La ghinea di luglio
Benvenutu a Ghinea, la newsletter col ventaglio in borsa. Questo mese tornano le ospiti regolari Eleonora Casale, che ci parla della sessualizzazione dei personaggi femminili nei manga, e Simona Iamonte, che scrive della pittrice María Berrío.
Buona lettura!
Invece di un altro speciale letture estive, quest’anno abbiamo selezionato alcuni dei contributi più lunghi, interessanti e a cui siamo più affezionate comparsi su Ghinea, e li abbiamo raccolti in un modestissimo opuscolo ePub/PDF. Si chiama Ghinee scelte, si scarica qui:
La sessualizzazione delle figure femminili nei manga tra storia, cultura e feticismo
di Eleonora Casale
Attenzione! Il pezzo tratta di violenza sessuale e contiene illustrazioni esplicite di stupro.
Lamù, Neon Genesis Evangelion, Fruit Basket, GTO. Questi sono alcuni dei titoli di manga che hanno sfondato le barriere dell'arcipelago giapponese per confluire in Occidente, inizialmente attraverso semplici traduzioni, poi attraverso adattamenti animati (anime). Oltre alle loro trame avvincenti e al loro particolare stile grafico, i manga sono spesso caratterizzati da un certo tipo di rappresentazione schematica della figura femminile (e talvolta di quella maschile, per esempio, il fenomeno di nicchia dei fumetti denominati Boys’ Love). Indipendentemente dal suo carattere e ruolo, la figura femminile è spesso, quasi sempre, sessualizzata in qualche modo. In questo articolo non vorrei discutere sul realismo della rappresentazione stessa – il manga fa dell'irreale il suo codice stilistico – piuttosto, desidero approfondire la tendenza verso abiti succinti e poco confortevoli, sicuramente inadatti per combattere il male o fare viaggi spazio-temporali.
[Alt text: copertina del decimo numero del manga Neon Genesis Evangelion, capolavoro di Yoshiyuki Sadamoto. La tavola rappresenta il protagonista, Shinji Ikari, al centro e ai lati destro e sinistro le co-protagoniste Rey Ayanami e Asuka Langley. Sullo sfondo, il robot da combattimento EVA-01 torreggia sui personaggi. Tutti indossano la divisa da combattimento, ma nel caso dei due personaggi femminili si nota una marcata enfasi sulle forme corporee, mancante nel caso di Shinji.]
Si potrebbe risolvere frettolosamente la questione incolpando il sessismo dilagante insito in quasi tutte le società, e si potrebbe in parte avere ragione. In Occidente, inoltre, siamo assuefatti a un canone di caratteristiche codificate come “femminili” e “sessualizzate” – giovinezza, bellezza, modestia e via dicendo – oppure, al contrario, abituati a rappresentazioni stereotipiche che incarnano la mancanza stessa di quelle caratteristiche imprescindibili – da cui la figura della vecchia, della virago o, più raramente, dell’intellettuale. Nel caso del Giappone e, più precisamente, nel caso del manga, la domanda si intreccia inevitabilmente con eventi storici, sociologici e religiosi che rendono l'inquadramento di questo fenomeno artistico un interessante campo di analisi.
Vorrei provare a spiegare – senza pretese di esaustività – la rappresentazione sessualizzata della figura femminile nei manga ripercorrendo la storia emotiva del Giappone tra imperialismo, pacifismo forzato, religioni arcaiche e industrializzazione bulimica. L'argomento dell'analisi è vasto e ho dovuto tralasciare alcune importanti nozioni, come le tipologie di personaggi archetipiche nei manga, i principi visivi di questa arte o il suo mutare nel corso dei secoli.
In Giappone i manga sono tipicamente serializzati su riviste dedicate, contenenti più storie, ognuna delle quali viene presentata con un singolo capitolo che continua nel volume successivo. Se una serie ha successo, i capitoli vengono raccolti e ristampati in volumi detti tankōbon. Gli autori di manga, i mangaka, lavorano con assistenti nei loro studi e sono associati con un editore per la pubblicazione delle loro opere.
Sebbene nata in Giappone, questa forma di intrattenimento, simile ai fumetti europei e statunitensi, è stata esportata e tradotta in tutto il mondo, con un pubblico internazionale molto ampio. In Europa e Medio Oriente, il volume del mercato è di 250 milioni di dollari US, mentre nel 2008 in Nord America è stato stimato a 175 milioni di dollari. Netflix ha archiviato 93 anime sulla sua piattaforma, molti dei quali sono stati finanziati direttamente dal sito di streaming. Per comprendere il manga è necessario comprendere le ragioni storiche che hanno concorso alla sua nascita e alla sua espansione: nel manga si incontrano diverse istanze che convergono nella creazione di una potente forma di arte, con un potenziale immaginativo, escapista e narrativo che non ha eguali nel mondo dei fumetti occidentali.
Innanzitutto, nel manga convergono i più coriacei valori tradizionali giapponesi – accentuati dal primo contatto con l'Occidente nel 1858 e dopo la seconda guerra mondiale – come il conflitto tra il bene e il male, la perseveranza a tutti i costi, l'etica del samurai (bushido), la resilienza di fronte alle avversità per portare a compimento il proprio destino (gaman), l'ordine cosmico e le grandi forze naturali, figlie del taoismo, dello shintoismo e del buddismo che popolano l'arcipelago. In secondo luogo, il manga racconta ed elabora la situazione di una società tormentata: la fine forzata della sua politica estera isolazionista con l'Europa, i bombardamenti atomici e la sconfitta della seconda guerra mondiale hanno lasciato il paese traumatizzato, piegato su se stesso e costretto a un pacifismo che non gli è proprio.
La corsa disperata per sorpassare economicamente l'Occidente e la bolla economica degli anni ’90 hanno generato il crollo della claustrofobica cultura aziendale giapponese, con i suoi eserciti di salaryman che pongono lavoro e la carriera come priorità di vita e spesso ne muoiono (karoshi). Infine, il manga offre una via di fuga sovversiva alla rigida struttura classista nipponica. La società giapponese, apparentemente un vortice di loli, waifue robot vendicatori, è in realtà molto restrittiva, scandita da rigide regole comportamentali, persino con una casta di intoccabili che soffre ancora di gravi discriminazioni. Il manga ha dunque un potere sovversivo molto forte, mescolato a un moralismo di fondo di cui, per forza di cose, in quanto arte riconosciuta dalle autorità, è permeato.
