La ghinea di ottobre
Benvenutu a Ghinea, la newsletter che contiene moltitudini e cerca un sano equilibrio tra la presammale e la presabbene senza cercare di venderti degli integratori. Questo mese ti proponiamo un’artista raccontata da Simona Iamonte e un film analizzato da Cristina Resa, e mangiamo sano e di gusto grazie al ritorno sulle scene del progetto Limoncello Queer, che riparte proprio da qui regalandoci la ricetta in apertura. Buona lettura!
In questo momento storico di grande tensione e orrore, ci torna difficile trovare le parole per restituire lucidamente gli avvenimenti e cosa significhino. Per fortuna possiamo sempre fare affidamento sulle compagne con cui condividiamo il pensiero e la lotta. Anzi, fare affidamento sul pensiero e i sentimenti di unə compagnə o più ci aiuta a riflettere sui nostri sentimenti e pensieri, nel vero spirito di rete e comunicazione aperta che è Ghinea. Per questo abbiamo chiesto alla nostra amica e sorella Nina Ferrante (che avevamo intervistato in questo speciale) di poter riportare qui in apertura quanto ha condiviso su altre piattaforme social per chi la conosce. Abbiamo pensato che fosse importante che voi tuttx poteste leggerlo perché probabilmente molte persone condividono questo stato emotivo, così appassionatamente e lucidamente esposto. Sperando che le parole di Nina che abbiamo fatto nostre possano unirci ancora di più.
Ci hanno rubato tutto. Tutto. E ci prendono pure per il culo.
In questi giorni ho provato molto fastidio a leggere molti commenti che ci chiedevano di constatare che un governo di destra era riuscito a portare una donna al Governo. Altre battute infami sul tetto di cristallo. Il Presidente. Non ho sentito l'esigenza di dire, perché altre si sono prese la briga di dire meglio di me. E se adesso lo faccio è perché mi è venuto un brivido e un pianto di rabbia ascoltando questo stralcio. Chiunque abbia detto, pensato o scritto "che comunque la Meloni è una donna", ha in odio le donne e misconosce la storia dei femminismi. Chi diceva differenza non ambiva a un modo diverso di prendere il potere, di rovesciarlo, ma di destituirlo. Chi ha costruito i movimenti degli ultimi anni chiaramente non ambiva a prendere da sola la strada dei tetti, ma a prendere con tutte le strade, i luoghi di lavoro, le case, i servizi, le lotte territoriali, le reti solidali. Insomma, ci odiate proprio se ci mettete davanti questa fotografia e in qualche modo ci rendete conto di quello che abbiamo fatto noi, o quello che la sinistra non ha fatto. Avete confuso anni di scioperi dentro un movimento transnazionale di donne che ha lottato ottenendo l'aborto, buttando giù le statue, ridando senso alla pratica dello sciopero, per una pagina che vende le magliette che piacciono alle femmine. Questo rosario di nomi senza cognome, senza storie, senza lotte è esattamente quello che non possiamo legittimare e perdonare. Non dobbiamo limitarci a rivendicare queste storie, dobbiamo vendicare i nomi delle donne femministe, partigiane, comuniste che hanno lottato contro lo stigma, il patriarcato e il fascismo. E non ci sarà neanche bisogno di ribadire la differenza tra donne, che non siamo tutte uguali, perché sarà la nostra relazione con il potere e l'autorità a marcare la differenza. Apri tutto, smarmella, sembra il motto. Nel discorso in cui chiede la fiducia Meloni smarmella tutte le femmine, e si rivendica non solo una distanza dal fascismo storico, ma anche di far parte della destra democratica che ha lavorato per una difficile pacificazione. Il problema vero è che la pacificazione con il fascismo e il colonialismo è stata responsabilità della sinistra istituzionale, ma anche irresponsabilità nostra rispetto al presente del colonialismo, o di aver concesso riparo nelle università a quelli che oggi sono ministri di un governo fascista e fino a ieri derubricati a casi umani nell'università. Smarmella tutto e confondi il Risorgimento con la Resistenza, ricostruisci un senso di affezione al tricolore, alla patria, e dopo non sarà più difficile segnare chi sta dentro e chi sta fuori, chi merita e chi no, chi si riproduce a forza e chi non dovrà farlo mai. Mentre si riscrive la storia come femministe dobbiamo proprio stare sui margini dove verrà riscritta la relazione che vogliamo avere con la storia della repubblica e il futuro della nazione. Che sentimento ci fa a noi sto tricolore. Abbiamo nomi, cognomi, storie, lotte e futuri. Futuri, soprattutto quelli. Se il vostro soggetto politico è il cadavere dell'occidente in putrefazione, se non trovate senso in questa congiuntura, se non sentite il desiderio, se siete preoccupati per le statue, e le opere d'arte nei musei, per favore non veniteci a chiedere conto di quello che sta succedendo. L'assalto al cielo non passava per il tetto di cristallo, ‘ste cazzate da femminismo liberale per favore non mettetecele davanti come un boccone amaro per punirci di essere rimaste a lottare mentre voi stavate a fare il lutto del soggetto d'iniziativa politica.
[Alt Text: intestazione che recita LIMONCELLO QUEER e GHINEA, una bottiglia di limoncello disegnata con dei limoni e qualche foglia sparsa.]
Nessuna pretesa di maternità da parte nostra per una ricetta così cucinata da stare anche nella sezione cibo del New York Times. Al massimo abbiamo perfezionato il numero di volte in cui mescolare tutto.
Per due persone:
1 latta di polpa di pomodoro (più comoda dei pelati ma vanno bene anche i pelati)
1 latta di ceci
140 grammi di pasta corta (noi abbiamo usato i “gobbetti” perché qui in Germania si trovano facilmente e perché odiamo la Juventus, ma qualsiasi tipo di pasta corta va bene. Con gli spaghetti viene un filo scomodo da mangiare ma si può fare lo stesso)
Concentrato di pomodoro in abbondanza
1 cipolla non tanto grande
2 spicchi d’aglio
Erbe aromatiche (prezzemolo, basilico, aneto, alloro, eccetera)
Dado da brodo
Sale e pepe
Per prima cosa trita per bene la cipolla e i due spicchi d’aglio, e dopo aver lasciato scaldare per bene un cucchiaio abbondante di olio in una casseruola gettali nella mischia insieme a un terzo dell’erba aromatica prescelta. Sale, pepe, allunga con un po’ d’acqua per evitare che tutto si attacchi al fondo (o sfuma con del vino, meglio se rosso, se ne hai), fai cuocere per un paio di minuti mescolando sempre per evitare che si attacchi tutto al fondo.
Come le cipolle si sono un po’ ammorbidite, dopo 5-6 minuti più o meno, spremi il concentrato di pomodoro - vai un po’ a occhio, diciamo due/tre cucchiai belli abbondanti, rimesta con vigore ancora una volta, correggi di sale/pepe se serve, apri la polpa di pomodoro e aggiungila agli ingredienti che stanno sul fuoco, e poi? Si esatto, mescola per bene, abbassa il fuoco e lascia che il tutto vada a sobbollire con calma.
Nel frattempo sciacqua per bene i ceci, gettali in pentola, mescola, riempi due/tre volte la fu latta di pomodori con dell’acqua e versa il tutto nella pentola. Più acqua = brodo più liquido, ma puoi correggere il tutto in corsa.
