Speciale Ghinea #8: letture estive
Benvenutə all'ottavo numero speciale di Ghinea! Due anni fa abbiamo chiesto ad alcune amiche e collaboratrici un consiglio di lettura per l'estate: ne è uscito uno speciale di cui siamo tuttora molto contente, e che puoi leggere qui. Oggi ne pubblichiamo una sorta di secondo capitolo, in cui abbiamo coinvolto sia persone che abbiamo conosciuto negli ultimi tempi, magari proprio grazie a Ghinea, che nostre amiche storiche.
Le fotografie della provincia balneare le ha scattate Caterina Massarenti.
Ringraziamo tutte per aver accettato la nostra proposta e averci donato il loro lavoro. Buona lettura!
[Alt Text: un vecchio chiosco dei gelati chiuso. Il tendone color crema riporta una vecchia scritta “Algida” in rosso. Dietro il chiosco, un cielo nuvoloso e un’altalena bianca, di fianco, le cabine dello stabilimento e una barchetta rovesciata. Davanti, un groviglio di sterpaglie e rami.]
HANNO COLLABORATO:
Ludovica C. ha 26 anni e fa il dottorato in Economia a New York ma in realtà vorrebbe solo leggere tutto il giorno. Puoi seguirla su Twitter.
Anna Maniscalco si muove tra libri e cinema e si rifiuta di scegliere. Redattrice di Limina, collabora con ilLibraio.it e ha pubblicato racconti su inutile, L'Inquieto, Pastrengo e Tropismi. Cura la newsletter La cinefila della domenica. Puoi seguirla su Instagram.
Margherita Masè la trovi a Roma dove si occupa di progetti culturali, teatro contemporaneo e performance. Come dramaturg a volte, come responsabile della comunicazione altre, come fotografa di scena altre ancora, e spesso tutte e tre le cose insieme. Cuce i progetti che cura con i suoi studi di filosofia politica e di genere. Ha scritto un po' per caso questo e questo, ma per tutto il resto la trovi in teatro.
Caterina Massarenti fa foto e video. Puoi trovare i suoi lavori sul suo sito e su Instagram.
Giorgia Maurovich studia Lingue e letterature straniere e cura il progetto Est/ranei. Puoi seguirla su Instagram.
Giusi Palomba è originaria della provincia di Napoli e reduce di multiple emigrazioni. Oggi vive a Glasgow, in Scozia. Negli ultimi anni ha lavorato per lo più nella ristorazione, come cuoca o barista. Ha contribuito a organizzare iniziative di cultura e arte indipendente e militante, cospirando con gente meravigliosa. Ha pubblicato articoli per Laspro, Napoli Monitor, Pasionaria, La Falla, Altri Animali, Menelique, e accompagnamenti di opere artistiche e fotografiche. Scrive per fare più rumore della precarietà e dell’ansia.
Cristina Resa è nata in provincia di Milano. Ha studiato Assiriologia a Roma, con una tesi di carattere storico-religioso su demoni, fantasmi e formule di esorcismo in lingue morte, di quelle che nei film horror non si possono leggere ad alta voce. E infatti l’horror è il suo genere preferito. Negli anni, il cinema è diventato oggetto di un appassionato studio individuale, insieme a tutte le altre forme di narrazione popolare. Lavora in campo editoriale e collabora con i siti LoudVision.it e IGN Italia. Puoi seguirla su Twitter, Instagram e Letterboxd.
Chiara Sélavy (pseudonimo e handle su tutti i social) è nata su un confine e vive a Londra. Ha scritto per Soft Revolution, Nisimazine e Pixarthinking, e cura la newsletter sporadica Expendable Chapters. Con il suo nome vero fa la traduttrice e talvolta la film programmer.
[Alt Text: le cabine di uno stabilimento balneare. La porta del deposito è aperta, si scorgono strumenti di lavoro, un tavolo e un sacchetto giallo. Davanti alle cabine chiuse, una bicicletta, un carrello portapacchi e dei sacchi dell'immondizia. Dietro, cielo nuvoloso e rami spogli di alberi.]
Their eyes were watching God, di Zora Neale Hurston
di Ludovica C.
Non avevo mai sentito nominare Zora Neale Hurston prima che la scrittrice Kara Brown proponesse Their eyes were watching God (I loro occhi guardavano Dio)come libro inaugurale del suo gruppo di lettura. Ho scoperto poi che si tratta di un grande classico della letteratura americana: spesso viene letto a scuola, ne esistono guide per insegnanti e perfino una guida di lettura a cura di Harold Bloom, nella cui introduzione il celebre critico compara Hurston a Whitman in quanto simbolo della “vitalità letteraria americana” e parte della “mitologia americana dell’esodo”.
Il romanzo è quindi parte a tutti gli effetti del cosiddetto canone, almeno negli Stati Uniti, e questo mi ha molto sorpreso data la potenza della vicenda raccontata, così intrisa di ribellione, così centrata sull’autodeterminazione. Nello stesso saggio di Bloom che menzionavo prima, però, si legge che “Hurston era libera da tutte le ideologie che al momento oscurano la ricezione del suo libro migliore” e che lei non ha “nulla in comune” con “i modi contemporanei del femminismo”. Mi viene da pensare, insomma, che le porte del canone le siano state aperte da un metaforico custode solo dopo aver ovattato la portata decisamente impetuosa della sua opera.
Il romanzo racconta della vita di Janie, che è stata cresciuta dalla nonna Nanny. Nanny è vissuta in schiavitù, durante la Guerra Civile sua figlia è sparita e perciò è rimasta sola con la nipotina. La storia comincia quando Janie è un'adolescente che inizia a sentire i suoi primi desideri, in una scena meravigliosamente languida sotto un albero di pere. Sotto le pressioni della nonna, Janie sposa un ragazzo del vicinato, Logan, per il quale però si rende presto conto di non provare nulla. La sua sete di emozioni sarà appagata quando incontrerà Jodie, affascinante e intraprendente, che le propone di seguirlo alla volta di Eatonville, in Florida.
A questo punto ci vuole una piccola deviazione dal romanzo, perché Eatonville non è una città qualunque. Fondata nel 1887 da ventisette famiglie nere, è stata una delle prime città "auto-governata" da afroamericani, secondo alcuni la prima in assoluto. Questo tipo di città iniziarono a sorgere quando, nonostante la libertà finalmente conquistata, la popolazione nera nel Sud si rese conto di non essere affatto libera e al sicuro in mezzo ai bianchi. Si parlò molto di Eatonville come di una "Black utopia", un'alternativa di successo rispetto alla vita nelle oppressive città del Sud. Hurston si è trasferita qui con la sua famiglia quando aveva tre anni, e pur avendo lasciato la città appena dieci anni dopo, ne scriverà spesso. In questo bellissimo articolo, How It Feels to Be Colored Me, esordisce dicendo “Sono nera ma non ho niente da offrirvi in quanto a circostanze attenuanti” e prosegue raccontando la sua vita ad Eatonville, la sua comunità, il suo portico che era come un “un posto in balconata” (si potrebbe, credo, scrivere un saggio intero sul ruolo dei portici nella sua produzione). È solo andandosene da Eatonville che Hurtson inizia ad essere nera (“Mi sento nera soprattutto quando sono gettata contro uno sfondo nitidamente bianco”). Nel suo romanzo più famoso, appunto, non c’è nemmeno l’ombra di uno sfondo bianco.
Janie e Jodie, dunque, arrivano in una Eatonville dove c’è ancora tutto da fare. Lo spirito imprenditoriale di Jodie gli porterà una buona dose di fortuna, ma anche in questo rapporto la nostra protagonista si sentirà costretta: Jodie non vuole che lei porti i capelli sciolti, che parli con le altre persone del paese, che partecipi agli eventi sociali. Se seguirlo era stata per lei una corsa verso la tanto agognata libertà, stargli accanto diventa una trappola asfissiante. Quando Jodie muore, sarà lo squattrinato Tea Cake, molto più giovane di lei, a conquistare Janie con la sua spensieratezza, e in questa relazione lei avrà finalmente modo di stare in mezzo alla gente, viaggiare, emozionarsi.
