La ghinea di febbraio
Benvenutx a Ghinea, la newsletter che a Carnevale non si è potuta travestire da Freedom Trashcan come previsto. Prima di iniziare abbiamo una comunicazione di servizio: per via dell’ordinanza contro il coronavirus emanata dalla regione Emilia Romagna, l’incontro con le redazioni delle riviste Frute, Mulieris e Frisson fissato per stasera presso la Libreria delle donne di Bologna è annullato. Speriamo di poterlo recuperare presto e soprattutto che l’emergenza rientri quanto prima.
Questo mese abbiamo tre ospiti: Eleonora Casale ci parla di prostituzione sacra, Simona Iamonte prosegue la sua serie sulle pittrici inaugurata lo scorso dicembre e la nostra fidata Martina Neglia ci propone una lettura.
Buona lettura!
Prostituzione sacra: storia brevissima di un rito complesso
di Eleonora Casale
La storia delle religioni è disseminata di modi e tempi nei quali la sessualità, soprattutto quella femminile, è stata osteggiata o strumentalizzata a fini propagandistici. La pratica in cui la strumentalizzazione della sessualità femminile, le forme di ritualità e l’esercizio della prostituzione si incrociano maggiormente è la prostituzione rituale o sacra. Diffusissima nel mondo antico e scomparsa solo con l’avvento del cristianesimo e della Bibbia, la prostituzione sacra consisteva nell’offerta di prestazioni sessuali con connotazioni rituali dietro pagamento di un corrispettivo in denaro. La somma veniva poi devoluta al tempio nel quale la prestazione veniva erogata. Probabilmente originaria dell’Asia la pratica della prostituzione rituale è attestata da svariate fonti scritte e archeologiche e si è concentrata in un’area compresa tra l’India e l’area mediterranea.
Molti i popoli antichi utilizzarono la sessualità femminile come pratica cultuale: Sumeri, Armeni, Babilonesi, Ciprioti, Fenici, Lidi, Egizi, Greci ed Etruschi avevano rituali che comprendevano l’utilizzo di prostitute sacre, sia schiave che donne libere. Lo scopo di questi rituali è riconducibile alla volontà di convogliare e sacralizzare le forze archetipiche che vengono assimilate all’universo femminile – abbondanza, pace, procreazione, fertilità – laddove si riteneva avvenisse quello scambio di forze generative operanti nella terra, negli armenti e nell’essere umano. Le divinità alle quali il sesso era votato erano infatti spesso, ma non solo, Isthar, Anhait, Astare e Afrodite, usualmente legate alla sessualità.
[Alt Text: rilievo in terracotta con rappresentazione della dea Ishtar (XIX-XVIII secolo a.C.) in posizione eretta sopra due leoni. La Dea viene raffigurata con indosso il cerimoniale copricapo della Somma Sacerdotessa, suoi animali sacri. La dea è affiancata da due ierodule o prostitute sacre, rappresentate come gufi antropomorfi. British Museum, Londra.]
Sono esistite due tipologie di prostituzione sacra: la ierodulia e la prostituzione apotropaica. Nella ierodulia, termine greco per indicare le serve sacre, le donne consacrate alla divinità (più raramente gli uomini, conosciuti come “ieroduli”) venivano offerte sessualmente ai fedeli che si radunavano al tempio. Ogni amplesso era accompagnato da forme di musica e danza rituale e tutto il ricavato era destinato al tempio. I santuari che ospitavano la prostituzione sacra erano spesso situati in posizione strategica sulle rotte commerciali e, di conseguenza, erano particolarmente ricchi e frequentati. Due chiari esempi della posizione strategica dei santuari che ospitavano la prostituzione sacra sono l’Eanna, il grande tempio dedicato a Inanna presso Uruk, esistito sino al III secolo A.C. e il santurario di Afrodite Pornè a Corinto, che come testimonia lo storico Strabone nella descrizione storico-geografica della città di Corinto, impiegava un numero significativo di dipendenti di sesso femminile, per lo più etere, durante tutto il periodo dell’antichità classica. Infatti, secondo Strabone;
Il tempio di Afrodite era così ricco che impiegava stabilmente più di mille hetairas (compagno di sesso femminile). Molte persone visitavano la città esclusivamente a causa loro, quindi queste hetairas hanno contribuito in una maniera notevole al benessere economico della comunità: i capitani delle navi hanno sempre speso allegramente lì i loro soldi, da qui il detto: 'Il viaggio a Corinto non è per ogni uomo. Strabone (Geografia VIII, 6,20)
Si sono presi come esempio solo i casi della Grecia Antica del II A.C. e della Mesopotamia del XIX A.C., ma la pratica è ascrivibile a un lasso temporale che si estende dal XIX secolo A.C. sino al IV D.C, in aree geografiche a macchia di leopardo.
