare confusione, paura, e odio. Le recenti campagne di informazione e discussione su una possibile riforma del Gender Recognition Act inglese hanno mostrato che l’attuale procedimento, diversamente da come semplificato strumentalmente da JKR, è di fatto molto lungo e spesso ostacola l’espressione dell’identità dei soggetti.
Particolarmente rilevante è l’operazione di falsa solidarietà con gli uomini transessuali, soggetti strumentalizzati nei discorsi della causa transfobica: per giustificare moralmente la propria posizione di odio, JKR e le femministe trans-escludenti si dicono sodali dei maschi transessuali riconoscendo loro la pressione sociale del patriarcato che porterebbe a scegliere di rinunciare alla propria esistenza in corpo sessuato di cis-donna (con terminologia violenta quale, ad esempio, mutilazione). Intanto, l'agenzia letteraria dell’autrice è stata invitata da alcune persone che rappresenta a prendere posizione riguardo i diritti delle persone transessuali, il silenzio della Blair Partnership non è passato inosservato e ha portato ancora una volta a una rinuncia e marginalizzazione di soggetti non cis-gender.
Non si tratta di una distanza generazionale ma di capacità di empatia, e sarebbe importante che a sostituire il vociare confuso e discriminatorio di JKR ci fosse sempre una piattaforma che amplificasse la lucida e commovente posizione di Angela Davis.
Si è tolta la vita l’attivista lesbica Sarah el-Hegazy (o Sarah Hijazi). Durante il concerto della band libanese Mashrou’ Leila tenutosi al Cairo nel settembre 2017, una bandiera arcobaleno (simbolo internazionale di orgoglio LGBTQIA+) è sventolata nel pubblico; a seguire, decine di persone presenti all’evento sono state arrestate per “incitazione all’immoralità”. In Egitto, pur non essendo di fatto illegale, l’omosessualità è culturalmente e politicamente contestata e, attraverso l’abuso di una legge sull’immoralità, le vite di soggetti queer e transgender vengono costantemente messe a repentaglio. La spettacolarizzazione dell’oppressione è una pratica ricercata appositamente dal Generale el-Sisi, tanto che frequentemente i raid e gli arresti avvengono scortati da giornalistx. Sarah aveva coraggiosamente raccontato e denunciato le violenze subite o incitate dalla polizia nei mesi di arresto, e aveva poi trovato asilo politico in Canada dove, fino all’ultimo, non ha smesso di lottare per i diritti delle persone LGBTQIA+.
[Alt Text: Sarah Hijazi con i capelli corti e una maglietta rosa solleva alle sue spalle una bandiera arcobaleno tra la folla di un concerto.]
Black Lives Matter anche in Italia: Campagne in lotta sostiene le battaglie delle persone migranti sfruttate nelle campagne del Made in Italy e noi possiamo aiutarl* ad affrontare le spese legali.
Ripercorrere la storia del femminismo attraverso i suoi manifesti.
“Becoming normalizza il potere e lo status quo mentre manda il messaggio che il resto di noi non deve far altro che trovare il proprio posto nella gerarchia corrente per essere felice”: una critica al documentario, e alla figura, di Michelle Obama.
La regione Umbria ha appena abolito la possibilità di ricorrere all’aborto farmacologico in day hospital o presso il proprio domicilio, rendendo obbligatorio un ricovero di tre giorni. Claudia Torrisi fa il punto della situazione su Valigia Blu.
[Alt Text: diagramma ad albero preparato dall’associazione Obiezione Respinta per riassumere i nostri diritti in fatto di contraccezione d’emergenza. Se in farmacia si rifiutano di fornirtela, puoi chiamare l’associazione al numero 3319634889. Fonte.]
Come mai i romanzi per adolescenti e preadolescenti stanno cominciando a introdurre storie di abuso e violenza sessuale?
La pandemia ha mostrato tutti i limiti della famiglia tradizionale come la conosciamo: nucleare, fondata su contratti o legami di sangue, unico luogo deputato alla cura e all’affetto. Se ne occupa Sophie Lewis su The Nation.
Sul blog di Edizioni Minoritarie, la linguista Manuela Manera mette a disposizione una comoda cassetta degli attrezzi per chi voglia usare un linguaggio inclusivo.
Usare la teoria della riproduzione sociale per iniziare a comprendere l’emergenza COVID-19.
Cambi di prospettiva assai graditi e necessari: tre giovani attiviste afrodiscendenti parlano di razzismo in Italia.
Si guarda su Vimeo Sulle mie spalle/On my back - Il Paese delle Terre d’Oltremare, corto di Alessandra Cianelli che “intreccia echi, suoni, oggetti e tracce” del passato coloniale italiano — letto attraverso le lettere del nonno morto in Cirenaica e ascoltato sotto forma di discorsi e annunci radio d’archivio insieme a marce e canzoni connesse alle vicende d’Oltremare. Un passato di cui non sappiamo o non vogliamo sapere nulla, al contrario della nonna della regista che “invece sapeva, ma non ha mai detto niente, perché non è andata come le avevano raccontato”. La ricerca di Cianelli è approfondita qui.
[Alt Text: immagine da Sulle mie spalle/On my back - Il Paese delle Terre d’Oltremare. La vecchia fotografia di una ragazza, ingiallita e spiegazzata, è posata su un lenzuolo. Fonte.]
La storia raccontata attraverso i nuovi media: Anne Frank, vlogger.
UN LIBRO
Afro-ismo. Cultura pop, femminismo e veganismo nero di Aph e Syl Ko (traduzione di feminoska, 2020)
di Marco Reggio
[Alt Text: copertina di Afro-ismo.]
Nella dialettica tra il Negro [sic] e il suo padrone, due figure emblematiche della soggezione sono le catene e il guinzaglio. Il guinzaglio è quella specie di corda che si attacca al collo di chi non è libero. Chi non è libero è come colui al quale non si può dare la mano e che bisogna quindi trascinare per il collo. Il guinzaglio è il significante per eccellenza dell’identità servile, della condizione servile, dello stato di sottomissione. Fare l’esperienza della sottomissione significa essere posti di forza nella zona di indifferenziazione tra l’uomo e l’animale, in luoghi dove si osserva la vita umana dalla posizione dell’animale – vita umana che assume l’aspetto della vita animale, al punto che non si può più distinguerle e non si sa più quale animale sia più umano dell’uomo e quale uomo sia più animale dell’animale.
(Achille Mbembe, Critica della ragione negra)
Il pensiero antispecista vive nel nostro paese un certo fermento negli ultimi anni. Le parole d’ordine del “primo” antispecismo di matrice anglosassone (ma anche – occorre ricordarlo – bianca, maschile, cisgenere e accademica) si accompagnano a riflessioni che muovono da prospettive più ampie e, soprattutto, che dialogano serratamente con altri ambiti di lotta e di elaborazione teorica. Le prospettive foucaultiane in relazione all’agency animale, la teoria critica seguente alla “svolta” suggerita da Derrida in relazione alla questione animale; gli intrecci con le teorie queer, esplorati interpellando sia la teoria della performatività di Judith Butler sia il versante anti-sociale del queer), ma anche con altre “correnti” del femminismo, come l’ecofemminismo, l’opera di Carol J. Adams (da poco tradotta) e l’etica del care. Senza contare il gran lavoro di traduzione, che spesso è sottorappresentato (forse anche perché è prevalentemente femminile), sui blog o a livello editoriale, che si è rivelato preziosissimo per far conoscere ai lettori/trici italian*, soprattutto militanti, alcune voci e alcuni momenti salienti dei dibattiti esteri (si veda il sito del collettivo Les Bitches).