Janie è una personaggia splendida: compie le sue scelte avendo in mente ciò che lei vuole fare ed essere, e riesce ad essere incredibilmente libera anche quando le circostanze vorrebbero il contrario. Durante il suo matrimonio con Jodie, in cui non è valorizzata né rispettata, riesce comunque a coltivare dentro di sé la curiosità, la voglia di stare con le altre persone, un bellissimo rapporto con la sua amica Phoebe. Janie trabocca di vitalità ed è alla ricerca dell’amore: ci vogliono diversi tentativi prima di trovarlo, ed anche quando arriva non è perfetto, ma Janie non smette mai di volerlo. Tuttavia, non è questo sentimento, né la sua mancanza, a definirla: Janie trova gioia in tanti aspetti della vita, ed è significativa in questo, a mio parere, la struttura narrativa del libro. La vicenda infatti è “incorniciata”: si tratta di un racconto che Janie fa alla sua amica Phoebe qualche tempo dopo la fine degli eventi che noi leggiamo. Gli amori di Janie, le sue fughe e le sue avventure sono abbracciate, anche strutturalmente, dalla condivisione che lei ne fa con Phoebe, la quale accoglie il suo racconto con un calore totale.
Janie ama l’amore, dunque, ma ama anche l’amicizia, l'avventura, e soprattutto la sua libertà. Quando anche Tea Cake, il suo amante più affezionato, muore, Janie lo piange ma allo stesso tempo mi sembra in un certo senso più libera che mai.
Ecco la pace. Ritirò il suo orizzonte come una grande rete da pesca. Lo ritirò dal girovita del mondo e se lo sistemò sulla sua spalla. C’è così tanta vita nelle maglie! Chiamò la sua anima a venire a vedere.
Non ho difficoltà ad immaginarmela, dopo la fine del libro, a chiacchierare nel portico con la sua amica e a scherzare con i suoi vicini ancora a lungo, innamorarsi ancora e ancora viaggiare.
Ho apprezzato tantissimo leggere una storia che avesse de* personaggi* ner*, ma che non parlasse di schiavitù, che non fosse incentrata sulla sofferenza e sul dolore. Nonostante alla nostra protagonista succedano diverse tragedie, nonostante ci siano dei passaggi dolorosi, nonostante si parli di razzismo (soprattutto di colorismo), l'atmosfera di tutto il romanzo è gioiosa. Ci sono molte scene allegre, molto luminose, personaggi* divertenti e siparietti comici.
Come scrive Tayari Jones nella prefazione a un altro libro di Hurston, una raccolta di racconti inedita in Italia che si chiama Hitting a Straight Lick with a Crooked Stick:
anche se il razzismo e i bianchi sono un problema per i suoi personaggi, l’oppressione non è il centro delle loro vite.
Proprio questo elemento ha contribuito alla fredda accoglienza che Hurston ha ricevuto nel contesto della Harlem Renaissance, movimento di cui fece parte a partire dal suo arrivo a New York nel 1925. Per esempio, come riporta questo articolo del New Yorker, Richard Wright aveva accusato la sua prosa di “sensualità dozzinale”, e di perpetuare l’immaginario dei minstrel show per far ridere i bianchi.
La Harlem Renaissance insisteva molto sul tema del “Nuovo Nero”, cittadino, colto, raffinato, mentre Hurston raccontava persone comuni, la loro vita di paese, le loro battute volgari. Alain Locke (scrittore e poeta considerato il padre del Rinascimento di Harlem), recensendo il romanzo, definiva i personaggi come “pseudo-primitivi”, e si augurava che Hurston passasse presto a scrivere “social document fiction”. Ma c’è almeno un altro terreno di scontro fra Hurston e il movimento letterario cui appartiene: la lingua.
Leggere Their eyes were watching God è stato senza dubbio faticoso, soprattutto all’inizio. Tutti i dialoghi, infatti, sono scritti in African American English. Ancora una volta attirandosi la critica di prestare il fianco alla derisione dei bianchi, rappresentando i neri in modo macchiettistico, Hurston sceglie comunque di usare la lingua così come effettivamente parlata dai suoi personaggi: come spiegato da Genevieve West nella introduzione alla raccolta di racconti che ho nominato prima, questo le serviva non solo a catturare meglio la poesia e l’immaginario dell’idioma, ma anche per “rendere la narrazione verosimigliante cuocendo il soggetto a fuoco lento nel suo stesso sugo”.
Ecco un esempio tratto da un dialogo fra Janie e Jodie: “You sho loves to tell me whut to do, but Ah can’t tell you nothin’ Ah see!” (in inglese standard si direbbe “You sure love to tell me what to do, but I can’t tell you nothing, I see”, ovvero “A te piace proprio dirmi cosa fare, ma vedo che io a te non posso dire niente”).
O ancora, da un dialogo successivo: “Yeah, Jody, don’t keer whut dat multiplied cockroach told yuh tuh git yo’ money, you got tuh die, and yuh can’t live.” (in inglese standard sarebbe “Yeah, Jody, I don’t care what that multiplied cockroach told you to get your money, you got to die, and you can’t live”, ovvero “Sì Jody, non mi importa di ciò che quello scarafaggio moltiplicato ti ha detto per prendere i tuoi soldi, tu morirari e non puoi vivere”.)
Oltre all’interesse narrativo per questo idioma, Hurston ne ha anche uno accademico: i suoi studi da antropologa, infatti, l’hanno portata spesso a studiare il folklore, la lingua e le tradizioni dei neri negli Stati del Sud, ad Haiti e alle Bahamas. Per approfondire, segnalo questo articolo, in cui Chiara Spallino ripercorre la funzione narrativa e politica della scelta di Hurston.
Personalmente, ancor prima di leggere del dibattito fra Hurston e i suoi contemporanei, ho adorato questa scelta letteraria: lo sforzo di associare la grafia al suono ha reso la lettura ancora più immersiva, e ho trovato che nell'uso di questa lingua si vedesse tutto l'amore dell'autrice per l’idioma e il suo desiderio di rendere spazio e giustizia, anche dal punto di vista formale, alla sua identità.
Cosa significa rendere giustizia all’esperienza afroamericana? Qual è il modo migliore di mettere la propria arte a servizio della causa? Le scelte artistiche di Hurston non corrispondevano affatto alle risposte che la Harlem Rennaissance ha dato a queste domande, ma questo non vuol dire che queste domande, e molte altre, Hurston non se le sia poste. Hurston è ben lontana dall’essere cieca alla questione razziale: raccontare solo personaggi* ner* non vuol dire forse affermare con forza che le loro sono storie che vale la pena di leggere? E farlo senza edulcorare la vita rurale del Sud con una patina di cultura e urbanizzazione non vuol dire anzi riappropriarsi con orgoglio di quei tratti che nei minstrel shows erano stati ridicolizzati e derisi? E mettere sulla pagina le risate, le tradizioni, la vita di paese e l’amore, il desiderio e la gelosia, l’amicizia e l’avventura, e non (o almeno non solo) la rabbia, il riscatto, la ferita della schiavitù, non vuol dire forse arricchire la rappresentazione, concedendo a* personaggi* una complessità forse all’epoca inedita? Come scrive Mary Helen Washington nella prefazione alla edizione che ho letto io, Janie va alla ricerca di sé, e il suo viaggio la porta sempre più in profondità nella sua blackness.
Al momento della sua morte, nel 1960, la maggior parte della produzione di Hurston era introvabile, lei era indigente, e il suo nome largamente dimenticato. Fu Alice Walker a riportarla alla fama, dopo aver scovato e amato alcune delle sue opere: come racconta lei stessa in un articolo, nel 1973 Walker fece un viaggio a Eatonville sulle tracce di Hurston, ritrovando la sua tomba, all’epoca senza nome, e riconoscendo, assieme alla lapide, anche il suo contributo alla letteratura americana. Sarà Walker a scrivere, nella prefazione per la biografia di Hurston a cura di Robert Hemenway: “Noi siamo un Popolo. Un Popolo non getta via i propri geni.”
Nel leggere questo romanzo, la sua raccolta di racconti, e una piccola porzione del vasto apparato critico circa la sua produzione, mi sono passate per la testa tante domande, sulle relazioni, sull’autorealizzazione, sulla libertà. Molte di queste sono assolutamente contemporanee, centrali anche rispetto a tanti dei dibattiti cui fruisco o partecipo, su internet e nella vita.
