Benvenut@ al nostro undicesimo speciale, che ti inviamo in questa importante giornata di lotta. Siamo molto felici di pubblicare le parole di Romina Arena, educatrice alla lettura consapevole e alla scrittura creativa presso scuole, librerie e carceri. Romina ci ha regalato un suo saggio, frutto di studio personale ed esperienze dirette, sul valore del linguaggio come agente di violenza e discriminazione ma anche di radicali trasformazioni sociali, e sulla letteratura, spazio privilegiato in cui far avvenire tali trasformazioni, saggiarne la bontà ed esplorarne le implicazioni. Ringraziamo Romina per il suo contributo e le sue riflessioni.
Buona lettura e buon 8 marzo!
Violenza verbale e cultura del linguaggio. La letteratura come agente di cambiamento e spazio di militanza
di Romina Arena
Il modo in cui parliamo dice chi siamo. Quali parole utilizziamo e come le utilizziamo raccontano la nostra maniera di stare al mondo, come viviamo, l’importanza che diamo alle persone intorno a noi e quanto le teniamo in considerazione nella nostra esistenza.
Il modo in cui parliamo, quali parole usiamo e come le usiamo sono la forma che diamo a ciò che pensiamo. Bisogna immaginare le parole come dei contenitori dentro i quali metto i miei pensieri e se il contenitore non è della misura o della forma giusta, anche i miei pensieri avranno una forma imprecisa. Un contenitore sbagliato conterrà un pensiero confuso, incapace di esprimersi pienamente. Se utilizzo male le parole o mi accontento della prima che mi viene in mente o se ne conosco poche, correrò tre rischi: Non essere compresə o capitə; essere fraintesə; esprimere concetti che possono offendere, ferire, discriminare o escludere una persona. Parlare ha conseguenze su di me – nel primo e nel secondo caso – ma ha anche conseguenze sulle altre persone – nel terzo caso – e in mezzo a queste altre persone posso esserci io quando si utilizzano verso di me – per descrivermi, indicarmi o giudicarmi – parole che possono ferirmi, discriminarmi o escludermi. Se le parole che utilizzo nei confronti di una persona sono stigmatizzanti – la identificano secondo un segno inerente il corpo o un segno inerente il comportamento o le qualità cognitive – nella vita reale posso essere in grado di comportarmi di conseguenza: posso adottare atteggiamenti discriminatori che la emarginano e la cancellino. Posso essere in grado di non riconoscerla come essere umano con desideri, aspirazioni, difficoltà, bisogni, una storia da raccontare.
Disconoscendo o non utilizzando le parole corrette con le quali rivolgermi a una persona o parlare di essa, opero a livello verbale un processo di invisibilizzazione che mi mette nelle condizioni di adeguare non soltanto la mia conoscenza ma anche il mio comportamento a un processo di cancellazione materiale di soggettività e individualità che il mio lessico e le mie azioni non riconoscono (azione positiva) e delle quali – implicitamente – negano e rinnegano l’esistenza (azione negativa). È dentro questo sottile, ma sostanziale, passaggio che la violenza verbale diventa consuetudine e terreno nel quale radicare la violenza fisica e tutte le attitudini comportamentali finalizzate all’esclusione, all’assoggettamento e a qualsiasi forma di colonizzazione dei corpi e delle menti. La consequenzialità tra la violenza verbale e la violenza fisica costruisce il paradigma per un razzismo, una xenofobia, un sessismo, una ziganofobia, un’omolesbobitransfobia, un abilismo, una grassofobia interiorizzati e sistemici.
La violenza sulla lingua. Nominare per riconoscere
Può il linguaggio custodire la radice della violenza? Solitamente, la violenza, come atto di prevaricazione, è rappresentata in termini di violenza fisica. La violenza verbale, invece, sembra essere considerata come un elemento distaccato che procede da altre origini e conduce ad altre conseguenze. La lingua, tuttavia, che è lo strumento attraverso il quale comunicare pensieri, idee, intenzioni, proprio per la sua natura di precedere il gesto, lo organizza e lo prepara. Se posso pensarlo, e posso dirlo, allora posso farlo. Se un pensiero violento anticipa e forma un’azione violenta, allora posso dire che la violenza verbale è all’origine – e quindi precede – la violenza fisica.
[Alt Text: primo piano su fondo color senape di Toni Morrison in età anziana, sorridente. Fonte.]
Il linguaggio crea un sistema gerarchico di valori all’interno del quale maturano le idee della differenza, della diversità sociale, fisica e intellettiva. Facendo della diversità uno stigma, si stabilisce un ordine per il quale esistono esseri umani superiori ed esseri umani inferiori, uno squilibrio che sta alla base della nascita dell’Alterizzazione, che Toni Morrison definisce come “Il bisogno sociale/psicologico di un “estraneo”, un Altro, così da definire il proprio sé alienato”. L’Altra persona da me da me rappresenta il mio termine di paragone al ribasso, uno specchio dentro il quale rifletto la mia superiorità. In un passaggio di Una stanza tutta per sé, Virginia Woolf scrive:
La vita, per entrambi i sessi […] è ardua, è difficile, una continua lotta. Richiede coraggio e forza giganteschi. Più che altro, forse, poiché siamo creature d’illusione, richiede fiducia in se stessi. Senza fiducia in noi stessi siamo come bambini in culla. E come possiamo generare in noi, più rapidamente possibile, questa imponderabile eppure inapprezzabile qualità? Pensando che gli altri sono inferiori a noi. Sentendo che abbia o qualche superiorità innata rispetto agli altri. […] Di qui l’enorme importanza, per un patriarca che deve conquistare, che deve governare, la possibilità di sentire che un gran numero di persone, la metà della razza umana, invero, è per natura inferiore a lui. Anzi dev’essere una delle fonti principali del suo potere.1
Il bisogno di annientare e soggiogare è alla base del potere, della sua rappresentazione e del suo manifestarsi. Individuare una categoria da considerare fragile e utilizzarla come fulcro per sollevarsi più in alto, è il primo passo del processo di Alterizzazione. Tuttavia, l’Alterizzazione non è un automatismo, non è un carattere fisiologico, non è impressa in alcun dna. Dice ancora Toni Morrison:
Come si diventa razzisti, sessisti? Poiché nessuno nasce razzista e non esiste una predisposizione fetale al sessismo, si impara l’Alterizzazione non attraverso spiegazioni o insegnamenti, bensì attraverso l’esempio.2
Non si nasce razzisti o sessisti, quindi: lo si diventa attraverso la reiterazione di un linguaggio e di atteggiamenti che entrano a far parte della comunicazione e dei comportamenti collettivi e finiscono per essere accettati come una consuetudine. Mai problematizzati né sottoposti ad alcun tipo di analisi o critica, vengono assunti acriticamente come espressione di uno status quo.