Uno dei tratti più conservatori del manga è, infatti, la rappresentazione di figure femminili. Molto spesso la donna è rappresentata secondo le narrazioni e le caratteristiche estetiche e stilistiche tipiche delle strutture patriarcali giapponesi. Tuttavia, le donne non sono sempre state invisibili come lo sono oggi; alcune delle più grandi figure letterarie del paese era donne, come Lady Murasaki con il suo Genji Monogatari e Sei Shōnagon con I racconti del guanciale, e ad alcune donne era permesso di addestrarsi nell'uso della spada e diventare guerriere (samurai).
Oggi, le cose hanno preso una piega decisamente più cupa rispetto all'inizio dello shogunato e la parità di opportunità tra uomini e donne è un obiettivo ben lungi dall'essere raggiunto. Secondo i dati del World Economic Forum per il 2020, il Giappone si colloca al 121° posto su 153 paesi per quanto riguarda l’uguaglianza di genere (per fare un confronto, l’Italia è al 76° posto e l’Islanda è al primo posto). L’uguaglianza tra uomini e donne è quasi assoluta in campi come l’istruzione e la salute, ma la presenza delle donne in politica o in posizioni manageriali di alto livello è quasi nulla. Ciò può essere spiegato dal fatto che fino al 1900 alle donne in Giappone non è stato permesso di ottenere un diploma universitario e, a causa della loro crescente lotta per l'indipendenza, sono colpevolizzate sistematicamente per il tasso di natalità insolitamente basso del Giappone. I metodi sempre nuovi e sempre più furbi adottati dal patriarcato per far sentire le donne colpevoli non cessano mai di stupire.
Inoltre, il divario di genere nell’occupazione e nei salari sta diventando sempre più un problema. Mentre le donne detengono il 45,4% delle lauree, rappresentano solo il 18,2% della forza lavoro e solo il 2,1% dei datori di lavoro sono donne. Se agli uomini viene ancora richiesto di attenersi al bushido, la via del guerriero incarnata dall’instancabile salaryman, le donne giapponesi vengono premiate se si attengono al gaman, la capacità di sopportare pazientemente le avversità e non cedere mai alla tentazione di poter pensare a una vita diversa da quella predeterminata dal loro destino. Un destino che si traduce in status sociale, famiglia, discendenza e ruoli fissi nella società.
Ma com’è possibile che un paese come il Giappone, una potenza economica e tecnologica senza pari, sia così indietro in termini di diritti di genere e uguaglianza? Una delle molte possibili risposte si nasconde nelle radici religiose del paese. Il Giappone è profondamente intriso delle tradizioni religiose e culturali dell’Asia orientale. Il confucianesimo applica regole di genere relative alla moda e al comportamento pubblico: fin dalla tenera età, agli uomini giapponesi viene insegnata l'importanza del successo professionale, dell'istruzione superiore, del rispetto del cognome e del rispetto della famiglia. Nella tradizione confuciana, le donne ricevono solo l’educazione nella scuola media e viene loro insegnato a concentrarsi sull’essere rispettose modeste e a prendersi cura dei bambini. In questo contesto, le donne non dovrebbero avere un lavoro retribuito.
Con lo Shinto, l'altra religione ufficiale del Giappone, la questione è ancora dibattuta: da un lato, lo stesso Shintoismo discende da una divinità femminile, Amaterasu, e le donne possono diventare sacerdotesse. D’altra parte le donne sono considerate intrinsecamente inquinate dal sangue mestruale e viene loro negato l’accesso ad alcuni santuari. Tuttavia, lo shintoismo ha una visione peculiare che può spiegare la diffusa presenza della sfera sessuale nei manga: per lo shintoismo, la religione della fertilità, l'attività sessuale costituisce il sacro fondamento di la vita e la sessualità viene celebrata come qualcosa di naturale e necessario per il corretto sviluppo dell'individuo.
[Alt text: una tavola di Inuyasha, manga fantasy di Rumiko Takahashi. Leggendo da destra a sinistra secondo l’uso dei manga, si incontra il personaggio di Miroku, un monaco shintoista pervertito, che ha appena molestato la guerriera Sango, sulla sinistra della tavola e ha appena ricevuto uno schiaffo. Il monaco tenta di giustificarsi dicendo “Ma con quella postura era come se stesse chiedendo di essere toccata”. ]
Come si accennava in precedenza, il manga è un luogo di fantasia in cui tutto è lecito ma comunque fortemente intriso di cultura tradizionale; in questo contesto, la figura della donna sperimenta una doppia mistificazione, in quanto è rappresentata come l'oggetto sessuale per eccellenza (sovvertendo le rigide regole di comportamento che esistono tra uomini e donne eterosessuali in Giappone) e il simulacro sacro di una cultura maschilista e sessualmente schizofrenica. Ovvio, capita che la protagonista, tra mutandine di pizzo e scollature vertiginose, sovverta i destini dell'umanità e sconfigga il male, ma ciò accade in una forma specifica di manga (seikakei) e la versione in cui la ragazza è, sì, disposta a salvare il mondo, ma è incapace di svolgere il compito da sola è più frequente. La norma narrativa è che il giovane ragazzo emaciato e timido salvi l’universo e risplenda agli occhi della sua controparte femminile, che altro non ha combinato nel corso della storia se non andare a infilarsi in situazioni pericolose dalle quali deve essere salvata. E vissero tutti felici e contenti.
Ma in questo gioco di nebbie e specchi vengono alla luce più elementi: nonostante i manga provengano da una cultura dominata da uomini eterosessuali cisgender, le donne sono considerate superiori agli uomini. Per loro vale la pena sacrificare tutto, immolarsi completamente. È difficile scorgere questa accezione quasi deistica tra i seni abbondanti e i lampi fugaci di interni coscia, ma la tendenza a declassare le donne a oggetto è onnipresente, ed è un modo perverso, seppur classico, di esprimere superiorità maschile. La donna viene sollevata a un livello ontologico che ne rimuove l’umanità. Esse sono al di sopra delle preoccupazioni sociali, politiche ed economiche di cui gli umani devono forzatamente tenere conto. E così la donna, più umana dell’umano, è meno umana di tutti, è oggetto di culto. La donna, nei manga, che sia una vivace loli o una scontrosa tsundere sarà sempre un qualcosa, mai un qualcuno dotato di una specifica volontà e connesso in modo sano e consapevole al proprio corpo.