Per esempio, c’è un racconto, Sweat, in cui la protagonista Delia viene picchiata dal marito per anni. Nel paese lo sanno tutti e tutte, e c’è una scena in cui degli uomini discutono il da farsi sotto al portico di un negozio. Recentemente ho letto tante discussioni sul ruolo della comunità nella gestione dei casi di violenza domestica, tante esperienze di situazioni risolte senza l’intervento della polizia e, in quest’ottica, ho trovato questa scena particolarmente interessante: i vicini riconoscono che la violenza subita da Delia è grave, e qualcuno propone di picchiare il colpevole, ma poi la calura li porta a virare la discussione su un’anguria da dividersi. Forse se la violenza fosse stata ancora più grave sarebbero intervenuti? E se non avesse fatto caldo? E questo intervento che si è paventato, sarebbe stato una forma di giustizia? Quali comunità dobbiamo costruire affinché queste siano effettivamente una fonte di protezione e non di marginalizzazione?
Nella introduzione alla mia edizione di Their eyes were watching God, Edwige Danticat si chiede se Janie sia o meno un modello femminista: la domanda è lecita, perché nonostante non esiti ad andare contro i desideri di sua nonna, o contro l’opinione collettiva della sua comunità, lo fa solo quando è un uomo a portarla via con sé. Eppure, come menzionano sia Danticat che l’articolo del New Yorker che nominavo prima, Janie è un personaggio completo e complesso, molto consapevole delle angherie che subisce (“Non eri soddifatto di me per com’ero. No! La mia stessa mente doveva essere schiacciata e costretta per far spazio alla tua in me!”). Più che una damigella in pericolo, a me è sembrata scaltra, attenta a navigare al meglio delle sue possibilità una realtà ostile, senza compromettere la sua identità. Alla fine del romanzo, quando torniamo sotto al portico dove ha raccontato tutta la sua storia a Phoebe, non sappiamo cosa sarà di Janie, quali scelte prenderà, ma non dubitiamo che lo farà alle sue condizioni.
Ci sono tanti altri temi che sarebbe bello sviscerare: il conflitto fra una individualità prorompente e una comunità giudicante, la sessualità in donne non più giovani, la migrazione, la mascolinità, il colorismo, il folklore. Mi piace però concludere con un esempio di una caratteristica di Hurston che non ho ancora menzionato, la sua straordinaria ironia. Nel già citato How It Feels to Be Colored Me
scrive:
Non ho sentimenti separati riguardo al fatto di essere una cittadina americana, e di essere nera. Sono semplicemente un frammento della Grande Anima che si solleva all’interno dei suoi confini. Il mio paese, giusto o sbagliato. A volte mi sento discriminata, ma non mi fa arrabbiare. Mi stupisce soltanto. Come possono negarsi il piacere della mia compagnia? È al di là della mia comprensione.
Sebbene I loro occhi guardavano Dio sia edito da Cargo nella traduzione di Adriana Bottini, Ludovica ha letto e commentato la versione non tradotta, anche per offrire un commento sulle significative scelte linguistiche di Zora Neale Hurston. Tutte le traduzioni sono a cura di Ludovica.
[Alt Text: due pattìni sulla piazzola di uno stabilimento balneare. In primo piano, la barca rossa del salvataggio, dietro, una barca azzurra con l’albero per la vela. In secondo piano, uno scivolo rosso, alberi spogli e edifici bassi, uno giallo e uno blu.]
L’ospite e altri racconti, di Amparo Dávila
di Anna Maniscalco
Da quando sono adulta ho molta più paura di quando ero bambina. È controintuitivo, perché cominciando a conoscere le cose nella loro concretezza si dovrebbero padroneggiare: in nessun modo possibile l'attaccapanni nell'angolo, una volta spenta la luce, potrà diventare un vampiro in attesa di succhiare il tuo sangue, e il buio è uno stato come un altro. Ma più conosco le cose umane più mi spaventano, perché se ne posso descrivere l'aspetto, non posso trovare delle giustificazioni per le loro declinazioni più malvagie. Probabilmente per questo adesso più che mai mi sento attratta da quella scrittura che va a scovare l'orrore nella quotidianità, che rivela la realtà per quello che è: un incubo lucido.
L'incontro con la scrittrice messicana Amparo Dávila è rivelatorio in questo senso. Arrivata in Italia solo di recente con L'ospite e altri racconti, fin dai suoi primi racconti si è distinta per la capacità di astrarre da situazioni di apparente banalità un'ombra inquieta, persistente. Non si è mai definita propriamente un'autrice del fantastico, ma del domestico, a sottolineare che il raccapricciante non va cercato troppo lontano dalle mura di casa.
Una giovane che conduce un'esistenza solitaria, dal lunedì al sabato in fabbrica e le sere in una stanza squallida, viene seguita da un ragazzo. In un diario un uomo racconta il suo allenamento al dolore, lo insegue per sublimarlo: ogni giorno testa fino a che punto può arrivare, è il suo unico credo, la ragione delle sue giornate. Un lutto si trascina dietro delle presenze sempre più ingombranti; e incontrarsi per strada – e per incontrarsi si intende proprio sé stessi – porta la vita su due binari, rivelando ossessioni mai sopite.
Se molte altre autrici maestre del genere – basti pensare a Shirley Jackson – hanno esaltato il potenziale esplosivo dei piccoli contesti, in Dávila manca anche il conforto di ricondurre il disagio a qualcosa di immediatamente riconoscibile. Il male si insinua da un momento all'altro, giunge in visita durante la notte senza assumere una forma, e modifica ineluttabilmente i contorni delle giornate, come avviene nel racconto “La cella”, dove la protagonista raggiunge al mattino la famiglia seduta per la colazione, ma non è più la stessa persona della sera prima:
Era successo solo ieri e sembrava già un passato lontanissimo. Poteva preparare marmellate e dolci, sedersi a ricamare accanto alla madre, leggere per ore, ascoltare la musica. Ora non avrebbe più potuto fare niente del genere, niente in assoluto. Non avrebbe più avuto pace né tranquillità. Quando finirono di fare colazione, María salì in camera sua e pianse senza far rumore.
La soluzione a questo nuovo malessere è lanciarsi in un fidanzamento affrettato, finché a sua volta questo legame non diventa soffocante, una clausura ancora più stringente, tanto da richiedere un gesto estremo.
Più volte Dávila nei suoi testi ricorre alle ellissi, alla sospensione: i fatti che sono tratteggiati con precisione – il guardarsi in uno specchio italiano, il bocchino d'avorio da cui aspirare una boccata di fumo – precipitano spesso verso finali che lasciano ampi spazi. Le situazioni collassano: gli elementi inquietanti si dilatano, il ritmo si fa più incalzante. All’angoscia che si dilata si accompagna una sensazione di macabra libertà, nel momento in cui i confini nettissimi in cui si muove la narrazione si sbriciolano per lasciar entrare l'inconscio. Alla conclusione delle storie rimane un non detto, o almeno, una sensazione di indefinitezza – forse perché qualsiasi sia “il nemico” non è mai chiaramente nominato.
Nella prefazione al volume Alberto Chimal ricorda che nella sua scrittura Dávila non si è mai posta come un’attivista, ma si può dire che questo lato emerge per atti concludenti: le donne messicane che racconta vivono nelle strette maglie della vita casalinga o nella routine di lavori spersonalizzati, lontane dalla politica. In “La colazione” il fratello della protagonista partecipa alle manifestazioni studentesche, e attorno al tavolo famigliare consuma la sua colazione a base di uova strapazzate e succo di pomodoro, ma è Carmen che spalanca le porte al sogno, lasciando che la notte smargini nel giorno. Nel racconto che dà il titolo alla raccolta, un matrimonio carico di doveri e privo di amore (“All’epoca eravamo sposati da quasi tre anni, avevamo due bambini e io non ero felice”) porta in casa un essere mostruoso, davanti al quale la protagonista deve resistere insieme alla donna che la aiuta nelle faccende domestiche.