Essere una serva sacra aveva i suoi vantaggi, mentre le condizioni delle prostitute “profane”, perlopiù schiave, erano terribili. Essere una prostituta presso un tempio significava essere investita di una funzione sacrale e, pertanto, godere di una buona reputazione.
Prendendo ad esempio la situazione sociale delle ierodule di Ishtar dell’area Mesopotamica, queste donne non erano considerate soltanto uno strumento di piacere, ma anche l’incarnazione vivente di Ishtar, le sacre trasmettitrici, attraverso la voluttà carnale di cui erano ministre, delle virtù feconde e fecondatrici di Ishtar. Ishtarè quindi, essa stessa, “la grande prostituta”, colei che si prodiga ai fini della propagazione della vita universale. Contrarre un matrimonio con una delle serve sacre era infatti considerato un fattore di grande prestigio.
La prostituzione apotropaica era invece molto diversa: il pensiero magico, caratteristico delle così differenti civiltà che si sono volute prendere in esame, vedeva nella deflorazione un atto pericoloso che comportava rischi di contaminazione per la sposa e il marito e problemi nella vita matrimoniale. Per questo motivo le donne consacravano la loro verginità alla dea prescelta, congiungendosi nel tempio con un estraneo al fine di scacciare i cattivi auspici. Quest’uso è menzionato da Strabone per la Persia, da Luciano per Ierapoli e da Erodoto che, raccontando gli usi e costumi dei Babilonesi, riporta questa descrizione:
È obbligo che ogni donna del paese, una volta durante la vita, postasi nel recinto sacro ad Afrodite, si unisca con uno straniero. […] Per lo più il rito si svolge così: se ne stanno le donne sedute nel sacro recinto di Afrodite con una corona di corda intorno al capo: sono in gran numero, perché mentre alcune sopraggiungono altre se ne vanno. Tra le donne si aprono dei passaggi, delimitati da corde e rivolti in tutte le direzioni, per i quali si aggirano i forestieri e fanno la loro scelta. Quando una donna si asside in quel posto, non torna più a casa se prima qualche straniero, dopo averle gettato del denaro sulle ginocchia, non si sia a lei congiunto all’interno del tempio. Nell’atto di gettare il denaro, egli deve pronunciare questa frase: ‘Invoco per te la dea Militta’. (Erodoto, I, 199)
Con l’avvento delle religioni semitiche, ossia quelle religioni dei popoli che usano lingue appartenenti al gruppo semitico, così L’Ebraismo, il Cristianesimo e l’Islam e anche le religioni politeiste che fiorirono nel Vicino Oriente Antico, e con la progressiva ascesa della religione cristiana, questa pratica cadde completamente in disuso per i più disparati fattori. Nell’antico testamento biblico è fatto divieto di esercitare la pratica:
Non vi sarà alcuna donna dedita alla prostituzione sacra tra le figlie d'Israele, né vi sarà alcun uomo dedito alla prostituzione sacra tra i figli d’Israele. Non porterai nel tempio del Signore, tuo Dio, il dono di una prostituta né il salario di un cane, qualunque voto tu abbia fatto, poiché tutti e due sono abominio per il Signore, tuo Dio. (Deuteronomio 23,18-19)
In seguito il cristianesimo, basandosi sui Vangeli, ha proposto un nuovo modello di femminilità basato sull’archetipo di Maria, la donna che ha concepito un figlio senza dover praticare alcuna forma di atto sessuale, con tutte le prescrizioni che ne conseguono.
Il cattolicesimo ha invece invertito la rotta, rivestendo la sessualità femminile di un’aura maligna e generando degli stereotipi che ancora oggi perdurano. La morale cattolica ha avuto la furbizia di attuare un’altra forma di strumentalizzazione, rendendo la donna responsabile del peccato originale e propaggine imperfetta dell’uomo, imponendole come unica via di salvezza di uniformarsi al canone della Madre e fare della procreazione il suo unico scopo di vita.
La pratica della prostituzione rituale si inserisce in un più vasto complesso di credenze e valori, comuni a molte religioni antiche, che facevano della sessualità una parte sacra della vita quotidiana, pertanto meritevole di essere ritualizzata per celebrarne le complessità e i misteri.