Mescola? Mescola.
[Alt Text: disegno di un tubetto grigio e rosato di concentrato di pomodoro.]
Ora che a parte la pasta tutto è in pentola a cuocere, alza un po’ la fiamma, getta il dado nella mischia (se vuoi lanciarti nella produzione di dadi da brodo questa è un’ottima ricetta) aspetta che il tutto inizi a bollire e poi gettate la pasta. 140 grammi di pasta con questo tanto di pomodoro e questo tanto di ceci creano una bella proporzione fra le parti ma ovviamente mettici più pasta meno pasta qualsiasi pasta vedi tu cosa preferisci, lascia cuocere la pasta restando un po’ indietro con la cottura (la confezione dice dieci minuti? tu spegni a otto che tanto la pasta continua a cuocere poi nel piatto) senza dimenticarti mai di dare un’occasionale rimestata per evitare che la pasta attacchi sul fondo della pentola creando una bella seccatura da pulire a pasto finito.
Spegni, versa nei piatti, aggiungi il resto delle erbe aromatiche, regola di sale pepe e peperoncino, e voilà, è fatta.
Mentre procedi con la cottura il consiglio per gli ascolti di questo numero è il podcast di BBC The Missing Crypto Queen. Se sei appassionat* di crypto (ma anche no per favore), true crime e giornalismo investigativo, la storia della dottoressa Ruja Ignatova e di OneCoin non possono che fare al caso tuo. Noi non potevamo smettere di parlarne anche mentre realizzavamo questa ricetta.
Secondo Francesca la storia è particolarmente interessante nel modo in cui svela la disperazione che motiva certe persone a credere in truffe fatte e finite. Gli autori ne discutono senza paternalismo, ma cercando di capire fino a che estensione può arrivare l’avidità umana e chi è che davvero ne paga le conseguenze. Consigliato, anche se come tutti i podcast di questo genere l’effetto spettacolo - e con esso qualche eccesso di entusiasmo di troppo - è dietro l’angolo.
Marta concorda con Francesca (non per niente sono amiche) e sottolinea il tono calmo, senza paternalismi e con rari picchi di sensazionalismo con cui è stato impostato il podcast, perfetto per una storia intricata che scava nelle insicurezze altrui e nella fuffa.
[Alt Text: l'illustrazione di Limoncello Queer con cui Marta e Francesca salutano, "That's All Folks!"]
Viola Di Grado ha tradotto i diari di Patricia Highsmith.
Una lunga intervista alla ricercatrice femminista Carla Panico su Giorgia Meloni, confini, questione meridionale, rivolte globali.
Compagna Angela Lansbury? Sì.
Un estratto da Per una rivoluzione degli affetti. Pensiero monogamo e terrore poliamoroso di Brigitte Vassallo, da poco uscito per effequ.
Un'intervista a Nicoletta Vallorani.
Mentre le proteste in Iran continuano, sembra che le ambasciate dei paesi europei nella capitale Teheran abbiano ufficiosamente sospeso i permessi necessari all* cittadin* iranian* per viaggiare in Europa.
Qui puoi leggere un’intervista a un’anonima donna iraniana, che parla della propria vita quotidiana, commenta la sollevazione a cui sta prendendo parte e analizza possibili scenari futuri per la condizione femminile nel paese.
[Alt Text: fotografia scattata il 24 settembre di fronte agli uffici ONU di Arbil, capitale del Kurdistan iracheno, durante una manifestazione di protesta per la morte di Mahsa Amini. Si vedono soltanto quattro mani femminili che sollevano altrettante fotografie della ragazza. Fonte.]
Krystyna Senchenko, attivista LGBTQAI+ e rappresentante della ong Ucraina Insight, è stata intervistata da Radio Onda Rossa “per una restituzione [delle] esperienze pratiche nel quadro dell’attuale scenario di guerra”
FATTO DA VOI
La nostra amica Giorgia Tolfo ha affrontato il tema del tecnofemminismo in un podcast pieno di spunti, domande, risposte, e ospitx. Si ascolta qui.
Su Jacobin, Enrico Gullo racconta l’origine e le implicazioni della riforma del diritto di famiglia da poco ratificata a Cuba. Tre anni fa, Enrico commentava per noi una raccolta di scritti inediti di Mario Mieli.
Giusi Palomba è stata intervistata da Tabula Rasa, trasmissione di Radio Onda Rossa, su Il conflitto non è abuso di Sarah Schulman. Puoi ascoltarla qui.
UN FILM
Celia: al confine della mostruosità infantile
di Cristina Resa
[Alt Text: foto dal set di Celia (Ann Turner, 1989). Nel bosco, Rebecca Smart nel ruolo di Celia tiene in mano una maschera giapponese appartenuta alla nonna. Ha nove anni, delle lunghe trecce bionde, una camicia a righe bianche e verdi e guarda in camera. Fonte.]
Le maschere hanno “poteri segreti”. Ne è convinta Celia Carmichael, la piccola protagonista del film del 1989 che porta il suo nome, opera prima della regista australiana Ann Turner. Celia, distribuito all’epoca negli Stati Uniti con il titolo fuorviante di Celia: Child of Terror e in Italia, solo in vhs, con l’altrettanto inadeguato Un brutto sogno, è un piccolo film che negli ultimi anni, anche grazie all’emergere di una nuova generazione di cineaste, in particolare nell'ambito circoscritto del cinema di genere, è stato al centro di una sorta di riscoperta critica e celebrato come uno dei più interessanti horror australiani. Nel 2014, per esempio, ha aperto lo Stranger With My Face Film Festival di Hobart in Tasmania, che mira a puntare l'attenzione su talenti emergenti e registe che si occupano di cinema di genere, mentre nel 2017 è stato scelto per inaugurare la retrospettiva sulle registe pioniere del Melbourne International Film Festival curata dalla critica Alexandra Heller-Nicholas.
Celia, interpretata da una stupefacente Rebecca Smart, è una bambina di nove anni che vive con i genitori Pat (Mary-Anne Fahey) e Ray (Nicholas Eadie) a Box Hill, un sobborgo di Melbourne nell’Australia del 1957. La bambina ha appena perso la nonna (Margaret Ricketts). L’ha trovata morta nella piccola stanza in cui la donna custodiva tutte le cose a lei più care: libri di poesie e volumi sul marxismo, fotografie, piccoli oggetti, ricordi di una vita intensa, trascorsa tra impegno politico e attivismo. Tra questi, una maschera Onna-men, usata nel teatro Noh giapponese per rappresentare i personaggi femminili, appesa proprio il sopra il suo letto.
Per Celia, che non ne conosce il contesto di provenienza, quella maschera a cui attribuisce “poteri segreti” rappresenta un legame concreto con un donna che non solo amava, ma che fino ad allora era stata il suo tramite con la società adulta. Attraverso l’immaginazione, da oggetto simbolico, la trasforma in uno strumento rituale centrale del suo personale “mondo magico” costruito a partire da elementi a lei familiari e comprensibili. Le maschere, d’altronde, celano identità e allo stesso tempo ne rivelano altre, mettono in relazione il passato con il presente e il mondo extraumano con quello umano. Soprattutto, sostiene Judith E. Filitz, che ha curato un volume monografico sull’argomento, se usate in contesto funerario e poste sopra i volti delle persone defunte, ne attestano sia la presenza che l’assenza nello stesso momento. Le maschere, in un certo senso, hanno a che fare con l’abiezione teorizzata da Julia Kristeva, cioè ciò che non rispetta i limiti, le regole, che turba l’ordine.