Al sessismo, al razzismo, all’omolesbotransbifobia, all’abilismo, alla grassofobia e a qualsiasi altra forma di discriminazione ci si educa. Io imparo ad affermarmi alienando, cancellando; sminuendo l’altra persona da me. La nientificazione è già una forma di violenza.
Consideriamo come esempio la violenza verbale di genere. Essa opera una cancellazione sociale della donna prima come persona come persona e poi in quanto cittadina e professionista. Ne riduce lo spazio di azione alle mura domestiche dentro le quali assolvere gli incarichi previsti per lei dal patriarcato. Scrive la scrittrice cilena Lina Meruane:
Un ingranaggio complesso che viene azionato durante l’infanzia per mezzo della bambola di pezza, delle suppellettili domestiche nella loro versione giocattolo, delle favole che esaltano in maniera precoce la procreazione. La bambola stretta tra le braccia di una bambina non è affatto innocua: “Se a una bambina regaliamo una bambola le stiamo regalando la sua maternità”, avverte la scrittrice cilena Diamela Eltit. “Se a un bambino diamo una macchinina quello che gli stiamo regalando è la capacità di guidare. La capacità di seguire una strada e di tracciare una rotta”. Chi non è in grado di guidare dovrà essere guidato e le donne vengono spinte verso il loro destino materno. È talmente potente (talmente normalizzata, come direbbero le signore studiose) quest’immagine della bambina che rimesta nella pentola con la sua bambola in braccio che alcune donne adulte non arrivano neanche a chiedersi se vogliano o meno una bambola in carne ed ossa.3
[Alt Text: pubblicità di una bambola risalente agli anni Venti e apparsa sulla rivista statunitense Needlecraft Magazine. Vicino alla fotografia della bambola appare la scritta “What little girl will be my mama? Tend me all day long, tuck me in at night” (Quale bambina sarà la mia mamma? (Quale bambina) mi accudirà tutto il giorno, e mi rimboccherà le coperte la notte?). Subito sotto, l’illustrazione di una bambina intenta a coccolare la bambola vicino al proprio letto.]
La normalizzazione dello stereotipo crea il linguaggio, crea la gabbia e traccia il perimetro dentro il quale si stabilisce dove debba stare una donna e quali attività le sia concesso svolgere. La suddivisione tra – parafrasando ancora Meruane – lavoro produttivo (maschile) e lavoro riproduttivo (femminile) non riconosce la donna come soggetto sociale in grado di autodeterminarsi politicamente, economicamente e culturalmente. La considera invece portatrice di una inferiorità globale intrinseca e organica che la rende destinataria della cosiddetta educazione negativa, un’educazione fatta di divieti e proibizioni. Un’educazione minuta, perlopiù pratica, finalizzata al focolare, priva di esercizi intellettuali, tesa al soddisfacimento dei bisogni primari del maschio, alla perpetuazione della specie e alla manutenzione della casa. Tutti mestieri che hanno a che fare con il corpo o la manualità rivolta all’economia domestica e all’accudimento.
Nel saggio Due donne, Virginia Woolf, parlando di Emily Davies, scrive:
Emily Davies nacque nel 1830, da genitori della classe media che si potevano permettere di dare un’educazione ai loro figli maschi, ma non alle femmine. L’educazione di Emily, dunque, fu, come supponeva, molto simile a quella di altre figlie di pastori della Chiesa anglicana a quel tempo. «Frequentano una scuola? No. Hanno delle governanti a casa? No. Ricevono qualche lezione e vanno avanti come possono». Ma se la loro educazione positiva si fermava a un po’ di latino, un po’ di storia, un po’ di economia domestica, questo non avrebbe avuto una grande importanza. Era quella che si può definire la loro educazione negativa a stabilire non quello che si può fare ma quello che non si può fare, che le bloccava e soffocava. «Probabilmente soltanto le donne che ne soffrono e ne sono vittime possono capire l’oppressione e lo scoraggiamento prodotto dal sentirsi dire continuamente che, come donne, non ci si aspetta granché da loro…Le donne che sono vissute nell’atmosfera prodotta da un simile insegnamento sanno bene come questo reprima, raggeli e scoraggi; e come sia difficile proseguire coraggiosamente nei propri sforzi in una simile situazione». Predicatori e governanti dei due sessi nonostante tutto formularono questo credo e lo imposero prepotentemente. […] Il saggista politico W.R. Greg, sottolineando le sue parole, scrisse che «i compiti essenziali dell’essere donna sono che sia mantenuta dagli uomini, e a sua volta provveda ai loro bisogni». La sola altra occupazione consentita alle donne, in realtà, era di diventare governante o di fare la sarta «e ambedue questi tipi di lavoro erano naturalmente sovraoccupati».4
Quando il linguaggio escludente e stigmatizzante legittima questo apparato di pensiero, contribuisce a generare un vuoto di rappresentazione e innesca un processo di negazione non solamente linguistico, ma anche culturale. Anzi: è tanto più culturale quanto più è linguistico. Se non ti nomino, non ti riconosco; se non ti riconosco, non esisti. Oppure esisti solo come strumento/oggetto per altri fini e scopi che non siano né la tua felicità, né la tua realizzazione. Gli unici aspetti che contano di te in quanto donna – e che devono coincidere col punto massimo della tua aspirazione e completezza – sono la tua capacità riproduttiva, quella che Meruane chiama “la procreazione per compensare le perdite”, e la tua bellezza, un fattore puramente estetico ed edonistico del soddisfacimento sessuale. I due elementi, spesso, si sovrappongono.
Alla donna – insomma – resta il ruolo residuale di dispensatrice del piacere o di garante della discendenza patrilineare. Una questione di onore, per il maschio, indifferente alla volontà, al dolore, all’autodeterminazione, alle decisioni della donna, specialmente nell’ambito matrimoniale nel quale i doveri vengono prima – molto prima – dei diritti. Ne è un esempio il passaggio del racconto Wahala! della scrittrice nigeriana Chinelo Okparanta, in cui la relazione asimmetrica tra moglie e marito si esplicita con violenza nella necessità sociale tipicamente maschile di garantirsi la rispettabilità della propria reputazione e nell’intima sofferenza di chi porta sui propri lombi tutto il peso di un onore che non le appartiene e non la comprende.