In questo scenario, un ritardo certamente significativo è quello relativo alla messa a tema dell’intreccio tra questioni razziali e questione animale. Sebbene gli elementi non manchino, e sebbene una certa diffusione del metodo intersezionale abbia preparato il terreno per aprire una discussione su tale ambito, è stata fino ad oggi pressoché clamorosa la mancanza delle voci non bianche sulle teorie e le prassi antispeciste/animaliste. Inizia a colmare questo vuoto la traduzione di Aphro-ism. Essays on Pop Culture, Feminism, and Black Veganism from Two Sisters, di Aph e Syl Ko (Afro-ismo. Cultura pop, femminismo e veganismo nero, Vanda Edizioni, traduzione di feminoska, 2020), in uscita in questi giorni. Le autrici, due sorelle afroamericane, hanno dato alla luce un libro per certi versi atipico, costruito a partire dall’omonimo blog, articolando una serie di riflessioni in forma non lineare, non accademica, militante nello spirito e nel linguaggio, ma al tempo stesso ben radicata nelle fondamenta delle riflessioni teoriche del campo dei Critical Animal Studies.
La prospettiva delle sorelle Ko è quella di chi si trova, in prima persona, a dover denunciare il biancocentrismo dell’animalismo mainstream, evidenziando gli aspetti escludenti di alcune parole d’ordine apparentemente neutrali dal punto di vista razziale (una su tutte: veganismo), e il retaggio coloniale di molte pratiche di solidarietà interspecie. Al tempo stesso, però, si tratta di una postura che rivendica la piena considerazione dell’animalità nelle pratiche di decolonizzazione. Come sintetizza Breeze Harper nella prefazione all’edizione originale, “Afro-ismo mette in discussione la narrazione popolare secondo cui antispecismo, liberazione nera e antirazzismo siano incompatibili e causa di divisioni”. Tale prospettiva si radica nel rifiuto della favola del “post-razziale” e trova nel movimento Black Lives Matter un costante riferimento concreto, talvolta anche critico, per scardinare il mito del sapere oggettivo bianco in grado di elaborare una teoria a tutto tondo dello sfruttamento animale in cui sarebbe la buona coscienza dei privilegiati a traghettarci nell’eden vegano. Come emerge dalla pubblicistica che ruota intorno allo slogan go vegan, la liberazione dovrebbe materializzarsi come somma di atti di volontà individuale, generati da un’empatia indifferente agli assi della razza, del genere o della classe e, in definitiva, del tutto disincarnata.
In questo scenario, quella delle sorelle Ko è, sempre prendendo a prestito una fortunata espressione di Breeze Harper, “un’avventura di giustizia epistemica”. Non è solo la determinazione del soggetto nero escluso dal discorso animalista bianco a demolire il trasversalismo politico di chi, anche in Italia, afferma incessantemente che tutti “gli altri discorsi” non fanno altro che sottrarre energie alla liberazione animale; è anche la storia della razza e dell’animalità che, riscritta da un soggetto nero con gli strumenti decoloniali, mostra come sia semplicemente impossibile parlare di due elementi distinti. Le autrici illustrano infatti come razzializzazione e animalizzazione siano legate in modo molto più stretto di quanto lascino pensare gli stessi argomenti che da qualche anno iniziano a circolare in alcune nicchie antispeciste.
Sotto questo aspetto, che cosa può dire un libro come Afro-ismo a un pubblico di lettrici e lettori, quelli del nostro paese, per cui movimenti come Black Lives Matter sono spesso poco più che un esotico richiamo alla lotta, abituat* a una realtà che riconosce raramente la sua multietnicità e che ha tuttora rimosso dal discorso pubblico la sua storia coloniale (esterna e interna)? Una realtà in cui, come ha fatto notare Angelica Pesarini, “è più facile identificare la nerezza come una condizione aliena, transitoria, esterna, non appartenente a questo paese perché per essere italiani, quelli ‘veri’, si è bianchi e dunque, se la nerezza non esiste, non esiste neanche il razzismo, quello è solo negli Stati Uniti”? In che modo Afro-ismo può interpellare, per esempio, il sottoscritto, vegano antispecista bianco? Credo possa dire infinitamente di più di quanto, seppur generosamente, hanno cercato di fare alcun* autor bianch. Anzitutto, non è di per sé una novità che esista l’animalizzazione, dagli ebrei che per i nazisti erano “ratti” o “insetti”, fino all’epiteto di “scimmia” riservato ai migranti dalla pelle scura.
Non è una novità, insomma, che l’oppressione passi per la preventiva e costante svalutazione delle vittime tramite l’assimilazione agli animali di altre specie. E non si tratta certo di un dispositivo legato esclusivamente alla razza, se si pensa alle mille espressioni misogine con cui abbiamo, seppur variamente, una certa confidenza: una certa donna è svilita in quanto “oca”, o in quanto “cagna”, o è stupida “come una gallina”, o, come ha mostrato un’intera generazione di studiose femministe antispeciste da Carol J. Adams in poi, è un oggetto sessuale consumabile nelle sue parti, dunque smembrabile, proprio come gli animali da carne (la “pollastrella”). Donne e soggetti razzializzati sono inferiorizzati facendo ricorso alla figura dell’animale, già di per sé disponibile in modo non problematico al consumo dell’occidente bianco. Ma questo discorso, qui, vive del posizionamento di chi lo pronuncia, due donne afroamericane, il che non è affatto irrilevante. Basti pensare a una “classica” conseguenza di tale analisi: se i movimenti di emancipazione tradizionali, femministi e antirazzisti, hanno rispettivamente puntato sull’inclusione, rispettivamente, delle donne e dei non-bianchi nella sfera de “l’Umano” (“anche noi siamo uman*”), un punto di vista antispecista conscio del funzionamento del dispositivo dell’animalizzazione esorta a rifuggire tale mossa.
Dibattito attualissimo, dal momento che la strategia che punta a rifiutare la riduzione all’animale è decisamente in voga se si pensa che, dopo l’uccisione di George Floyd a Minneapolis, la star dell’NBA Dennis Rodman diffonde un appello che recita precisamente “Basta saccheggi, non siamo animali!”. Ma se diamo credito ad alcune riflessioni teoriche prodotte dai Critical Animal Studies, rivendicare l’umanità dei soggetti minorizzati significherebbe rafforzare quel dualismo umano/animale che alimenta il razzismo stesso. Questa critica, dal sapore paternalista – si tratta dopotutto di bianchi che indicano ai soggetti animalizzati la “retta via”, suggerendo di rivendicare una comune animalità – si trasforma completamente se ad articolarla sono, appunto, dei soggetti non bianchi. A chi come il sottoscritto ha familiarità con tale tipo di critica può fare un effetto davvero potente, proprio perché l’analisi dell’animalizzazione fatta da persone che sono animalizzate dalla nascita è un’analisi vissuta, incarnata e si sviluppa in modo più profondo. Non a caso, gli esiti di tali riflessioni non sono del tutto coincidenti con quelli dei pensatori bianchi antispecisti: non si tratta, infatti, per le sorelle Ko, di rifiutare l’idea di umanità, quanto piuttosto di risignificarla.