La rivalsa o la sconfitta definitiva sono movimenti che spezzano vite sempre uguali. Protagoniste come quella in “La cella”, o “Tina Reyes”, o “L’ospite”, vivono una routine schiacciante e senza via di fuga: l'ingiustizia della loro condizione si rivela quindi nell'ombra inquietante che le segue. Le condizioni di partenza delle personagge vengono rivelate nella loro minacciosità; l'ingiustizia insita in esse viene esposta, e non può che generare risposte allucinate, perché non è permesso, tra personaggi, un confronto sullo stesso piano.
Violenza e mostri rumorosi emergono dalle pagine popolate di autobus, marmellate, giornate lavorative uguali le une alle altre. A nulla può servire sigillare l'irregolare in cantina, non si può sfuggire alla necessità di misurarsi con il sommerso, per cui è difficile anche solo trovare correlativi oggettivi. A un certo punto, si arriverà sempre al momento in cui tutto deve bruciare.
L'ospite e altri racconti è edito da Safarà Editore nella traduzione di Giulia Zavagna.
[Alt Text: una pineta marittima costeggiata da una strada asfaltata e un’aiuola, con lampioni e il cartello triangolare del dare precedenza.]
Un po’ di compassione, di Rosa Luxemburg
di Margherita Masè
Prima di partire per un viaggio, ogni volta che mi trovo in un aeroporto italiano, mi fermo nella prima libreria che incontro e compro un libro Adelphi. Lo scelgo volutamente a caso e lo leggo durante il volo. È un’abitudine nata sovrappensiero, un giorno che avevo scordato quello che stavo leggendo sul comodino.
«Questo è il libro per te.»
La persona che mi sta regalando Un po’ di compassione non mi conosce bene, ma dubitare di un Adelphi firmato Rosa Luxemburg non mi sembra verosimile. Bel titolo poi; mi elettrizza l’idea di mettere in tasca un sentimento, anche se solo un po’. Accetto il dono, ora siamo l’oggetto e io.
È un libricino rosso vivo, leggero e grande quanto una mano. Sessantaquattro pagine che seguono l’eco delle parole scritte nel 1917 da una cella della prigione di Breslavia. È Rosa che scrive all’amica Sonja. È Natale, e anche se è riuscita a recuperare solo un albero sparuto, il “terzo anno in gattabuia” la sorprende per una certa ebbrezza gioiosa che non la abbandona. Intanto però, la guerra.
Quella che apre Un po’ di compassione è una delle tante lettere che le due amiche si scambiano durante il periodo in cui Red Rosa è in carcere. Tra le altre questa è breve, non occupa nove facciate. Tra le richieste di informazioni, le rassicurazioni, i programmi per vedersi, le fughe dalla realtà e i consigli di letteratura e botanica, ecco l’episodio narrativo che segna l’intera lettura del libro.
Un carro dell’esercito arriva nel cortile in cui le detenute passeggiano. Rosa non ha mai visto un bufalo prima e si ferma a guardarlo. Gli occhi mansueti dell’animale, maestoso e sanguinante, impotente sotto il giogo di un soldato che lo bastona, la trafiggono e d’un tratto le appare davanti l’immagine di un’intera umanità ferita. “Neanche per gli uomini c’è compassione”, dice il soldato. Rosa allora piange le lacrime dell’animale e lo chiama “il fratello più amato”.
L’incontro non potrebbe essere più commovente. Da quel momento, ogni parola cerca di colmare la distanza con l’animale che non può rispondere, e di più, di fare spazio all’ascolto della voce – del grido – di chi non ha voce. La rivoluzione è un animale in catene. Il soldato fischietta e se ne va.
Un po’ di compassione è una battaglia in difesa di almeno quanto è un gioco di specchi, di specchiamenti – mai narcisista (anzi) –, e inizia così: “Sonička, passerotto mio”. Vale per ogni lettera, ma in questo caso di più e incredibilmente per ogni testo del libro: chi scrive si sottrae alla prima riga. Il soggetto si defila, osserva: per testimoniare, lascia spazio all’irrimediabile, fragile e feroce, presenza dell’altro. L’oggetto di un muto dolore finalmente messo in luce allora può dire di sé, e così dire del mondo.
È a Karl Kraus che dobbiamo la pubblicazione della lettera. È il 1920, Rosa è ormai la “più nobile tra tutte le vittime” già da un anno e sulla sua Die Fackel (La Torcia) appare come un epitaffio. Nell’agosto successivo, la rivista ospiterà – e così fa il libro – il violento botta e risposta tra un’ostile lettrice anonima di Innsbruck e lo stesso Kraus che scatenerà contro la sua indifferenza tutta la propria furia.
A comporre questa inaspettata edizione polifonica di grandi voci chiamate a riflettere dell’umanità nell’animale, troverai anche unavecchia pagina di Kafka, un pensiero di Canetti e un testo di Joseph Roth. Non ti dirò di più, se non che la lettura è attraversata da un branco di animali sparsi, tormentati da un umano spietato preda “dell’angoscia della posizione eretta”, come la chiama Kafka. È la posizione del potere sulla “bestia” – cioè sull’inerme, sul diverso – che rappresenta la colpa terribile della sopraffazione. Dell’uomo sull’animale, dell’uomo sull’uomo.
Per consolarti, sappi che da questo campo di battaglia emerge un’indicazione pratica, una postura direi: bisogna sdraiarsi per terra tra gli animali per essere salvati. Riconoscere una somiglianza nel dolore si traduce in ultimo nell’assunzione della responsabilità di affiancarsi e allearsi al proprio simile facendo spazio alla sua sofferenza. Tenendo a mente la lezione di Rosa, nonostante tutto “con coraggio, impavidi e sorridenti”.
Chi avrebbe mai pensato che avrei potuto mettere in tasca un gesto rivoluzionario di tenerezza radicale. A te che leggi, che stai partendo forse e che non mi conosci, questo è il libro per te.
Un po’ di compassione è edito da Adelphi nella traduzione di Marco Rispoli.
[Alt Text: profilo di cabine di uno stabilimento balneare. I muri sono bianchi, i tetti arancioni, le cabine sono circondate dalla sabbia e qualche arbusto. ]
Transito, di Anna Seghers
di Giorgia Maurovich
C’è un velo di ironia amara nel parlare di letteratura dell’esilio oggi, era delle grandi migrazioni. In letteratura tedesca vi è un intero genere, chiamato Exilliteratur, che abbraccia la comunità di “scacciati” – come li definiva Bertold Brecht – che dal Reich nazista fuggirono verso altre terre, dalla Scandinavia agli Stati Uniti. Del resto, “la frontiera non è una linea”, scriveva Lucia Perrone Capano parlando della scrittrice tedesca Irmgard Keun, ma era una barriera sufficientemente concreta da lacerare le vite di chi era fuggito, e la cui identità si doveva ricostruire in un’altra terra, in un altro momento, in un’altra lingua. Thomas Mann, Bertolt Brecht, Walter Benjamin e Theodor Adorno sono forse i nomi più noti tra l’intellighenzia dell’emigrazione, e i Passages benjaminiani e le Gedichte im Exil (Poesie dell’esilio)di Brecht sono sicuramente i primi testi a cui si fa riferimento nella peculiarità di questa tragedia individuale. Tuttavia, il problema della solitudine e dell’evanescenza del proprio io abbracciava una generazione intera, e non poteva risolversi in un abbandono all’elucubrazione solipsistica in qualche caotica metropoli oltreconfine.
Tra tutti questi nomi vi fu una figura che più di altri fu in grado di cogliere l’indeterminatezza della condizione di esule, una vita segnata da tortuosi itinera burocratici, attese e “costellazioni di non-luoghi”, scrive Franco Buono. Si tratta di Anna Seghers, storica d’arte, scrittrice e militante del Partito Comunista di Germania che riparò in Messico dopo l’ascesa al potere di Hitler. Come osserva Rita Calabrese in Oltrecanone:
Anna Seghers appare come madre simbolica, illustre precedente della generazione di scrittrici che alle idee di emancipazione e di uguaglianza e all’ideologia totalizzante farà critica radicale, sviluppando la potenzialità di ribaltamento e di superamento della sua opera e cogliendone anche gli aspetti contraddittori, cancellati dalla levigata immagine ufficiale.