Tuttavia è facile notare, soprattutto nelle figure delle ierodule, una pesante forma di sfruttamentoda parte dell’autorità religiosa che approfittava del corpo delle donne e degli uomini per trarne lucro.
Il concetto di prostituzione sacra è ancora oggetto di profondo e acceso dibattito tra gli storici; le stesse descrizioni che Erodoto fa di Babilonia, cipro e del Vicino Oriente sono da alcuni considerati come atti di invenzione storica, come tutti gli altri autori che, di fatto, l’hanno poi utilizzato Erodoto come fonte. Lo stesso non può essere detto per la prostituta sacra dei passi biblici; gli studi hanno evidenziato che la prostituta sacra citata nella Bibbia non sia la stessa prostituta sacra che descrive Erodoto. La radice qds sta ad indicare il sacro e ha fatto pensare si tratti di una prostituta sacra per le religioni diverse da quella ebraica che condividevano la terra con questi ultimi. Sta di fatto che il termine è stato tradotto e tramandato come “prostituta sacra”.
Molto spesso la figura della prostituta sacra è andata confondendosi con altre figure femminili che operavano nel settore della sessualità; così si tende a confondere la prostituta sacra con la sacerdotessa che attuava dei riti apotropaici di carattere sessuale, come la ierogamia, o con la ierodula, la schiava di proprietà del santuario e che veniva, molto probabilmente, costretta alla prostituzione.
Si è voluto provare a riassumere quello che è, nei fatti, un fenomeno complesso e dalle molte sfaccettature e che molto spesso è stato contaminato dai sensazionalismi dei falsi storici. Approcciarsi alla storia delle religioni significa anche fare anche i conti con tutti i tempi e i modi attraverso i quali la sessualità, non solo ma soprattutto quella femminile, è stata brutalizzata, negletta e demonizzata.
Per approfondire:
Mircea Eliade, Trattato di storia delle religioni. Bollati Boringhieri, 2009.
Stephanie Budin, The Myth of Sacred Prostitution in Antiquity. Cambridge UP, 2009.
Cristiano Panzetti, La prostituzione sacra nell’Italia antica. A&G, 2006.
Vinciane Pirenne-Delforge, recensione di Stephanie Budin, The Myth of Sacred Prostitution in Antiquity, Cambridge UP, 2008. Bryn Mawr Classical Review, 28 aprile 2009.
Roberta Rio, Sesso sacro: la via del corpo. Arkeios, 2014.
Brunero Gherardini, La Madre. Maria in una sintesi storico-teologica (Frigento 2007)
Herter H. 1985, Il mondo delle cortigiane e delle prostitute, in Arrigoni G., Le donne in Grecia, 1985, Roma-Bari, 1985, pp.363-379
Prostituzione sacra, definizione dell’enciclopedia Treccani.
Ishtar: la danza dell’amore e della guerra, redazione Acam.it.
Eleonora Casale ha 26 anni, è nata e vive a Milano, fa la copywriter di professione ma non ha idea di come si faccia a parlare di se stessi in terza persona senza sembrare ridicoli.
Alle elementari ha scritto un romanzo fantasy sui quaderni di matematica al posto degli esercizi sulle divisioni; questo, oltre a regalarle una nota disciplinare, le ha fatto prendere una cotta per la scrittura che col tempo si è trasformata in amore. Complicato, come tutti gli amori.
Laureata in Beni Culturali prima e in Comunicazione per l’arte poi, compensa le sue evidenti carenze sociali con il giardinaggio, lo sport, la lettura spasmodica di qualsiasi testo e l’esercizio costante del senno del poi. Puoi seguirla su Instagram.
