La ghinea di novembre
Benvenut@ a Ghinea, la newsletter che vorrebbe entrare in letargo. Il numero di questo mese si apre con un ricordo di Liana Borghi, mancata lo scorso 20 novembre, che Giuliana Misserville ha scritto per noi. E poi torna Simona Iamonte, con cui esploriamo il lavoro dell’artista Tschabalala Self. Buona lettura!
Due o tre cose che so di Liana Borghi
di Giuliana Misserville
[Alt Text: Liana Borghi ed Elisa Coco, fotografate in un momento di vicinanza e confidenza. Coco posa la mano sulla spalla di Borghi, che ricambia posandole la mano sul petto. Fonte.]
È difficile parlare di Liana, al passato. Molto difficile pensare a quel suo slancio che la proiettava attorno e davanti a sé, quasi a voler abbracciare l’intelligenza del mondo – da intelligere, cioè capire, ascoltare, e come trascrive il dizionario etimologico, per estensione, scegliere, e quindi prendere posizione, – ecco che quel suo slancio sia nell’aria ancora per poco e noi si sia portate a considerare la necessità di lasciarlo andare invece di trattenerlo malgrado tutto.
Liana è/era sorprendente. Ciascuna tappa del suo itinerario intellettuale era precorritrice, avanti di venti anni rispetto a quanto si faceva e si pensava in Italia, e per questo era a volte scomoda e ti dava la sensazione sempre di ricalcare orme già marcate, marcate da lei.
Da un pezzo vado ricercando i suoi saggi; Liana aveva uno stile personale, complesso e coinvolgente e riversava nel testo ragionamenti, citazioni e suggestioni il cui effetto era la percezione in chi leggeva di un accendersi della mente. Sulla fantascienza, sulla pratica femminista, sulle teorie lesbiche e queer. Fantascienza da lei amata e interpretata come finzione speculativa, un reframing in grado di insegnare nuovi giochi e rendere obsoleti quelli vecchi avendo come posta cambiamenti in grado di farci uscire da schemi considerati inalterabili. In un saggio del 1991, Liana precisa come “l’enfasi femminista sull’esperienza distopica delle donne può servire a restringere il campo della visionarietà a finalità concrete”. Oltrepassando le strettoie teorizzate da Ursula Le Guin che distingueva tra utopia e fantascienza e poneva la linea di demarcazione tra le due su quello che Borghi bollava come realismo biologico. E soprattutto preferendo, Liana, la maniera assolutamente più radicale di Joanna Russ di fondere assieme, come in The Female Man, “il discorso sul genere fantascientifico femminile con un discorso femminista sul genere”. C’è una sorta di corrispondenza tra l’impegno politico femminista e lesbico che Joanna Russ trasforma in storie utopiche aprendo a nuove configurazioni sociali e la lettura messaci sotto il naso da Liana Borghi: entrambe ci interrogano e continuano a interrogarci anche oggi sulla funzione del separatismo di allora (e sui separatismi che in queste settimane alzano muri attorno alle orgogliose rivendicazioni identitarie) e sulla nostra capacità di pensare oltre il genere. E concludeva, Liana, in quel saggio:
In un momento della nostra storia in cui ci sembra espediente usare la differenza sessuale per far valere i nostri diritti, pensare oltre il genere dall’interno del discorso femminista è forse una forma di speculazione più visionaria. (Borghi 1991)
Trent’anni sono passati da quando Liana Borghi lo scriveva e forse non solo io ho una sensazione: i termini della discussione su come costruire il genere, e la società, con modalità differenti da quelle dettate dal contratto patriarcale, sono ancora quelli. Siamo ancora lì, su quella scommessa, a cercare una visionarietà in grado di proiettarci oltre l’ostacolo.
Vorrei restare tuttavia ancora un momento sulla narrativa utopica, perché questo è soprattutto un rendiconto, un diario, o una restituzione – come si usa dire all’interno della Società italiana delle letterate (e sul ruolo di Liana all’interno della SIL vi invito a leggere il brano significativo di Anna Maria Crispino, direttora della rivista Leggendaria) – della mia navigazione attorno ad alcuni scritti di Liana.
Un rendiconto fatto senza alcuna pretesa di disegnare l’interezza e la ricchezza del percorso di un’intellettuale del calibro di Liana, che richiederebbe per essere approfondito un tempo assai più cospicuo, mentre io mi limito qui piuttosto a esplorare i miei debiti nei suoi confronti. Narrativa utopica dicevo, sollecitata dal bel libro di Carlotta Cossutta Avere potere su se stesse: Politica e femminilità in Mary Wollstonecraft, edito da ETS. Sull’onda appunto della lettura dello studio di Cossutta sono andata a ripescare un saggio di Liana del 1979 in cui, riferendosi all’ultimo romanzo lasciato incompiuto da Wollstonecraft, Maria or the Wrongs of Woman, scrive come in quelle pagine l’autrice inglese “nega l’utopia come luogo dell’illusione e l’afferma come condizione del divenire”. Questo intendere l’utopia come motore e pratica del divenire penso sia una sorta di filo nascosto che lega quel saggio a quanto Liana scriverà in seguito; e anche l’importanza e il ruolo delle passioni nel romanzo di Wollstonecraft, una via alla conoscenza di sé e della propria umanità, si proietta sulla teoria degli affetti:
L’affetto consegna il corpo a un mondo di incontri: l’affetto è performativo perché mette il corpo in movimento, lo mette in una situazione di continuo divenire. Gli affetti sono perciò in grado di mettere insieme i corpi, di farli entrare in contatto con altri corpi. Come dice Borghi, parafrasando Sara Ahmed, le emozioni si muovono tra corpi e segni e fanno delle cose, allineando individui a comunità, o spazi corporei a spazi sociali, attraverso l’intensità dell’attaccamento. (Baldo 2015)
Ancora sugli affetti si impernieranno le riflessioni lungo tutti gli anni 2000 della scuola estiva di Villa Fiorelli (nata dal ventennale sodalizio con Clotilde Barbarulli e il Giardino dei ciliegi di Firenze) e quelle discussioni si apriranno anche all’intreccio, sulla scia del lavoro di Sarah Ahmed e Ann Cvetkovich, con le teorie queer.