Scrive Barbara Creed in Kristeva, la femminilità, l'abiezione:
Kristeva definisce “abiezione” ciò che non «rispetta i limiti, i posti, le regole», ciò che «turba un’identità, un sistema, un ordine. L’intermedio, l’ambiguo, il misto». [...] il concetto di limite è centrale per la costruzione del mostruoso nel film horror; ciò che valica il “limite” o minaccia di attraversarlo è abietto.
[Alt Text: frame da Celia. Nella cava, due bambini e due bambine celebrano un rituale intorno al fuoco. Tra loro, Celia indossa una maschera giapponese e tiene in mano un martello e uno spillone per un rito vudù. Uno dei fratelli Tanner tiene in braccio la coniglia Murgatroyd.]
Forse è per questo che le maschere sembrano vivere negli spazi liminali. Ed è proprio in un luogo non luogo, una zona di confine, come la cava in cui ə bambinə del paese si ritrovano per giocare, che Celia dichiara il “potere segreto” che ha attribuito alla maschera giapponese. Proprio qui, ispirata dalle fiabe e dai film che il padre la porta a vedere durante i matinée, celebra rituali vudù ed evoca gli spiriti per vendicarsi di quel mondo adulto che, oltre a non darle risposte adeguate per superare il dolore della perdita, tenta, per ragioni incomprensibili a una bambina di nove anni, di strapparle tutti gli affetti che le restano: Alice Tanner (Victoria Longley), la vicina di casa femminista e marxista tanto simile alla nonna, e l’amata coniglia domestica Murgatroyd, considerato dal governo un animale invasivo e al centro di un programma di sterminio.
Celia, come spesso si fa durante l’infanzia, cerca di dare un senso alle cose usando le storie e riducendo tutto all’essenziale: quelle che ascolta a scuola, legge sui libri e guarda al cinema. Non si tratta della suggestione di una bambina impressionabile, ma dell’inadeguatezza del mondo adulto, con le sue ipocrisie e la rigida struttura gerarchica e patriarcale, di relazionarsi con l'infanzia, e in particolare con una bambina volitiva e indipendente. E allora le appare plausibile che la colpa di tutto sia degli Hobyah, creature mostruose del folklore protagoniste di una fiaba per bambinə molto di moda in quegli anni: sono stati loro a rapire la nonna o ora stanno tornando per portarle via Murgatroyd.
Quella di Celia è dunque un racconto di formazione, che guarda alla tradizione delle avventure per ragazzə come Stand by Me (1986) di Rob Reiner, per certi versi anche molto realistico perché, nonostante non ci sia nulla di autobiografico nella vicenda, Turner attinge ai suoi ricordi d’infanzia nel ricostruire il contesto. Tuttavia, è anche una storia di una bambina che per elaborare il dolore della perdita, di fronte all’incapacità delle persone adulte di darle risposte, si ritira sempre più nella fantasia, un po’ come succedeva a Dorothy Gale di Il mago di Oz. Perché il padre Ray ha bruciato tutti i libri della nonna? Perché non può andare a giocare a casa Tanner? Perché lo zio John Burke (William Zappa), agente di polizia locale, vuole portarle via Murgatroyd? “Lo capirai quando sarai grande”, le lasciano intendere più volte i genitori. Il mostruoso, l’abietto, spesso si nascondono nello spazio in cui trauma, isolamento e la repressione si incontrano.
[Alt Text: frame da Celia. Ray e Pat Carmichael stanno in piedi accanto a un rogo di libri, testi di teoria marxista e femminista e poesia che appartenevano alla nonna di Celia. Ray guarda il rogo mentre Pat guarda l’uomo, tenendogli un braccio e guardandolo con preoccupazione.]
Scrive Robin Wood, nel discutere la formula base dei film horror nel suo Hollywood from Vietnam to Reagan… and Beyond:
[...] la normalità è minacciata dal Mostro. Uso qui “normalità” in senso strettamente non valutativo per indicare semplicemente “conformità alle norme sociali dominanti”. [...] Anche se così semplice, la formula prevede tre variabili: la normalità, il Mostro e, soprattutto, il rapporto tra i due. La definizione di normalità nei film horror è in generale noiosamente costante: la coppia monogama eterosessuale, la famiglia e le istituzioni sociali (polizia, chiesa, forze armate) che li sostengono e li difendono. Il Mostro è, ovviamente, molto più proteiforme, e cambia di periodo in periodo man mano che le paure fondamentali della società si vestono con abiti alla moda o più accessibili, nello stesso modo in cui i sogni utilizzano materiale dalla memoria recente per esprimere conflitti o desideri che possono risalire ai primi tempi dell’infanzia.
Wood, nel saggio, vede nel contesto familiare l'ambiente principale per lo sviluppo di storie dell’orrore che sono incentrate sul trauma e la sua elaborazione. Vale per i film americani degli anni ‘60 e ‘70, quelli discussi nel saggio, ma in realtà si adatta bene anche nel contesto australiano del dopoguerra che fa da sfondo alla vicenda di Celia. Il film di Ann Turner, però, adopera questa formula narrativa in modo critico, ribaltato, decostruendola, sfumando i contorni del mostruoso. Nel farlo, li spoglia di moralismi, per restituire, appunto, la complessità sociale, politica e familiare, tenendo la macchina da presa all’altezza della sua giovane protagonista.
Celia, dunque, all’inizio usa gli Hobyah per dare forma all’idea astratta della morte, ma man mano che la narrazione prosegue queste creature spaventose finiscono per assumere un aspetto sempre più definito, andando a identificare le figure di potere in una società spiccatamente patriarcale: il padre che non vuole che la figlia frequenti casa Tanner a causa della “paura rossa”; lo zio poliziotto John, che vuole portarle via Murgatroyd; il primo ministro Henry Bolte, che ha ordinato una campagna di soppressione dei conigli selvatici e il sequestro di quelli da compagnia. Celia vede in tutte queste figure autoritarie, agenti di una oppressione sistematica, come dei veri e propri mostri, tanto da disegnare i tratti di un Hobyah su una foto del primo ministro Bolte in un gesto contemporaneamente sovversivo e apotropaico spontaneo. È interessante anche notare come, nella fiaba originale, gli Hobyah sia di colore rosa, mentre Turner sceglie il blu, il colore della polizia e quindi dell’autorità, come tonalità predominante nella messa in scena di queste creature mostruose.