Un’intera tradizione di pensiero viene finalmente rivista e criticata attraverso una lente non bianca. La strategia di enfatizzare le somiglianze fra categorie (razze o specie), non aiuta coloro che sono minorizzat*; questa strategia, alla base del primo antispecismo, si rivela controproducente: sostenendo che gli animali non umani siano in realtà simili a noi in termini di intelligenza o sentimenti, e che per questo debbano essere degni di considerazione morale, non si fa altro che rafforzare il paradigma secondo cui esiste un preciso cerchio della considerazione morale, con i suoi soggetti inclusi e, immancabilmente, gli esclusi. In effetti, nonostante la mole incontrovertibile di dati che dimostrano come i neri non siano essenzialmente differenti dai bianchi in termini di intelligenza, capacità, ecc. e come molte specie non umane non siano “inferiori” alla nostra in termini cognitivi, emotivi, ecc., razzismo e specismo perdurano e producono indisturbati i loro concretissimi effetti. In generale, questa idea deriva da una centralità, appunto, delle teorie bianche egemoniche (Syl Ko, significativamente, menziona Kant e Rawls) e dalla mancanza di coraggio nell’intraprendere una strada “nera”.
Tale approccio può contribuire a leggere in maniera originale anche una questione al centro dell’attuale dibattito politico, quella ecologica, tramite una visione non estetizzante della “natura”. Questa concezione si svincola dalla scelta apparentemente obbligata fra una natura intrinsecamente buona e una natura intrinsecamente cattiva, e soprattutto fra una natura ridotta a mera “risorsa” da sfruttare e una natura concepita come oggetto di “tutela”. Ancora più originale (e un po’ spaesante) è l’inatteso parallelo con il tema della bellezza femminile, dei canoni estetici di genere, del body shaming e dei tentativi di contronarrazione femminista. Una delle strategie femministe che appaiono come più “radicali”, affermare che “tutte le donne sono belle!”, viene puntualmente decostruita.
[Alt Text: fotografia di Breeze Harper (con bambinx di cinque mesi) e Aph Ko. Breeze Harper tiene il blog Sistah Vegan e carica su YouTube molti dei suoi interventi. Fonte.]
Qui, come altrove nel testo, il leitmotiv è la critica del mito dell’inclusività. Aph e Syl Ko, coerentemente con il proprio approccio decoloniale, denunciano le strategie di inclusione razziale fondate sull’idea che i neri siano null’altro che degli elementi utili alle teorizzazioni dei bianchi, e che uno spazio inclusivo sia uno spazio che “contiene” dei neri. Questa postura, anche uscendo dall’ambito dei gruppi politicamente trasversali, è quella dominante nelle cerchie vegan/antispeciste, in cui non c’è ombra di quella che per le autrici è la genuina apertura: l’ascolto e la valorizzazione della teoria nera. Se persino nei movimenti antirazzisti i neri sono di norma considerati eminentemente come corpi, Aph e Syl Ko ci dicono che è ora che i/le ner* siano ascoltat* per la loro capacità di pensare, di creare, di teorizzare dalla loro posizione (dal margine, direbbe bell hooks). Non basta prendere in considerazione i (vegani) neri, se i modelli teorici sono bianchi. In fondo, assumere che le persone non bianche (o gli animali) siano solo corpi è ancora una forma di biologizzazione. Questo tipo di inclusione è, per le autrici, poco più che “diversità estetica”: “sii nero, pensa bianco”.
Tutto ciò fornisce elementi di incommensurabile valore ai movimenti per la liberazione animale che abbiano un desiderio genuino di porsi in ascolto. Per cominciare, un superficiale uso del metodo intersezionale (più spesso assimilato con una mitica “convergenza delle lotte”) porta spesso a utilizzare facili paragoni fra le oppressioni umane e lo sfruttamento animale: l’accostamento di immagini relative alla schiavitù e immagini degli allevamenti ne è un ottimo esempio. Questi paralleli impediscono di vedere le peculiarità dei fenomeni ma anche, paradossalmente, di comprenderne il denominatore comune. Secondo le autrici di Afro-ismo, la categoria dell’animale è un’invenzione coloniale: questo fatto rende già di per sé impossibile, a chi volesse indagare la violenza sugli animali in modo approfondito, ignorare quanto essa giri intorno alla razzializzazione. La separazione fra homo sapiens e altri animali è già in origine carica di razza, è già una separazione fra soggetti che, pur appartenendo alla stessa specie biologica, non sono considerati conspecifici. Quando affermiamo che una persona si comporta “come un animale” o che va trattato “come una bestia”, intendiamo dire che si discosta dall’umano paradigmatico, cioè dall’idea fantasmatica di bianchezza. Ed è per questo che Aph e Syl Ko arrivano a dire che gli stessi animali sono animalizzati.
Inoltre, il pensiero decoloniale delle autrici non si ferma a denunciare la violenza sui corpi, ma assume come imprescindibile una critica della colonialità, cioè di quel pensiero simbolico che rende possibile il colonialismo. Ancora, i neri non sono solo corpi, e la stessa parola d’ordine “black lives matter” dovrebbe sottendere un’idea di Vita Nera più ampia di quanto suggerisca il riferimento alle violenze poliziesche. Proprio in questi giorni, le rivolte negli Stati Uniti a seguito dell’omicidio di George Floyd, con tutto il loro corollario di polemiche, indicano il problema della svalutazione del pensiero nero, dell’autonomia di giudizio, di iniziativa politica di ampie comunità oggetto di violenza strutturale. A partire dai paternalistici inviti bianchi a evitare il ricorso alla violenza per non “nuocere alla propria stessa causa” e, qui in Europa, all’appropriazione indebita dello slogan I can’t breathe da parte di persone bianche che non sanno neppure cosa significa essere oggetto di un certo tipo di attenzioni da parte della polizia.
In effetti, il razzismo viene ricondotto dalle autrici soprattutto al piano ideologico/simbolico, prima che alle sue manifestazioni concrete, tanto che viene attribuita enorme rilevanza al razzismo interiorizzato che per Syl Ko deriva dal “respirare la stessa aria di chi ha il privilegio” interiorizzandone i valori (e il privilegio si manifesta anche proprio nella differente possibilità di “respirare la stessa aria”, come ha tristemente dimostrato l’assassinio di George Floyd). Sullo sfondo, il riferimento è soprattutto a Frantz Fanon, in particolare a Pelle nera, maschere bianche. Le sorelle Ko, del resto, illustrano in modo molto eloquente il funzionamento delle retoriche “egualitarie” stile “all lives matter”, sia all’interno del più generale discorso sui rapporti fra comunità negli Stati Uniti, sia in relazione al più specifico ambito della comunità vegan. Per quanto riguarda il primo caso, un capitolo del libro è dedicato alla canzone del rapper Prince Ea, “I Am NOT Black, You are NOT White”, un superficiale inno all’abbandono delle “etichette” di bianco e nero che ricorda le esortazioni a combattere il “sessismo al contrario” diffuse da tanti Men’s Rights Activists, la cui logica viene decostruita passo passo.