[Alt Text: ritratto fotografico in bianco e nero di Audre Lorde, Meridel Le Sueur e Adrienne Rich, abbracciate e sorridenti. Fonte.]
Nel frattempo, oltre a insegnare letteratura angloamericana prima all’Università di Bologna e poi in quella di Firenze, Liana Borghi va traducendo e introducendo in Italia gli scritti di alcune autrici e autori fondamentali come Adrienne Rich, Donna Haraway e Paul B. Preciado.
È la stessa Liana a descrivere il suo percorso
Riconosco che nel collocarmi sia nel lesbismo che nel queer mi muove (anche) un desiderio etico e politico per la teoria – non tanto per le costruzioni ideologiche quanto per i processi di analisi e decostruzione, e per gli svelamenti dell’esperienza e delle connessioni al mondo che essi (mi) producono. Non è un caso quindi se mi occupo di letteratura, in particolare quella scritta da donne. Se dalla fine degli anni Ottanta il mio percorso teorico è passato attraverso Adrienne Rich, Audre Lorde, Teresa De Lauretis, Judith Butler e Eve K. Sedgwick, con una piega cyber-femminista attenta a Donna Haraway, Catherine Hayles, Rosi Braidotti, Luciana Parisi, un mio successivo spostamento teorico ha risposto alla necessità di integrare l’intercultura al queer analizzando come nelle migrazioni transnazionali le soggettività si costituiscano interfacciando fattori etnici e razziali con versioni non autoctone di genere, sessualità, ecc., e come i differenziali di potere che si producono producano a loro volta alienazione, impoverimento, razzismo, eterosessismo, omofobia e altre discriminanti. (Borghi 2011b)
E sulle problematiche dei rapporti tra queer e femminismo, Liana tornerà più volte come ad esempio nella lunga recensione al volume di Lynne Huffer uscito nel 2013, un testo in cui “esamina la frattura tra queer e femminismo attraverso la figura del soggetto etico, e propone di pensare in modo queer insieme al femminismo invece che senza femminismo” (Borghi 2020).
L’interesse per l’approccio interculturale ha portato invece Liana da una parte alla creazione (2010) assieme a Marco Pustianaz della collana àltera presso le Edizioni ETS in cui accoglie le traduzioni italiane tra l’altro di Jack Halberstam e Audre Lorde; dall’altro ad articolare e problematizzare, assieme sempre a Clotilde Barbarulli, una serie di riflessioni tradotte poi nelle esperienze prima accennate di Villa Fiorelli: Raccontar/si dal 2001 al 2008 e con i successivi diversi Seminari” (cfr. Marzi 2016). Come scrive Barbarulli su Il Manifesto del 23 novembre scorso: “A RACCONTAR/SI Liana chiedeva, implicitamente, ogni volta, di contribuire a realizzare una piccola utopia contingente, costruita nell’immediato praticando una socialità amorevole e trasformativa, creando «legami fatti di interrelazione, di reciprocità, di vicinanza»”. Relazioni improntate a una visione etica del proprio posto nel mondo:
Gli incontri richiedono continui negoziati tra dis/identificazione, accoglienza, rifiuto. Nell’intercultura di genere immaginiamo di essere motivate da un’etica correlata al nostro senso di giustizia sociale che ci porta a contestare i canoni, a cercare saperi aperti ad applicazioni criticamente dissidenti e a contro-narrative. (Borghi 2011a)
Negli ultimi anni, una delle questioni su cui Liana stava cercando di focalizzare l’attenzione di chi la seguiva nelle discussioni pubbliche, in convegni e seminari, era quella della necessità di cambiare completamente i nostri paradigmi mentali sulla scorta delle riflessioni di Donna Haraway e Karen Barad sulla diffrazione:
Donna Haraway propone una strategia di lettura che, invece di riflettere, attui una diffrazione: "i modelli di diffrazione registrano una storia di interazione, interferenza, rinforzo e differenza. La diffrazione riguarda una storia eterogenea, non gli originali". Quindi una lettura per diffrazione può fare interagire i testi al di là di ogni legame apparente di parentela e permettere di studiarli l'uno attraverso l'altro, producendo una nuova "coscienza critica" non interessata al rapporto di riflessione tra l'originale e la sua copia, ma al cambiamento di prospettiva, e a produrre qualcosa di nuovo.