Ciò che forse risulta più perverso è che parte di questa sessualizzazione consiste nel sottolineare l’impossibilità e l’immaterialità della relazione con il personaggio femminile in questione. Simile ai migliori esempi della letteratura trobadorica, ciò che nel manga si esprime è il desiderio per l’inaccessibilità del desiderio stesso, nemmeno per l’oggetto del desiderio (dove la definizione di oggetto è già abbastanza problematica per se). Nel manga giapponese, la donna non può permettersi di accettare i suoi desideri carnali né di desiderare a sua volta, pena la sventura. E nel rifiuto della donna a concedersi alberga un implicito invito che però si cristallizza nel dissenso e del dissenso fa la virtù del personaggio femminile: in soldoni, ti dico di no, ma sono rappresentata per essere guardata e desiderata, senza però poter desiderare a mia volta. Palpami, brutalizzami, violentami, ma non chiedermi mai cosa voglio davvero, pena un calo vertiginoso delle vendite e la fine del regime di feticizzazione voyeuristica.
[Alt text: una selezione di alcuni personaggi femminili presenti nel manga di fama mondiale One Piece di Eiichirō Oda.]
Quando leggo i manga mi salta subito all’occhio un dettaglio che riesce sempre a mettermi a disagio: i personaggi femminili sono consci della sessualizzazione che sta avvenendo sui loro corpi e ne hanno paura. Le ragazze si arrabbiano, sì, ma non riescono a sottrarsi da quegli sguardi rapaci, che siano degli altri personaggi o dei lettori che le osservano, il mangaka-deus ex machina non lo permette. Questo disgusto e questo dolore diventano lampanti nei manga ecchi o negli hentai, dove raramente il piacere femminile viene rappresentato con gioia. Le espressioni e i volti delle ragazze sono praticamente sempre sofferenti, perché evidentemente una preda atterrita vende di più di una donna a suo agio nel proprio piacere.
[Alt text: due vignette tratte dalla famosa raccolta italiana di Hentai “XXX Manga” del 2008 di Berbera&Hyde. In entrambe le vignette assistiamo a due scene di violenza sessuale. A sinistra una ragazza viene aggredita e spogliata in pubblico, lei si ribella ma l’atto viene giustificato da un “oh sì, lei ci sta sempre!”. A destra si vede invece un fidanzato che violenta la fidanzata e, davanti alle sue preghiere di fermarsi, dice “Dai Nagi, inizia con i tuoi no, non voglio e così via. Mi eccitano troppo!”]
L’hentai non fa altro che portare alle estreme conseguenze quello che già nel manga è ampiamente sotteso: la ragazza riceve delle profferte sessuali, si spaventa, rifiuta, viene forzata all’atto sessuale. Il suo corpo è pronto, ma tutto in lei dice no e, anzi, più volte chiede al partner di fermarsi (in nuvolette di testo farcite di cuoricini, giusto per confondere ulteriormente le acque). Ma il violentatore, perché di violenza sessuale si tratta, continua nello stupro e la ragazza, nolente, prova un piacere che non si era mai concessa di conoscere e gode soffrendo e vergognandosi.
Attraverso questi esempi, alla donna non resta che cedere alla violenza sessuale perché alla fine forse proverà un piacere ultraterreno, e l’atto sessuale è qualcosa da sopportare non voluto, non qualcosa da accogliere come desiderato. E certo, tutto può accadere basta che ci sia consenso – anche in situazioni sessuali complesse come il consensual un-consent [il “non-consenso consenziente” della fantasia di stupro] – ma è chiaro che qui, di consenso, non c’è nemmeno l’ombra. C’è da dire che questa forma di rappresentazione esiste anche negli hentai yaoi [i manga di genere pornografico incentrati su relazioni omosessuali maschili], ma non ha esempi nella rappresentazione dei personaggi maschili eterosessuali, se non in ristrettissimi generi di nicchia a ruoli inversi o nei manga ecchi a sfondo comico.
Anche il consumismo ha le sue colpe. Pensare al mondo del manga significa analizzare un universo che va ben aldilà del prodotto fumettistico: ad esso si collega e accompagna una vasta struttura di merchandising che contribuisce attivamente alla sua ricchezza. Per ogni personaggio esistono gadget, action figure e abiti per cosplay. Una ricchissima costellazione di accessori che fanno la gioia degli appassionati di manga e la ricchezza di chi li produce.
[Alt text: l’imprenditore Koichi Uchimura posa fieramente con la sua invenzione: itaspo. Si tratta di un cuscino che raffigura una ragazza in versione manga/anime e che sospira e geme a seconda di come viene toccata.]
Questa tipologia di oggetti è spesso pensata per coloro che, in giapponese, vengono chiamati otaku. La parola otaku è usata per identificare individui, soprattutto maschi giovani, cisgender, eterosessuali che si identificano come fan di manga, anime e oggettistica. In giapponese il termine otaku significa “la sua casa” e viene usato con un’implicazione dispregiativa, descrivendo le persone non perfettamente integrate nella società che preferiscono leggere i manga e immergersi in universi fantastici. Va da sé che gli otaku sono componenti essenziali in questo grande gioco di sessualizzazione femminile; gli otaku, molto spesso giovani ragazzi eterosessuali cisgender (ma anche la controparte femminile non manca), rappresentano la più vasta fetti di acquirenti di manga e merchandising e le aziende ad essi collegate si assicurano di cullarne gli istinti sessuali, sfornando personaggi femminili già pronti per la feticizzazione sessuale.
[Alt text: l’immagine rappresenta due tipologie classiche di oggettistica prodotta per gli otaku. In entrambe le immagini è rappresentato il personaggio Zero Two dell’anime – poi adattato a manga – DARLING in the FRANXX. A sinistra, l’immagine è stampata sulla superficie di un dakimakura, un cuscino lungo da abbracciare durante il sonno e la ragazza è rappresentata languidamente distesa in atteggiamenti softcore. A destra invece una action figure dello stesso personaggio, completamente svestito.]