La stanza è buia, eccetto per uno spiraglio di luce che filtra dalla finestra, e Chibuzo riesce a stento a distinguere la sagoma di Ezinne sul letto. «Ehi» dice a cuor leggero, entrando. Tira la porta dietro di sé, ma non si chiude del tutto. Rimane una piccola fessura tra lo spigolo del telaio. Lui non se ne accorge.
Si siede sul lato di Ezinne, quello più vicino alla porta. Lei si sposta leggermente per fargli spazio. È distesa a pancia in giù, con le braccia ripiegate sotto il viso. Si volta per guardarlo.
«Giornata lunga» dice quasi sospirando, massaggiandole la schiena.
«Sì, molto lunga» risponde. «Sono stanca.»
Lui fa una risatina goffa. Lei percepisce il suo imbarazzo.
Si distende a letto, completamente vestito, e preme forte il corpo contro quello di Ezinne. Le mani scendono sui fianchi. «Certo» dice. «Lo capisco che sei stanca.» Si interrompe. «C’è un’ultima cosa da fare.» Accenna di nuovo una risata.
Ezinne si volta dall’altra parte e tenta di divincolarsi. «Non adesso» dice. «Non stanotte.» Pronuncia le parole con fermezza, ma dalla tensione del corpo di Chibuzo capisce che è una battaglia persa.
Non sbaglia, ovviamente.
«Sì, stanotte» risponde lui con tono profondo e deciso.
Ezinne chiude gli occhi, eppure riesce ancora a vederlo nella sua testa. Vede la mandibola squadrata. È tesa, contratta. Dalla bocca traspare la sua determinazione. Vede le braccia al di sotto della camicia. Sono esili, quasi scarne, ma sa anche che sono forti, più di quanto non suggerisca la corporatura. Questa forza l’ha provata sulla sua pelle, così si discosta leggermente. «Ti prego, Chibuzo» dice. «Non stanotte.»
«Dobbiamo provarci» risponde lui. «Sai che sono paziente, ma fino a un certo punto. Cosa credi che pensino di me? Un uomo del mio rango, senza nemmeno l’ombra di un figlio a dimostrarlo.» Si interrompe. Abbassa la voce e dice, quasi supplicandola: «Dobbiamo avere un figlio, non per forza un maschio. Anche una femmina va bene. Dobbiamo avere un figlio, o questo matrimonio non vale niente».”5
La sessualizzazione del corpo femminile da parte del maschio cis-eterosessuale è un sistematico strumento di potere e coercizione psicologica, perfettamente integrato in ogni ambito. Scrive Aminatta Forna:
Nel saggio del 1975 Cinema e piacere visivo Laura Mulvey spiega che i film sono pensati per essere visti con l’occhio del maschio eterosessuale. I personaggi femminili vengono presentati come oggetti del desiderio. È lo «sguardo maschile». Lo sguardo è potere. E a detenere questo potere sono gli uomini. […]Quando un uomo fissa una donna in pubblico non pensa a quello che lei prova. Possiede il potere dello sguardo e, se crede, lo esercita. Ma la cosa che più di ogni altra mi manda in bestia è che il gesto sottintende già la sua giustificazione. Se una donna si lamenta, può sentirsi rispondere che dovrebbe essere lusingata, e che è fortunata che gli uomini la trovano attraente.6
[Alt Text: frame da Body Double - Omicidio a luci rosse, film del 1984 diretto da Brian De Palma. Nell’immagine, una donna in completo intimo viene osservata con un telescopio nell’intimità della sua camera da letto, in cui ogni sera esegue seducenti spogliarelli proprio di fronte alla finestra con le tapparelle aperte. L’atto di guardare la donna a sua insaputa, oggettivandola, e l’atto di ucciderla, benché non commessi dalla stessa persona, si susseguono.]
Se lo sguardo dovesse protrarsi oltre e tradursi in azione, in violenza, stupro, la giustificazione aumenta di livello e di volume. Non si denuncia la violenza che sottrae autodeterminazione, ma si condanna la donna che, coi suoi atteggiamenti, sarebbe colpevole di averla provocata. L’attenzione e gli apprezzamenti spinti del maschio sono una grazia di cui bisogna andare fiere, note a margine che fanno lievitare un punteggio, concessioni che arricchiscono un curriculum.
Come le storie che si raccontavano su Janis Joplin a Port Arthur, Texas, c’erano le storie su di noi a Greenville, South Carolina. I giocatori di football dietro le gradinate, ragazzi che poi si sposavano e seguivano la retta via.
«Che cavolo, non si tratta di stupro. Non ha mai detto di no. Forse ha detto basta, ma con quella vocina piccola piccola, quella che ti fa capire di voler essere amata, diamine, amata per dieci minuti o mezz’ora. Merda, chi potrebbe amare una come lei?»
Chi?” 7
Il passaggio dalla violenza verbale alla violenza fisica è una membrana sottile. Più forte è l’Alterizzazione, più accettato è il linguaggio sessista, più è facile rompere la membrana tra violenza verbale e violenza fisica, perché se un linguaggio è accettato, allora sono accettate anche le azioni che lo esplicitano.