Non c’è da stupirsi che a capo del team legale di Harvey Weinstein ci sia la rampante avvocata Donna Rotunno, famosa per aver preso le difese di 40 uomini accusati di stupro ed essere riuscita a farli assolvere tutti tranne uno. Rotunno ha più volte dichiarato di essere la femminista definitiva proprio per la sua posizione in materia di violenza sessuale: alla narrazione del vittimismo femminile oppone quella che chiama un’etica della responsabilità, in cui le donne fanno di tutto per non trovarsi nella posizione di essere aggredite (lei stessa ritiene che non le sia mai successo perché si è sempre comportata molto bene). In aula, questo si traduce in un atteggiamento aggressivo, teso a screditare le sopravvissute e la veridicità dei loro racconti: in una recente udienza, ha incalzato l’accusatrice Jessica Mann con tale violenza da provocarle un attacco di panico. La demistificazione dello stupro è argomento che merita di essere trattato in un contesto femminista: lo fa senza mezzi termini Virginie Despentes in King Kong Theory, parlando di “strappare lo stupro all’incubo assoluto, al non-detto, a quello che non deve succedere per nessuna ragione” e ragionando di sopravvissute “guerriere” (p. 36). E però, pur mettendo in chiaro che lo stupro è quello che può succederti se esci di casa, Despentes rispedisce al mittente ogni accusa di essersela cercata. Non solo: attaccare la mistica dello stupro da un angolo inedito non le serve per permettere a un predatore sessuale di restare a piede libero e le sue parole di femminista sono al servizio delle donne, non di chi le violenta. Difatti, Despentes sogna “il giorno in cui gli uomini avranno paura di farsi dilaniare il cazzo a colpi di cutter quando prendono una ragazza con la forza” come il giorno in cui “tutt’a un tratto saranno in grado di controllare le loro pulsioni ‘maschili’, e di capire cosa vuol dire ‘no’” (p.39), e perciò di tutto può essere accusata fuorché di comportarsi da gatekeeper del patriarcato bianco e danaroso.
[Alt Text: ritratto della scrittrice Virginie Despentes. Fonte.]
Lettura correlata: a due anni dall’esplosione del #MeToo, marcati dalla prima riconosciuta colpevolezza di Harvey Weinstein rispetto a violenza sessuale e stupro, Leigh Gilmore riflette su risultati e limiti di questo movimento e su quello specifico genere letterario che è il racconto in prima persona dello stupro.
Media e racconto dello stupro: il blog voladora mette alla sbarra la Gazzetta di Parma per la solita arcinota colpevolizzazione della vittima in un caso di violenza sessuale che coinvolge un ricco imprenditore.
Lo stato della teoria femminista francese (visto da fuori).
Il “caso Matzneff”: lo scrittore francese autore di apologie della pedofilia e scritti autobiografici sui suoi incontri con minori è scappato dalla Francia (per rifugiarsi “on the Italian Riviera”) dopo la pubblicazione a gennaio di Le consentement, racconto in prima persona di una delle/gli adolescenti con cui ebbe relazioni, Vanessa Springora. La procura di Parigi ha infatti aperto un’inchiesta preliminare per “stupro su minore di quindici anni” per raccogliere testimonianze di altre potenziali vittime (i fatti che riguardano Springora sono ormai prescritti). Gabriel Matzneff ha potuto raccontare pubblicamente le proprie azioni di pedofilia (commesse contro cittadini e cittadine francesi minori, ma anche alle Filippine, come turista sessuale) senza mai affrontare ripercussioni giuridiche e morali grazie a fama e amicizie negli ambienti giusti (per esempio, l’ex presidente della repubblica Mitterand). Il lassismo e la complicità dei circoli culturali in cui Matzneff si muoveva è stata cruciale: è iconica la registrazione del 2 marzo 1990 della trasmissione culturale Apostrophes, durante la quale la giornalista quebecchese Denise Bombardier è l’unica, circondata da invitati che ridacchiano, ad attaccare l’immoralità e la criminosità delle posizioni che Matzneff vuole giustificare attraverso lo schermo della letteratura. Matzneff sembra offendersi solo quando Bombardier giudica il suo romanzo “noioso”, ma non reagisce quando definisce abominevoli le sue azioni. Alcuni articoli di approfondimento in italiano qui, qui e qui; in inglese qui; in francese qui e qui. Interviste con Vanessa Springora (in francese) qui e qui.
Letture per San Valentino dal blog di Verso: The singles manifesto di Mary Edwards (1974) e una meditazione sulla strumentalizzazione del desiderio femminile firmata da Katherine Angel. Inoltre, Leslie Kern riflette su urbanistica reale e l’utopia della città femminista.