Il Giappone è un paese dove l’individuo soffre di solitudine nonostante una società che celebra l’unione, la famiglia e l’ordine sociale. Ciò ha reso possibile la creazione di un intero mercato di prodotti che giocano, in una maniera quasi sadica, con la solitudine, la sessualizzazione femminile e i bisogni più fondamentali degli esseri umani, come l’amore e la cura. Il progetto di home robotAzuma Hikari dell’azienda tecnologica Gatebox ne è un esempio. Azume è un ologramma dotato di intelligenza artificiale rinchiusa in un piccolo contenitore da comodino. Ha le caratteristiche fisiche di una bellissima ragazza in stile manga ed è programmata per prendersi cura dell’acquirente come se fosse la sua compagna di vita. Qui il video promozionale di Azuka.
Nell’amorevole Azuka convergono tutti gli stereotipi sessisti e le istanze sessualizzanti che ho provato a rintracciare, seppur brevemente, all’interno del manga: Azuka è una giovane ragazza dalle fattezze “manga”, rappresentata con abiti ammiccanti, ma mai eccessivamente succinti (del resto, il vero potere di mercato del sesso sta nella sua implicita presenza). Azuka, inoltre, concentra in sé le doti che, per consuetudine, vengono attribuite a una donna nipponica: l’amorevolezza, la fedeltà, la capacità di cura, l’obbedienza. Azuka, semplicemente, incarna e materializza i codici rappresentativi femminili che la cultura del manga ha già reso riconoscibili e riproducibili su larga scala.
Il lettore di manga si trova ad affrontare, durante la fruizione, una costante sessualizzazione dei personaggi femminili che ha radici profonde nella cultura nipponica e mondiale e che si riflette nel manga, voce della cultura dominante e, contemporaneamente, della controcultura. Il manga ha un fortissimo impatto sull’immaginario globale ed è riuscito a superare le barriere geografiche e temporali, diventando un prodotto consumato quotidianamente dai giovani di tutto il mondo. Allontanare la rappresentazione delle figure femminili nei manga da dinamiche sessualizzate e sessiste, interrompere l’esibizione costante degli atti indicativi di una cultura dello stupro sono azioni che potrebbero fare del manga un mezzo di comunicazione e di educazione incredibilmente potente.
Non desidero un manga snaturato dalle sue caratteristiche grafiche, ma un manga dove l’immagine della donna non venga costantemente vilipesa. Nessuno si sconvolge per una scollatura profonda, non è una questione di pruderie. Quando, però, la scollatura profonda diventa il non plus ultra della rappresentazione femminile, o un viatico di dinamiche onanistiche e feticizzazioni ben radicate, la questione sconfina dal dibattito sull’arte alle politiche sessuali. Il manga è fantasia sovversiva, innovazione, elaborazione del lutto, fotografia di una società e sogno di un cambiamento. E come cambia la società, così anche questa forma di comunicazione dovrebbe e potrebbe cambiare per il meglio.
Per approfondire:
https://www.animefeminist.com/
Una piattaforma che propone anime e manga femministi.
https://www.mit.edu/~rei/manga-gender.html
Uno studio di Eri Izawa del 2009 sulla questione del genere in Giappone e nei manga.
https://graphitepublications.com/the-power-of-identity-women-in-anime/
Articolo di Georgie Deverell che propone una visione opposta alla mia, ossia il forte grado di empowering delle figure femminili nei manga, perché è bello anche mettersi in discussione.
Un video illuminante di Masaki C Matsumoto, youtuber giapponese, che racconta da un punto di vista più ravvicinato la sessualizzazione delle figure femminili nei manga.
https://www.facebook.com/YutaAokiOfficial/posts/3245405405522235
Un interessante video dello youtuber e divulgatore Yute che riflette sulla regola attoriale per le interpreti porno giapponesi dell’avere sempre espressioni sofferenti e atteggiamenti reticenti durante l’atto sessuale.
Eleonora Casale ha 26 anni, è nata e vive a Milano, fa la copywriter di professione ma non ha idea di come si faccia a parlare di se stessi in terza persona senza sembrare ridicoli. Alle elementari ha scritto un romanzo fantasy sui quaderni di matematica al posto degli esercizi sulle divisioni; questo, oltre a regalarle una nota disciplinare, le ha fatto prendere una cotta per la scrittura che col tempo si è trasformata in amore. Complicato, come tutti gli amori. Laureata in Beni Culturali prima e in Comunicazione per l’arte poi, compensa le sue evidenti carenze sociali con il giardinaggio, lo sport, la lettura spasmodica di qualsiasi testo e l’esercizio costante del senno del poi. Puoi seguirla su Instagram.
Storia breve del gotico femminile.
La felicità queer: prenderne nota (in attesa del libro di Kevin Brazil).
Sono usciti tre contributi importanti riguardo la proposta di legge ZAN, che prevede “Modifiche agli articoli 604-bis e 604-ter del codice penale, in materia di violenza o discriminazione per motivi di orientamento sessuale o identità di genere” (569).
Una presa di posizione si può leggere sul blog di Non Una Di Meno, un manifesto di solidarietà transfemminista all’interno della comunità queer e che cerca di riprendere spazi per una voce lesbica inclusiva spesso ignorata o silenziata è stato pubblicato su ilmanifesto, e infine una concisa ma illuminante intervista ad Antonia Caruso.
[Alt Text: ritratto di AOC vestita di rosso, bocca e naso coperti da una mascherina, guanti sulle mani. Fonte.]
Poco più di una settimana fa, il politico conservatore americano Ted Yoho ha avvicinato la Congresswoman Alexandria Ocasio-Cortez sulle scale del Campidoglio, additandola (fisicamente e metaforicamente) con una serie di insulti: disgustosa, pazza, fuori di testa, pericolosa. Poi a mezza bocca, quando già si stava allontanando, l’ha apostrofata “fucking bitch”.
La circolazione della notizia anche in altre lingue, compreso l’italiano, si concentra sul commento volgare lanciatole alle spalle e ne è scaturito un dibattito sulla traduzione letterale in ‘fottuta puttana’. La verità però è che la traduzione di bitch in puttana è oramai precisa solo nel caso di son of a bitch, mentre la parola contestualizzata oltre questo modo di dire prende altre direzioni. Forse anche per questa diffusione, nell’uso comune l’offesa bitch è stata riappropriata e risignificata dalle femministe molto più che altre equivalenti offese a sfondo sessuale o sessualizzante (traducibili nelle più comuni declinazioni offensive del termine sex-worker).