La vita e l’opera di Seghers si incontrano in Transito, romanzo autobiografico del 1944 in cui Seghers affida alla letteratura la sua esperienza di profuga. Accolto come un grande capolavoro dimenticato del Novecento tedesco e amato da figure come Christa Wolf e Heinrich Böll, Transito è un mosaico di racconti, eventi e luoghi vissuti attraverso gli occhi del narratore, un profugo senza nome le cui vicende riecheggiano il vissuto dell’autrice. Fuggito in Francia e scampato alle autorità di un campo di concentramento a Rouen, si ritrova solo nella Parigi occupata. L’incontro con Paul, suo ex compagno di prigionia, cambia per sempre la vita del protagonista: ricevuto l’incarico di portare una lettera a un poeta di nome Weidel, lo ritrova morto suicida in una camera d’albergo. Invece di consegnare gli scritti di Weidel ai suoi parenti, ultimo lascito di un genio tormentato, il protagonista decide di leggerli e portare a termine la storia rimasta incompiuta, emigrando verso il Messico per ricongiungersi alla moglie di Weidel.
Inizia così la narrazione di un tragitto che va oltre il viaggio, almeno per come è sempre stato raccontato: sospeso nel tempo, nei caffè, nelle ambasciate, nelle parole degli altri profughi, il narratore lotta per la propria esistenza tra i flutti turbolenti della storia, la memoria nella duplice funzione di arma e consolazione, l’esperienza dell’esilio a rimarcare la progressiva inconsistenza dell’identità, unica proprietà degli esiliati. La circolarità della struttura, nata dalla necessità del protagonista di “raccontare tutto dall’inizio alla fine” – perché “ciò che si può raccontare è superato”, scrive Seghers – ha la portata del caos degli anni del Reich, delle folle nelle stazioni, nelle stanze d’albergo, dei documenti, le angosce, i visti d’uscita. Seghers racconta l’ostinazione del volersi aggrappare a ciò che, almeno in quegli anni, restava dell’Europa, il tentativo disperato di una concretezza possibile nell’epoca che più di tutte rese manifesti lo spaesamento e la dissoluzione totale dei valori.
Nel complesso panorama della Germania del dopoguerra, l’eredità di Seghers fu d’ispirazione per un’intera generazione di autori e autrici appassionati e fortemente schierati che ammiravano
Christa Wolf – la sua amicizia più nota, almeno in Italia, con cui ebbe un rapporto letterario di mutua permeabilità, umanità, affetto e vulnerabile riverenza – ci regala uno spaccato di integrità artistica e impegno politico rimasto ancora oggi insuperato. Come scrisse Wolf ne La ragione terrena, saggio critico sull’opera dell’amica:
L’opera di un poeta è un fenomeno prezioso e durevole, in cui l’epoca riconosce se stessa e le epoche posteriori riconosceranno noi. […] Imperterrita, Anna Seghers lavora come può lavorare solamente chi ha la certezza che ci sarà sempre una generazione successiva a trarre profitto dall’opera e a trasmetterla a coloro che verranno.
Transito è edito da L’orma nella traduzione di Eusebio Trabucchi.
[Alt Text: entrata e vetrina di un’edicola, il tendone bianco e arancione reca la scritta “Giornali e souvenir”. Sulla porta è affisso il cartello “Aperto”, gli espositori in vetrina espongono riviste. Di fianco al negozio, un telefono pubblico.]
L’harem e l’Occidente, di Fatema Mernissi
di Giusi Palomba
Siamo all’inizio degli anni '90 e l’autrice marocchina Fatema Mernissi si trova in Europa per il tour promozionale del libro La terrazza proibita.
Gira diversi paesi e durante le presentazioni nota qualcosa di molto strano: ogni qual volta menziona la parola “harem”, i giornalisti uomini del sud Europa hanno serie difficoltà a trattenere ghigni, risolini, occhiate maliziose. Danesi, tedeschi o nordici in genere, provano invece a mantenere le buone maniere, ma fanno comunque domande curiose. Quelle reazioni così disturbanti ed enigmatiche suppongono qualcosa di non detto, qualcosa che all’autrice, fino a quel momento, è totalmente sfuggito.
Così Mernissi inizia a raccogliere dati per quello che sarà il libro successivo: L’harem e l’Occidente. Apre vocabolari, visita biblioteche, studia opere d’arte in Europa e si fa raccontare da amici occidentali quale sia la loro immagine, idea, rappresentazione condivisa di un harem.
Quello che scopre è l’argomento dei primi capitoli del libro: l’harem in Occidente è un’immagine sexy. Una versione feticizzata, composta di donne sempre nude, pronte a soddisfare qualsiasi esigenza dell’uomo padrone, a ogni ora del giorno e della notte. Uno spazio di lussuria rigorosamente dominato dallo sguardo e dalle volontà maschili.
L’indagine tra alcuni amici rivela ulteriori particolari: l’immagine di questo harem è effettivamente molto vivida nell’uomo occidentale, vissuta con molta invidia e totalmente incentrata sulla fantasia maschile. Un “voluttuoso paese delle meraviglie intriso di sesso sfrenato in cui le donne erano felici di essere rinchiuse”.
Fatema Mernissi nasce in un harem di Fez, “città marocchina del nono secolo, cinquemila chilometri circa a ovest della Mecca e solo mille chilometri a sud di Madrid, una delle temibili capitali cristiane”, come racconta nel libro dello scandalo. Un harem, logisticamente, è il luogo della casa riservato a donne e bambini, una separazione che riguarda anche altri spazi, i luoghi di preghiera o, ad esempio, gli hammam, i bagni pubblici. Non un luogo di lussuria, insomma, ma per l’autrice un luogo di controllo, dove non c’è alcuna privacy e la gratificazione sessuale è addirittura difficile da raggiungere, incastrata tra aspettative e frustrazioni delle donne conviventi e dell’uomo che, spesso, ha preferenze per un numero molto limitato di mogli.
Mernissi passa al setaccio immagini d’arte occidentale, di artisti che hanno fantasticato sul tema o visto harem da turisti: le donne sono dipinte in pose letargiche, passive, come in Matisse, Ingres, Picasso. Scova poi versi di canzoni di Elvis Presley: I’m gonna go where the desert sun is, where the fun is; / go where there’s love and romance / To say the least, go East young man / You’ll feel the Sheik, so rich and grand, with dancing girls at your command(Me ne vado dove c’è il sole del deserto, dove c’è divertimento; Per dirla in breve, andate in Oriente, giovani. Vi sentirete come sceicchi, potenti e ricchi, con danzatrici ai vostri ordini), e un genere preciso del cinema hollywoodiano: tits & sand, tette e sabbia, dalla definizione che l'attrice Maureen O'Hara diede del film Bagdad (1949), di cui era protagonista, per intendere i film sexy all’orientale. Eppure, nelle miniature musulmane di conoscenza dell’autrice, le donne cavalcano destrieri, sono armate di arco e frecce, hanno sguardi gravi e sono vestite di abiti pesanti. Le donne negli harem, ci racconta Mernissi, sono per i musulmani partner incontrollabili, il cui intelletto è parte integrante del loro ruolo, e sono immerse in una dimensione drammatica, poiché la loro forza dirompente costituisce una minaccia alla sicurezza dell’uomo. Mentre l’uomo musulmano può apparire persino spaventato dalla possibilità concreta della disobbedienza e della destabilizzazione del suo dominio, l’uomo occidentale tende a dipingersi nell’harem come un eroe sicuro di sé. Le rappresentazioni musulmane contemplano le paure maschili: la perdita di controllo e potere. Questo perché le donne resistono, “mandano all’aria i piani degli uomini e a volte diventano le padrone del gioco, confondendo Califfi e imperatori”.
L'autrice prende a esempio Le mille e una notte. La protagonista Shahrazad, figlia maggiore del gran visir, decide di offrirsi come sposa al sovrano, il quale, essendo stato tradito da sua moglie, uccide sistematicamente le sue spose al termine della prima notte di nozze. Shahrazad vuole placare l’ira verso il genere femminile, dunque attua un piano: ogni sera racconta al re una storia e rimanda il finale al giorno dopo, andando avanti per "mille e una notte". Il re alla fine se ne innamora e decide di salvarle la vita. Nella versione originale Shahrazad è la donna che grazie alle sue abilità, al suo intuito, riesce a modificare il corso della storia. Ma nel mondo occidentale, Mernissi ne ritrova una versione priva di questa dimensione politica, quasi sempre sostituita da una Shahrazad danzante, bidimensionale, senza le sue grandi abilità di comunicatrice.