(…) Per Karen Barad – che invece paragona la diffrazione al sovrapporsi e cancellarsi reciproco delle onde quando due pietre vengono gettate in uno stagno – la diffrazione apre ontologicamente: divide determinismo dal libero arbitrio, e temporalità lineare dall'intreccio di passato-presente-futuro. (…) Passato, presente e futuro sono sempre in rifacimento. Il che dice che i fenomeni sono diffratti e distribuiti temporalmente e spazialmente attraverso tempi e spazi multipli, e che le nostre responsabilità verso questioni di giustizia sociale devono essere pensate in termini di una diversa causalità. (Borghi 2019).
E chiudeva un intervento al Modulo Scienze, organizzato da Angela Balzano per il Master Studi e Politiche di genere del 2019, con la raccomandazione di Haraway:
Chiudo ricordando che Haraway ci raccomanda:
(la cito ogni volta che penso di poterlo fare , anche nel powerpoint)
Non dimentichiamo: Che non siamo al centro, e l’altro esiste; Che abitiamo corpi multispecie; che i narcisi sono umani al 55%;
Non dimentichiamo: Gli amici microbi e la simbiogenesi; La kinship degli animali con gli animali, delle cose con altre cose, nodi di relazioni, reti di connessioni con cose, oggetti, rocce, piante, sentimenti, conoscenti, alberi, strumenti; La storicità degli alberi e degli uccelli che hanno conosciuti; La temporalità della pietra, il tempo astronomico della roccia. Simpoiesi è una parola per fare mondo insieme, in compagnia. (Borghi 2019)
“Fare mondo” era stato un convegno organizzato da lei e da Clotilde nel 2017 al Giardino dei ciliegi, dal momento che, è Liana a scriverlo, “(…) in questo tempo di crisi mi servono narrative che alla soggettività intrecciano natura, ambiente, sviluppi tecnologici, rapporti socio-politici” (Borghi 2014). E lo scriveva in un saggetto di circa una decina di pagine ma densissime in cui cercava risposte nell’assemblaggio identitario di Jasbir Puar come nell’illimitata relazione di causalità di Karen Barad; pagine che vanno centellinate e ruminate a lungo perché contengono direzioni, come conclude Liana, ancora da indagare.
E la SF sembrava/sembra, ancora una volta, il tipo di narrativa più stimolante. Nel suo intervento al convegno “Fare mondo”, Borghi si sofferma sul lavoro di N.K. Jemisin, la trilogia The Broken Earth:
Ma per il nostro fare mondo oggi scelgo invece una narrazione che usa affetti molto diversi: la nuova trilogia, non ancora tradotta, di N.K. Jemisin, che mi ricorda Octavia Butler, soprattutto nella Parabola del Seminatore e la Parabola dei Talenti, per quel senso di terrore incombente in un mondo in sfacelo e senza salvezza dove amore, affetto e speranza covano sotto la cenere della sopravvivenza che richiede orgoglio, paura, odio, rabbia, ambizione -- e infatti a Jemisin piace il pessimismo “nero” di Butler, le piace come il suo mondo cambia con l’arrivo degli alieni, e come la gente reagisce a questi cambiamenti. (Borghi 2017)
Per Jemisin la sfida che abbiamo davanti è quella di abbandonare i vecchi paradigmi razzisti, binari e patriarcali alla base non solo di gran parte della SF bianca ma anche delle categorie con le quali costruiamo il mondo. Nella trilogia, scrive Liana, “l’immaginario spaziale viene decolonizzato: il mondo si materializza costantemente e imprevedibilmente, per i mutamenti climatici e gli sconvolgimenti del territorio; i personaggi appaiono, si concretizzano necessari e funzionali, persino memorabili, e si rivelano precari, vulnerabili, permeabili, spendibili sebbene incarnino modi diversi di pensare alla solidarietà, alla sessualità, agli affetti, alla costruzione del genere e altre diversità sociali e simboliche. Emergono ovunque sotto testo evocazioni dei mutamenti climatici e della sofferenza del nostro pianeta per lo scriteriato ma condiviso abuso delle risorse naturali che rendono precaria la vita”.
Perché è di noi che sta parlando Jemisin, e Liana, nel suo percorrere utopie narrative per costruirne di reali, ci ricorda che
Ci sono infiniti modi di fare mondo, e non è certo facile scegliere quello che desideriamo. Ma possiamo sempre provare a raccogliere le tracce di passato-presente-futuro sovrapposti e in divenire nella nostra vita; a ricordare i momenti, gli oggetti, le sensazioni che hanno sgretolato certezze e permesso di guardare oltre lo specchio, e da questo tessere le nostre affabulazioni speculative. (Borghi 2017)
Concludendo queste righe che, sottolineo, vorrebbero solo essere una mia lettura di alcune tappe del percorso intellettuale di Liana Borghi, vorrei riandare con la memoria a un lontano 1995; a quel palco fiorentino di S/Oggetti immaginari dal quale Liana Borghi e Anna Maria Crispino, lanciando l’idea di una Società italiana delle letterate (SIL), così da allora in poi si sarebbe chiamata, davano diritto di cittadinanza anche nel nostro paese alla critica femminista e alla letteratura nata di donna.
E un’altra cittadinanza vorrei citare. La lunga battaglia di Liana come lesbofemminista ha aperto spazi per altre che nelle loro scelte di vita, per quanto difficili e faticose fossero, trovavano sostegno intellettuale e la trama in costruzione del tessuto di una comunità; sostegno anche editoriale se pensiamo per es. alla casa editrice Estro, fondata e co-gestita assieme a Rosanna Fiocchetto (cui si devono alcune traduzioni di Monique Wittig), attiva tra il 1985 e il 1993 e con la quale Liana pubblicherà il suo unico, credo, romanzo, Tenda con vista; e come tutte le curatele intraprese negli anni successivi.