Per quanto riguarda il milieu animalista, invece, le reazioni degli attivisti (bianchi, soprattutto) alla pubblicazione della lista di vegani neri fatta da Aph vengono “fatte parlare” mostrando la capillarità della mentalità per cui specificare l’attributo “neri” sarebbe già “divisivo” se non “razzista” (“al contrario”, appunto). La mole di commenti – talora risentiti talora paternalistici, talora vittimistici talora aggressivi – è impossibile da ignorare e fa emergere il sentire diffuso creato da anni di pensiero antispecista biancocentrico, per cui il massimo sforzo di inclusione è chiedersi cosa debba fare e cosa non abbia fatto finora il veganismo per coinvolgere i neri (una domanda che assume come punto di partenza che non esistano già vegani neri e che il movimento sia “di default” bianco!).
Come si vede, le riflessioni articolate nel testo a proposito di animalità, razza e colonialismo, pur toccando alcuni snodi filosofici anche piuttosto complessi, mostrano una concretezza radicata nell’esplorazione della cultura pop, delle pratiche quotidiane e comunicative di movimento, nell’analisi dei media e di internet. Del resto, il progetto di Aphro-ism nasce dal mediattivismo, prendendo poi la forma di un dialogo quasi epistolare fra le due sorelle e utilizzando una struttura non lineare in cui riflessione teorica, attualità e dibattito militante si rincorrono senza ricercare una sintesi definitiva. Lo stesso mondo dei social network, dei video on line e dei blog, così centrale per l’elaborazione del pensiero critico delle autrici, non è oggetto di una visione ingenua. Al contrario, Afro-ismo contiene una decostruzione di alcuni dei miti legati alla supposta neutralità, o addirittura al carattere liberatorio della comunicazione on line, e in special modo laddove essi intersecano la questione dell’integrazione razziale (per esempio, il capitolo “I social sono i defibrillatori digitali del sogno americano”, Aph Ko mostra come facebook e twitter si presentino come miraggi di notorietà in grado di emancipare le persone nere cui promettono l’ingresso nel paradiso estetico-digitale dei bianchi). La struttura del libro, ad ogni modo, non impedisce alle autrici di circoscrivere un ambito che costituisce in un certo senso il nucleo centrale delle riflessioni: il veganismo nero.
Che cos’è dunque il veganismo nero? Anzitutto, per le autrici non è possibile parlarne semplicemente come “essere vegan + essere neri”, e questo proprio in virtù di un’autentica politica del posizionamento. Nelle parole delle autrici: “la nostra identità di nere influenza il nostro veganismo”. Del resto, se il veganismo non riguarda solo gli animali, come vorrebbe invece l’animalismo mainstream trasversale, il veganismo nero non può che rivendicare la nerezza; deve seguire la tradizione dei movimenti per l’orgoglio nero spingendola oltre, in quel territorio inesplorato in cui poter rivendicare anche l’animalità. Strategia non del tutto inedita se si pensa, come dicevamo, a Derrida, ma che da quest’ultimo si discosta in parte – non si tratta, qui, di enfatizzare delle generiche “tendenze animali primitive”, nascoste sotto il sé linguistico e razionale umano, accettando ancora una volta, seppur più sottilmente, il paradigma antropocentrico che ha costruito lo iato fra umani e “altri” animali.
Si tratta molto più concretamente di introdurre la solidarietà interspecifica, il supporto ai non umani sfruttati, nella cornice della lotta antirazzista. Il veganismo nero è dunque la coscienza che emerge dallo scontro vissuto nel razzismo interiorizzato. Le persone nere possono dire: “in sostanza, siamo animali”. Il veganismo nero, nella formula di Syl Ko, “è uno strumento metodologico per riattivare la nostra immaginazione” contro la colonialità. Il che non significa che il veganismo nero sia esente da tutte le trappole in cui possono incorrere i movimenti radicali, a partire dal recupero da parte delle narrazioni istituzionali, per arrivare, passando per le varie forme di diversity management, al vero e proprio green e vegan washing. Su questo fronte, per esempio, la narrazione ufficiale bianca, contrappone la figura del rapper nero criminale a quella del vegano dedito al guerrilla gardening, un attivista radicale presentato come un bravo nero sbiancato dal veganismo, dedito alla non-violenza anziché alla denuncia della mancanza di accesso delle minoranze razziali alle risorse alimentari, per cui diventare vegan significa trascendere la propria razza.
E se il veganismo nero è il posizionamento che permette di intrecciare antispecismo, blackness e decolonialità, la pratica culturale, artistica e politica che permette di sviluppare nuovi strumenti di critica e di lotta è l’afrofuturismo. L’esortazione a intraprendere la strada tracciata da tale corrente obbedisce certamente alla necessità di partire dalla teoria nera, come abbiamo detto, e come testimoniano i riferimenti teorici che costellano il testo: Aimé Césaire, Frantz Fanon, María Lugones, bell hooks, Angela Davis, Cora Diamond, Sylvia Winter, Nelson Maldonado-Torres, Aníbal Quijano, fra gli altri. Ma soprattutto è l’afrofuturismo, e non l’intersezionalità, la nuova architettura necessaria a uscire dalle secche dell’inclusività post-coloniale e dell’animalismo bianco. Pur essendo in grado di spiegare l’oppressione presente, l’intersezionalità è costitutivamente incapace di “mappare il futuro”. L’afrofuturismo, in quanto esercizio di immaginazione creativa, è un movimento culturale, artistico e politico che produce narrazioni in grado di rompere con il passato della nerezza dimostrando che questo non è l’unico mondo possibile, superando per esempio quello che Mark Fisher ha designato come “realismo capitalista”, la narrazione prodotta dal capitalismo che impedisce anche solo di concepire delle alternative a tale organizzazione sociale e produttiva. L’afrofuturismo, nell’accezione di Aph e Syl Ko, presuppone che “a unirci in quanto persone oppresse è l’essere assegnate allo spazio del subumano o del non-umano”. Per questo, il veganismo è una prassi afrofuturista.
Marco Reggio è attivista antispecista, membro del collettivo Resistenza animale. Ha curato alcuni testi sulla questione animale, il più recente, con N. Bertuzzi, Smontare la gabbia. Anticapitalismo e movimento di liberazione animale (2019).
UN FILM
Janie’s Janie di Geri Ashur, Peter Barton, Marilyn Mulford e Stephanie Pawleski, 1971
[Alt Text: fotogramma del film. Janie aiuta uno dei suoi figli a vestirsi.]