Mernissi continua nella sua investigazione, fino ad arrivare al capitolo in cui descrive un altro choc culturale. Stavolta si trova negli Stati Uniti, in un negozio di vestiti, alla ricerca di una gonna di cotone. La commessa, dopo la richiesta, inizia subito a commentare il suo corpo: “Fianchi troppo larghi per una taglia 42”, decreta. L’autrice chiede allora una taglia più grande, e la commessa con una naturalezza a cui molte di noi siamo forse abituate, le risponde che è troppo grossa, di non avere a disposizione taglie “adatte”. Le taglie 40 e 42 sono la norma, mentre le taglie di cui ha bisogno si trovano solo in negozi specializzati, apprende l’autrice dal tono inesorabile della commessa.
I miei fianchi, fino a quel momento segno di una rilassata e disinibita maturità, erano improvvisamente condannati come deformi.
Mernissi intitola questo capitolo “La taglia 42 è l’harem dell’Occidente”. E scrive:
Mentre l’uomo musulmano usa lo spazio per stabilire il dominio maschile escludendo le donne dalla pubblica arena, l’uomo occidentale manipola il tempo e la luce. Egli dichiara che la bellezza per una donna è dimostrare quattordici anni.
In Occidente, come osserva Mernissi, l’ossessione per la magrezza, l’aspetto fisico delle donne in generale, è una forma sottile di controllo, pericolosa perché invisibile e immateriale. Non ci dicono che dobbiamo vivere rinchiuse in un harem, ma spendiamo comunque una quantità inconfessabile di ore a controllare, commentare, provare a modificare il nostro corpo per costringerlo negli standard imposti. È l’uomo a decidere di puntare i riflettori sulle donne che soddisfano il suo sguardo: la donna bambina è allora l’ideale massimo di bellezza. “Il tempo e la luce.”
L’intelligenza di questo libro sta nel non ridurre tutto a una competizione tra i maschilismi nelle diverse culture, ma nel riconoscere che decentrare la prospettiva ci mostra dettagli che abbiamo normalizzato.
L’harem e l’Occidente non è un libro nuovo, ma la sua lingua accessibile può diventare una grande alleata per innescare la lunga diseducazione all’eurocentrismo che forse oggi iniziamo a riconoscere in testi più moderni. Fatema Mernissi è stata docente di sociologia all'Università Mohammed V di Rabat e studiosa del Corano. La sua prospettiva, anche quando è lontana da quella di chi legge e non immediatamente condivisibile, ci aiuta a vedere le forze che hanno forgiato, senza che ne avessimo cognizione, il nostro mondo mentale.
L'harem e l'Occidente è edito da Giunti nella traduzione di Rosa Rita D'Acquarica.
[Alt Text: dettaglio di zona commerciale in località balneare. In primo piano, il tronco di un pino e una panchina, immediatamente dietro, il cartello girato “Gelateria Italia” e, affisso alla recinzione, il cartello “Affittasi locale” con numero di telefono. In fondo, il tendone bianco della Gelateria Italia e l’edificio, di cui si scorgono solo le ringhiere dei balconi.]
Women Make Horror. Filmmaking, Feminism, Genre, a cura di Alison Peirse
di Cristina Resa
I film horror sono la mia cosa preferita. Da sempre, da quando ho memoria. Oserei dire che alcuni dei miei ricordi più cari, ma soprattutto “caratterizzanti”, sono legati ai film horror. C’è questo episodio che mi salta sempre in mente, quasi fosse “l’inizio della storia”. Penso che ormai sia diventato folklore familiare, ma io lo ricordo esattamente come segue e anche mia madre lo racconta così.
Ero piccola. Avrò avuto quattro o cinque anni. Per caso, in tv, vedo una scena di omicidio. Sangue ovunque. Mi spavento molto, penso che sia vero, mia madre crede di aver fatto un danno. Va quindi in cucina, si cosparge la mano di succo di pomodoro, urla e dice di essersi tagliata. Mi spavento ancora, ma lei mette la mano sotto l’acqua corrente, il sangue sparisce e il taglio non c’è. «Fanno così nei film», mi dice.
Di fatto, anche se nessuna delle due ne è consapevole, mi spiega il cinema come mai nessun* farà mai. Da allora, per me, sarà quel posto in cui provare emozioni intense, ma in un ambiente controllato dal quale è possibile uscire in qualunque momento. Facile, come far scorrere dell’acqua su una ferita che non c’è mai stata. Da allora non mi spavento più e anzi, attraverso i film horror comincio a confrontarmi con me stessa, con le mie paure, con il mondo, senza mai smettere di sentirmi al sicuro. E mi diverto, altroché se mi diverto.
Dunque, posso dire che autori come John Carpenter, George Romero, Sam Raimi, Wes Craven, Tobe Hooper, Brian Yuzna, Stuart Gordon, David Cronenberg o Clive Barker sono stati i miei maestri. È cosa nota, sono mostri sacri. Diventarlo, però, non è solo una questione di talento, ma di opportunità. Non mi sono mai chiesta, fino all’età adulta, perché non riuscissi a inserire nessun nome femmile in questa lista. Per anni, lo ammetto, ho sempre pensato di essere una femmina in un mondo pensato da maschi per maschi. Non sono stata l’unica a pensarlo: anche Barbara Creed (The Monstrous-Feminine) e Carol J. Clover (Man Women, and Chain Saws), punti di riferimento per la critica femminista, partivano dal presupposto che l'horror fosse quasi eslusivamente creato e consumato dagli uomini.
Tutto sommato, in quel mondo, ero abbastanza comoda e non è mai stato un problema per me, finché, semplicemente, lo è stato. La verità è che vivendo in una bolla, le cose non appaiono definite finché non si fa un passo indietro, per poterle osservare dall’esterno. Le bolle sono confortevoli ma sono, quasi sempre, un problema.
Il mio processo di decostruzione è passato anche da qui, dai film horror. Dal cominciare a riflettere sul rapporto tra il genere nel senso di genre e il genere nel senso di gender. Ho cominciato a desiderare che in quella lista ci fossero delle registe, ma non si può tornare indietro, quando si tratta di influenze formative. Si può però andare avanti, provando a capire cosa ci siamo lasciat* alle spalle. E recuperare, se è possibile.
In questo, Women Make Horror. Filmmaking, Feminism, Genre, raccolta di saggi curata da Alison Peirse, professoressa associata di Film and Media all’Università di Leeds, può aiutarci. Nel capitolo introduttivo, Peirse stessa racconta di come sia caduta nello stesso errore, mentre preparava il modulo per il suo primo incarico accademico.
Scrive Peirse:
Ho iniziato con Island of Lost Souls (1932), Cat People (1942), Horror of Dracula (1958), Les yeux sans visage (1960), Night of the Living Dead (1968), Suspiria (1977), Halloween (1978), The Evil Dead (1981) e The Lost Boys (1987). A questi sono seguiti una serie di casi-studio nazionali: il canadese Ginger Snaps (2000), il britannico Dog Soldiers (2002), il giapponese Ju-On: The Grudge (2003) e il sudcoreano A Tale of Two Sisters (2003). [...] Si trattava di un modulo introduttivo: l'emergere del genere nel sistema degli studi americani negli anni '30 e '40, l'horror britannico negli anni '50, il cinema indipendente americano e lo sviluppo dell'horror europeo negli anni '60 e '70, l'ascesa degli slasher e dei video nasty negli anni '70 e '80, e poi il genere negli anni '90, affrontato poi in prospettiva globale nel nuovo millennio. Riflettendo sulle scelte, ho realizzato che tutti i film erano diretti da maschi.
Women Make Horror nasce da qui. Dalla presa di coscienza di una studiosa di fronte al suo stesso bagaglio culturale. Peirse non si chiede perché non ci siano registe nella sua lista, come d’altronde non me lo chiedo io. Lo sappiamo. Lo sai tu che stai leggendo Ghinea. È sempre la solita storia: il gioco è truccato e quando c’è da fare una scelta, quella scelta non ricade mai sulle donne o su altre categorie marginalizzate e discriminate.