Di quella cura, di quella lotta, io non facevo parte se non a tratti come lettrice attenta e solo adesso ne trovo invece più di un’eco nelle suggestioni intime e sentimentali dei più recenti snodi della mia vita. Di quelle battaglie (di cui si può leggere la storia nel volume L’emersione imprevista di Elena Biagini) che vollero dire anche libri, bollettini, convegni, seminari, festival, incontri, manifesti, riunioni, marce, riflessioni, non finirò di essere – a Liana come ad altre – grata.
Bibliografia
Baldo, Michela (2015) Undoing gender. Il disfarsi e rifarsi della traduzione, sul sito www.doppiozero.com, 2 maggio 2015.
Biagini, Elena (2018) L’emersione imprevista. Il movimento delle lesbiche in Italia negli anni ’70 e ’80, Edizioni ETS, Pisa.
Borghi, Liana (1979) “Mary Wollstonecraft e l’utopia femminista”, in AA.VV. Forma dell’utopia, La Pietra, Milano, pp. 161-189.
Borghi, Liana (1991) “Finzioni extra-ordinarie. La scrittura del genere”, in DWF nn. 13/14, “Aliene quotidiane”, pp. 47-62.
Borghi, Liana (2011a) “Figure dell’intercultura di genere”, in Il Sorriso dello Stregatto. Figurazioni di genere e intercultura, a cura di Liana Borghi e Clotilde Barbarulli, Edizioni ETS, Pisa, pp. 5-21.
Borghi, Liana (2011b) “Liana Borghi”, in Queer in Italia. Differenze in movimento, a cura di Marco Pustianaz, Edizioni ETS, Pisa, pp. 46-51.
Borghi, Liana (2014) “Assemblaggi affettivi. L’amore al tempo del quantoqueer”, postfazione al volume L’amore al tempo dello tsunami. Affetti, sessualità, modelli di genere in mutamento, a cura di Gaia Giuliani, Manuela Galetto e Chiara Martucci, ombre corte, Verona, pp. 207-216.
Borghi, Liana (2017) Fare Mondo con le acacie e le formiche, Relazione presentata al Convegno “Fare Mondo: poetica del futuro dimenticato”, Giardino dei Ciliegi, Firenze, 8-10 dicembre 2017.
Borghi, Liana (2019) A situated heart. Percorsi diffrattivi di Haraway e altre, Relazione presentata al Master Studi e Politiche di Genere, Università Roma Tre, Modulo Scienze coordinato da Angela Balzano, dattiloscritto. (Ho un dubbio sulla collocazione in quel Master perché il testo mi è stato inviato da Liana, senza altre indicazioni, nel corso delle nostre telefonate per il Convegno “Neomaterialismo e fantascienza delle donne. Intramazioni”, tenutosi a al Giardino dei ciliegi di Firenze, 30-31 ottobre 2021)
Borghi, Liana (2020) “Are the Lips a Grave?” di Lynne Huffer: ripensare queer e femminismo per un’etica dell’eros, in gaynews.it del 24 aprile 2020.
Marzi, Laura (2016) Il Giardino dei Ciliegi : Storia e intrecci con altre associazioni a Firenze e in Toscana (1988- 2015), Ricerca coordinata da Clotilde Barbarulli, Consiglio regionale della Toscana, Firenze, pp. 108-135.
Giuliana Misserville si occupa di critica letteraria femminista e la sua pubblicazione più recente è il saggio Donne e fantastico. Narrativa oltre i generi, uscito nel 2020 per Mimesis. Mentre, assieme a Federica Fabbiani ha ideato e realizzato “La mano sinistra. Il podcast delle storie fantastiche”, in corso di diffusione sulle maggiori piattaforme. Nel corso degli anni ha contribuito alla fondazione e diffusione della Società italiana delle letterate (SIL) di cui è stata Presidente nel biennio 2014-2015.
Fa parte della redazione di Leggendaria e per la rivista ha curato nel tempo il piccolo dizionario beauvoiriano, uno speciale su Trans/scritture (n. 132/2018) e il tema “Mixtopia” (n. 143/2020) mentre dal 2018 firma la rubrica “Giardini immaginari”.
Qualche scritto di Liana Borghi su Les Wiki e l’introduzione a Testimone-modesta@femaleman-incontra-Oncotopo. Femminismo e tecnoscienza di Donna Haraway (grazie Carlotta!).
Jeanette Winterson ha una newsletter.
L’introduzione del nuovo saggio di Maggie Nelson, Sulla libertà. Un canto di amore e di rinuncia.
Chi ha paura dell’uguaglianza.
Ancora sulle traduzioni: ne esistono di "giuste"?
Cosa sta succedendo al confine tra Polonia e Bielorussia.
[Alt Text: Una mappa creata da New Statesman mostra come viene eretta la “fortezza Europa”, evidenziando in quali punti sono state costruite o sono in corso di costruzione barriere che blocchino il passaggio e l’arrivo di migranti. Le barriere spezzano la rotta balcanica, isolano l’ex Unione Sovietica e impediscono le partenze per mare verso la Spagna e il Regno Unito. Fonte.]