Scrive Laura Fontanella, ideatrice di un laboratorio di traduzione transfemminista queer:
Il sessismo linguistico non solo è utilizzato comunemente nel linguaggio che adoperiamo tutti i giorni, ma è anche veicolato dalle istituzioni pubbliche, dai mass media e da tutti quegli organi che hanno risonanza nazionale e internazionale. Il sessismo linguistico si mostra nella morfologia, attraverso la sintassi del periodo, attraverso la mancanza di lessemi in grado di rappresentare le donne, il loro corpo, i loro desideri, le loro aspirazioni, il loro potere, si mostra a livello semantico ogniqualvolta si verifichino delle resistenze all’introduzione di neologismi, nonostante siano correttamente costruiti secondo le regole grammaticali vigenti. Lo straniamento che avvertiamo dinanzi alla parola sindaca, non ha a che fare con la costruzione morfologica del termine, che è ben fatta, ma semmai con il referente, che non riconosciamo, a cui non siamo abituate e abituati, che non vogliamo legittimare perché percepito ancora come anomalo o eccezionale.8
Tuttavia, la lingua che stigmatizza è la stessa lingua che si evolve e può avere la forza di tracciare un nuovo paradigma che sia inclusivo e antidiscriminatorio. E poiché le lingue non cambiano da sole, né esiste un potere superiore che le imponga, allora è chi le parla ad essere responsabile della loro evoluzione e della loro inclusività. La rivoluzione di una lingua – insomma – la fa chi la parla ed è per questo che è possibile ribaltare una “lingua fallocentrica” – adottando un’espressione di Vera Gheno – a favore di una lingua inclusiva e non discriminante che trasformi in inclusiva e non discriminante anche la società che la parla. La rivoluzione, allora, è nella parola, nel nominare ciò che esiste e farlo correttamente. Nelle parole di Gheno:
Ciò che non viene nominato tende a essere meno visibile agli occhi delle persone. In questo senso, chiamare le donne che fanno un certo lavoro con un sostantivo femminile non è un semplice capriccio, ma il riconoscimento della loro esistenza: dalla camionista alla minatrice, dalla commessa alla direttrice di filiale, dalla revisora dei conti alla giudice, dalla giardiniera alla sindaca. E pazienza se ad alcuni le parole “suonano male”: ci si può abituare. Pazienza anche se molti pensano che siano solo sciocche velleità: le questioni linguistiche non sono mai velleitarie, perché attraverso la lingua esprimiamo il nostro pensiero, la nostra essenza stessa di esseri umani, ciò che siamo e ciò che vogliamo essere. La lingua non è un accessorio dell’umanità, ma il suo centro.9
Una lingua al centro dell’umanità è una lingua al centro delle relazioni, dell’emancipazione, dell’evoluzione; al centro del nostro stare su questa terra senza lasciare indietro nessuna persona. Infine, una lingua è al centro dell’umanità quando è strumento di riscatto per una narrazione giusta e onnicomprensiva del mondo. È al centro dell’umanità quando il suo mutare e adattarsi ai tempi è un atto politico e di attivismo militante. Continua Fontanella:
Chi sostiene che cambiando il linguaggio non si causano effetti nella vita concreta e reale sottovaluta l’impatto politico della lingua, si disinteressa del fatto che «ogniqualvolta nella storia italiana si sia posto il problema della lingua, si sia posto allo stesso tempo il problema di potere» e trascura quanto le parole possano fare la differenza, specie per quei soggetti che, nella società come nella rappresentazione linguistica, risultano fortemente oppressi, discriminati, stereotipati, invisibilizzati.10
È su questo terreno dinamico di cambiamento che si radica la reazione, la liberazione, la trasformazione dei paradigmi e la riconquista di sé, del proprio corpo, del proprio spazio, del proprio diritto di contare e della rieducazione a un linguaggio che spezzi la continuità discriminatoria sminuente, che crea una popolazione invisibile, screditata dei diritti e della possibilità di incidere.
Il terreno dinamico di cambiamento è quello che la filosofa femminista brasiliana Djamila Ribeiro chiama Il luogo della parola, cioè lo spazio all’interno del quale rivendicare la propria esistenza minoritaria in una società eterosessuale, maschilista, bianca, ricca e patriarcale e nel quale perpetuare tutte le pratiche di attivismo e militanza per i diritti civili di tutte le soggettività oppresse e invisibilizzate.
La classe, il genere e la razza sono elementi interconnessi che definiscono il perimetro delle disuguaglianze e la posizione dalla quale si esercita il diritto di parola. Laddove impera una logica maschilista, eterosessuale e di suprematismo bianco, il luogo della parola destinato a chi non rientra in questi parametri (anche intersecati tra loro) è marginale, quando non del tutto assente. Una minoranza – nera, latina, LGBTQ+, povera, donna, disabile – che non ha alcuna voce in capitolo nel dibattito sociale, politico, economico fatica ad affermare la propria voce anche nelle questioni – sociali, politiche ed economiche – relative alla propria stessa condizione e allo status, all’autodeterminazione dei corpi e alla rivendicazione dei propri diritti sociali, civili, economici e politici. Un processo, quello dell’omologazione al pensiero dominante, che taglia fuori il concetto stesso di diversità nella costante ricerca non della sua normalizzazione – e quindi inclusione – ma della sua omologazione, ovvero della colonizzazione egemonizzante dettata dall’individuazione ossessiva dei tratti comuni. Una strategia perfetta che fa scomparire chi porta determinati tratti di unicità e anche chi porta determinate rivendicazioni sociali, civili e politiche e che innesca un processo di assimilazione neocoloniale dal quale James Baldwin, in apertura a La prossima volta il fuoco, mette in guardia:
Non c’è alcun motivo per cui tu debba cercare di diventare uguale ai bianchi, come non c’è giustificazione plausibile alla sfacciata pretesa che siano loro ad accettarti.11
L’antropofagia teorizzata da Claude Lévi-Strauss, mentre induce a fagocitare le differenze e chi le porta in un processo di assimilazione che è di fatto uno scippo di identità e unicità, è anche un tentativo di ricondurre al silenzio – spacciandolo per uguaglianza – un discorso politico che punta a rendere manifeste le criticità, a problematizzare i processi di integrazione, ad instaurare un confronto sulla giustizia sociale e la violazione dei diritti. Dire che siamo tutti uguali è il primo passo per inabissare il razzismo interiorizzato e sistemico, smettere di vederlo e finire per perderlo di vista nel modo di parlare, di leggere le questioni storiche e politiche, di analizzare i fenomeni di sperequazione sociale e di prendere coscienza delle diverse sfumature di emarginazione e oppressione. Fino al punto di pensare razzista e non sentirsi tali.
Quando ancora si insiste su questa visione omogenea di uomini e donne, gli uomini e le donne nere rimangono impliciti e finiscono col non essere né beneficiari di politiche importanti né, rimanendo ancor di più ai margini, ideatori di queste politiche.12
[Alt Text: ritratto fotografico di Nadeesha Uyangoda, in primo piano e all’aperto. Alle sue spalle un murales viola. Fonte.]