Sulla rappresentazione dei questi mostri, nell’intervista a Ann Turner di Briony Kidd inclusa tra i contenuti speciali del cofanetto All The Haunts Be Ours: A Compendium Of Folk Horror Ann Turner racconta:
Sin dall'inizio era molto importante per me inserire gli Hobyah nel film e ho sempre avuto le idee chiare su quale fosse il loro aspetto. È una cosa interessante, perché nella mia testa avevo questa immagine molto definita di come si muovessero gli Hobyah, ed è strano, poiché il ricordo risale a una lettura scolastica. Chiaramente, però, nel corso degli anni ho immaginato l'intera scena in un certo modo e alla fine, rispetto al libro che ho letto a scuola, ho cambiato un solo elemento. Gli Hobyah erano creature rosa, ma io volevo che in qualche modo il loro aspetto fosse in risonanza con l'agente di polizia, John. E volevo anche che la faccia di Henry Bolt fosse disegnata in blu una volta trasformato in un Hobyah. Quindi alla fine ho scelto il blu.
[Alt Text: frame da Celia. Una donna, l'insegnante di Celia, è in piedi davanti una lavagna tenendo in mano un ritaglio di un articolo di giornale corredato dalla foto di un uomo, il ministro Henry Bolte. I suoi tratti somatici sono stati alterati dal disegno in blu di naso e orecchie mostruose. Il titolo dell’articolo dice: “Premier Bolte says ‘No’”.]
Spesso, l’orrore e la mostruosità vengono generate dal quotidiano e, in qualche modo, anche Celia subisce gli effetti di un ambiente familiare soffocante, anche a causa del padre, Ray, amorevole, certo, ma insicuro, risultato della società conservatrice, anticomunista e antifemminista che suo malgrado finisce per incarnare.
Dice Ann Turner:
Ci tenevo a far vedere che non si tratta di un singolo individuo, ma di problematiche sociali. Era importante mostrare anche una certa compassione nella rappresentazione di un padre condizionato da un enorme trauma, non solo a causa della guerra, ma per inclinazione. È una persona davvero complessa: è cresciuto con una madre di sinistra in una società estremamente conservatrice. È andato in guerra, è tornato come ultra-conservatore. Bruciare i libri della madre appare quasi uno sfogo di dolore e rabbia nei confronti della madre, perché è stato cresciuto con principi di sinistra in una società di estrema destra.
Turner, dunque, ambientando il suo film negli anni ‘50, in piena psicosi anticomunista, che in qualche modo riecheggia allegoricamente nell’azione contro i conigli portata avanti dal governo, vuole puntare l’attenzione su alcune criticità della società australiana, con un punto di vista spiccatamente femminile e femminista. Celia è infatti costellato di personaggi femminili volitivi e in contrasto con quelli maschili: in primis la nonna, la cui tempra politica ci appare evidente in una foto in cui è ritratta mentre partecipa a una manifestazione dell'International Women Against War. Alice Tanner è, in qualche modo, un suo alter ego agli occhi di Celia, ma in realtà il suo rimane un personaggio indipendente, sfaccettato, che non vive solo nel riflesso della nonna della protagonista: la vediamo mentre contesta l’opinione di un compagno durante una riunione del gruppo politico di cui fa parte e si oppone al comportamento discriminatorio dell’agente Burke. Anche il personaggio di Pat Carmichael, all’inizio condiscendente e apparentemente remissiva verso il marito e Burke, dimostra via via sempre più indipendenza, continuando a coltivare l’amicizia con la vicina Alice nonostante il divieto e opponendosi a diverse forme del potere patriarcale per il benessere della figlia. E poi c’è Celia, naturalmente, che non è né l’eroina né il mostro di questa storia: all’inizio è solo una bambina determinata che cerca disperatamente di mantenere i legami con i modelli femminili della sua vita. È una figura liminale che toglie senso alla stessa idea di confine. È l'abietto di Kristeva, nella sua forma più sovversiva.
Scrive Sally Hussey in un contributo dal titolo Feminist Allegory and Queer Australian Cinema:
Celia si fa beffe dei confini. Sfonda serrature e barriere, in particolare quelle che suo padre mette fino a dividerla dalla memoria della nonna e dall'intimità che trova con la vicina Alice Tanner. Il disprezzo di Celia per la sua autorità, a sua volta, interrompe il netto parallelo tra fanciullezza e innocenza.
[Alt Text: frame da Celia. Nel salotto di casa Tanner Alice parla con il marito Karl alla sia sinistra e altri due uomini in una riunione del gruppo politico di sinistra di cui fa parte. Alice è seduta su una poltrona con una gamba sollevata, Karl sta su una sedia e tiene in mano una piccola chitarra. Accanto a loro, per terra, c’è un bambino].
Laddove la nonna era stata interprete del suo mondo, la vicinanza con Alice le offre l’opportunità di ricongiungersi con sua madre. Turner punta l’attenzione proprio sul ruolo fondamentale dei rapporti affettivi tra donne, sulla sorellanza, che in qualche modo trascende anche la struttura famigliare conforme alle norme sociali. In Celia, le figure femminili creano legami. Non sono in conflitto tra di loro, ma si portano dentro il conflitto generato dalla cultura dominante patriarcale, che poi permea il mondo adulto a cui, di fatto, si oppone Celia con la sua immaginazione. Questo percorso ha un prezzo da pagare: la rinuncia al mondo infantile di Celia, che avviene non tanto durante il climax del film, quando Celia spara, ma nel momento in cui la bambina, costretta a pregare per la persona a cui ha sparato, comprende come funzionano le norme del mondo adulto e ci si adegua, abbandonando per sempre il mondo fantastico, senza possibilità di tornare indietro. E cambia sguardo, insieme al modo in cui guarda il mondo. Ancora una volta, è il sistema patriarcale che si alimenta dei mostri che crea.
Celia, soprattutto nel finale del film, assume così alcuni caratteri del terrible-child, topos tipico di un certo tipo di cinema horror, che Robin Wood, nel suo saggio An Introduction to American Horror, identifica come figurazione dell'Altro in quanto tra i gruppi oppressi della popolazione. Come scrive Andrew Scahill in The Revolting Child in Horror Cinema, interpretando il lavoro di Wood, la mostruosità infantile rappresenta “l'eruzione del caos in un tenue spazio di ordine sociale”, e uno degli “elementi abietti del sé e della società che devono essere negati o assimilati per garantire la coerenza delle strutture gerarchiche”. Sempre in relazione allo studio di Wood, Barbara Creed, in The Monstrous-Feminine, scrive che “l'attacco del mostro è quasi sempre correlato a repressioni sessuali ed emotive all'interno del contesto familiare”. Celia si muove proprio in questo contesto familiare di repressione e non detti, con il padre Ray in conflitto con la propria madre, ma attratto sessualmente dalla figura più simile a lei, la vicina Alice, tanto da assumere atteggiamenti predatori, mentre è quasi anaffettivo con la moglie Pat. La mostruosità di Celia in qualche modo è frutto anche di queste dinamiche di potere all’interno del nucleo familiare.
[Alt Text: frame da Celia. Un primissimo piano di Rebecca Smart nei panni di Celia. Ha gli occhi blu un po’ lucidi e lo sguardo serio e disilluso.]
Come nota Barbara Creed, tuttavia, nella rappresentazione cinematografica la bambina mostruosa, sospesa tra le idee opposte di “corruzione e innocenza”, appare diversa dal suo corrispettivo maschio, perché viola le norme sociali di genere. Siamo, ancora una volta, nel campo nell'abiezione, concetto cardine per comprendere come viene percepita e rappresentata la mostruosità femminile.