Etel Adnan è morta il 14 novembre. Lo scorso marzo, Simona Iamonte ci parlava di lei.
La pittura di Adnan rispecchia tutto quello che cerca attraverso la scrittura: una più ampia sensazione e connessione con ciò che la circonda. L’approccio con il disegno è stato fulmineo e insaziabile sin dai primi anni negli Stati Uniti, periodo nel quale entra in contatto con le opere di Paul Klee, pittore espressionista astratto, al quale guarda ispirandosi costantemente. Ciò che rende unica la pittura di Adnan è il senso di grandezza cosmica che sembra avvolgere la sua produzione: un senso di appartenenza più grande della geografia e della nazionalità, qualcosa che va oltre le barriere mentali e fisiche del mondo finito che conosciamo.
In maniera pratica, Adnan dipinge in piano, una sorta di retaggio progettuale derivato dallo scrivere poesie; la penna è sostituita dalla spatola per stendere i colori ad olio, e occasionalmente da un pennello per l’inchiostro e gli acquerelli. In un’intervista per il MoMa di San Francisco racconta il suo passaggio dalla poesia alla pittura (anche se non ha mai accantonato la scrittura e continua ancora oggi ad esprimersi in entrambi i modi) e spiega come la poesia sia lineare nel tempo e invece la pittura sia una manifestazione unica racchiusa nell’atto creativo, allo stesso modo in cui una galleria o un museo espone una sequenza temporale o progettuale finita: c’è qualcosa che si determina nell'istante in cui si assiste, una sorta di fascio di luce.
Sull’importanza dei centri antiviolenza di costituirsi parte civili accanto alle persone vittime di violenza sessuale: una ricostruzione di questa necessaria pratica femminista a partire dal più recente caso di stupro perpetuato da Alberto Genovese.
Il Femminismo Tradotto, rivista online che si occupa di tradurre articoli di femminismo intersezionale, ha pubblicato un articolo a firma Chanda Rani sullo stato autoritario e le politiche di ansia sessuale che promuove. In tal senso, la propaganda condotta in India dal partito nazionalista BJP contro la comunità musulmana ne è un perfetto esempio.
Su Position politics puoi trovare una serie di conversazioni con Françoise Vergès, Maya Gonzalez e Jeanne Neton, e Mariko Adachi.
[Alt Text: ritratto fotografico di Françoise Vergès, sorridente su fondo nero. Fonte.]
Femminismo decoloniale in Sardegna:
Il sentire popolare attribuisce questa forte spinta emancipatoria delle donne sarde a un fantomatico passato matriarcale che, pur non essendo mai esistito, ha assunto sull’isola i caratteri del mito, sorretto dal fascino del lungo culto della Dea Madre in epoca preistorica e di figure leggendarie come le giudicesse, vere e proprie regine che però furono solo quattro nel corso dei seicento anni, tra il IX e il XV secolo, in cui la Sardegna era divisa in giudicati e arrivarono al potere esclusivamente come reggenti del consorte o dei figli.
Provare a ricucire la distanza tra le generazioni significa per le femministe sarde trovarsi faccia a faccia con questa idealizzazione tanto diffusa quanto priva di fondamento, di cui è necessario ripercorrere le tracce per districarsi ancora una volta tra il reale e il suo riflesso, distorto dal tempo e dalle narrazioni dominanti.
Un passo indietro dopo l’altro fa emergere dall’ombra della storia non tanto un matriarcato, quanto una serie di prerogative che la società tradizionale riservava effettivamente alle donne sarde. Come la trasmissione matrilineare del cognome diffusa in molte zone della Sardegna fino all’epoca giudicale, l’equa distribuzione dell’eredità a tutti i figli a prescindere dal loro genere e il matrimonio a sa sardisca, che non prevedeva nessuna dote da destinare al marito ma anzi la comunione dei beni tra i coniugi.
La piattaforma Netflix ha rilasciato un nuovo special di Dave Chappelle, The Closer, una lunga e stanca invettiva transfobica (qui una recensione puntualissima). Dal confronto con persone trans e alleate all’interno dell’azienda, a seguito del supporto pubblico a Chappelle dato attraverso le dichiarazione del co-chief executive Sarando, a partire dalla segnalazione su Twitter di Terra Field (che lavorava per Netflix) e con il supporto di Ashlee Marie Preston (The Anatomy of Transmisogynoir), è stato organizzato uno sciopero.
Spostando il fuoco della vicenda dalla violenza delle parole nello special di Chappelle all’arroganza con cui ha respinto ogni invito a riflettere sul portato pubblico della sua presunta goliardia (“Se questo vuole dire essere cancellato, lo adoro!”) a discapito dell’elevato numero di persone trans che ogni giorno muoiono a causa dell’odio alimentato da interventi come questo, Chappelle ha costruito una falsa inversione di ruoli per cui lamenta di essere vittima degli eventi e non fautore. La verità è che, ancora una volta, la retorica della cancellazione dei soggetti che hanno una piattaforma e un pubblico ampio proviene da quegli stessi soggetti, che attraverso il vittimismo riconfermano il loro stato di dominio. Un’analisi attenta della questione è stata fatta da Antonia Caruso e si può leggere qui.