Come spesso accade nei territori colonizzati, la storia della razzismo/colorismo e del classismo diffusi sul territorio brasiliano sono legate a stretto giro. L’abolizione della schiavitù in Brasile, sotto la pressione della Gran Bretagna, per motivi economici ben più che umanitari, avviene solo nel 1888; la liberazione degli schiavi viene spesso celebrata senza contestualizzazione socio-economica dell’evento e ovvero attraverso la cancellazione della resistenza nera e le disastrose conseguenze per questi soggetti ora liberi ma completamente spogli di qualsiasi diritto. Una delle più gravi ripercussioni nell’immediato e che ancora grava sulla società brasiliana, quella dell’emergenza abitativa: nel 1888, “non ci fu nessuna procedura per facilitare l'accesso degli afro-brasiliani al mercato del lavoro e all’acquisto della terra, della casa o di altre proprietà”. La speculazione edilizia in Brasile, come in molti altri luoghi del mondo, sta creando fratture nelle comunità locali per darsi lo spazio, anche e soprattutto fisico, per costruire strutture abitative economicamente inaccessibili al grosso della popolazione. Una rete femminile di persone indesiderate e abbandonate dallo stato combatte per il diritto alla casa, ora nel nome di Marielle Franco, per scrivere una nuova storia di solidarietà e cura. Right to housing in Brazil: the Marielle Franco occupation (Documentary 2/4).
Verso l’otto marzo: otto tesi sulla rivoluzione femminista.
Dalla nuova rivista italiana Menelique: politiche femministe e reddito di base, lo spazio che è necessario alle donne Roma nel discorso femminista (che è troppo bianco).
Il problema nel culto della donna intellettuale.
CALENDARIO
Giovedì 5 marzo: le ragazze di Senza Rossetto hanno scritto un libro e lo presentano in Santeria a Milano, con tante ospiti e dj set.
Sabato 14 e domenica 15 marzo: a Napoli si tiene un convegno contro il carcere, due giornate di incontri e dibattiti sulla violenza e la repressione a esso connaturate.
Giovedì 19 marzo: è in uscita al cinema il film Spore, scritto e diretto da Alice Di Giovanni e prodotto da Studio Creative Comics. Un “thriller ecofemminista” ambientato nella provincia tra Lombardia e Piemonte negli anni ‘80: “Spore” è il nome della fanzine punk creata da due amiche fumettiste, Giulia e Zippo, per denunciare il degrado ambientale ed etico in cui vivono, e dove devono affrontare violenze sistemiche e personali.
Martedì 24 marzo: non si parla mai abbastanza di streghe. Alla libreria Colibrì di Milano un incontro sul testo di Mona Chollet.
FATTO DA VOI
Il 15 e il 16 febbraio un collettivo praghese ha affittato un appartamento su Airbnb e lo ha usato per organizzare una protesta contro la stessa piattaforma, sotto forma di mostra artigianale su gentrificazione e crisi abitativa, dibattiti e piccoli concerti. Siamo molto orgogliose che la nostra amica Chiara Rizzi abbia preso parte a questa azione ed ecco il suo racconto su Dinamopress. Puoi seguire Chiara su Twitter, sul suo canale Telegram dedicato alle lotte contro Airbnb e anche sulla Ghinea di novembre 2019, dove ha recensito per noi Airbnb città merce. Storie di resistenza alla gentrificazione digitale di Sarah Gainsforth.
Cosa succede quando una donna dà voce a un uomo violento? Se lo chiedono la nostra amica Alberica Bazzoni e la scrittrice Caterina Serra mentre dialogano sulla genesi, sulla voce, e sul potere nominale in Padreterno.
UN LIBRO
Case vuote, di Brenda Navarro (2019)
di Martina Neglia
[Alt Text: ritratto dell’autrice messicana Brenda Navarro. Fonte.]
Se è vero che la spinta verso la maternità va interrogata intimamente, decostruita per arrivare a prendere una decisione quanto più possibile libera da condizionamenti, il più delle volte non tutte hanno la possibilità di accedere agli strumenti adatti per elaborare queste domande e rispondere nella serenità che richiede una scelta di questo tipo.
Con Maternità, il suo ultimo libro dalla natura mista e difficilmente classificabile, la scrittrice Sheila Heti cercava di rispondere alla domanda campale: “avere o non avere figli?”. Da qui, a domino scaturivano tutte le altre: non voglio diventare madre perché desidero rompere le aspettative sociali che ricadono su di me in quanto donna? Voglio confermare al mondo di essere un corpo funzionante? Si può sopravvivere a sé stesse in altri modi?
Heti scriveva anche che “Per le donne il tempo sta sempre per scadere”, ed è questo il caso delle due protagoniste di Case vuote, esordio letterario della scrittrice messicana Brenda Navarro, pubblicato in Italia dalla Giulio Perrone Editore con la traduzione di Carlotta Ausilio.
