Benvenutx a Ghinea, la newsletter inerte di fronte al ventilatore. Questo mese tornano a trovarci Cristina Resa, che analizza per noi il film Piccolo Corpo, e Marta Magni, che ci parla del reality I Kissed a Girl. Ma prima tutte le istruzioni per poter aiutare, tuttə insieme, chi si trova in Palestina. Buona lettura!
UN NUMERO SPECIALE PER LA PALESTINA
Come ti abbiamo anticipato a giugno, stiamo preparando un numero speciale insieme a moltə amicə di Ghinea, che ringraziamo e che ti presentiamo:
Amy Appiani, Ludovica C., Rachele Cinerari, Marianna Crasto, Sara Deon, Graziana Marziliano, Paola Moretti, Martina Neglia, Silvia Pelizzari, Lou Pinelli, Chiara Reali, Alberto Rizzelli, Viola Stefanello, Elena Strappato.
Alcunə di loro hanno già fatto parte di Ghinea, altrə appariranno per la prima (e speriamo non ultima) volta. Tuttə stanno dandosi da fare e mettendo a disposizione il proprio tempo per aiutare la Palestina come possiamo.
Il prossimo speciale, infatti, sarà spedito alle persone iscritte a Ghinea che ci avranno mandato la ricevuta di una donazione per aiutare i civili palestinesi. Qui puoi trovare alcuni nostri suggerimenti, non vincolanti: ONG che operano a Gaza o nei territori occupati, UNRWA, MSF, Oxfam, Save The Children, Vento di terra, Olive Branch, ActionAid, raccolte fondi che vengono costantemente segnalate qui.
Per poter leggere lo speciale, non dovrai far altro che inviare la tua ricevuta al nostro indirizzo e-mail entro il 14 agosto, con l’oggetto DONAZIONE PALESTINA.
Abbiamo già ricevuto diverse e-mail, e non possiamo che ringraziare chi sta partecipando al nostro piccolo progetto di solidarietà. Se hai già donato o hai intenzione di farlo, aspettiamo il tuo messaggio. Se non ti è possibile, puoi comunque aiutarci diffondendo questa chiamata nei tuoi profili social. Il nostro scopo è raccogliere più donazioni che possiamo perché, come sai, la situazione a Gaza è disastrosa: il tasso di disoccupazione è elevatissimo, le infrastrutture che sono rimaste in piedi non sono funzionanti, mancano cibo, acqua, e medicine, la popolazione è piagata da malnutrizione e malattie. Di recente è stato rilevato il virus della poliomielite, che mette a forte rischio lə bambinə molto piccolə che negli ultimi mesi potrebbero non aver ricevuto i necessari vaccini. Oltre a questo, naturalmente, ci sono i bombardamenti e i soldati dell’esercito israeliano che agiscono in sostanziale impunità.
Solo pochi giorni fa, il criminale di guerra Benjamin Netanyahu è stato ricevuto dal congresso statunitense, dove ha potuto pronunciare un discorso di una violenza e di una falsità intollerabili: è stato salutato con una standing ovation, in linea con il supporto pressoché totale della comunità internazionale.
Non vogliamo pensarci impotenti. Possiamo invece far molto: non distogliere la nostra attenzione, restare sempre informatə, aderire ai boicottaggi, presentarci alle manifestazioni. Possiamo partecipare e contribuire a creare a una società civile avversa al genocidio. E possiamo aiutare chi si trova in Palestina a fare fronte a immense necessità materiali, se ci avanza una ghinea.
L'Uroboro della visibilità: I Kissed a Girl
di Marta Magni
[Alt Text: immagine a mezzo busto con Dannii Minogue in abito lavanda sulla sinistra, una coppia si scambia un bacio sulla destra, una replica di una masseria bianca sullo sfondo.]
Nell’estate ormai rinominata da più voci “del rinascimento lesbico” la televisione si trova ancora una volta nella posizione di inseguitrice dello zeitgeist e fanalino di coda di un riflettore ampiamente puntato sul mondo della musica, in parte puntato sul mondo del cinema e un po’ interessato al mondo della moda ma non troppo che resta un settore elitario.
Le lesbiche sono ovunque - le lesbiche sono interessanti - e la tv ha una fortissima FOMO da arginare.
L’anno scorso era il turno (rivoluzionario?) di Ultimatum: Queer Love, quest’anno le attenzioni saffiche sono tutte concentrate su I Kissed a Girl, reality della BBC (altro piano spazio temporale rispetto a Netflix quindi, decisamente altra portata) andato in onda dal 5 maggio 2024 e facilmente reperibile gratuitamente sulla piattaforma della medesima rete.