In casa di Janie Giese si entra seguendola mentre imbocca una strada secondaria, con la borsa della spesa, e viene accolta sulle scale da uno dei suoi cinque figli, che sta crescendo da sola in un sobborgo di Newark dopo aver lasciato il marito.
L'anno è il 1971 e a realizzare questo breve documentario sulla vita quotidiana di una madre single, che sarà poi distribuito dal piccolo circuito di documentarist* Newsreel (ora Third World Newsreel) sono Geri Ashur, Peter Barton, Marilyn Mulford e Stephanie Pawleski. Il film è ambientato in prevalenza nella piccola, caotica abitazione di Janie e riprende la donna nella sua quotidianità, imperniata intorno alla cura dei figli e della casa. Janie prepara merende, inforna la cena e lucida i vetri, e in un momento separato si racconta fumando di fronte alla macchina da presa: fare e parlare si susseguono alternandosi, un'azione lascia spazio all'altra marcando lo scarto tra la temporalità circolare della routine domestica e la progressione dei pensieri e dei casi di Janie, donna che ha vissuto un percorso di liberazione e al contempo personaggia dall'arco narrativo perfetto.
Cresciuta con un padre manesco e nient'affatto desiderosa di lasciare la scuola per andare a lavorare e consegnare tutto lo stipendio alla famiglia, Janie ha creduto di attraversare indenne le maglie della rete patriarcale restando incinta e sposandosi a quindici anni. La vita coniugale è altrettanto violenta e fatta di sberle "meritate" e di opinioni che non hanno valore di fronte al superiore giudizio del marito, ma viene raccontata senza pentimenti o rimpianti. Janie non si flagella col senno di poi, ma osserva con attenzione i meccanismi che hanno permesso agli uomini della sua vita di sottrarle autostima ("Non mi sono mai creduta capace di pensare qualcosa di valido", ricorda) e si lascia scappare una risatina accorgendosi di come è libera di ragionare e parlare ora ("Mi meritavo le botte perché avevo la lingua troppo lunga [diceva]. Vedesse quanto è lunga adesso.").
"Chi può dire cosa possono essere le donne quando saranno finalmente libere di diventare se stesse?" si era chiesta Betty Friedan nel suo studio La mistica della femminilità (1963). Difficile che Janie, che riceve in sussidi l'indispensabile per sfamare se stessa e i figli, abbia potuto leggerlo, ma lo riecheggia inconsapevolmente quando riafferma la raggiunta indipendenza: "Prima ero la Janie di mio padre. Poi sono stata la Janie di Charlie. Ora sono la Janie di Janie". L'appartenenza a se stessa esclude il rapporto con figure maschili dominanti ma non recide il legame coi figli, e la conquista di una relativa indipendenza non deve comportare solitudine e alienazione dagli affetti. Janie non vive la sua emancipazione in opposizione binaria al ruolo materno, di cui non sembra pentita e che non annovera mai tra gli impedimenti passati e presenti della sua vita. Piuttosto, lamenta l'insufficienza delle politiche di welfare e lo stigma sociale a cui viene sottoposta come donna povera ("ti fanno sempre sentire da poco se sei povero... la società ci insegna che i poveri fanno schifo"), ostacoli più o meno materiali che le sottraggono la possibilità di una vita familiare più serena.
Sebbene Janie non adoperi mai le parole "patriarcato" e "capitalismo", il racconto delle sue esperienze restituisce la profondità delle riflessioni che ha dedicato giorno dopo giorno al suo status di donna single con un'entrata ridotta e molti figli a carico. La stessa attenzione è chiara quando prende in esame i suoi rapporti con le donne nere che ha conosciuto all'asilo gratuito che frequenta e dove dà una mano. Piuttosto che descrivere il razzismo subito dalle sue amiche, Janie si sofferma ad analizzare come sentimenti e pregiudizi razzisti vengano trasmessi tra le persone bianche fino a risultare naturali, e quali sono le responsabilità individuali di chi non se ne sottrae.
Ho sempre saputo di essere una donna bianca, e che avrei avuto un pasto in tavola e che ai miei figli non sarebbe mancato nulla. Non so perché ci insegnano a disprezzare i neri. Mi hanno fatto credere che i sentimenti dei neri... che non ne avessero alcuno. Che tutto quello che volevano era uscire a divertirsi e bere... tu leggi queste cose e le assorbi, e non ti rendi conto che ti mettono contro le persone. Ma so che è un pregiudizio che ho dentro di me, non sono mai uscita a partecipare alla vita della comunità.
Pochi anni dopo le rivolte di Newark, Janie si interroga sul suo ruolo di donna bianca all'interno di una struttura eteropatriarcale e razzista proprio grazie alla scoperta delle forze sociali che relegano la donna a una posizione di dipendenza, e ne scopre i relativi vantaggi mettendo a confronto la sua esperienza con quella delle sue amiche. Questa scoperta è dunque partita da sé per allargarsi alle altre e soprattutto alle altre razzializzate, formando così un'autentica coscienza politica che oggi chiameremmo intersezionale, che supera il mero valore documentaristico del film e che, senza trasformarsi mai in lotta collettiva, si declina nella ricerca del benessere all'interno di una piccola comunità che conta sull'aiuto reciproco.
UN’ARTISTA
Nil Yalter: abitare l’esilio
di Fabiola Fiocco
[Alt Text: ritratto fotografico di Nil Yalter. Fonte.]
Artista femminista militante e multidisciplinare, nel suo lavoro Nil Yalter riflette sui temi della rappresentazione della donna, della migrazione e dell’abitare, assumendo sempre una prospettiva politicamente connotata.
La lotta alla discriminazione e l’ambizione di dare voce agli esclusi — lavoratori immigrati, comunità in esilio, donne, prigioniere — sono gli obiettivi alla base della sua pratica artistica e si esprimono attraverso opere multimediali che combinano scultura, pittura, fotografia ma anche film e performance. Un lavoro itinerante che mescola diversi media e linguaggi, spesso provenienti da ambiti di ricerca esterni al mondo dell’arte, per dare vita ad una restituzione estetica di precise configurazioni politiche e sociali.
Nil Yalter nasce nel 1938 al Cairo, dove vive fino all’età di quattro anni per poi tornare in Turchia, terra di origine della sua famiglia. Dopo un inizio come autodidatta, caratterizzato dall’influenza delle riproduzioni di opere espressioniste, cubiste e fauves, comincia la sua formazione artistica ad Istanbul presso il Robert College.
Nel 1956 decide di intraprendere un viaggio tra Iran e India a piedi praticando la pantomima come strumento di sostentamento primario, un’esperienza particolarmente significativo:
Nel 1965 si trasferisce a Parigi, dove aveva esposto due anni prima le sue opere in occasione della terza Biennale di Parigi a cura di Nurullah Berk. Nel 1971 torna in Turchia e resta profondamente colpita dalla violenza repressiva dello Stato ed in particolare dalla situazione di marginalità e oppressione subita dai popoli nomadi.