Scrive Creed in Baby Bitches From Hell: Monstrous-Little Women in Film:
I film horror spesso descrivono la bambina mostruosa come diversa dal maschio. L'aspetto più specificamente orribile della piccola femmina mostruosa è che il potenziale di corruzione del suo corpo e della sua mente è apparentemente senza limiti o confini. [...] La bambina mostruosa è un potente agente di abiezione. Sottoposte a una socializzazione più rigida rispetto al maschio, in termini di caratteristiche esterne e di regole di comportamento "civile" appropriato, ci si aspetta anche che incarni l'innocenza mondana e la purezza sessuale. Quando attraversa i confini tra innocenza e corruzione, comportamenti corretti e scorretti, la violazione che ne deriva sembra più profonda. Considerata meno in grado di proteggersi, la ragazza è più suscettibile alla corruzione
Tra i film analizzati da Creed in questa sede, c’è anche Il giardino delle streghe (The Curse of the Cat People, 1944) fanta-horror psicologico diretto da Robert Wise e Gunther von Fritsch e seguito del classico Il bacio della pantera (Cat People, 1942) di Jacques Tourneur. Si tratta di uno dei film a cui Ann Turner si è ispirata in modo dichiarato per realizzare Celia. Nel film Amy (Ann Carter), una bambina di sei anni introversa che vive in un mondo di fantasia, evoca una compagna di giochi - forse - immaginaria che ha le fattezze dell'ex moglie defunta di suo padre, Irena, la protagonista di Cat People interpretata da Simone Simon.
Commenta Creed:
Sebbene Amy sembri innocente, e al di là di ogni astuzia, è potenzialmente mostruosa perché indica l'eccesso minaccioso dell'immaginazione femminile eccessivamente fertile che è raffigurata come potenzialmente buona e cattiva.
Lo stesso si può dire della protagonista del film di Ann Turner, Celia, ma questa visione della bambina mostro è filtrata attraverso una sguardo femminile, e femminista, della regista, e la distinzione tra innocenza e corruzione, privata del suo intriseco moralismo, acquista nuovi significati. A ben guardare, il personaggio di Celia appare molto simile a un’altra terribile bambina assassina del cinema classico, considerata quasi un archetipo narrativo, Rhoda Penmark (Patty McCormack) di Il giglio nero (The Bad Seed, 1956) di Mervyn LeRoy, film tratto dall’opera teatrale omonima del 1954 di Maxwell Anderson. E in effetti, Rhoda e Celia condividono anche l’aspetto esteriore, essendo entrambe bionde con lunghe trecce.
[Alt Text: frame da Il Giglio Nero. Patty McCormack nel ruolo di Rhoda è seduta sul divano, mentre urla e stringe i pugni. Ha delle lunghe trecce bionde e un abito bianco con un pattern. Accanto a lei, in piedi, c’è la madre Christine, interpretata da Nancy Kelly. Ha un lungo abito nero, tiene le mani dietro la schiena e fissa la bambina con preoccupazione. Fonte.]
Nonostante le differenze stilistiche tra le due opere, Craig Martin nota alcune interessanti similitudini tra i due film:
Entrambi sono ambientati nel radicato conservatorismo patriarcale del dopoguerra degli anni '50, ma entrambi presentano ragazze che sono fermamente testarde e indipendenti. Entrambe le madri scoprono che le loro figlie in età prepuberale sono assassine e, invece di cercare giustizia, assumono il ruolo di complici. Entrambe le ragazze devono qualcosa della loro alterità alle loro nonne. [...]
Tuttavia, lo sguardo di LeRoy e Turner sono profondamente diversi. Ne Il Giglio Nero, di fronte a comportamenti criminali di Rhoda, ci si interroga sulla responsabilità della natura e della cultura, optando poi per una rappresentazione del “male”, incarnato dalla mostruosità infantile, come ereditaria e inevitabile per destino. In questo contesto, le considerazioni sulla difformità di Rhoda rimangono sempre molto superficiali, perché funzionali a impostare una narrazione basata sul colpo di scena, con l’intento di far leva sull’emotività del pubblico. Celia ha un atteggiamento antitetico: porta avanti una riflessione strutturata e complessa che non vive di assoluti ma di sfumature, dando il giusto peso alle strutture sociali e all’oppressione sistematica da esse esercitata nell’arco narrativo di Celia, che culmina nel mostruoso.
Come osserva Craig Martin:
Dove i due film si distinguono in maniera netta è nella rappresentazione della mostruosità e nel modo in cui fanno leva sulla sensibilità del pubblico. Mentre Rhoda è apertamente presentata come un mostro diabolico motivato dall'egoismo, dall'avidità e da una patologia omicida [...], Celia non è una carnefice, ma sfortunata vittima di traumi, tradimenti e oppressione sistematica. Mentre la teratologia di Rhoda è descritta come interamente il prodotto di geni tossici ereditati da sua nonna (natura), quella di Celia è il risultato di molteplici traumi emotivi associati a un ambiente familiare non favorevole (educazione).
Per queste ragioni, lo sguardo che Ann Turner getta su questa Australia di fine anni ‘50, in cui sembra trovare i semi di criticità che perduravano nel 1989 come oggi, è non solo, come già affermato, indubbiamente femminista, ma anche incredibilmente contemporaneo. Celia incarna le istanze del cinema della New Wave che Barbara Creed discute nel suo nuovo libro Return of the Monstrous-Feminine: Feminist New Wave Cinema.
Scrive Creed:
Lo sguardo femminista non è uno sguardo maschile rovesciato, né uno sguardo disincarnato. Lo sguardo femminista invoca tutti i sensi. È compassionevole ed empatico; invita il pubblico a situarsi al posto dei personaggi sullo schermo, a sperimentare ciò che sta vivendo un’altra persona attraverso l’attaccamento emotivo. È uno sguardo sensoriale onnicomprensivo, che comprende la vita quotidiana, le emozioni, le relazioni, gli stati corporei e i desideri della protagonista.
[Alt Text: frame da Celia. Nella cava, Pat Carmichael abbraccia Celia e Heather Goldman, un’amica della bambina interpretata da Claire Couttie. Le tre sono di spalle].
Ci si continua a chiedere se Celia sia davvero un horror, attribuendo le cause dell’insuccesso negli anni ‘90 alla sua promozione come film di genere, ma tutto sommato si tratta di un falso problema. Nel caso di Celia, l’influenza di film come The Curse of Cat People e Carnival of Souls è sia evidente che dichiarata dalla stessa regista, che racconta spesso di essere cresciuta con un certo tipo di cinema horror. Kier-La Janisse, recentemente, ha persino incluso Celia nel suo maestoso, anche per durata, documentario folk horror Woodlands Dark and Days Bewitched: A History of Folk Horror (2021) e, in effetti, alcuni elementi del filone tornano nel film di Turner, seppur destrutturati come molti altri motivi narrativi.