Bitch vuole dire letteralmente cagna (‘a female dog’), una parola che ha, di fatto, valore dispregiativo pari a un altro riferimento all’animale non umano ben più frequente in lingua italiana: tipicamente, la vacca o la scrofa. Con “un cane\una cagna” è più comune riferirsi a una persona incapace (basti pensare a Boris), ciò nonostante c’è stato un lavoro di impiego e riappropriazione del termine ‘cagna’ nella sua declinazione evidentemente sessualizzata proveniente dal mondo anglofono: ne è un esempio la canzone Cagna dei Prozac+ (3Prozac+, 2000) o ancora più recentemente, la coesione di un collettivo transfemminista romano sotto il nome di Cagne Sciolte.
Il sostantivo si estende poi nella dicitura del Cambridge dictionary a ‘donna sgradevole’ (ma sgradevole per chi, e in che modo?), all’impiego come verbo (to bitch) traducibile in lamentarsi, criticare; infine, c’è da considerarsi anche l’uso che se ne fa per indicare una persona sotto il completo controllo di chi parla (my bitch).
Insomma, è la mancanza di aggettivo possessivo fa scattare il disgusto per il non controllo: come si permette di essere una cagna sciolta? Se non ammaestrata, la donna-cagna è il male: non risponde al volo se la chiami ma risponde incazzata se la chiami cagna. Una donna “disgustosa, pazza, fuori di testa, pericolosa” – come indica di fatto la sfilza di insulti che Yoho ha verbalizzato aggressivamente nei confronti di AOC –, una parola che racchiude tutto ciò che spaventa e offende chi vuole mantenere salde le dinamiche di potere patriarcali. Il termine bitch quindi è ad oggi multistratizzato: la sua carica semantica raccoglie assieme diverse caratteristiche intollerabili per il genere femminile agli occhi del potere patriarcale. L’esistenza in ribellione al dominio e alla manipolazione sessista trasformano delle qualità positive o neutre in negative (o come tali impiegate da chi offende): libera diventa libertina, critica diventa puntigliosa, insoddisfatta diventa lamentosa.
Nel discorso di AOC viene chiarito ulteriormente come, nonostante l’origine sessuale e sessuata, bitch è offesa trasversale: tutte le donne sono state chiamate bitch almeno una volta e non per gli stessi motivi specifici; e non per motivi legati al campo della sessualità, perché con bitch si intende oramai una donna che non rispetta le regole di sottomissione. La traduzione letterale di fucking bitch rende particolarmente violento l’impiego del termine ma lo fa con enfasi artificiale, cancellando invece la storia linguistica di una parola che nel linguaggio comune è divenuta tanto frequente e poco specifica da adattarsi a ogni contesto in cui si voglia rimettere una donna ‘al proprio posto’, alla subalternità.
A 53 giorni dall’inizio delle proteste in nome e in memoria di George Floyd, in Oregon sono scese in strada le mamme che, tra le altre cose (come formare fisicamente un cordone che proteggesse le persone manifestanti, con le mani alzare, hanno intonato una ninna nanna: “Mani in alto, per favore non sparatemi”.
L’associazione Orlando di Bologna ha creato un podcast dedicato alla poesia femminile e alle sue protagoniste, raccontate da poete e traduttrici.
Cosa sappiamo del femminismo pakistano? E del femminismo africano?
Intervistata dal magazine Metropolis, Leslie Kern, geografa urbana e autrice del recente volume Feminist City. Claiming Space in a Man-made World, racconta in che modo l’architettura e la toponomastica urbana continuano a essere a misura d’uomo e ci mette in guardia dalle lusinghe della gentrificazione ponendoci una sola domanda: certo, le città che inseguono il decoro sono più pulite e più sicure per le donne — ma per quali donne? Sul blog di Versobooks, invece, Kern prova a indicare delle possibili direzioni per rendere le nostre città, se non proprio femministe, almeno non sessiste.
Un’indagine condotta su Italia, Stati Uniti e Regno Unito analizza la ripartizione del lavoro domestico tra uomini e donne durante la quarantena.
Una statua eretta in un giardino botanico per commemorare le comfort women sta creando tensioni diplomatiche tra la Corea del Sud e il Giappone. Abbiamo raccontato chi sono le comfort women nella Ghinea di agosto 2019.
[Alt Text: la statua 영원한 속죄 (Espiazione perenne) raffigura un uomo somigliante al primo ministro giapponese Shinzo Abe che si inginocchia per domandare perdono a una donna coreana. Fonte.]
FATTO DA NOI
Gloria è stata ospite del canale Twitch MYSSBORG per parlare di Ghinea, trasmissione del sapere femminile, cancel culture e attivismo online.
Francesca ha recensito il romanzo Gusci di Livia Franchini per Il Tascabile. Marzia e Livia hanno chiacchierato di letteratura, tuorli d’uovo e traduzione sul canale Decamerette.
UN’ARTISTA
María Berrío. La simbologia dell’appartenenza.
di Simona Iamonte
[Alt Text: L’artista María Berrío in piedi, con alle spalle alcuni dei suoi dipinti di grandi dimensioni. Foto di Brad Ogbonna.]
I lavori della pittrice María Berrío sono ispirati alla cultura ancestrale colombiana, legati alla terra e al rispetto della natura, in cui le figure (in prevalenza femminili) interagiscono tra di loro e con gli animali, che diventano a tutti gli effetti simboli inequivocabili di poteri divini ed in cui l’ambiguità della presenza di questi simboli contrastanti, gioca un ruolo fondamentale nella lettura delle sue opere e del suo pensiero narrativo.
María Berrío nasce in un piccolo villaggio vicino a Bogotà, in Colombia, nel 1982. Immersa nell’umile mondo della sua casa ai piedi delle montagne, Berrío sviluppa proprio nei suoi anni infantili un’appartenenza profonda con la natura e il mondo selvaggio pregno di storia e sentimento, con il quale stabilirà un dialogo silenzioso e personale. Gli anni di crescita nel villaggio colombiano, sono minacciati dalle guerre per la droga condotte dall’esercito nelle foreste circostanti, e così, a 18 anni, Berrío e la sua famiglia sono costretti a trasferirsi a New York, città in cui María studierà arti visive e le consentirà di farsi conoscere al grande pubblico, dai galleristi, fruitori e lavoratori del settore.