Dagli anni Sessanta, anche a seguito di un primo colpo di stato da parte delle forze armate, la Turchia viveva un momento di grande instabilità socio-politica caratterizzata da proteste, attentati e violenze. Un secondo colpo di stato attuato nel 1971 portò ad un inasprimento delle misure repressive governative e l'incarcerazione ed esecuzione di minoranze e dissidenti. Nello specifico il processo e l'esecuzione di diversi membri dell’Esercito di liberazione popolare turco (THKO) causò la morte di 18 persone tra cui Deniz Gezmiş, Hüseyin Inan e Yusuf Aslan, diventando un episodio-simbolo per la storia del Paese e per la vita dell’artista stessa, che decide da quel momento di dedicarsi pienamente alla lotta politica.
Nei giorni seguenti l’esecuzione di Gezmiş, Inan e Aslan, Yalter racconta di essersi chiusa nell'appartamento di un amico, raccogliendo e ritagliando foto e giornali che riportassero notizie riguardanti tale episodio, dal processo all’esecuzione, e la vita di queste persone con l’intenzione di produrre una serie di opere che rappresentassero un segno di presenza, testimonianza e posizionamento politico. Queste opere, inizialmente mostrate solo ad alcuni amici a Parigi, vengono esposte al pubblico per la prima volta solo nel 2019 in occasione della mostra Exile Is a Hard Job presso il Museum Ludwig di Colonia.
L’esperienza in Turchia produce un cambiamento sostanziale nella vita dell’artista, che decide di mettere la politica al centro della sua vita. Nel 1976, tornata a Parigi, entra a far parte del gruppo Femmes en lutte, gruppo per la visibilità delle donne artiste attivo fino al 1980, e nel 1978 diventa membro del gruppo comunista turco, un partito illegale in Turchia e segreto in Francia, per poi fondare l’anno seguente il gruppo Amicale France-Turquie con Joël Boutteville.
L’impegno politico, insieme all’incontro con l'etnologo Bernard Dupaigne, produce un mutamento formale e concettuale anche nel percorso artistico di Nil Yalter, che fino a quel momento si esprimeva prevalentemente attraverso una pittura astratta, fortemente condizionata dal costruttivismo russo e dall’architettura. Al disegno e alla pittura si uniscono la fotografia e il video, una molteplicità di mezzi espressivi messi al servizio di un’arte politicamente impegnata. L’artista è anche una delle prime artiste ad utilizzare la Portapak, videocamera creata da Sony nel 1967 e che rappresenta in quel momento un vero strumento di emancipazione personale e artistica.
La prima testimonianza di questo rinnovamento è evidente già nella sua prima mostra personale organizzata nel 1973 all'ARC / Musée d'Art Moderne de la Ville de Paris, in occasione della quale viene presentato l’opera Topak-Ev, installazione, ambiente e scultura che ripropone all’interno dello spazio espositivo una yurta. La tradizionale struttura in legno è sostituita dal metallo e i tessuti che la coprono sono decorati con disegni e citazioni proveniente da tre ambiti: etnologico, letterario e politico. L’opera nasce da una ricerca iniziata dall’artista a Niğde, area nell'Anatolia centrale, in dialogo con le comunità nomadi del luogo. In queste comunità, ogni tenda è il dominio di una donna, che si prende cura della sua famiglia al suo interno. Inoltre, come sottolineato da Nazlı Gürlek, tappeti e decorazioni a maglia venivano spesso realizzati esclusivamente da donne ed erano associati a percezioni della bellezza e della fertilità femminile. Includendo questi elementi, Yalter registra le regole e i costumi che ingabbiano le donne all’interno dello spazio domestico. Un aspetto che nell’opera si intreccia con altri due temi, ovvero quello del nomadismo e della spiritualità, concepito come un rapporto personale e collettivo più profondo con la natura.
Attraverso i riferimenti testuali l’artista ci propone un cambio di paradigma, chiedendoci di guardare al nomadismo come un atto di resistenza all’ordine sociale egemonico. La tenda come archetipo, che contiene in sé una stratificazione di storie e simboli. Un luogo di lavoro ma anche di contemplazione e resistenza. In Topak-Ev è dunque possibile ritrovare in nuce tutti i temi che caratterizzeranno il lavoro dell’artista ovvero l’interesse per la condizione femminile e il lavoro riproduttivo, ma anche una ricerca sulle strutture abitative delle comunità emarginate, restituite attraverso un resa formale che mescola la grammatica del documentario a quella del disegno e della letteratura. Una commistione tra arte, estetica e antropologia ha portato Pierre Gaudibert, nel saggio pubblicato nella rivista Plus Moins Zéro – Revue d’art contemporain (1987), a definire Nil Yalter la pioniera dell'arte etnocritica (“Nil Yalter, artiste ethnocritique”) .
[Alt Text: Nil Yalter seduta a gambe incrociate dentro lo scheletro metallico dell’installazione Topak Ev. Fonte.]
Nonostante negli anni l’artista si sia confrontata con una molteplicità di tematiche che sono ancora oggi centrali nel dibattito politico e culturale, particolarmente rilevante è l’analisi che Yalter ha realizzato dello spazio domestico. Il tema dell’abitare viene ripreso negli stessi anni attraverso il progetto Habitation provisoires (1974 - 1978) in cui l'artista racconta diverse comunità delle periferie di Noisy-le-Grand, Aubervilliers, Seine-Saint-Denis e Hauts-de-Seine. L’architettura, fotografata, filmata e ridisegnata dall’artista, non è il soggetto del lavoro ma uno strumento di analisi e comprensione della struttura dello spazio pubblico e privato e dei codici che lo governano. Le storie degli abitanti vengono raccolte in un’installazione composta da tre pannelli che descrivono queste abitazioni attraverso disegni, foto e frasi estratte dai dialoghi tra l’artista e gli abitanti del luogo, mescolate a riferimenti bibliografici come The Question of Housing di Friedrich Engels (1872), Lo stato e la rivoluzione: la dottrina marxista dello stato e i compiti del proletariato nella rivoluzione scritta (1917) di Vladimir Ilyich Lenin (1870-1924) o il Corano.
Ancora una volta, la rielaborazione grafica dei materiali restituisce una dimensione politica a un'opera di registrazione fotografica e all'esperienza di un luogo. Inoltre, attraverso l’inclusione di parole e testi nei suoi lavori, l’artista riconosce la propria posizione di privilegio e sceglie di non parlare per le persone protagoniste delle sue opere ma di porsi come megafono, traduttrice e mediatrice.
L’intento politico di questi lavori parte dalla dimensione domestica delle storie degli individui coinvolti per poi aprirsi e connettersi alla realtà di tante comunità che vivono e lavorano nelle metropoli globali. Una pratica itinerante che l’artista realizza in diverse parti del mondo secondo schemi ogni volta diversi ma sempre legati da uno stesso obiettivo ovvero quello di rivelare le contraddizioni dello spazio pubblico e le disuguaglianze generate dall'economia neoliberista. La casa come luogo precario, mobile ma anche di resistenza, di auto-organizzazione, che muta e evolve in relazione alla società.