Messico quasi contemporaneo: le vite di due donne senza nome si sfiorano, per pochi secondi sufficienti a ferirsi. La prima appartiene alla classe media, agiata, che non ha scelto di essere madre ma lo è diventata per rispondere a una tappa obbligata nella vita di una donna. La seconda, invece, sopravvive con lavoretti. È nata dalla violenza, e nella violenza del compagno continua a resistere, secondo un meccanismo che la società ha già elaborato come norma senza dare alle donne nessuna possibilità di immaginare un rapporto sentimentale che sia altro da questo. Soprattutto se è all’interno di una tale relazione abusiva che si continua ad alimentare il tentativo irrealizzabile di restare incinta, si evita di fare i conti con una sterilità vissuta come sottrazione all’integrità dell'essere donna.
L’incontro tra le due protagonista è brevissimo, ma tragico. In un pomeriggio al parco, la prima si distrae al cellulare mentre il figlio di tre anni sta giocando tranquillamente su un’altalena. La seconda, in un lampo di avidità e disperazione, lo rapisce, provando a sanare la propria sensazione di incompiutezza imponendosi quale madre del figlio di un’altra. Nella disgrazia di un simile gesto, però Navarro fuga ogni possibilità di definire una carnefice e una vittima: nel patriarcato siamo tutte vittime, oppresse su più livelli, in modo trasversale.
Siamo educate a una missione, a cui rispondere come volontarie ben disposte, sempre accondiscendenti: case vuote da riempire e in cui generare nuova vita. Daniel, figlio di una e oggetto del desiderio dell’altra, è autistico e la sua neurodiversità diventa l’ennesima possibilità di recriminazioni. Se da una parte c’è una donna che si sente difettosa per l’impossibilità di portare a compimento questo percorso, dall'altra risponde il dramma di chi sente di possedere un corpo che non è stato in grado di regalare al mondo un individuo rientrante nella norma. E la cui diversità – e la conseguente difficoltà maggiore nell'accudimento – la porta a elaborare il socialmente inaccettabile pensiero: “se lo avessi saputo, avrei preferito non diventare madre”.
In che modo può rispondere una madre della distrazione, dell’essersi lasciata “soffiare” il figlio sotto al naso? Il patriarcato ci vuole deboli e al tempo stesso efficienti, sempre prodighe, non conta le ore del lavoro di cura perché quello che ricade sulle donne non è mai troppo, eppure le mette all'angolino quando si scivola nella stanchezza. In Italia come dall'altra parte dell'oceano, il materno è ancora incastrato in una narrazione sempre positiva e di sacrificio rispetto a tutto e tutto: alle madri si dà pochissimo aiuto e mai il perdono.
Il romanzo di Navarro si articola in più parti, creando uno scambio continuo tra le due voci sofferenti. Le due donne vivono un inferno interiore che non lascia scampo, che arriva a noi attraverso monologhi che ripercorrono ricordi, autoaccuse mai alleggerite dalle scusanti che avrebbero diritto di concedersi, la delusione di una società incapace di rispondere degnamente ai loro bisogni. Con maestria, Navarro riesce a caratterizzare e rendere distinguibili le due voci, lasciando però che si mischiano in un grido condiviso tra madri e donne sofferenti. Peraltro, ogni sezione è introdotta da frammenti delle poesie di Wisława Szymborska. Navarro ha dichiarato in un’intervista rilasciata durante la sua sosta romana:
La scelta di inserire le sue poesie è stata una sorta di omaggio postumo a lei e al tempo stesso una domanda: ‘Era questo quello che volevi dirci Wisława? Quello che ho scritto io è coerente con quello che volevi esprimere?’ È un breve dialogo del quale sono molto fiera, perché ogni suo verso si intreccia perfettamente con il mio libro.
La penna di Navarro fa quindi dialogare tra loro donne e letterature, ma si dimostra ancora più capace di dare voce a un problema collettivo, invece che restare incastrata in singole storie private. Forte della sua formazione femminista e di un master in studi di genere, Navarro è ben cosciente delle differenze di classe, di come la maternità dovrebbe essere una scelta semplice, quasi banale, ma che invece si inserisce (con la complicità dello Stato) in una serie di difficoltà sistemiche. Alcune classi possono permetterselo, godendo anche di aiuti, mentre il desiderio di maternità resta perennemente tagliato fuori dall'orizzonte socio-culturale di quelle più povere.
Se è vero che il patriarcato, come il capitalismo, impone dinamiche tra i generi più o meno simili per ogni paese, Navarro non dimentica il respiro e la specificità del suo luogo d'origine, il Messico, rendendo omaggio anche alle migliaia di donne madri di desaparecidos, di bambini svaniti nel nulla. E col suo Case vuote non dà consolazioni, ma forse ci fa sentire tutte un po’ meno scomode, un po’ meno sole.