FATTO DA NOI
Last night in Soho di Edgar Wright è un horror/thriller psicologico così ansioso di contribuire al dibattito sulla violenza di genere da farlo con estrema superficialità, e diventando così violentemente misogino. Per una discussione piena di considerazioni, di nostalgia per gli horror degli anni Sessanta e Settanta, e anche di spoiler, puoi ascoltare Gloria e Federica Bordin che ne parlano in una puntata del podcast Ricciotto.
FATTO DA VOI
Giorgia Maurovich ha intervistato su Est/ranei la scrittrice tedesca Katharina Adler.
Di Liana Borghi hanno scritto anche Elia A.G. Arfini (da noi intervistato qualche tempo fa) e Chiara Zanini.
Lingue, dialetti e accenti sono una questione di classe: ne parla Giusi Palomba partendo da Strappare lungo i bordi di Zerocalcare.
Il dialetto, la parlata, non è solo una lingua/luogo, ma la testimonianza di un vincolo. Non esisterebbero dialetti se non ci fossero le comunità, le relazioni, i legami che li tengono in vita. Non si tratta di codici scritti, standardizzati, usati nella cultura ufficiale, serve dunque una comunità che si relaziona in modo costante a tenerli in vita. Le periferie sono i più grandi luoghi di sperimentazione linguistica, dove le culture si mescolano di più e creano il vocabolario per il possibile, in questi luoghi sempre molto variegato. La working class è abituata alla mutevolezza e alla mancanza di controllo. Recepisce bene il cambio e la creatività della lingua perché la crea e se ne nutre. Fa parte di quell’imprevedibilità che i quartieri più ricchi cercano in ogni modo di sterilizzare e parlando di lingue, stigmatizzare o standardizzare. Ed questa la più insopportabile delle constatazioni per chi quella lingua marginale la contesta. Per un modello di sviluppo che aliena e atomizza questi legami sono inaccettabili. Abbiamo detto che le comunità fanno le lingue, e vale anche per le neolingue, per l’esigenza di trovare parole nuove per rappresentarsi. Ma quando quella comunità riesce ad accedere ai canali di massa per valorizzare sé stessa e non il contrasto a sé stessa, è sempre qualcosa che fa saltare i riferimenti, come un’anomalia del sistema.
UN’ARTISTA
Tschabalala Self. Il corpo nero come simbolo della battaglia culturale.
di Simona Iamonte
[Alt Text: Ritratto della pittrice Tschabalala Self con alle spalle alcuni suoi dipinti, nel suo studio di New Haven. Foto di Josefina Santos.]
Tschabalala Self è una pittrice statunitense nata ad Harlem (New York) nel 1990 da genitori afro-americani. Ultima e più giovane bambina di cinque figli, cresce in un ambiente familiare acculturato, che le fa scoprire il mondo dell’arte e della pittura già dai primi anni formativi. Della sua famiglia racconta di come i ricordi delle sorelle maggiori che si preparavano ad uscire la sera, le forme dei loro corpi coperti dai vestiti e l’atmosfera di euforia dell’uscire di notte, siano stati d’ispirazione per i suoi lavori. Anche la figura di sua madre, che gestiva un programma commerciale di scambio al Bronx Community College, ha avuto un forte impatto sull’inizio della sua pratica, per via del talento per il cucito che usava per dar nuova vita ai vestiti delle sorelle maggiori adattandoli alle forme delle sorelle più piccole in modo da non sprecare nulla.
Nel 2012, Self studia presso il Bard College nello stato di New York. Durante questi anni è colpita dai diversi modi in cui le donne bianche e nere sono state sessualizzate dalla società e dai media, e inizia a sfidare l'oggettivazione delle donne nere nella cultura pop e rielabora immagini da video musicali, come "I Get Around" di 2Pac, in dipinti e collage.
[Alt Text: “Out of Body” (2015), olio e collage di tessuto su tela, 182x152 cm. Le due figure femminili in primo piano interagiscono tra di loro mentre altre figure femminili monocromatiche arricchiscono la narrazione e la composizione.]
Self sviluppa ulteriormente la ricerca sull'immagine della donna di colore nella cultura pop durante gli studi alla Yale University, dove ottiene un master in pittura. Come studentessa di pittura interessata alla stampa (ossia alla serialità visiva), trova modi innovativi per combinare entrambe le modalità di creazione artistica: associa i classici patchwork (ritagli e scampoli diversi di tessuto combinati assieme) e li fa interagire con elementi pittorici.
Dopo la morte di sua madre, Self inizia a dedicarsi ancora di più all’uso dei materiali tessili e lavora principalmente sui modi in cui il tessuto e la pittura possono coesistere in un’immagine. In questo periodo comincia ad usare la vecchia macchina da cucire della madre per stratificare diversi tessuti e trame sulla tela, creando collage vibranti che esplorano gli atteggiamenti culturali nei confronti della razza e del genere.
"Sento che il mio rapporto con il fare sia, formalmente e concettualmente, ispirato a mia madre."
[Alt Text: “Origin” (2018), olio, acrilico e tessuto su tela, 213x182 cm. Una figura femminile frontale è accovacciata, a gambe aperte, mostrando il seno e la vagina agli spettatori facendoli partecipi del simbolo dell’origine della vita. Questo soggetto è ispirato al celebre dipinto di Gustav Courbet "L'origine du monde", in cui l’artista affronta pittoricamente uno sguardo ravvicinato dell’organo riproduttivo femminile. Il simbolo della vagina nell’arte e soprattutto della figura femminile come modello figurativo riprodotto esclusivamente da artisti uomini è stato fortemente discusso da molte artiste moderne e contemporanee come Sylvia Sleigh, Sarah Lucas e certamente le Guerriglia Girls, che, attraverso i loro lavori, si sono riappropriate della rappresentazione della figura femminile, e di ciò che implica essere e raccontare le donne dal punto di vista femminile, reinventando la narrazione ed offrendo un altro punto di vista, più intimo, probabilmente più sincero.]