Un principio trasversale, che si può adeguare a qualunque categoria umana e non umana sottorappresentata o niente affatto rappresentata, ma che può anche tradursi nel suo opposto. Scrive la scrittrice Nadeesha Uyangoda:
Quando mi capita di essere seduta a un panel, un dibattito o una conferenza che riguarda in qualche modo l’esperienza di essere una giovane di colore in Italia, guardo il pubblico davanti a me, guardo le persone di fianco a me, e mi chiedo cosa diavolo ci faccio lì. Tolti i casi in cui sono invitata come rappresentazione vivente dell’oggetto del discorso, nelle altre occasioni sono lì seduta perché le persone si aspettano delle risposte, come se i neri, solo in quanto tali, avessero le risposte al razzismo. Dopo secoli di discriminazione perpetrata dai bianchi ai danni delle persone di colore, la responsabilità delle risposte è di tutti: io non ho la soluzione in tasca, è un impegno che spetta alla comunità. Con questo non voglio dire che la presenza di persone di colore sia superflua nella conversazione sulla questione razziale, tutt’altro. Il loro contributo è imprescindibile ma nessuno dovrebbe sentirsi sollevato dal dare il proprio apporto. E chiamare le persone di colore a parlare solo di razzismo è, francamente, deleterio e contribuisce a far circolare l’immaginario per cui siamo in grado di partecipare al dibattito pubblico solo con le nostre personali esperienze.13
In una comunità a compartimenti stagni nella quali non esiste una osmosi linguistica capace di mescolare e interconnettere il confronto e il dibattito sulle questioni sociali, il rischio è di operare una ghettizzazione tematica nella quale i margini della comunicazione diventano limitati e addirittura tautologici. Alle persone di colore si chiede di parlare solo di razzismo, a quelle omosessuali di omofobia. Ciascuna categoria è assimilata al proprio tema di discriminazione, come se fossero loro a dover dare ragione delle origini del razzismo o dell’omofobia, a trovare da sé soluzioni i rimedi e, soprattutto, come se non fossero titolate a parlare di altro e far parte del più ampio e diffuso dibattito politico in cui si mettono in comune le proposte, si articolano e si sviluppano le soluzioni condivise su base collettiva al termine di un processo di coscientizzazione attraverso il quale le questioni sociali non appartengano solo a chi subisce una discriminazione – gli esiti del razzismo, dell’abilismo, dell’omolesbobitransfobia, della grassofobia – ma a chiunque.
Come la letteratura opera un cambiamento sociale e linguistico
Le logiche neocoloniali ed eterocisnormative applicate alla lingua sono superabili attraverso una nuova e costante educazione a un linguaggio che sia diffuso coerente alle molteplici espressioni delle soggettività e appropriato alla loro autenticazione e significazione, vale a dire al riconoscimento della loro esistenza. Tra gli strumenti che hanno il potere di operare un cambiamento perché includono nella loro pratica l’esercizio del senso critico, l’opportunità all’istruzione, l’educazione alla pluralità e una lettura politica, globale e intersezionale della realtà e delle sue dinamiche sociali c’è la letteratura.
La letteratura, infatti, è una dimensione della realtà. Ne racchiude i cambiamenti e le evoluzioni, fa da specchio alle porzioni di spazio scarsamente illuminate e si fa portatrice di istanze e, spesso, precorritrice di nuovi scenari e soluzioni. Scrive Ray Bradbury, a proposito:
I ragazzi sentivano, anche se non riuscivano a dirlo, che l’intera storia dell’umanità consisteva nel risolvere problemi, un divorare le idee della fantascienza - e poi digerirle - per creare formule di sopravvivenza. non puoi avere l’una senza l’altra: senza fantasia, niente realtà. Senza uno studio degli svantaggi, nessun miglioramento. Senza immaginazione, nessuna volontà. Nessun sogno impossibile, nessuna possibile soluzione. I ragazzi sentivano, anche se non riuscivano a dirlo, che la fantasia – e sua figlia robot: la fantascienza – non era affatto un’evasione dalla realtà. È un girare intorno alla realtà, per incantarla e far sì che si comporti bene […] I ragazzi sapevano, senza che neppure osassero sussurrarlo, che tutta la fantascienza è un tentativo di risolvere i problemi fingendo di guardare da un’altra parte.14
Si legge la letteratura non per scardinarsi dal presente, ma per problematizzarlo nell’ampio e trasversale quadro delle sue criticità. Chi legge (e chi scrive) letteratura, si pone in una posizione critica del tempo in cui vive; chiede, fa domande, avanza dubbi, demolisce immaginari, decostruisce miti, apre al dibattito sui possibili paradigmi alternativi agli schemi rigidi precostituiti e imposti dal sistema, dalla massa, dalla morale. Lungi dall’essere un passatempo, la letteratura è uno strumento non assuefatto al potere e per questa ragione la sua dinamicità, la sua fluidità attestano una posizione politica. Il suo peso opera nella società e nel linguaggio, e si fa testimone di esperimenti pionieristici sulla lingua, sui costumi, sulla rappresentazione dei corpi offrendo modelli che scavalcano i binarismi e le bidimensionalità. Nei fatti si dimostra molto più emancipata dei tempi in cui viene prodotta, sempre in anticipo sulle visioni e le prospettive, all’avanguardia nell’uso della lingua e nella capacità di inventarla, plasmarla ed espanderla.
Se allora è vero che la letteratura incarna la realtà e si incarna nella realtà, allora è altrettanto vero che la letteratura ha un ruolo in essa e rappresenta una via indiretta per agire un cambiamento sociale e linguistico. Un ruolo che non sia solamente di intrattenimento, come bene di consumo, ma una incidenza più strutturale nella costruzione di un linguaggio ampio e nella diffusione di modelli rappresentativi delle soggettività. La letteratura allarga l’immaginario e allunga lo sguardo in direzione di spazi che ancora non esistono, li anticipa, li intuisce, li consacra a un reale potenziale e possibile. Fa della lingua il luogo della narrazione e delle storie il luogo della rappresentazione e con il narrare e il rappresentare – che sono elementi intrinseci al testimoniare – svolge un ruolo, latente o manifesto, di maieutica, un’azione di ostetricia sociale nella quale portare alla luce le istanze – o semplicemente le storie –- delle persone oppresse e invisibilizzate. Può avere o ha già un ruolo attivo e militante nella battaglia per i diritti civili?