Martina Neglia nasce nel 1993 a Palermo, dove ancora vive e studia. Purtroppo o per fortuna – deve ancora capirlo. Collabora con la rivista online L’indiependente per cui scrive soprattutto di libri e letteratura fatta dalle donne. Ogni tanto finisce anche a qualche concerto, ma tendenzialmente fa un sacco di domande. La puoi seguire su Instagram e Twitter.
UNA PITTRICE
Lynette Yiadom-Boakye
di Simona Iamonte
[Alt Text: Lynette Yiadom-Boakye posa accanto a un suo dipinto alla Biennale di Venezia nel 2013. Fotografia di David Levene.]
Dipingere per me è il soggetto. Le figure esistono solo attraverso la vernice, attraverso il colore, la linea, il tono e la creazione di segni. Non condividono le nostre preoccupazioni o ansie. Sono da qualche altra parte.
Lynette Yiadom-Boakye è una pittrice contemporanea londinese che lavora sulla rappresentazione di figure dislocate dai luoghi e dal tempo, che non spartiscono con noi le ansie e le paure contemporanee. Ritratti languidi di uomini e donne neri che esistono in una dimensione priva di narrativa in cui lo spettatore è libero di proiettare la propria immaginazione ed i propri pensieri.
Lynette Yiadom-Boakye nasce a Londra nel 1977 da padre e madre ghanesi, infermieri del National Health Service (il servizio sanitario nazionale pubblico) della capitale. I suoi studi pittorici iniziano al Central St Martins College of Art and Design, si laurea al Falmouth College of Art nel 2000, nel 2003 invece, completa un Master presso le Royal Academy Schools. La particolarità delle Royal Academy Schools, che furono le prime scuole istituite in Gran Bretagna sullo stampo francese de l'Académie Royale de Peinture et de Sculpture, è che a tutti gli studenti iscritti al corso di studi magistrale è offerta la possibilità di frequentare i corsi gratuitamente, oltre al fatto di avere come insegnanti alcuni tra i migliori artisti viventi, come ad esempio Chantal Joffe e Tracey Emin.
Il lavoro di Lynette Yiadom-Boakye consiste nella raffigurazione di soggetti neri immersi in immaginari tenui e grezzi che non accennano ad un luogo o ad uno spazio preciso. La sua tavolozza è composta da colori che spaziano dalle tonalità più chiare delle terre e dei neri, per arrivare a quelle più chiare dei rosa, dei grigi e dei bianchi, che uniti danno vita ad una sensazione di calma che contribuisce alla natura senza tempo delle sue opere. I suoi ritratti di individui immaginari mostrano soggetti inventati o ricostruiti attraverso la memoria: leggono, oziano e riposano in pose tradizionali. Queste figure di solito riposano di fronte a sfondi ambigui, criptici ma emotivi, dissolti tra luce ed ombra, che ricordano i vecchi maestri come Velasquez e Degas.
Questi personaggi potrebbero essere intenti a ragionare su questioni familiari o sperimentare sfide relazionali, problemi di immigrazione, dolore, trionfo, soddisfazione, o frustrazione. O forse stanno semplicemente pensando cosa preparare per cena: ecco che cosa ci rende così vicini alle sue opere, che sono spicchi di quotidianità restituita negli sguardi e nei lunghi momenti di respiro dei soggetti in cui tutti i dettagli sono lasciati all’interpretazione di chi osserva.
I soggetti spesso non incontrano lo sguardo diretto dallo spettatore, immersi nei loro pensieri. Altre volte, sono loro stessi a cercare di farsi guardare, attirando e chiedendo di mantenere un contatto visivo con i fruitori. Questo gioco di sguardi instaurato tra opera e spettatore dà forma a una dinamica di potere, di rapporto tra soggetto e oggetto nel quale ci si sente risucchiate, parte dell’opera stessa. Tutto ciò è favorito da un’idea installativa molto originale: i quadri, che hanno dimensioni considerevoli, quasi toccano il pavimento, come a permettere agli spettatori di interagire con figure più o meno della loro dimensione, con le quali il contatto visivo viene effettivamente privilegiato dalla posizione del quadro.
[Alt Text: Installation view della mostra “In Lieu of a Louder Love” presso la Jack Shinman Gallery di New York - due figure maschili vestite totalmente di nero, immersi in uno spazio grigio, uno di fronte all’altro. Il ragazzo rappresentato a sinistra contempla uno spazio indefinito, assorto nei suoi pensieri, rivolto verso destra, mentre il ragazzo rappresentato a destra, guarda lo spettatore con uno sguardo fisso e penetrante.]