Nel 1983, dieci anni dopo la sua prima mostra personale all'ARC / Musée d'Art Modern de la Ville de Paris, Nil Yalter presenta l’opera C’est un dur métier que l’exil - titolo ripreso da una poesia di Nâzim Hikmet -, un'installazione composta da ventiquattro dipinti e un video, che racconta le storie e le condizioni di vita e di lavoro di uomini e donne turche impiegate nelle officine tessili sotterranee nel Faubourg Saint-Denis di Parigi. La narrativa si muove su due direttrici. I ritratti vengono animati attraverso l’inclusione di frasi, testi, poesie e storie della cultura popolare, tra cui "Épopée de la guerre de l’Indépendance" (1939) che evoca il ruolo delle donne nella resistenza o "Orient-Occident (Pierre Loti)”, critica dell'orientalismo occidentale. Nello spirito del lavoro della Yalter, l’opera viene assemblata e ricomposta in modi sempre diversi a seconda del contesto in cui viene presentata, portando avanti un processo di selezione e match che porta avanti la critica politica per mezzo dell’evocazione e del simbolo. Nel contempo, il video, che nel primo allestimento viene riprodotto contemporaneamente su più schermi disposti in circolo, riporta in maniera diretta le parole e testimonianze di queste donne e uomini legate alla clandestinità, la lingua, l’isolamento, con un approccio più marcatamente politico e conflittuale. Un racconto corale che rende l’esperienza individuale portatrice di un valore e una valenza collettiva, espressione di un’esperienza quasi universale. L’immagine viene però rimaneggiata, invertita, divisa, inserimenti di scene riprodotte, eseguite, immaginarie, fanno eco alle loro parole e ai loro ricordi anche trascritte nel testo, in fotografie, incorporando reali e credenze.
È questo complesso lavoro che consente di collegare la visione politica e umana, intrecciando rapporti e finzione in un nuovo linguaggio plastico. La resa formale è fondamentale, i documenti assumono una valenza plastica, quasi decorativa attraverso l’assunzione di forme geometriche che fanno riferimento all’architettura islamica, motivi decorativi tradizionali che rimandano sempre ad un altrove spazio-temporale che non ambiscono a minare la valenza di queste storie, ma a dar loro maggior pregio e peso, a renderle monumentali.
Anche il video acquisisce una dimensione plastica, non solo attraverso la manipolazione delle immagini e l’inclusione di materiale di archivio o filmico, ma anche per mezzo di allestimenti strutturalmente complessi attraverso i quali la fisicità del supporto impone la sua presenza nello spazio espositivo e acquista un ulteriore valore estetico.
Nel 2012, in occasione della presentazione dell’opera a Valencia, l'installazione esce dallo spazio espositivo per entrare nel panorama urbano attraverso una serie di poster in cui la frase che compone il titolo viene scritta con della vernice rossa su immagini estrapolate dall'opera teatrale Turkish Immigrants (1977), scene di vita familiare che nuovamente portano e quasi impongono la sfera privata nello spazio pubblico.
Attraverso il riassemblaggio di elementi stratificati, Nil Yalter produce delle installazioni che mirano a catturare, formalizzare e portare la realtà all’interno dello spazio espositivo in una relazione di continua contaminazione. Il processo creativo dell’artista parte e si sviluppa in relazione diretta con individui e gruppi che sono parte integrante del contesto in cui opera, raccogliendo testimonianze e contributi visivi e materiali che possano rendere ogni lavoro un’opera corale.
Come sintetizzato efficacemente da Fabienne Dumont nel catalogo della personale di Nil Yalter “TRANS/HUMANCE” presso il museo di arte contemporanea MAC VAL (Val-de-Marne), l’artista “agisce all'interno di un reale grezzo, non più immaginato o utopico.” La resa estetica di memorie e racconti personali e collettivi non mira a creare nuovi universi paralleli ma a trasmettere maggiore consapevolezza della realtà, a riattivare la storia. Dagli anni Novanta, Yalter porta avanti il suo percorso di (auto-)formazione prima come professoressa alla Sorbona e poi attraverso programmi di alfabetizzazione dedicati a donne e bambini in varie città tra cui Istanbul, Diyarbakır e Mardin in Siria. Negli ultimi anni l’artista ha deciso di continuare a sperimentare con la tecnologia digitale riprendendo e rilavorando vecchie opere e temi attraverso una nuova estetica ibrida, un nuovo approccio estetico che si concentra soprattutto sui temi legati alla rappresentazione delle donne. Nel 2018, Nil Yalter ha ricevuto il Aware Honorary Award (Archives of Women Artists, Research and Exhibitions).
Fabiola Fiocco dopo aver avuto una relazione complicata per anni con il suo paese ed essersi sentita sola e a casa in tanti letti diversi comincia ad interrogarsi su cosa voglia dire abitare, vivere e appartenere. Puoi seguire la sua ricerca su Instagram e su homeawayfromhome.
UNA DONNA
Mary Wollstonecraft
di Carlotta Cossutta
L’amicizia è il vincolo più sacro della società, scrive Mary Wollstonecraft nel 1792 nella Rivendicazione dei diritti della donna. Non un’affermazione del tutto nuova, a ben guardare, perché in una lunga tradizione, da Aristotele a Rousseau, da Lucrezio a Montaigne, sono molti gli autori precedenti a lanciarsi in elogi dell’amicizia come rapporto virtuoso e come modello da seguire nei rapporti sociali. E allora perché Wollstonecraft suona dirompente?
Innanzitutto perché parla di amicizia pensando alle donne e dal punto di vista di una donna. E di una donna per la quale l’amicizia è stata un rapporto fondamentale: è proprio l’essere amica di Frances “Fanny” Blood a permetterle di studiare da autodidatta, di frequentare circoli intellettuali e di trovare il coraggio di creare una scuola per ragazze, vivendo insieme e lottando costantemente contro la povertà. Sarà proprio la povertà, poi, a spingere Fanny a sposare un suo corteggiatore e a seguirlo a Lisbona, dove nel 1785 morirà di parto, assistita proprio da Mary. La morte di Fanny segnerà moltissimo Wollstonecraft, anche perché, come scrive William Godwin nella sua biografia, quella amicizia era stata per anni “la passione dominante nella sua mente”: la prima figlia di Wollstonecraft, nata dalla burrascosa relazione con Imaly, si chiamerà proprio Fanny, e dal ricordo dell’amica nascerà il romanzoMary, a Fiction. Il romanzo descrive proprio l’amicizia tra due donne e Wollstonecraft fa dire alla protagonista: “Non sarò mai felice? I miei sentimenti non si accordano con l’idea di felicità solitaria. La società degli esseri che possiamo amare sarà uno stato di gioia, senza l’intreccio in cui le debolezze terrene si mescolano con i nostri migliori affetti, che costruirà la maggior parte della nostra felicità”.
Questi accenni all’amicizia tra Fanny e Mary mostrano come il pensiero di Wollstonecraft sia sempre intriso della sua vita e delle sue esperienze, capace di immaginare teorie che facciano i conti con l’esistenza e con le passioni che la abitano. E in questo modo di pensare l’amicizia è centrale, perché è un luogo in cui le donne possono sperimentare un rapporto tra eguali, che può essere palestra di una pratica politica a loro negata. Wollstonecraft contrappone l’amicizia, sentimento duraturo, solidale, egualitario, all’amore, una passione per sua natura fugace e in cui i ruoli dell’amatu e dell’amante hanno una connotazione gerarchica. Non è un caso, infatti, sottolinea Wollstonecraft, che le donne vengano educate ad essere amate e a interpretare la cavalleria e le galanterie come omaggi e la seduzione come una forma di soddisfazione.