Oggi stiamo assistendo all’emergere di una nuova generazione di cineaste. Pensiamo a registe come Jennifer Kent, Rose Glass, Julia Ducournau, Ana Lily Amirpour, Leigh Janiak, Jen e Sylvia Soska, Karyn Kusama o Anna Biller. Alcune di queste hanno diretto film destinati a diventare testi di riferimento. Il problema è che questo emergere di una forte autorialità femminile è presentato, dalla narrazione mediatica, come una novità. È visto come un’eccezione, un allontanamento dalla norma. La verità, come sottolinea anche Peirse nel suo saggio, è che le donne “fanno horror” da sempre, nonostante l’industria le abbia tenute ai margini. Tra queste, non ci sono sono registe, ma anche sceneggiatrici come Daria Nicolodi (Suspiria), montatrici come Edna Ruth Paul (La notte dei morti viventi), produttrici come Debra Hill (Halloween). Far emergere queste figure è importante quanto parlare delle stesse autrici, soprattutto per scardinare una determinata narrativa di stampo patriarcale, quella del genio solitario che, nel settore, ha alimentato tutta una serie di tossicità. Significa, in sostanza, puntare l’attenzione su un concetto imprescindibile: un film rappresenta, a parte rare eccezioni, un’opera collettiva.
Il volume, dunque, non vuole parlare del presente, ma si propone di ristabilire un equilibrio, dando il giusto inquadramento storico e critico ad alcune figure di rilievo nell’evoluzione del genere, includendo e discutendo tutti gli approcci. La critica femminista, soprattutto dagli anni ‘70 ai ‘90, ha infatti sviluppato una predilezione per l’analisi psicanalitica di film horror prevalemente realizzati da uomini, concentrandosi spesso sul rapporto con il pubblico e sulle criticità della rappresentazione femminile. Pur facendo tesoro di queste esperienze, questo libro si pone in maniera totalmente diversa, rendendo le professioniste del settore agenti. Non si tratta di creare una nuova controstoria del genere per sostituire quella vigente, ma di arricchirla con altre storie, che per diversi motivi sono state sommerse. Nel fare questo, Peirse, ispirata dall’impostazione di Lucia Nagib, docente di cinema dell’Università di Reading, sceglie di rigettare totalmente l’impostazione centro-periferia di cui soffre una certa critica anglosassone, per trattare film e autrici provenienti da tutto il mondo, fianco a fianco. Anche questo sembra un approccio estremamente interessante per attraversare la storia del cinema in maniera trasversale, ampliando gli orizzonti.
Non dirò che questo saggio si legge come un romanzo, frase fatta che si usa spesso in editoria per convincere le lettrici a dare un'opportunità a un libro di nonfiction. Women Make Horror non è una lettura rilassante. È un testo densissimo, composito, che raccoglie una quantità infinita di riferimenti bibliografici e che parla di tanti film difficili da reperire. È anche un libro che sorprende per la naturezza con cui ci pone di fronte a una radicale trasformazione sia del pensiero che del metodo critico, mentre esplora ogni tipo di cinema, da quello narrativo allo sperimentale, passando per cortometraggi, lungometraggi e antologie.
Peirse, nel costruire la raccolta, parte da una serie di semplici, ma fondamentali domande. Il cinema horror può essere anche il cinema delle donne? Che tipo di storie vengono raccontate nei film horror realizzati da donne? Un’opera deve essere considerata femminista perché diretta da una regista?
Inutile dire che la risposta alla prima domanda è chiara fin dalle prime pagine del saggio: l’horror, come d’altronde qualunque altro genere, può essere il cinema delle donne perché è stato e continua a essere fatto da donne, così come viene guardato da donne. Una storia, d’altronde, è tanto di chi la racconta quanto di chi la fruisce. E non è detto che film realizzati da registe debbano trattare tematiche tradizionalmente femminili. Dipende dalle sensibilità.
Non credo di dovermi soffermare sui singoli capitoli, diciotto in tutto, perché ogni saggio fa storia a sé. Penso, tuttavia, che qualche accenno al contenuto sia necessario per mostrare la portata del volume. Ad esempio, Alicia Kozma, ricercatrice del Washington College, esplora l’opera di Stephanie Rothman, prolifica regista e sceneggiatrice di film d’exploitation tra gli anni ‘60 e ‘70.
Alexandra Heller-Nicholas – accademica, critica e autrice, tra le altre cose, di 1000 Women in Horror, volume enciclopedico di recente pubblicazione che in qualche modo si pone nella stessa dimensione metodologica di Women Make Horror – punta l’attenzione su Karen Arthur e il suo straordinario The Mafu Cage (1978), con Carol Kane. Un vero e proprio capolavoro del genere che, come dice anche Heller-Nicholas, possiede "la potenza e il piglio ideologico dei classici horror nordamericani più riconoscibili degli anni '70 di David Cronenberg, Wes Craven, Tobe Hooper, John Carpenter e George Romero".
Martha Shearer, docente dell’University College Dublin, si concentra sul tema dell’autorialità multipla, decostruendo il mito dell’artista solitario, attraverso il racconto del lavoro creativo fatto da Daria Nicolodi su Suspiria (1977), del quale fu co-sceneggiatrice insieme a Dario Argento.
American Psycho (2000), adattamento cinematografico del romanzo di Bret Easton Ellis, diretto da Mary Harron e scritto insieme a Guinevere Turner, è invece al centro del saggio di Laura Mee, Senior Lecturer in Film and Television dell’Università di Hertfordshire e tra le fondatrici del BAFTSS - Horror Studies Special Interest Group (che ti consiglio di monitorare, perché propone spesso interessanti conferenze online gratuite).
Women Make Horror contiene anche il primo studio in lingua inglese sulle registe horror sudcoreane. L’autrice, Molly Kim, un’accademica dell’Università di Suwon specializzata in storia del cinema coreano degli anni ‘70 e ‘80, traccia una breve storia del filone, evidenziando le (poche) figure di registe emerse nei decenni, soffermandosi in particolare su due opere, The Uninvited (2003) di Lee Soo-yeon e Shadows in the Palace (2007) di Cheong Seung-hye, per mostrare come l’horror sia diventato terreno fertile per riflettere su problematiche quali oppressione sociale e disuguaglianza di genere nel Paese.
Di estremo interesse sono i due capitoli dedicati al ruolo dei festival nella promozione cinematografica. Perché se è vero che negli ultimi anni le figure di registe sembrano essersi moltiplicate, è altrettanto vero che intorno a questa nuova generazione si stanno sviluppando dei circuiti di supporto. Donna McRae, regista e docente di Screen and Design alla Deakin University, punta dunque l’attenzione sul ruolo del The Stranger With My Face International Film Festival nella produzione di genere australiana; Sonia Lupher, candidata al dottorato in film and media studies all’Università di Pittsburgh, racconta come i festival svolgano "un ruolo fondamentale nella transizione tra fandom e pratica all'interno della comunità horror".
Diciotto contributi sono tanti, ma il lavoro di selezione di Alison Peirse si dimostra accurato sia nella scelta degli argomenti che in quella delle voci, che sembrano dialogare tra loro: Women Make Horror traccia in modo fluido percorsi che oggi ci appaiono alternativi, ma in realtà avrebbero dovuto far parte della storia del cinema già da tempo. Si tratta di qualcosa che possiamo cambiare, trasformando il modo in cui pensiamo al genere. E mi piace pensare che alcune delle registe citate qui saranno, negli anni a venire, nella lista di qualche ragazzin* per cui i film horror saranno, come è successo a me, la cosa preferita.
Edito da Rutgers University Press, vincitore del premio Best Edited Collection 2021 della BAFTSS e finalista del Bram Stoker Award 2020, purtroppo il volume è disponibile solo in inglese. Ma se ci fosse qualche casa editrice italiana all’ascolto, credo di aver appena lanciato un appello.
Tutte le traduzioni sono a cura di Cristina.
[Alt Text: una spiaggia di sabbia, una fila di cabine e degli scivoli. Sull’edificio che ospita le cabine, il disegno di due piedi blu e un fiore. Lampione e alberi spogli, cielo nuvoloso.]