Sicuramente, in Celia si assiste alla costruzione di un folklore filmico, nell’accezione che ne dà Mikel J. Koven in Folklore/Cinema: Popular Film as Vernacular Culture, che però vediamo svilupparsi nel corso nella narrazione, in fieri, plasmato dall’immaginazione della bambina, in un modo non così dissimile da quello che succede nei film gotici di ambientazione spagnola Guillermo del Toro, La spina del diavolo (El espinazo del diablo, 2001) e Il labirinto del Fauno (El laberinto del fauno, 2006), che utilizzano elementi fiabeschi per elaborare quello che potremmo chiamare un nuovo realismo magico. Ecco, da questo punto di vista, considerando anche le modalità con cui la dimensione quotidiana del trauma viene rappresentata attraverso l’uso del perturbante (unheimlich), concetto preso in prestito dalla psicoanalisi freudiana, ma nell’accezione che ne dà Mark Fisher, potrei essere d’accordo con la scelta di Janisse. Del folk horror, infatti, Celia presenta quella sensazione di inquietudine che nasce da una situazione avvertita come familiare ed estranea allo stesso tempo, da sempre fondamentale nella costruzione narrativa dell’orrore.
Personalmente, penso che il film di Ann Turner, nonostante abbia trent’anni, si possa affiancare ai lavori di registe come Jennifer Kent, con i suoi Babadook e Nightingale, Rose Glass con Saint Maud o Julia Ducournau con Raw e Titane. Anche loro, come Turner, si rifiutano di rinchiudere i loro film in piccole scatole, nonostante abbiano scelto il cinema di genere come settore privilegiato. Come Turner, queste autrici usano codici, convenzioni, linguaggi dell’orrore e costruiscono le loro narrazioni sul concetto di abiezione, presentato in modo critico. In un certo senso, con le loro storie sovvertono stereotipi e motivi narrativi legati al mostruoso femminile, rivendicando sia il nome che la forma, e restituendo al mostro la sua originaria accezione di monstrum, prodigio, qualcosa che si allontana dalla norma, scevra di ogni giudizio o connotazione morale. Come Ann Turner e la sua Celia, queste registe rompono gli argini perché la realtà è troppo complessa, sfaccettata, per poter essere racchiusa in linee di confine.
Racconta Turner:
In realtà non volevo girare un film di genere, volevo rompere i generi. È stato deliberato, probabilmente una decisione davvero poco lungimirante in termini di carriera, ma ricordo di aver pensato di non voler incasellare deliberatamente Celia in un genere. I film dovrebbero essere in grado da soli di trovare il loro pubblico.
Beh, Celia ha trovato il suo pubblico. Siamo noi, qui, adesso.
Celia è disponibile in DVD e Blu-ray nell’edizione di Second Run di Arrow Video, in blu-ray nel cofanetto All The Haunts Be Ours: A Compendium Of Folk Horror realizzato da Severin Film e in streaming, solo per il Nord America, sulla piattaforma Shudder.
Tutte le traduzioni sono a cura di Cristina Resa.
Per approfondire:
Burnett, Ron (1989). “Take the Bunny and Run, Memories of Childhood and Ann Turner's Celia”, Cinema Papers , n. 72: 9
Creed, Barbara (2004). “Kristeva, la femminilità, l'abiezione”, in Fanara Giulia e Federica Giovannelli (a cura di). Eretiche ed erotiche. Le donne, le idee, il cinema, Liguori Editore
Creed, Barbara (1993). The Monstrous-Feminine: Film, Feminism, Psychoanalysis, Routledge
Creed, Barbara (2022). Return of the Monstrous-Feminine: Feminist New Wave Cinema, Routledge
Fisher, Mark (2018). The Weird and the Eerie. Lo strano e l'inquietante nel mondo contemporaneo, Minimum Fax
Heller-Nicholas, Alexandra (2017). “In The Muck of It: The Films of Ann Turner — Profile by Alexandra Heller Nicholas”, The Alliance of Women Film Journalists
Heller-Nicholas, Alexandra (2020), 1000 Women in Horror 1895-2018, BearManor Media
Hussey, Sally (2003). “Feminist Allegory and Queer Australian Cinema: Interviews with Ann Turner”, in Lisa French (a cura di), Womenvision: women and the moving image in Australia, Damned Publishing Melbourne
Janisse, Kier-La (2021). Woodlands Dark and Days Bewitched: A History of Folk Horror in All the Haunts Be Ours: A Compendium of Folk Horror [Blu-ray Box Set], Severin Films
Kidd, Briony, “Celia And Me - Interview With Director Ann Turner”, in All The Haunts Be Ours: A Compendium Of Folk Horror [Blu-ray Box Set], Severin Films
Koven, Mikel J. - Sherman, Sharon R. (2007). Folklore/Cinema: Popular Film as Vernacular Culture, Utah State University Press
Martin, Craig (2017). “Monsters, Masks and Murgatroyd: The Horror of Ann Turner’s Celia”, Senses of Cinema
Martin, Craig (2017). “Trust Your Instinct: An Interview with Ann Turner”, Senses of Cinema
Peirse, Alison (a cura di, 2021). Women make horror. Filmmaking, Feminism, Genre, Rutgers University Press
Rayner, Jonathan (2000). Contemporary Australian cinema: An introduction, Manchester University Press
Scahill, Andrew (2015) The Revolting Child in Horror Cinema: Youth Rebellion and Queer Spectatorship, Palgrave MacMillan
Scovell, Adam (2017). Folk Horror: Hours Dreadful and Things Strange, Auteur Pub
Wood, Robin (1986). Hollywood from Vietnam to Reagan, New York, Columbia University Press
Nella sua vita precedente, Cristina Resa ha studiato Assiriologia e si è dedicata allo studio delle mitologie antiche, oggi è ossessionata da quelle contemporanee. Lavora in campo editoriale, scrive di film, serie tv e videogiochi su IGN Italia ed è una delle voci di Incompetenti Podcast. A volte la vedi in giro per la rete a scrivere di rappresentazione, horror e a inseguire i miti. Puoi seguirla su Twitter, Instagram, Letterboxd e Medium.
UN’ARTISTA
Shirin Neshat. Sulla potenza femminile.
di Simona Iamonte
[Alt Text: l’artista Shirin Neshat in un ritratto a mezzo busto del fotografo Vittorio Zunino Celotto. Capelli minuziosamente raccolti, trucco forte e scuro sotto gli occhi, orecchini pendenti che ricordano le intricate decorazioni persiane e una sciarpa colorata attorno al collo.]
Voce scomoda in Iran, femminista mai scontata che attraverso l’arte è riuscita a canalizzare la profonda tristezza nell'assistere a distanza al cambiamento drastico del suo paese e dell’essere lontana dalla propria terra, in particolare, essere lontana dalla lotta che i suoi familiari e popolo compiono quotidianamente. Nelle opere di Shirin Neshat si percepisce un senso di potere e di ribellione silenziosa, mai innocua, che investe lo spettatore e lo pone davanti a domande e pensieri, spesso scomodi, su cosa sia veramente la libertà e sulla forza (per nulla passiva) delle donne velate, che siano in Oriente o in Occidente.
Shirin Neshat nasce il 28 marzo 1957 a Qazvin, una delle città più religiose del paese che si trova a due ore a nord della capitale iraniana Teheran. Suo padre era un medico amante dell’arte e affascinato dalla cultura occidentale. I suoi genitori, entrambi riconosciuti come classe medio-alta, istruiti e acculturati, mandano a studiare Neshat in un collegio cattolico a Teheran fino al 1974. In seguito, Shirin si trasferisce in California per completare i suoi studi, dove consegue due lauree all'università Berkeley in pittura e arti visive. Dopo l’università, Shirin inizia a lavorare a New York per uno spazio creativo senza fini di lucro che incentiva la ricerca in campo architettonico ed artistico, e la immerge nel mondo dell’arte, fondando le basi per quella che sarà la sua carriera.