Proprio l’amore è la gabbia dorata che imprigiona le donne e che le rende innamorate della propria subordinazione, di una inferiorità politica e non solo che viene presentata come una debolezza seducente e in quanto tale gratificante. L’amore è uno specchio distorto, che ci consegna, in quanto donne, all’adulazione e ci allontana dal rispetto, ma che soprattutto ci condanna alla dipendenza: le donne sono condannate a dipendere economicamente e socialmente dagli uomini e vengono educate a mostrare una amabile debolezza per attrarre gli uomini giusti da sposare, che possano provvedere a loro. Ci si aspetta, dice Wollstonecraft, che le donne siano leggere come farfalle per attrarre una forma di amore che non è altro che un modo per catturarle e far ottenere agli uomini una “schiava domestica”.
Se l’amore si basa sulla seduzione, su una disparità di potere e su un desiderio di conquista, l’amicizia, al contrario, è un sentimento profondo, basato sul rispetto e capace di costruire legami che sanno allontanare la gelosia e la vanità, in nome del supporto reciproco. Le donne, attraverso la loro educazione che costruisce un modello di femminilità che poco ha a che fare con la presunta naturalità a cui viene ricondotto, sono escluse da questo sentimento, che viene visto come riservato solo agli uomini, gli unici virtuosi abbastanza da praticarlo. “Se esiste un solo criterio per la morale, un solo archetipo d’uomo, sembra dunque che il destino lasci le donne in sospeso […]: esse non posseggono né l’istinto infallibile degli animali, né possono puntare l’occhio sulla ragione per un modello di perfezione. Sono state create per essere amate e non devono anelare al rispetto per non correre il rischio di essere cacciate dalla società con l’accusa di mascolinità”.
Questa educazione che tiene le donne in sospeso dà forma anche a quelle che vengono considerate le amicizie femminili, basate sul pettegolezzo, il segreto e su un’intimità troppo stretta, che secondo Wollstonecraft conduce proprio alla mancanza di rispetto e di razionalità. Questi rapporti troppo intimi, basati sull’imitazione e il tentativo di corrispondersi in tutto, impediscono alle donne di sviluppare quella distanza che permette la riflessione e che conduce all’azione politica. In questi accenni all’importanza di una distanza dagli altri sembra quasi di vedere quel tavolo che ci mette in comunicazione e ci separa di cui parla Hannah Arendt quando descrive la possibilità dell’azione politica.
L’amicizia che Wollstonecraft propone, al contrario, è trampolino per una vita piena e politica, in tutti i suoi aspetti. Una vita da cui, attenzione, non è espulsa la passione, ma solo quella versione corrotta della passione che è un amore che rafforza le gerarchie, le oppressioni e le disuguaglianze sociali. Anche per questo l’amicizia è fondamentale, perché è una passione forte, ma capace di creare legami politici, che non possono essere basati solo sulla ragione e il calcolo:
se la fredda mano della circospezione avesse soffocato ogni sentimento generoso prima che questo avesse […] fissato qualche abitudine, cosa ci si potrebbe aspettare se non una prudenza egoistica ed una ragione che si leva appena al di sopra dell’istinto?
Per Wollstonecraft la virtù, motore dell’azione politica, si può imparare solo attraverso un legame forte, guidato dalla passione, rivolto verso individui particolari. Il nostro amore per l’umanità non può che nascere sulla base dell’amore, dell’amicizia, per singoli esseri umani, più preziosi ai nostri occhi di altri. E, inoltre, per Wollstonecraft uno spettatore imparziale, che dichiari di provare benevolenza verso tutti e tutte – e che quindi, potremmo dire, non ne prova per nessuno – non può essere un buon esempio e un buon giudice di azioni politica. Le passioni, infatti, sono la linfa che nutre la ragione e che trasformano la virtù in una abitudine costantemente rinnovata, che ci permette di sentire l’amore per l’umanità a partire dalla nostra esperienza: “liberate il cuore; che si schiuda a sentire tutto ciò che è umano, invece di accettare i limiti delle passioni egoistiche”.
Dare valore all’amicizia tra donne, a una passione per l’uguaglianza che non ci schiacci sulle altre, significa dare spazio alla possibilità di immaginare mondi comuni, politici, in cui l’essere uguali si nutra anche delle differenze. E l’amicizia tra donne, o per meglio dire tra soggetti esclusi da un maschile egemone, seguendo Wollstonecraft significa immaginare uno spazio in cui liberarsi dalle identità sociali che producono e riproducono oppressioni, significa costruirsi in un rapporto in cui non sono le aspettative maschili a guidarci.
Come sostiene Angela Putino, infatti, nell’amicizia tra donne costruiamo ponti:
uno strano ponte quello gettato dal noi. […] Io voglio non far cadere quello che mi fa dire io […]. C’è un altro desiderio contemporaneo: che anche l’altra non dimentichi e che quindi non mi imiti, che non si identifichi, che non consenta con me prima di gioire di sé. In verità non voglio incontrare una somiglianza, io desidero un’alterità, ma un’alterità che non scivoli contro di me”.
Un’alterità che mi dia lo spazio di costruire felicità condivise e differenti, ma anche un’alterità che sappia farsi slancio politico, perché “gli aspetti intimi delle nostre vite rischiano di divenire inutili rifugi e non ci riappropriamo dei nostri destini se non attraverso un’azione politica, se non giocando qualunque via di comunicazione tra noi come qualcosa che incide sulla struttura stessa della società”.
Ed è questo che Wollstonecraft mi insegna: rivendicare l’amicizia significa rivendicare un modo di costruire legami che scardinino una società che si pretende fondata sull’amore familiare, calco di infinite oppressioni. E allora grazie amiche di avermi fatto essere quella che sono e perché “strong is what we make each other” [forti è ciò che ci rendiamo l’una l’altra].
Carlotta Cossutta è ricercatrice precaria in Filosofia Politica. Si occupa, tra le altre cose, di teorie femministe e queer e di storia del pensiero politico delle donne. Fa parte del centro di ricerca Politesse e della rete GIFTS- Studi di genere, intersex, femministi, transfemministi e sulla sessualità. Con Le smagliatrici (Valentina Greco, Arianna Mainardi e Stefania Voli) ha curato Smagliature digitali per Agenzia X e deve a loro e ad Ambrosia, collettivo transfemminista e queer, molti dei suoi pensieri.
Ringraziamo David, Marco, Fabiola e Carlotta per averci aiutato in questo numero di Ghinea, e speriamo di poterl* ospitare ancora al più presto. Grazie anche a chi legge e condivide la nostra newsletter, per noi è importantissimo!
Ci ritroviamo tra un mese! Un abbraccio.
Francesca, Gloria e Marzia