I dipinti di Self sono in maggior parte costituiti da una sola figura spesso posta al centro della composizione. Questo indica un tentativo di fare della figura un archetipo, renderla un’icona, quasi una divinità da pantheon, e al tempo stesso un tentativo di dare visibilità ed uscire dal circuito mainstream della rappresentazione, riscattando il ruolo della figura femminile di colore all’interno della società, soprattutto dopo anni di rappresentazione umiliante (nella storia dell’arte, le uniche figure femminili di colore fanno riferimento alle schiave e servitrici o comunque sono figure marginali all’interno della narrazione, come ad esempio nella celebre opera di Manet "Olympia" conservata al Museo D’Orsay di Parigi). Gli sfondi sono degli spazi liminali, di passaggio, dei non-luoghi in cui le figure fluttuano o al massimo si appoggiano, e poichè posseggono la proprietà di non essere simili alla realtà, trasformano le figure in esseri metafisici e soprannaturali che non si arrendono ad un contesto simile a quello della realtà. Quindi nei dipinti di Self esistono delle riflessioni utopiche ma non impossibili, riflessioni politicizzate che veicolano idee radicali sull’esistenza e la convivenza della razza nera nel mondo.
[Alt Text: una breve dichiarazione dell’artista riguardo la politicizzazione del suo lavoro presente sul sito della pittrice. “Il mio lavoro è politico perché è politicizzato; nel mio lavoro sono presenti corpi politicizzati. Sono una persona politica perché se non fossi una persona politica, ciò influenzerebbe la mia sicurezza e il mio benessere nel mio paese. Ma non è per questo che faccio il mio lavoro, sto facendo il mio lavoro per lasciare un documento della mia esperienza, lasciare una testimonianza di persone che sono come me”.]
Le caratteristiche fisiche delle figure sono volutamente esagerate per evidenziare i miti e le aspettative depositate nel subconscio generale, che circondano e definiscono la figura della donna di colore. L’intento è quello di giocare con questi miti e al tempo stesso creare una retorica completamente nuova riguardo alle identità delle comunità di colore. Così, usando immaginari della “pop culture” come le classiche pose da selfie che troviamo su Instagram o le pose delle ragazze delle pubblicità per le escort, Self fa un minuzioso lavoro di distruzione e ricomposizione delle figure, esagerando e gonfiando volutamente i seni, i glutei le unghie, le trecce e le coscie, ma mantenendo l’armonia e la giocosità delle stesse nella composizione. Le donne rappresentate da Self si rivolgono agli spettatori, ti sfidano a riconoscere una nuova narrativa, non hanno paura di ciò che sono e ciò che rappresentano, e in un certo senso il loro potere passa anche attraverso il loro sguardo diretto e nudo nei confronti di chi ne fruisce.
[Alt Text: “Leotard” (2019), stoffa e acrilico su tela, 243x213cm. Una figura dai fianchi esagerati è in piedi al centro del quadro davanti ad uno sfondo azzurro chiaro e fissa gli spettatori.]
Raramente capita di vedere dipinti di Self in cui ci sono due o più personaggi coinvolti nella narrazione. Alcuni esempi sono di due figure femminili che interagiscono tra loro o spesso sono coppie create da una figura maschile e una femminile che si abbracciano, o baciano, che sono in atteggiamenti intimi e questo sta proprio a evidenziare il senso di intimità. La coppia, nel lavoro di Self, aiuta a definire le barriere della personalità di ogni individuo e mira a mostrare l’estensione della comunità, attraverso la rappresentazione del contatto fisico.
[Alt Text: “Home” (2019), tessuto, tessuto da tappezzeria, tela dipinta, acrilico e gouache su tela, 127x172cm. La figura in primo piano femminile sembra essere seduta, sospesa o tenuta in braccio dalle mani della figura maschile che le è posta dietro. Le due figure sono circondate dallo sfondo monocromatico di colore viola e condividono un momento tenero di affetto.]
Un dipinto impregnato di storia, critica sociale ma anche di amore e solidarietà è sicuramente “Love to Saartjie”, in cui Self omaggia Saartjie Baartman, conosciuta come la Venere ottentotta, una donna sudafricana della etnia dei Khoikhoi rimasta orfana a causa di un raid ai danni del suo villaggio. Baartman fu portata a Città del Capo dove fu ridotta in schiavitù per una nobile famiglia che presto la trasferì in Inghilterra per usarla come fenomeno da baraccone in quanto la donna era dotata di glutei e labbra vaginali prominenti. Saartjie è stata la più famosa delle almeno due donne Khoikhoi ad essere esibita nei Freak Show del XIX secolo in Europa. Nel dipinto di Self ritroviamo le stesse forme dei glutei sproporzionati e stoffe tinte di oro, rosso e terre. Il dipinto è sicuramente un omaggio, ma è anche un pretesto per aggirare le limitanti narrazioni destinate alle donne di colore, si può notare infatti la differenza delle due rappresentazioni: se nell’incisione è presente dell’umorismo riguardo alle forme di Saartjie, nel dipinto di Self, troviamo le stesse forme narrate in modo sensuale, decisamente descritte come degli attributi di valore e bellezza. La figura si Self sembra quasi una visione eterea rispetto all’illustrazione del 1811.