[Alt Text: “Untitled” 1995 dalla serie “Women oh Hallah”. L’artista siede in modo composto davanti ad uno sfondo che raffigura un ipotetico giardino orientale con colonne e fiori. La donna guarda dritta in camera ed è coperta da un velo nero ed una ghirlanda di foglie e fiori. Le mani sono poggiate sulle ginocchia in segno di calma e compostezza.]
Contemporaneamente, durante gli anni ‘70, l’Iran è rappresentato dallo Scià (il personaggio più potente in termini politici, quasi come un monarca) che, con l’appoggio statunitense, cerca di elevare il paese a massima potenza economica del Medio Oriente, reprimendo tutti i suoi oppositori e abbozzando una modernità limitata solo ad una fascia ristretta della popolazione. Di conseguenza i partiti politici repressi, soprattutto quelli di stampo religioso, si riunirono attorno alla figura dell’Ayatollah (la figura di spicco del clero sciita, con connotazione sia religiosa che politica a partire degli anni ‘70) e iniziarono diverse azioni contro la monarchia che vennero represse duramente e sfociarono infine nella Rivoluzione iraniana del 1978-79.
Gli sconvolgimenti della rivoluzione portarono al potere l’Ayatollah, che giustiziò gli uomini del vecchio regime e si istituì la legge della Shari'a. Il nuovo regime si contraddistingue per una visione religiosa e opprimente della vita, che vieta ancora oggi le bevande alcoliche, il gioco vedered’azzardo, reprime l’omosessualità e vieta alle donne di farsi vedere scoperte in pubblico.
Neshat durante il periodo di rivolta si trova ad assistere dall’America al drastico declino del suo paese, a cui fece ritorno solo nel 1990, trovandolo profondamente cambiato, sia economicamente che eticamente, ma soprattutto a livello sociale, in particolare per le leggi che controllano i diritti delle donne. Questo ritorno sconvolge e determina un profondo spartiacque nella vita e carriera di Neshat, che afferma di non essersi mai pensata come artista fino a quel momento, con l’imprescindibile bisogno di usare l’arte come mezzo per esprimere sé stessa, riconnettersi alle sue radici e per dar voce ai cittadini in Iran.
[Alt Text: “Rebellious Silence” dalla serie “Women of Hallah” 1994. Una donna velata in primo piano (il volto dell’artista) guarda fissa allo spettatore mentre la canna di una pistola le divide il viso in due: una zona d’ombra e una illuminata. Sul viso ci sono delle scritte in persiano.]
Si trasferisce definitivamente a New York da esule e inizia a lavorare al suo più celebre progetto fotografico intitolato “Women of Hallah” datato 1993-1997, in cui lo sguardo femminile diventa uno strumento potente e pericoloso di comunicazione. I volti delle donne, e spesso dell’artista stessa, si fanno profondi ed inquisitori, carichi di forza e diretti, senza vergogna. Sono i corpi minuziosamente avvolti negli chador, e gli sguardi di donne considerate deboli e sottomesse dall’Occidente ma che in realtà sono le vere fautrici della lotta e della cultura soprattutto in un paese come l’Iran.
Spesso infatti l’artista, in interviste e letture, dice che il vero indicatore di una società sono le donne, e nel caso dell’Iran, sono l’indicatore di forza sul quale si regge la ribellione, anche se sembrano soggiogate e oppresse socialmente.
[Alt Text: “Allegiance with Wakefulness” 1994. In primo piano la pianta di due piedi di quella che sembra essere una donna distesa e coperta dal velo. La pianta riporta delle scritte in persiano e dei disegni decorativi, mentre la canna di un fucile si insinua tra di loro.]
Il lavoro di Neshat è essenzialmente la testimonianza della presenza del potere femminile all’interno di una società dominata dall’uomo, che reprime ogni forma di piacere, amore, bellezza, ogni naturale impulso umano. Per questo l’artista usa principalmente le donne come soggetti e a loro affianca spesso delle armi che rimarcano lo spirito guerriero a difesa della loro religione, della loro identità, femminilità e soprattutto libertà violata.
Quelle di Shirin Neshat sono opere scomode e potenti che esercitano un forte senso di responsabilità o quantomeno consapevolezza sociale sia per l’Oriente che per l’Occidente.
La bellezza si contrappone alla violenza nello stesso modo in cui si scontrano le varie identità dell’artista, come Neshat dichiara in questa intervista. C’è un senso di fragilità che scorre parallelo al bisogno di ribellione e forza di una donna che si identifica sia come musulmana ma anche laica, come occidentale, ma anche orientale. Questo aspetto di dualità che vive in lei, si esprime nel suo lavoro attraverso le ombre nette, i volti e gli sguardi dolci delle donne contrapposti alla presenza inquietante delle armi, nelle piante e fiori che risaltano sullo sfondo del velo scuro, nelle scritte voluttuose ma che sembrano incise sulla pelle da un solco profondo.
L'arte è la nostra arma, la cultura è una forma di resistenza.
[Alt Text: “Untitled” 1996. In primo piano una mano vista dal dorso con scritte e disegni decorativi persiani. La mano sfiora delicatamente le labbra di una donna di cui non si vede il resto del viso, coperta dal velo nero.]
Nonostante Neshat abbia una formazione da pittrice, sente che il mezzo fotografico (e in seguito cinematografico) riesce a trasmettere al meglio l’intenzione della sua ricerca. In particolare il bianco e nero netto, dai rari semitoni, veicolano in modo diretto la serietà ed il senso di avvizzimento che le donne ed il suo paese affrontano. Le scritte sono in Farsi, la lingua persiana, che ha una forte connotazione calligrafica. Sembra morbida e regolare, quasi un intricato disegno astratto. I testi, sono dipinti a mano dall’artista direttamente sulle fotografie, spesso di grandi formati, in un meticoloso e sinuoso intrico di segni, glifi e decorazioni orientali.
Nelle opere troviamo testi religiosi, poetici e letterari iraniani che parlano della condizione umana, ma soprattutto della bellezza. Molto spesso Neshat usa le poesie di Forough Farrokhzad una poetessa persiana, per la quale dichiara: “Se non fosse stato per le sue parole, non avrei realizzato le immagini di "Women of Hallah",
[Alt Text: still dal video “Rapture” 1999. Un gruppo di donne velate è seduta a terra in un paesaggio desertico e sabbioso. Le donne tengono le mani in alto mostrando i palmi che sono scritti da inchiostro nero.]
Verso la fine degli anni ‘90, Neshat sperimenta il mezzo del film; in particolare produce diverse pellicole di corti spesso composti da due schermi simultanei in cui vengono proiettate due immagini diverse in dialogo tra loro, costruendo delle narrative ricche e complesse che hanno due punti di vista.