[Alt Text: “A Cloud’s Roots” 2018. Due ragazze sono in piedi, appoggiate ad un albero che è la rappresentazione dell’albero chiamato “Sangue di Drago” che cresce su un’isola a largo dello Yemen, e che la pittrice, usa come simbolo di resilienza. L’albero si è infatti adattato durante i secoli a un clima desertico e terre inospitali, capace di radicare e prosperare nei luoghi più impensabili e ostici. La sua linfa è rossa e dà il nome alla tipologia di albero.]
Durante gli anni degli studi al college, Berrío usa la pittura come linguaggio espressivo, che però la porterà ad una forma di frustrazione nel quale dice di non sentirsi debitamente appagata. Da questa frustrazione subentra l’uso della carta giapponese attraverso la tecnica del collage, pratica in cui si ritrova e riesce a racchiudere il caos e la materialità dei suoi pensieri. Proprio la materialità e le varietà delle textures sono un punto focale dell’uso di questo tipo di materali, perché permettono di creare una sorta di tridimensionalità e consentono di giocare con le trame e le fibre della carta, inoltre la tecnica del collage è veloce e riempie facilmente un grande spazio di tela, consentendo di muoversi velocemente.
Negli ultimi anni l’artista spesso si crea da sola questo dipo di carte, rendendole a tutti gli effetti materiale unico con cui lavorare e decisamente più vicino al suo immaginario visivo. Accanto all’uso delle carte stampate giapponesi, Berrío si serve dei colori ad acquerello che completano e addolciscono la nettezza delle texture, contribuendo al risultato finale, disperdendo i contorni e dilatando gli sfondi.
Questo dialogo in contrapposizione tra due medium così diversi come il collage e l’acquerello, si può notare bene nel dipinto “The Nightingale 2” un dipinto del 2017, in cui la nettezza e l’ossessività della ripetizione delle stampe si fonde con le chiazze di colore dell’acquerello che conferiscono profondità e un gioco di luci/ombre, movimentando l’impatto visivo dell’opera.
[Alt Text: “The Nightingale 2” 2017 una figura maschile è in piedi, con uno scialle di piume]
Lavorare con il collage ha una così meravigliosa diversità di trame, suoni diversi emessi mentre vengono strappati. [...] Adoro la diffusione della colla con le dita appiccicose, lo stiramento, il taglio. Questi collage sono costruiti strato dopo strato formando le caratteristiche topografiche sulla tela.
Afferma in questa intervista per It's Nice That.
L’eredità colombiana di María svolge un ruolo importante nel suo lavoro. Saltano agli occhi due elementi fondamentali: le figure femminili e le figure legate al mondo naturale. Le figure femminili della Berrío sono ambigue, ambivalenti che racchiudono forza e fragilità, bellezza e repulsione, donne comuni circondate da figure “totemiche” di rappresentazioni di animali. Parlo di rappresentazioni di animali perché sono a tutti gli effetti dei feticci, proiezioni del divino, della fede in qualcosa, non per forza religiosi, ma della fede verso l’inspiegabile.
Sono rappresentazioni allegoriche del mondo precolombiano in cui gli dei erano rappresentati da animali in base alle caratteristiche osservabili dell'animale e al modo in cui corrispondeva alla funzione del dio. Unirsi a una società animale significava possedere lo spirito di quell'animale e acquisire, in forma arricchita, le capacità di quell’animale. Associarsi alla società dei giaguari, per esempio, significava assumere furtività, astuzia e il potere del giaguaro.
Molti dei simboli della nostra cultura occidentale provengono dalla tradizione visiva e soprattutto dal mondo naturale. Ad esempio la colomba della pace, la mela della discordia, il serpente dell’Eden, sono simboli di dramma interiore, talvolta simboli di sviluppo personale ed etico, ma la nostra capacità di guardare e cercare risposte dentro noi stessi è sempre stata facilitata da simboli visivi, ed è così che l’artista colombiana intende la rappresentazione.
[Alt Text “Cricket Song” 2017. Tre figure umane si trovano nel bosco con i loro cavalli.]
Ad esempio, in “Cricket Song”, un dipinto del 2017, vediamo i cavalli, un simbolo di transizione e resistenza. Le piume che sormontano le spalle delle figure umane, sono come immagini che riflettono il potere o la capacità di trascendere e interagire con gli spiriti, un elemento di vicinanza al mondo spirituale.
[Alt Text: “Aluna” 2017 Cinque figure femminili sono immerse nell’acqua raccolta tra le montagne. Una di queste figure è appoggiata al corpo di una tigre che galleggia a filo dell’acqua.]
Nel dipinto “Aluna” il simbolismo verso pratiche antiche colombiane è molto presente. Il quadro è infatti ispirato ad una pratica del popolo Kogi in Colombia: dopo la nascita, un neonato che è stato scelto per diventare uno sciamano, viene portato in una grotta e ci rimane per nove anni. Durante quel periodo il bambino viene addestrato a entrare in contatto con il mondo interiore fino a quando non viene portato fuori per vedere il mondo che gli hanno solo descritto. Berrío ne trae ispirazione e si immagina il momento in cui la ragazza viene portata fuori dalla caverna e interagisce con un mondo in confusione, inondato dal caos, espresso in primo luogo dallo sguardo della piccola protagonista e dal corpo fluttuante della tigre, ma anche dalla drammaticità della rappresentazione dell’elemento acquatico e dalla solennità delle montagne rosa.
In ciascuna delle opere di Berrío notiamo come il riposizionamento della donna si distacchi dall’idea di oggetto del desiderio, e invece lo vediamo avvicinarsi verso qualcosa di simile a una forza naturale. Con la graduale conquista della natura attraverso l’urbanizzazione, Berrío sembra sentire che le donne reclamano la vicinanza con la natura e che potrebbero esser loro le fautrici di un destino diverso.
Alla luce degli avvenimenti legati a ideali quali il nazionalismo e xenofobia, che negli Stati Uniti si traducono concretamente in interventi mirati ai danni delle minoranze etniche e sociali nell’era dell’amministrazione Trump, l’artista si concentra di più sull’esperienza dell’immigrazione e quindi, anche nella sua personale esperienza, nel quale approfondisce la sensazione di estraniamento e radicazione di una cultura straniera in un contesto capitalista e che tende all’esclusività.