Il luogo in cui la letteratura agisce, il suo luogo della parola, è – come individuato da Laura Fontanella – la lingua scritta:
[…] per fissare un linguaggio, per renderlo più diffuso possibile, per condividerlo con molte altre persone al di fuori della propria cerchia di conoscenze, serve uno strumento più sofisticato e più duraturo della lingua parlata: occorre la lingua scritta. Le scrittrici e gli scrittori hanno oggi - e hanno sempre avuto - quindi un grande potere: quello di poter fissare non solo espressioni ma anche concetti, il potere di diffonderli ad ampio raggio, il potere di veicolare una cultura anziché un’altra.15
La constatazione di Fontanella ha una sua significazione non solamente per il valore che assume il linguaggio scritto nel legittimare, diffondere e rendere solidi i cambiamenti della lingua parlata, ma perché attribuisce alla letteratura un valore sistemico, vale a dire integrale ai cambiamenti sociali, e un ruolo attivo – e militante – nel focalizzare e risaltare quello che accade all’interno e all’esterno della società, inclusa la costruzione di un nuovo linguaggio. Nel prendere parte al radicamento di forme espressive nuove e alla diffusione di nuovi modelli identitari, la letteratura svolge un ruolo dinamico e partecipe nel dibattito sociale e – insieme alla traduzione – si autentica come atto politico all’interno del quale sperimentare e ratificare forme inedite di scrittura ed esplorare e narrare – operando un’azione di de-invisibilizzazione – nuove porzioni di umanità o porzioni di umanità rimaste nel sottosuolo.
La letteratura diventa palestra della lingua e fucina nella quale si modella il linguaggio, lo si struttura con morfologia e sintassi nuove, si arricchiscono le prospettive metaforiche, retoriche e lessicali, si ampliano gli spazi per raccontare con appropriatezza i microcosmi umani, si sperimentano formule espressive elastiche e flessibili che non siano escludenti, si opera un lavoro peculiare sull’utilizzo dei pronomi personali fino ad arrivare, per esempio a inventare neo-pronomi che permettano una maggiore rappresentazione per le identità non binarie, trans e queer. S. Qiouyi Lu, scrittorɘ, editor e traduttorɘ, parlando proprio dei neo-pronomi, spiega che
[…] da un punto di vista linguistico, c’è un’ordinaria separazione tra parole di classi aperte e parole di classi chiuse. I nomi sono classi aperte, puoi attribuirli facilmente. I pronomi, invece, sono stati tradizionalmente visti come classi chiuse. Tuttavia, i neo-pronomi provano che sia sbagliato perché ne puoi inventare di nuovi e le persone continuano a trovare i modi di declinarli.16
È abbastanza facile immaginare come in una struttura binaria come la lingua italiana, in cui all’assenza di un termine neutro si sopperisce con l’utilizzo del maschile, lavorare sull’accordo di genere tanto in scrittura quanto in traduzione è una decisione che è già di per sé una presa di posizione politica. Da un punto di vista linguistico espressivo, andando oltre la scelta dell’asterisco o della schwa, per conquistare l’ampiezza di rappresentatività che la scelta dell’accordo del genere o dell’attribuzione di genere limita, esiste una terza via: non utilizzare alcun genere.
La letteratura, infatti, offre un contesto nel quale sia anche possibile mantenere uno spazio libero – come una sedia vuota – dentro il quale ogni soggettività possa ritrovarsi e identificarsi autonominandosi e riconoscendosi nelle persone che si muovono dentro le storie. Sara Taylor, per esempio, costruisce il suo romanzo Il contrario della nostalgia intorno alla figura di Alex, che racconta la sua formazione e il viaggio che compie insieme alla madre. Nella determinazione di rimettere insieme i cocci di una vita, Alex evita di attribuirsi qualsiasi pronome e decide di vivere in una deliberata e indeterminata androginia non binaria.
Che fossi insignificante io o apatici gli altri, nessuno sembrò rilevarmi nel suo radar, né gli studenti né gli insegnanti. Nessuno se la prese con me perché ero una faccia nuova, nessuno mi diede il tormento perché indossavo vestiti asessuati e informi, nessuno cercò di costringermi a confessare se fossi maschio o femmina. Ne deduco che fossi una di quelle persone che passano inosservate, e che la gente mi assegnasse il genere che gli sembrava più plausibile, e ne fui riconoscente, nonostante avessi il sospetto che questo fosse l’ultimo anno in cui avrei potuto farla franca, e che alla fine la mia prudente androginica per qualcuno sarebbe diventata un problema, e a quel punto avrei dovuto scegliere da che parte schierarmi nella guerra, decidere una buona volta con chi allearmi, se mi identificavo più con mia madre o con mio padre. Perché, per come la vedevo io, mi stavano chiedendo esattamente quello: Alex, da grande vuoi diventare come tua mamma o come tuo papà? E io ancora aspettavo di capire perché non potevo essere entrambe le cose, perché dovevano per forza escludersi a vicenda. […] non avevo bisogno di stabilire un’alleanza di genere per sapere che la mia attrazione era rivolta a tutti.17
All’inizio della storia ci si chiede quale sia il genere della voce narrante, ma dopo un po’ ci si accorge che l’informazione non ha più importanza perché è la stessa autodeterminazione di Alex a dissolverla. Rifiutando una identità di genere eteronormativa, Alex rivendica la propria libertà e il diritto ad autodeterminarsi a prescindere da quello che la società performativa richiede come tributo alla normalità.
Annie era curiosa di sapere cosa fossi. «Sono un cazzo di essere umano. E già che parliamo di cazzi, non ti riguarda cos’ho nelle mutande». Ci avevo ficcato dentro un po’ di volgarità gratuita nella speranza che restasse scandalizzata e la piantasse di fare domande, ma Annie era implacabile. «Un sesso biologico devi averlo per forza. Ce l’hanno tutti. Fa parte dell’essere un “c…di essere umano”, come dici tu».
«Può anche darsi che ce l’ho, un sesso biologico, ma qual è e quale non è non sono affari di nessuno, a parte me!» Come sempre, avevo evitato accuratamente di farmi vedere mentre mi vestivo, mi spogliavo o svolgevo altre faccende personali. «Il genere invece non ce l’ho, e non ho altro da dire».
«Tutti quanti hanno un genere», disse.
«Be’, Alex non ce l’ha», intervenne Ma, la voce tagliente. «E non c’è niente di male. Fine della storia»”.18
[Alt Text: ritratto fotografico di una giovane Jeanette Winterson. Fonte.]