La rappresentazione delle espressioni facciali contemplative e rilassate, entrano spesso in relazione con lo spettatore, l’umore e la loro postura sono riferibili al quotidiano di qualsiasi etnia o estrazione sociale, sono gesti e sguardi universali. Non è la loro realtà di persone a essere rappresentata, ma la loro intrinseca umanità, resa essenziale, ma non banale.
Come nota Claudio Vogt, responsabile della stampa e dei progetti sociali alla Kunsthalle di Basilea: “nessuno dei personaggi è ritratto con le scarpe”. Infatti, la rappresentazione di calzature, è indicativa di un momento storico o di una specifica appartenenza sociale. Ad esempio, se i suoi personaggi avessero ai piedi delle scarpe da ginnastica, questo li contestualizzerebbe immediatamente ai giorni nostri.
Il fatto che tutte le figure siano nere non vuol essere un’affermazione o una presa di posizione politica da parte di Yiadom-Boakye, piuttosto, lo diventa agli occhi del mondo, mettendo in gioco il canone occidentale dell’assenza/invisibilità del soggetto di colore nella storia culturale e artistica europea. Se prendiamo in esame il dipinto "Olympia" di édouard Manet, notiamo come il personaggio di colore non sia il protagonista del quadro, ma ha la funzione di arricchimento della composizione. Così tutta la cultura europea fino agli inizi del ‘900, ha costruito la sua rappresentazione figurativa: in funzione dei personaggi banchi, che politicamente e socialmente erano i soggetti le cui storie venivano raccontate.
In una recente intervista su Kaleidoscope a cura di Hans Ulrich Obrist, Yiadom-Boakye confessa di mischiare i tratti con i colori: un suo personaggio potrebbe avere i tratti caucasici ma avere il colore della pelle marrone. Yiadom-Boakye specifica inoltre, che dipinge soggetti dalla pelle scura perchè lei stessa non è bianca, ma non per mostrare la diversità cromatica della pelle, né tantomeno celebrarla.
Come racconta in un'intervista della Tate Modern di Londra spesso le sue opere vengono iniziate e concluse in un giorno solo, senza disegni preparatori e senza ritocchi nei giorni seguenti. Questo perché Yiadom-Boakye intende favorire la spontaneità e la velocità della pennellata poco descrittiva, l’intuizione del momento e la freschezza dell’idea originaria.I titoli, invece, sono frutto della sua abilità nella scrittura, infatti Lynette scrive testi e poesie che solitamente accompagnano le immagini nei cataloghi delle sue mostre e che intendono arricchire il fruitore di idee sul suo lavoro basato sulle sensazioni piuttosto che sulla loro descrizione verbale.
[Alt Text: Switcher” 2013 Una giovane donna di spalle, con un body nero, un tutù multicolor ed i capelli raccolti in un elastico floreale, sta in piedi, fissa a contemplare un punto indefinito.]
In Italia, l’abbiamo potuta ammirare durante la 55esima Biennale di Venezia (2013), Presso la Project Room della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino tra 2018 e 2019 e anche alla più recente 57esima Biennale di Venezia del 2019, prima volta per il padiglione del Ghana, intitolato “Ghana Freedom”, insieme ad artisti come Felicia Abban, John Akomfrah, El Anatsui,Ibrahim Mahama e Selasi Awusi Sosu.
Nel resto del mondo, invece, le sue opere fanno parte delle collezioni di istituzioni private e pubbliche come Tate Britain (in cui la potremmo vedere in una mostra monografica dal 20 maggio al 31 agosto 2020), MoMa di New York, Kunsthalle di Basilea e Guggeneheim di Bilbao che ospiterà una sua mostra dal 25 settembre 2020 al 31 gennaio 2021.
[Alt Text: “Radical Trysts” 2018. Una donna è accovacciata su se stessa di profilo, con il suo braccio destro si aggrappa al braccio sinistro, quest’ultimo appoggiato alla fronte. Il suo volto è girato verso lo spettatore in uno sguardo intenso e pensante.]
Simona Iamonte vive a Torino e lavora come illustratrice e pittrice. Puoi seguirla su Instagram.
Ringraziamo Simona, Eleonora e Martina per i loro contributi e ti salutiamo. Ci rileggiamo a marzo!
Un abbraccio!
Francesca, Gloria e Marzia