In “Wildflowers”, per esempio, raffigura numerose donne, bambini e animali che animano la composizione e con al centro una carrozza ferroviaria che potrebbe ugualmente riferirsi alla metropolitana di New York City o al treno merci noto come “La Bestia”, che trasporta i migranti attraverso il Messico, passando per le foreste, fino al confine americano della città di Tijuana.
[Alt Text: “Wildflowers” 2017. Donne, animali e bambini popolano il quadro attorno ad un vagone ferroviario]
Le figure rappresentate sono sfollate e sono viste in transizione e incertezza. Elementi che si notano nel dipinto intitolato “Anemochory”, il termine scientifico che descrive la dispersione dei semi di piante dal vento. Alcune piante, come il dente di leone, hanno semi alati che si sono evoluti per prendere il volo. Il seme è in grado di viaggiare grazie al vento, ma senza sapere dove andrà. Così come le figure nel collage, che mancano di controllo. Trascorrono il loro tempo e aspettano che l'ignoto decida il loro destino. E mentre il mondo naturale si è evoluto per promuovere la biodiversità e l'avvento di specie diverse, l'umanità ha avuto più paura dell'altro e ha cercato di separare. Il destino delle figure è quindi meno certo del destino di un seme, eppure i fiori che crescono sul letto suggeriscono che la natura alla fine vincerà.
Anche io sento una responsabilità per la mia comunità, sia latinoamericana che artistica. Vorrei che i miei dipinti rivelassero che essere latini è più che un problema per l'immigrazione, che esiste un prisma di cultura e umanità che è spesso sorvolato, se non trascurato del tutto. Scrive l’artista.
[Alt Text: “Anemochory” 2019. Una ragazza è seduta e tiene nelle mani un fiore giallo. Un'altra è distesa per orizzontale su un letto dal quale nascono dei fragili fiorellini rosa. La composizione è immersa in uno sfondo naturale ai piedi delle montagne.]
O ancora, in “Oda a la Esperanza (Ode to Hope)”, 2019, in cui le ragazze appaiono prigioniere in un ambiente simile a una sede istituzionale, diligentemente sedute e educatamente immobili, fa riferimento alla politica di separazione familiare dell'amministrazione Trump, ossia quella politica per cui migliaia di genitori immigrati del Sud America sono separati dai propri figli, i quali spesso sono a loro volta detenuti in luoghi disumani per dei bambini così piccoli, senza il permesso di poter vedere o parlare con i propri genitori.
[Alt Text: “Oda a la Esperanza (Ode to Hope) 2018. Un gruppo di bambine che indossano dei vestiti dai colori sgargianti, è seduto all’interno di una stanza, ognuna tiene in mano un uccellino.]
I lavori dell’artista colombiana fanno parte di collezioni permanenti di musei come il Whitney Museum of American Art, Pennsylvania Accademy of the Fine Arts e Pérez Art Museum, oltre che di gallerie private come Kohn Gallery, Los Angeles e Victoria Miro, Londra e Venezia.
Oltre alle collezioni private, alla stazione metro Fort Hamilton Pkwy della linea “N” nel quartiere di Brooklyn, si possono trovare otto dei suoi dipinti riconvertiti in mosaici di vetro, ceramica e smalto, che arricchiscono l’ambiente urbano e conferiscono un’aura magica e surreale alla stazione, in dialogo con il mondo esterno.
Simona Iamonte vive a Torino e lavora come illustratrice e pittrice. Puoi seguirla su Instagram.
UNA CANZONE
bitches di Tove Lo ft. Charli XCX, Icona Pop, Elliphant, ALMA
Tove Lo è un’artista svedese che debutta con un EP intitolato Truth Serum, siero della verità, droga che condiziona un essere umano a rivelare le cose per quelle che sono e senza schermi; Tove Lo raccoglie appunto in totale onestà tutte le fasi di una (possibile) relazione romantica che va dall’euforia e dall’eccitazione dell’innamoramento (una gioia che si raggiunge anche Not on drugs) e che prosegue in uno stato di continua felicità, senza bisogno di alterare il proprio stato o la verità (We love for real without the lies / is that what they call paradise?); la caduta dal paradiso però pare inevitabile e qui l’intimismo lirico di Tove Lo si presta a una svolta interessante. Sempre in nome di quella verità dichiarata in titolo d’album, l’artista non nega le sue colpe o il rapporto di complicità che la storia aveva mantenuto fino ad allora nella sua luce positiva e che ora, nel momento del confronto, le si ritorce contro: Should I deny and maybe dodge this bullet? You read my mind, I just can’t lie. Proprio per celebrare quell’onestà sentimentale e morale, Tove Lo non si presenta come vittima ma ci accompagna nelle sue vicende personali senza mascherare i propri errori e sottraendosi alla narrativa pop generica e si fa estremamente reale quando sostituisce alla quotidianità della relazione una fase di recupero fatta di presunte cattive abitudini (mostrate apertamente in video oltre che esplicitate nel testo di Habits), ma in verità strategie di coping, come mangiare nella vasca, visitare sex club, e – chiudendo il cerchio con cui si apre il disco – assumere diverse droghe; abitudini che descrive senza giudizio o stigma, e rispondendo a chi le chiede se non ha paura di essere un modello negativo per chi la segue “Avrei questa responsabilità, molto più che i miei colleghi, perché sono una ragazza e faccio musica pop?”
La serie di sventure amorose, così precisamente e dolorosamente descritte nelle sue canzoni, le hanno guadagnato nel tempo il titolo informale di “La ragazza più triste di Svezia”; Tove Lo dal canto suo tiene presente la sua tristezza lirica ed energica, che dipana nella produzione continuando a porre al centro le relazioni - soprattutto ma non unicamente amorose e sessuali -, mediando questa introspezione con un’esuberanza positiva nei confronti di aspetti della liberazione extra-romantica spesso ancora tabù, come la sessualità fluida e sex positive che, nei suoi testi, non scende a compromessi con alcuna visione esterna del femminile.