La nostra parte di notte, di Mariana Enríquez
di Chiara Sélavy
Un paio di mesi fa sono andata a vedere una mostra di Lynette Yiadom-Boakye. I dipinti, tutti ritratti, sono accomunati da un certo mistero, un qualcosa di ineffabile che rende i suoi soggetti magnetici, a volte quasi minacciosi. Quella pericolosa capacità di rapire e attanagliare caratterizza anche La nostra parte di nottedi Mariana Enríquez, romanzo del 2019 che mi ha stregata, obbligandomi a mettere da parte tutto e abbandonarmi alla sua lettura durante i primi mesi del lockdown.
Il romanzo si apre durante un mattino d’estate, una giornata tersa e luminosa che si rivelerà caldissima. È così che conosciamo Juan Peterson e il figlio di sei anni, Gaspar. Quasi da subito, percepiamo qualcosa che non va: nell’aria c’è tensione, forse addirittura una traccia di ostilità, e sul tavolo stanno dei biglietti aerei che Juan si rifiuta di usare, preferendo intraprendere un lungo e sfibrante viaggio in macchina.
Ci vuole poco per capire che Juan è cardiopatico e si sta ancora rimettendo dall’operazione subita l’anno precedente, e che sua moglie Rosario è morta qualche mese prima investita da un autobus, un incidente banale a cui lui non crede affatto. Ci vuole un po’ di più, invece, per scoprire che Gaspar comincia a manifestare gli stessi talenti del padre. Juan, infatti, è un medium i cui poteri straordinari sono asserviti all’Ordine, un’organizzazione di miliardari più o meno onnipotenti dedita al culto dell’Oscurità, che è lui stesso a dover evocare durante cerimoniali segreti.
Nelle quasi settecento pagine a seguire, passando da unə narratorə all’altro e da un’epoca all’altra – sono scarti di cinque o dieci anni, per una storia che si dipana nel trentennio che va dalla preadolescenza di Juan ai vent’anni e qualcosa di Gaspar – Enríquez ricostruisce la storia dei Peterson, quella dell’Ordine, e la relazione tra Juan e Rosario, e Rosario e la sua famiglia; storie, tutte, fatte di desiderio di potere, segreti bui e violenza.
Raccontato così, La nostra parte di notte potrebbe sembrare “solo” un romanzo gotico contemporaneo, una vicenda familiare con elementi misteriosi e soprannaturali; e come gothic novel, funziona benissimo. Ma la storia che narra non avviene in un tempo o in un luogo casuali: incontriamo Juan e Gaspar nella Buenos Aires del 1981, dove la dittatura militare di Videla fa sparire le persone già da anni, e sta per sferrare l’attacco alle Falkland (“las Malvinas”, urla la mia metà argentina), il colpo di coda di un regime ormai morente.
L’Oscurità assoluta e famelica, quell’entità nera che si manifesta e consuma senza mai offrire risposte davvero intelligibili, diventa quindi qualcosa di più della divinità di tenebra evocata da un’eccentrica élite che anela all’immortalità, e si traduce in un’allegoria della dittatura e del trauma del passato recente dell’Argentina. Del resto, come ci viene ricordato più volte tramite le parole di Zora Neale Hurston, “gli dei si comportano sempre come le persone che li hanno creati”, e l’Oscurità ha molto in comune con i metodi della dittatura. Allo stesso modo, le dinamiche interne all’Ordine rispecchiano le politiche imperialiste e l’ingerenza neocoloniale messe in atto dalla Gran Bretagna: i Bradford, famiglia fondatrice ormai argentina da generazioni, devono sottostare alla leadership di Florence Mathers, che guida l’Ordine da Londra; Olanna, la prima vera medium, è una “selvaggia” scoperta durante l’invasione britannica della Nigeria, portata in Inghilterra da uno dei Mathers e sfruttata fino alla morte; l’Argentina, pur venendo considerata periferia dell’impero, è un paese grazie a cui Florence si arricchisce, allevando cavalli e bestiame nei suoi latifondi.
Più di tutto, forse, La nostra parte di notte è un romanzo di formazione che segue Gaspar e il suo tentativo di trovare una risposta ai segreti del padre. In questo senso, si potrebbe paragonarlo ad altri romanzi argentini come I vent’anni di Luz di Elsa Osorio, e Cruzar la Noche di Alicia Barberis (libro young adult inedito in Italia), dove la scoperta di sé coincide con la traumatica rivelazione di non essere figli dei propri genitori, ma di desaparecidos giustiziati dalla dittatura. In questo tipo di narrazione, lз protagonistз affrontano un duplice lutto: per i genitori mai conosciuti e per la loro vita “di prima”, vissuta nella menzogna e insieme a genitori adottivi che spesso appoggiavano il regime.
A differenza loro, Gaspar sa di chi è figlio, ma sua madre è un ricordo distante, e il padre – silenzioso e sfuggente, spesso in preda a una collera sorda – rimane un enigma. Sarà solo la lenta risoluzione di quel rompicapo, la chiusura definitiva delle questioni che Juan gli ha occultato o ha lasciato sospese, a permettere a Gaspar di andare avanti, proiettato nell’età adulta e verso una possibile luce.
Anche qui si può tracciare un parallelo, una metafora: Gaspar ha sei anni nel gennaio del 1981, e quindi nasce appena prima del 1976, anno del colpo di stato di Videla. Nel suo cercare le risposte, nel suo dover affrontare la parte di notte che fa parte della sua storia e di quella della sua famiglia, Gaspar rappresenta il suo paese nella transizione dalla dittatura alla democrazia, e in particolare un’intera generazione (di cui fa parte anche Enríquez, nata nel 1973) obbligata a scendere a patti con l’eredità e la memoria di un passato caratterizzato da un orrore che è difficile comprendere ed elaborare.
Credo sia questo, in sintesi, il vero punto di forza di La nostra parte di notte: l’accostare all’orrore vero, storico (il romanzo, pur lasciando la dittatura quasi sempre sullo sfondo, vi fa riferimento diretto molteplici volte) a quello immaginifico. E vista l’agghiacciante banalità dello scomparire – o meglio, del venire scomparsi – per sempre, senza lasciarsi dietro tracce, corpo o testimonianze, credere a una forza oscura che inghiotte qualsiasi cosa le si avvicini troppo non risulta affatto difficile.
A sostenerlo, la scrittura mesmerica di Enríquez, che nell’intreccio di tempi e voci delinea anche una costellazione di riferimenti intertestuali, fondamentali per lei e forse anche per noi: oltre alla Emily Dickinson del titolo e a Zora Neale Hurston, ci sono anche Emily Brontë e lo “haunt me” di Heathcliff a Cathy, e una mano sinistra ricorrente che non può non ricondurre a Ursula K. LeGuin. Ci sono David Bowie e Borges, William Blake e John Keats, e anche un’autocitazione, un richiamo a uno dei racconti comparso nella raccolta del 2016 Le cose che abbiamo perso nel fuoco.
A qualsiasi livello si scelga di leggerlo – Bildungsroman, gotico sudamericano, metafora politica – La nostra parte di notte è un libro di affascinante ferocia, un buco nero ineludibile che attira e rapisce e divora. Ma la sua è una tenebra che lascia anche intravedere qualche potenziale spiraglio; se non la stessa luce incongrua che apre il libro, allora quella timida che spunta quando la notte comincia a dissiparsi, appena dopo il buio più profondo.
La nostra parte di notte sarà pubblicato da Marsilio il prossimo 2 settembre, nella traduzione di Fabio Cremonesi.
[Alt Text: un piccolo giardino privato. Dietro la recinzione si scorgono piante e qualche fiore rosa, un secchio rosso e le basi con tavolino degli ombrelloni da spiaggia piantati tra le piante. Dietro, il muro di un edificio con un bidone verde dell’immondizia, un mocio, tubature e vani coperti.]
Ringraziamo Ludovica, Anna, Margherita, Caterina, Giorgia, Giusi, Cristina e Chiara per aver contribuito a questo speciale con i loro consigli e le loro riflessioni. Speriamo che troverai qui una delle tue prossime letture preferite! Se anche tu hai un libro da consigliare, e vorresti scriverne per noi, rispondi a questa mail o contattaci sui social: saremo felici di leggerti. Ci ritroviamo a fine mese!
Un abbraccio!
Francesca, Gloria e Marzia