Due cortometraggi in particolare, le procurano l’importante traguardo del Leone d’argento alla 48° Biennale d’arte di Venezia nel 1999. Ad essere premiate sono le opere “Turbulent” e “Rapture”. Tutte e due le video installazioni sono a doppio canale, girati in bianco e nero con pellicola 16mm. I due corti mettono in scena la contrapposizione di potere e libertà che gli uomini hanno nella cultura iraniana, al contrario delle donne. Specialmente in Turbulent, l’artista mette in relazione due schermi ambientati nello stesso teatro. Nella proiezione di sinistra, si esibisce un uomo davanti ad un pubblico esclusivamente maschile che applaude e si gode lo spettacolo. Finita la performance dell’uomo, inizia quella della donna nello schermo di destra. La donna si trova nello stesso teatro ma questa volta è vuoto. è velata e produce suoni gutturali, suoni molto espressivi che alle nostre orecchie ricordano l’oriente; ma non pronuncia mai una parola, mentre nello schermo di sinistra il cantante assiste alla performance sbalordito. Neshat vuole mettere in scena il divieto per le donne di esibirsi in pubblico e lo fa in una maniera molto intelligente e critica, in un modo in cui anche chi non è iraniano, possa capire il dislivello tra generi. Questo grazie anche e soprattutto alla divisione dello schermo in due parti, che permette di avere un riscontro sulla narrazione in tempo reale. Da notare anche i colori degli abiti nei video dell’artista: usa spesso il colore bianco per gli uomini, quasi a simboleggiare una sorta di purezza falsa veicolata dalla cultura, mentre le donne sono vestite di nero, da testa a piedi, quasi come fosse un segno di pentimento e disonore nell’essere nate donna.
[Alt Text: still di “Fervor” cortometraggio del 2000. La scena è divisa in due parti diagonalmente, due gruppi sono divisi da un telo nero. A sinistra un gruppo di donne velate sedute a terra ed una donna in piedi rivolta in senso opposto alle altre. Nella zona di destra ci sono gli uomini seduti a terra mentre un solo uomo ha il volto rivolto verso la sua sinistra.]
Una tra le video installazioni che mi ha più colpita è “Fervor”, in cui l’artista usa lo stesso sdoppiamento di schermo per seguire i due punti di vista. Nella scena a destra la camera segue il percorso di un uomo che si reca alla moschea, mentre quello di sinistra segue il percorso della donna. I due si incontrano nel mezzo del deserto e si scambiano degli sguardi maliziosi. I due personaggi poi si recano contemporaneamente alla stessa moschea ma seguendo strade diverse. Una volta dentro, si dispongono nelle aree a loro assegnate per genere: a destra gli uomini e a sinistra le donne, divisi da un telo nero che simboleggia tale divisione sia fisica che metaforica e che non permette di incontrare gli sguardi. Durante la scena girata all’interno della moschea, il mullah (il predicatore musulmano) predica sulla castità rivolgendosi a entrambe le fazioni. I due protagonisti sembrano interagire tra di loro mediante una sorta di potere che li coinvolge e si cercano silenziosamente da attraverso il telo con solo gli sguardi. Ancora una volta, il bianco e nero stilistico, è un chiaro simbolo del contrasto tra uomini e donne all’interno di una moschea.
In questo lavoro in particolare, Neshat vuole esprimere tutta la frustrazione ed appunto il fervore del titolo, riguardo la sessualità, la lussuria, ed il desiderio nella cultura Medio Orientale, espressa soprattutto con la tensione dell’individuo nei confronti delle norme sociali e culturali. Nel corto la donna e l’uomo ribollono silenziosamente, desiderandosi ma senza mai potersi toccare.
[Alt Text: Shirin Neshat fotografata mentre riceve il Leone d’argento per la miglior regia al 66° Mostra del Cinema di Venezia. L’artista regge nella mano sinistra il leone d’argento mentre con la mano destra sfoggia il segno della vittoria e di pace.]
Nel 2009, l’artista riceve un altro premio fondamentale per la sua carriera. Per la migliore regia alla 66° Mostra del Cinema di Venezia, viene premiato il suo primo lungometraggio "Donne senza uomini", una pellicola tratta dal romanzo omonimo di Shahrnush Parsipur che collabora con Neshat alla realizzazione. Il film è dedicato alla memoria di tutti coloro che hanno lottato e perso la vita in Iran per la libertà e la democrazia a partire dalla Rivoluzione costituzionale persiana del 1909 al Movimento Verde del 2009.
Il film segue le vicende di quattro donne iraniane nell’estate del 1953, momento storico in cui americani ed inglesi contribuirono all’Operazione Ajax, un colpo di stato che ripristinò il potere dello scià e depose il primo ministro eletto democraticamente. Nel film le vite delle quattro donne si intrecciano e si susseguono nella drammatica storia che le vede, ognuna nella sua maniera, intrappolata in sé stessa e negli eventi. È sicuramente un film storico ma che ha elementi artistici e suggestivi derivati dalla ricerca in campo fotografico e installativo dell’artista, che aiutano e danno spunti per comprendere meglio gli stati d’animo e le tribolazioni personali ed identitarie delle protagoniste.
In occasione del red carpet, la regista e le attrici hanno sfilato indossando il verde, colore usato dai protestanti nelle manifestazioni del 2009 del Movimento Verde, in cui i cittadini chiedevano le dimissioni del presidente in carica, accusato di essere salito al potere mediante elezioni truccate.
[Alt Text: Locandina del film “Donne senza uomini” del 2009. Il volto in primo piano di una delle protagoniste del film emerge e si fonde con una scena in cui diverse donne velate si aggirano per la piazza della città.]
Dopo il 2010, Neshat ha esposto in diverse gallerie e musei, continuato a produrre medio e lungometraggi che indagano sulla società iraniana ed americana e sulla memoria, come nel film "Illusions and Dreams" del 2013 con protagonista Natalie Portman ed il recente "Land of Dreams" uscito nel 2021.
Tra le sue mostre più importanti degli ultimi anni, c’è "Land of Dreams" del 2021 presso la Goodman Gallery di Londra, mostra ispirata al film uscito nello stesso anno, in cui sono state esposte le foto dei personaggi e la documentazione backstage del film omonimo. In Italia invece, ha esposto al MAXXI di Roma nel 2019 una serie di fotografie in bianco/nero dal titolo "Offerings" nel quale usa come soggetti le mani per simboleggiare stati d’animo, atteggiamenti e convenzioni.
Ad oggi l’artista vive con il suo compagno Shoja Azari a New York, con il quale condivide vita privata e lavoro, essendo anche lui un artista e regista. Neshat si sposta spesso tra Messico, Egitto e Turchia per lavorare ai suoi film, in particolare per ricreare i paesaggi desertici dell’Iran. Per motivi politici, non ha mai esposto nella sua terra natia e non vi ha più fatto ritorno. Sul suo profilo Instagram è possibile seguire il suo lavoro e le lotte sociali e politiche a cui aderisce in sostegno del suo popolo.
[Alt Text: dalla serie “Offerings” 2019. Scatti della serie, con diverse mani in varie pose su sfondo nero con scritte in Farsi dal colore nero.]
Simona Iamonte vive a Torino e lavora come illustratrice e pittrice. Puoi seguirla su Instagram.
Ringraziamo Simona, Cristina e Francesca e Marta di Limoncello Queer per i loro contributi, oltre che Nina per averci concesso di condividere il suo pensiero – e ti aspettiamo proprio qui, fra un mese.
Un abbraccio!
Francesca, Gloria e Marzia
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