Il sesso è un tema fondamentale per Lo che, già l’anno seguente, conferma di non poter essere ignorata nel panorama internazionale con l’uscita del terzo singolo,Talking Body. La canzone descrive un rapporto concentrandosi completamente sulla sinergia comunicativa di corpi fisici. I corpi umani ‘pensati per fare bambinx’, come canta Lo, vengono messi a totale disposizione del piacere, mentre e le amarezze della relazione vengono messe in pausa per dedicarsi alla soddisfazione vicendevole dei desideri.
[Alt Text: fotografia di Tove Lo sul palcoscenico, in occhiali da sole, top, pantaloncini inguinali decorati con borchie e calze glitterate. Fonte.]
I due album successivi vengono costruiti secondo una narrativa interna simile a quella già proposta; quattro fasi delle relazioni interpersonali vengono suddivise, due a due, tra Lady Wood e Blue Lips. Ad annunciare Lady Wood è il singolo Cool Girl: tra sarcasmo ed effettiva rivendicazione, e accompagnata da un video esplicitamente sessuale, Tove Lo asseconda con ironia lo stereotipo che vede le donne dover mascherare le proprie intenzioni romantiche per non spaventare la controparte ma andando ad attaccare la vera e propria struttura delle dinamiche di potere che caratterizzano le relazioni. Nella consapevolezza e nel desiderio di smarcarsi da queste ridicole pantomime, Tove Lo raggiunge il vero stato di noncuranza che permette di concentrarsi sulla relazione in quanto tale e su come ci poniamo all’interno di queste relazioni di coppia che sembrano avere un copione già scritto. Rifiutando qualsiasi retorica delle aspettative di genere che la vedrebbero alla disperata ricerca di imporre le condizioni di una relazione romantica standard (eteronormativa, monogama, e così via), si scopre felice solo con qualcosa di vero – a prescindere da cosa sia. Ispirata dal monologo dal film Gone Girl, Lo aggiunge la propria esasperazione e infine la sua riappropriazione dell’essere cool oltre lo sguardo maschile.
Completamente smarcato dallo sguardo maschile è il singolo di maggiore successo del secondo album, bitches, che infatti si infila nei titoli di coda di del cortometraggio Fairy Dust costandone però la ripetuta censura (“Mi hanno censurata perché mi masturbo, e non ero neanche nuda!”, commenta Tove Lo) e che a stretto giro dalla sua uscita, in chiusura a un’intervista che racconta il disco Blue Lips, viene presentato come possibile campo di incontro di diverse interessantissime realtà dell’electro-pop.
Il 7 giugno del 2018, in piena celebrazione del Pride Month, viene rilasciato un remix ufficiale della canzone sotto la semplificazione del titolo a bitches e con cui si formalizza la felice collaborazione con artiste quali Charli XCX, Elliphant, ALMA, e Icona Pop. Il testo è un esplicito inno all’orgasmo femminile e alle pratiche sessuali saffiche: apre con l’imperativo di apprezzamento dei genitali della cantante, invitando contemporaneamente alla celebrazione del corpo suo e dell’amante (know your own love, specificamente). Tove Lo, che ha cantato e dichiarato in più occasioni la sua bisessualità, descrive con passione meticolosa il sesso orale tra donne: dato e ricevuto (I call it respect when you givin’ what you get, so, baby, spread your legs I’ll do the same). Nel panorama scarno di canzoni sessuali per coppie di non-maschi, questa canzone manda un segnale di positività e spensieratezza che destabilizza ogni retorica pornografica di sguardo maschile sul lesbismo, omettendo completamente gli uomini e quindi di fatto escludendone ogni possibile punto di vista perché, semplicemente, non rilevante, così come anche ogni tratteggiamento obbligatoriamente romantico e drammatico, così come spesso imposto – o ereditato – dalla narrativa eteopatriarcale delle relazioni omoerotiche. “[Tove] Lo specifica di voler passare “una notte” con una donna, ma non perché si tratti di una donna […] [l’evento[ non viene giustapposto a una relazione con gli uomini”.
Nella versione remix e corale, la canzone viene accompagnata da un video altrettanto esplicito – girato con accortezza da Lucia Aniello (già collaboratrice del sex-positive queer show Broad City) – che si concentra, soprattutto, sul verso let me be your guide when you eat my pussy out. Una coppia composta da un uomo e una donna si presentano a quella che si rivela presto essere una scuola di educazione sessuale teorica e pratica, che insegnerà a lui come soddisfare la sua partner attraverso una attenta pratica del cunnilingus, secondo consigli impartiti dalle celebri e meno celebri personalità del featuring. L’estetica estremamente queer esalta enormemente le qualità della canzone, aggiungendo il panorama BDSM e una danza collettiva delle insegnati, tra luci al neon e in cerchio attorno alla coppia in visita per osservare che il corso di preparazione porti a risultati concreti. Tutto avviene nel consenso della coppia eterosessuale che, all’inizio del video, vediamo leggere e firmare una liberatoria: un’accortezza dello storytelling da non sottovalutare.
Nella strofa che viene aggiunta e cantata da ALMA e Elliphant, che si sviluppa in totale celebrazione del femminile esplicitamente venerativa, attraverso i riferimenti alla mitologia greco-romana (ad esempio a Ecate), troviamo in effetti un riferimento al maschile: It's a new day of bitches that no man can tame. Lo slittamento di significato della parola bitches, che prima aveva connotati di complicità ma anche di precisamente voluta superficialità (poiché si trattava di una descrizione del piacere del sesso casuale: delle bitches in quanto partners, Tove Lo dice che non può fidarsi ma sicuramente sapranno darle ciò che desidera per la notte), qui si riferisce più probabilmente al gruppo di amiche che cantano assieme e che riconoscono attorno a loro questo stessa consapevolezza del proprio valore, oltre che del proprio desiderio, che finalmente si manifesta in un comportamento che non permette alcuna dominazione da parte del maschile.
La complicità tra soggetti non maschili non è solo un motivo dei suoi testi e dei suoi video, bensì una pratica dimostrata attraverso collaborazioni continue con artistx non uomini e dalla gioia da cui nascono e con cui vengono offerte al pubblico.
Il video del dietro le quinte di bitches.
Ringraziamo Eleonora e Simona per aver contribuito a questo numero di Ghinea, e come sempre ti invitiamo a scriverci se ti piacerebbe fare altrettanto. Speriamo che il nostro libretto ti faccia compagnia durante il prossimo mese!
Un abbraccio.
Francesca, Gloria e Marzia