[Alt Text: A destra, un’incisione della caricatura di Saartjie Baartman pubblicata nel 1811 in Inghilterra (autore sconosciuto) in cui i glutei sono evidentemente sproporzionati e sporgenti, mentre reggono Cupido. In basso la scritta recita: “Prendetevi cura dei vostri cuori”. A sinistra, il dipinto di Tschabalala Self “Love for Saartjie” (2015), acrilico, olio e colore per stoffa su tela.]
Un altro dipinto particolarmente legato alla storia, è “Bet” (2016), in cui la pittrice usa capelli sintetici per incorniciare il viso della protagonista femminile che si staglia su uno sfondo giallo acceso. L’uso dei capelli diventa un ornamento intimo e personale nell’opera che crea spazio per redimere le pratiche di collezionismo razzista, che risalgono all’inizio del XX secolo. Il dipinto è anche un rifiuto dei canoni estetici contemporanei e si trova in dialogo con un’ondata di consapevolezza delle proprie origini e del proprio valore nella società da parte di artisti e della comunità nera. Mi viene in mente la canzone di Solange "Don't touch my hair" in cui la cantautrice fa riferimento al potere, sia femminile che di razza, racchiuso nei capelli, quasi sempre discriminati socialmente per le loro proprietà e la loro appartenenza ad un determinato gruppo etnico. Sia il brano di Solange che il dipinto di Self vogliono dare potere agli attributi fisici delle donne e degli uomini di colore, e parlano di orgoglio delle loro caratteristiche e delle loro origini.
[Alt Text: “Bet” (2016), tessuto, acrilico e olio su tela. Una figura femminile dai capelli in aria è seduta su un pavimento a scacchi rossi e bianchi e uno sfondo giallo acceso.]
Nel febbraio 2019, Self crea un'installazione immersiva della sua serie "Bodega Run" presso l'Hammer Museum di Los Angeles, trasformando lo spazio espositivo in una finta bodega newyorkese, completa di sculture, carta da parati con motivi di prodotto, pavimenti, uno specchio di sicurezza convesso e dipinti alle pareti con figure rappresentate nell’atto di comprare dei prodotti dagli scaffali. L’idea di usare gli iconici minimarket di quartiere, proviene dal forte interesse di Self per i luoghi in cui la cultura confluisce, che sono socialmente visti come posti di ritrovo per le comunità straniere, che vendono prodotti tipici di diversi paesi, oltre che ad essere incubatori di questioni economiche e politiche che influenzano la vita e la quotidianità delle persone (pensiamo ad esempio ai marchi che vengono favoriti rispetto ad altri: anche le bodegas e di conseguenza chi compra nelle bodegas sono influenzati da ciò che lo stato decide di mettere in commercio, dunque è molto più probabile che prodotti etnici di importazione vadano piano piano scomparendo).
Self si ispira soprattutto alle comunità di Harlem , il quartiere multietnico di New York in cui la pittrice è nata e cresciuta, quartiere famoso per essere abitato da comunità afro-americane, cubane e in generale popolato da persone di colore di diverse provenienze. La riflessione di Self si concentra anche sull’aspetto della gentrificazione a cui Harlem e diversi quartieri americani sono soggette da qualche anno. Per la pittrice, la gentrificazione è un fenomeno politico che mira alla spersonalizzazione dei quartieri che hanno una forte connotazione culturale come Harlem, e che obbliga le comunità ad adattarsi a trasformazioni che effettivamente omologano i quartieri e che tolgono personalità sia ai luoghi, sia agli abitanti. Le bodegas sono quindi un simbolo dell’identità dei quartieri, soprattutto ad Harlem. In questa breve introduzione dell’Hammer Museum è possibile avere uno sguardo più ampio dell'installazione, assieme ad un video in cui Self spiega ed articola la sua fascinazione per i corner store. In questa intervista per Community and Culture, invece, Self articola la sua decisione di rappresentare persone ordinarie che fanno cose comuni, motivando la sua scelta come una questione di dignità nei confronti della “normalità” intesa come il semplice esistere, la non eccellenza o l’essenzialità dell’essere, perché le storie ordinarie sono infinitamente complesse.
[Alt Text: Installation view di “Bodega Run” presso l’Hammer Project di Los Angeles.]
Il lavoro di Tschabalala Self è d’ispirazione e dirompente, gentile e allo stesso tempo espressivo e crudo. In attesa di poterla visitare dal vivo in Italia nei prossimi anni, le sue opere si possono trovare in diverse collezioni pubbliche sparse nel mondo: dagli USA alla Cina, dal Messico fino alla Norvegia e presso la galleria londinese Pilar Corrias.
[Alt Text: “Black Face with animated face” (2020), matita colorata, pittura acrilica, tempera, carboncino, grafite su stampa a getto d'inchiostro su carta. Il protagonista del disegno è una figura a mezzo busto che si regge il viso con le mani e, divertita, fa la linguaccia.]
Simona Iamonte vive a Torino e lavora come illustratrice e pittrice. Puoi seguirla su Instagram.
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