Una operazione analoga la compie la scrittrice Jeanette Winterson in Scritto sul corpo. Nel romanzo, che non ha una trama vera e propria ma si compone di un lungo e articolato flusso di coscienza, Winterson lascia nell’indeterminatezza la voce narrante che, a differenza delle altre figure del romanzo, non è caratterizzata da una specifica identità di genere. Per alcuni versi, la figura protagonista e Io narrante della storia potrebbe essere una identità cross-gender. Maschile e femminile non attecchiscono profondamente, ma sono entrambe valide nel modo di vivere un amore acceso, che diventa l’occasione per meditare sulla consistenza e la forza escatologica delle relazioni passate. Creare parallelismi, sentirsi morire di amore come fosse sempre la prima volta che ci si innamora è un fenomeno che accade a chiunque. La trasversalità di questo accadimento – e del sentimento che lo alimenta – lo rende sessualmente neutro, al massimo sessualmente ambiguo e allora non ha importanza definire uomo o donna chi lo vive, come non ha senso insistere sul cliché che un amore appassionato, struggente e a tratti disperato, un amore totalizzante e spossante sia una peculiarità femminile.
Sono i cliché il problema. Perché un’emozione richiede un’espressione precisa. Se ciò che provo non è preciso, dovrò comunque chiamarlo amore? È così terrificante, l’amore, che tutto quello che posso fare è ficcarlo dentro un cesto pieno zeppo di soffici giocattoli rosa e spedirlo al mio indirizzo con un biglietto di “Felicitazioni per il fidanzamento”. Ma non è il fidanzamento, è la confusione, il punto. Faccio di tutto per distogliere lo sguardo, perché l’amore non si accorga di me. Voglio la versione annacquata, il linguaggio sdolcinato, i gesti insignificanti. La poltrona sfondata dei cliché. Va bene, milioni di culi si sono seduti qui prima del mio. Le molle hanno ceduto, il tessuto ha un odore familiare. Non devo aver paura, ascolta, l’hanno fatto anche i nonni, lui con il colletto inamidato e il cravattino, lei col vestito di mussola bianca che tirava un po’ sui fianchi. L’hanno fatto loro, l’hanno fatto i miei genitori, adesso lo farò anch’io, no?, le braccia aperte, non per abbracciarti, ma per tenermi in equilibrio mentre camminando nel sonno mi dirigo verso la poltrona. Come saremo felici. Come saranno tutti felici. E vissero tutti felici e contenti.
Ha importanza chi compie questo ragionamento, gli conferisce più valore o più autenticità se ad averlo fatto sia una donna o un uomo; dà un valore diverso a una donna o a un uomo avere pensieri del genere; l’amore che si comunica ha più o meno valore a seconda del genere? Winterson col suo romanzo smantella il binarismo, lo sfarina davanti all’esigenza di far prevalere altro dell’umana consistenza: l’interiorità, i moti dell’anima, il piacere del corpo, le trappole delle relazioni, l’emotività, la psiche, la resistenza. Tacere un elemento che nella nostra cultura binaria è dominante, spalanca le porte ad una forma di conoscenza più profonda, mitocondriale e intima e certamente a una forma di conoscenza e di relazione più autentica e viscerale poiché si aggancia non a quello che vede, bensì a quello che sente.
Chi invece compie un’opera di trasparenza delle identità è Pajtim Statovci nel suo romanzo Le transizioni. Bujar, come molte e molti connazionali, scappa dall’Albania uscita impoverita e allo sbando dopo la dittatura di Enver Hoxha. Va alla ricerca della propria libertà, fugge da una condizione sociale e familiare oppressiva, da un paese ottuso e arretrato, una terra polverosa di codici d’onore e storia epica all’ombra del mito di Skanderbeg, che non accetta le persone che scartano dal binarismo. Fuori dall’Albania può essere ciò che vuole, può vestirsi come vuole, può cercare, sperimentare i confini del suo corpo ammesso che il suo corpo abbia dei confini. In giro per l’Europa può manifestare la sua sessualità camaleontica. È uomo e donna, turc*, spagnol*, italian*.
Sono un ragazzo di ventidue anni, che a volte si comporta come immagina facciano gli uomini, potrei chiamarmi Anton o Adam o Gideon, il nome che di volta in volta mi suona meglio, e sono francese o tedesco o greco, ma albanese mai, e cammino esattamente come mi ha insegnato mio padre, a passi larghi e cadenzati, so bene come tenere alti petto e spalle, ma l'ascella serrata a garantire che nessuno invada il mio territorio. E in momenti come questi la donna dentro di me arde sul rogo. […] A volte sono una ragazza di ventidue anni, che si comporta come le pare. Amina o Anastasia, il nome non è importante, mi muovo nel modo in cui ho visto muoversi mia madre, i miei tacchi sfiorano appena il suolo e non contraddico mai gli uomini. Mi trucco il viso, mi inciprio le guance, mi disegno il contorno degli occhi passando attentamente matita, ombretto e mascara, metto lenti a contatto blu per sentirmi rinascere, e in quel momento l’uomo dentro di me non brucia, ma mi accompagna in giro per la città.19
Bujar è un modello gender fluid che vive e rivive una transizione continua, entrando e uscendo dai generi; un dentro e fuori dai luoghi, dalle identità, dai sessi, dalla storia alla ricerca di una autenticità che nessuno riconosce:
[…] non sarebbe meglio se potessimo vivere tutti come se i generi non esistessero affatto. Non sarebbe meglio concentrarsi sull'essere unici invece che sull'essere uomo o donna?20
La sua figura è un processo attivo di esplorazione e di ricerca di un sé che abbia un volto o molti volti, ma è anche la ricerca di un posizionamento che non sia definitivo, ma legittimato dal riconoscimento universale in quanto persona e non come soggettività aderente al binarismo.
Perché non puoi essere una donna o un uomo, mi chiedo mentre la ascolto, perché non ci si può presentare nel modo che si desidera? Se voglio usare un nome da donna, o un nome straniero, mi basta dirlo e nessuno mi chiede di dimostrarlo.21
La sua è una ibridità dolorosa, comporta lo sguardo interrogativo e giudicante, lo stigma che pregiudica le relazioni, ma è anche una rivendicazione di libertà. Si può essere ciò che si vuole, vestire la pelle che più è confortevole. Si può scrivere e riscrivere incessantemente la propria storia, darsi nuovi nomi, luoghi e desideri.
Nessuno è tenuto a rimanere la persona che è nata, possiamo ricomporci come un nuovo puzzle.22
Anche in questo caso, Statovci ci racconta la storia di una perpendicolare che spezza l’ovvietà del luogo comune e lo fa nella maniera più spettacolare e plateale: straccia ogni forma di etichetta e ci presenta una persona prismatica che si sgancia con prepotenza dalla dicotomia maschio/femmina per racchiuderle tutte insieme in un’unica soluzione e si proietta come modello di riferimento in cui le soggettività non binarie, queer, transessuali, drag possano riconoscersi.
Essere drag è un’altra cosa, è un’arte, è una delle più difficili forme di espressione, è dedizione, un gioco di ruolo che richiede intelligenza, un occhio estetico e il coraggio di buttarsi. È molto di più del fatto di nascere uomo e di mostrarsi su un palco a recitare vestito da donna. Il drag è la regalità del genere, è essere al di sopra del genere interpretando tutti i generi contemporaneamente.23
Pochi esempi che dimostrano come la letteratura contribuisca, attraverso il modellamento di una lingua attuale e il più possibile diffusa, alla risignificazione del corpo e del linguaggio per raccontarlo, ad attribuirgli un valore che non è soltanto – o non più – sessuale e sessualizzante, ma un valore che è storico, politico e narrativo insieme. Un corpo che si fa esso stesso linguaggio, forma espressiva di autenticazione decolonizzata dagli stereotipi di ogni forma; un corpo che esiste come spazio liberato, anzi, in questo processo di incarnazione e identificazione, il corpo si trasforma – come scrive Chiara Muzzicato – proprio in una metafora dello spazio, così da sradicarlo dalla staticità e dall’inerzia e risignificarlo in una dimensione attiva e militante, luogo dell’azione e della parola, dell’ideologia e della rivendicazione politica. Corpo e spazio condividono una medesima dimensione:
[…] realtà continuamente ospitante e ospitata, contemporaneamente soggetto e oggetto di azione, pensiero e movimento Se lo spazio non è più semplice fondale, background statico su cui si muovono le figure della Storia, ne consegue che non è più neanche innocente, ma “intriso di politica e ideologia.
Il corpo e lo spazio si identificano in un legame biunivoco indagato dal linguaggio e dalla scrittura per cui “scrivere il corpo attraverso lo spazio e lo spazio attraverso il corpo si costituiscono come azioni di politiche di resistenza e riscrittura, costruzione dell’identità e, a volte, di de-costruzione di essa”. Corpo e spazio diventano i luoghi della letteratura e fanno letteratura che, per suo paradigma, è dinamica e fa di tutto ciò che implementa – vale a dire: tutto ciò che racconta – il cuore di un’azione militante che Muzzicato sintetizza come “campo di battaglia e luogo privilegiato d’indagine, una superficie visibile d’iscrizione di significati”.
Romina Arena è educatrice alla lettura consapevole e alla scrittura creativa presso scuole, carceri, associazioni, università. Tiene corsi di formazione sull’animazione di laboratori di lettura e sull’utilizzo esperienziale e pedagogico della lettura e della letteratura come strumenti per la conoscenza di sé, il superamento dei conflitti di relazione, l’analisi politica, economica, sociale e storica della realtà e dei fenomeni sociologici e culturali. Organizza e tiene corsi di formazione e aggiornamento per insegnanti sull’utilizzo della letteratura, della lettura e della scrittura come strumenti didattici multidisciplinari ed interdisciplinari. Organizza e tiene cicli di lettura consapevole su tematiche sociali, spirituali, storiche, politiche e di attualità. Dal 2017 tiene laboratori di lettura consapevole presso la Casa Circondariale di Reggio Calabria e progetti di lettura presso altre carceri della Calabria. Ha scritto Leggete e moltiplicatevi. Manuale di lettura consapevole (Rubbettino, 2020). Scrive di libri e letteratura sul suo blog, La biblioteca di Montag, e divulga microlezioni sulla lettura consapevole sul suo canale Youtube.
Grazie di nuovo a Romina per questo numero di Ghinea. Ci leggiamo a fine marzo, un abbraccio!
Francesca, Gloria e Marzia
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Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé, Newton Compton, Roma, 2013 (traduzione di Maura del Serra), pp. 39-40.
Toni Morrison, L’origine degli altri, Frassinelli, Milano, 2017 (traduzione di Silvia Fornasiero), p. 8.
Lina Meruane, Contro i figli, La Nuova Frontiera, Roma, 2019 (traduzione di Francesca Bianchi), pp. 16-17.
Virginia Woolf, Due donne, in Voltando pagina. Saggi 1904-1941, Il Saggiatore, Milano, 2011(traduzione e curatela di Liliana Rampello), pp. 244-245.
Chinelo Okparanta, Wahala!, in La felicità è come l’acqua, Racconti edizioni, Roma, 2019, per la traduzione di Federica Gavioli, pp. 37-39.
Aminatta Forna, Camminare, in Freeman’s. Potere, Edizioni Black Coffee, 2019 (traduzione di Francesca Pellas), p. 55.
Dorothy Allison, Due o tre cose che so di sicuro, Minimum fax, Roma, 2019, traduzione di Sara Bilotti, p. 40.
Laura Fontanella, Corpo del testo. Elementi di traduzione transfemminista queer, asterisco edizioni, Sesto San Giovanni, 2019, p. 37.
Vera Gheno, Femminili singolari. Il femminismo è nelle parole, effequ, Firenze, 2020, p.15.
Laura Fontanella, Corpo del testo. Elementi di traduzione transfemminista queer, p. 35.
James Baldwin, La prossima volta il fuoco, Fandango, Roma (traduzione di Attilio Veraldi), 2020, p. 16.
Djamila Ribeiro, Il luogo della parola, Capovolte, Alessandria, (traduzione di Monica Paes), 2020, p. 41.
Nadeesha Uyangoda, L’unica persona nera nella stanza, 66thand2nd, Milano, 2021, p. 93.
Ray Bradbury, Lo Zen nell’arte di scrivere, Piano B, Prato, 2018, per la traduzione di Antonio Tozzi, pp. 99-100.
Laura Fontanella, Corpo del testo. Elementi di traduzione transfemminista queer, p. 44.
S. Qiouyi Lu, Introducing Readers to Neo-Pronouns, Talk sul podcast di Tor Books in collaborazione con Literary Hub, Voyage Into Genre!
Sara Taylor, Il contrario della nostalgia, minimum fax, Roma, (traduzione di Assunta Martinese), 2018, pp. 50-51.
Taylor, Il contrario della nostalgia, p. 202.
Pajtim Statovci, Le transizioni, Sellerio, Palermo (traduzione di Nicola Rainò), 2020, pp. 11-12.
Statovci, Le transizioni, p. 136.
Statovci, Le transizioni, p. 211.
Statovci, Le transizioni, p. 13.
Statovci, Le transizioni, p. 135.