Così come The Ultimatum anche a I Kissed a Girl è una costola di un programma già avviato in precedenza I Kissed a Boy, sempre prodotto dalla BBC e come I Kissed a Girl (da qui in poi IKAG) presentato da Dannii Minogue e ambientato in una lussuosa masseria pugliese.
E come The Ultimatum: Queer Love poteva decisamente venire meglio.
La genesi dei reality show ha radici lontane. Se in Italia la prima edizione del Grande Fratello è datata settembre 2000 negli Stati Uniti si è iniziato a sperimentare con questo genere già dal 1992, con la prima edizione di The Real World andata in onda su MTV - emittente che a discapito della sua originaria matrice musicale ha finito per realizzare alcuni fra i più iconici programmi-reality dei primi anni 2000, tra cui nomi di grosso calibro e enorme risonanza mediatica come The Hills, Laguna Beach e Jersey Shore.
Trentadue anni dopo la prima stagione di The Real World è difficile immaginare una televisione senza reality: tutto è diventato una commodity attorno al quale si può costruire una narrazione con telecamere ad infrarossi e regole volubili.
Dai vestiti da sposa, alle case da comprare, alla sopravvivenza in territori inospitali, quel primo battito di ali di una farfalla su MTV ha generato un uragano in tutto il mondo probabilmente secondo solo all’uragano che saranno poi i social media (uragano nel 2003 se consideriamo Myspace o 2006 se consideriamo Facebook).
Se tutto è diventato una commodity, perché la queerness (o meglio, una sua versione spogliata da qualsiasi sfumatura politica, priva di qualsiasi rivendicazione, più volte che no bianca, più volte che no magra, più volte che no giovane, più volte che no abile) dovrebbe essere da meno?
In italia si sono susseguite diciassette diverse edizioni del Grande Fratello e, fatta eccezione per una breve dimenticata edizione del “trono gay” a Uomini e Donne e la versione italiana di RuPaul Drag Race - la cito solo per poter linkare questo video, uno dei pochi momenti cui il sistema calcio italico e la comunità LGBTQ si sono ritrovati nella stessa stanza -, di omosessualità nei reality italiani (nella tv italiana) non se n’è vista molta, e quella poca che c’era si fa fatica a dire fosse raccontata bene.
[Alt Text: immagine a mezzo busto di Ciro Immobile in camicia variopinta e Jessica Melena con abito viola giudici per una puntata di Drag Race Italia. Sullo sfondo fucsia una serie di neon bianchi.]
Ad inaugurare la lista dei reality a tema LGBTQ c’è ancora una volta MTV con A Shot Of Love with Tila Tequila (2007) e poi una serie di medio-piccole produzioni in giro per il mondo che a differenza di Tila Tequila hanno raramente generato un qualsiasi impatto nel discorso televisivo e ancora meno impatto nel discorso pubblico. (Dopo una carriera altalenante nel mondo della tv,Tila Tequila è finita per diventare uno dei simboli dell’alt-right americana. La queerness, dicevamo)
Il 2024 è l’anno di Couple to Throuple (marginalmente queer, 100% caos,) il neonato The Boyfriend, e appunto, eccoci qui, A Kissed a Girl.
Così come la sua versione maschile - e così come la maggior parte dei reality sentimental-romantici - anche le concorrenti di IKAG sono in tv con l’impegnativo compito di trovare la loro anima gemella. Le dieci puntate del programma si trascinano sotto il sole italiano con un refrain ripetuto dalla puntata uno alla puntata otto: limoni dati a volte con sentimento, a volte senza nessun pathos, challenge per sondare la compatibilità fra le concorrentə, serate a tema, eliminazioni, via tutto da capo. La serie si chiude con l’immancabile puntata reunion/colpi di scena a base di recriminazioni e vari “sui social si dice che tu.”
Ai reality dell’omosessualità piace raccontarsi che va bene l’intrattenimento ma loro lo fanno anche per una causa più nobile, loro lo fanno perchè la comunità LGBTQ è ancora fortemente non-rappresentata tanto in televisione quanto sui media (e chi può negarlo) e loro questa situazione la possono cambiare con la visibilità.
Un uroboro di visibilità che si nutre della visibilità che crea in attesa di altra visibilità che renderà visibile quellə che vogliono vedersi rappresentatə dalla tv che risponderà così a un bisogno di visibilità con altra visibilità che eccetera. Non c’è bisogno di fare le cose bene, di costruire qualcosa di convincente, quando hai la visibilità dalla tua.
[Alt Text: l’intero cast di IKAG, foto dei corpi integrali in successione.]
In questo mondo di visibilità riflessa che va avanti lento e inesorabile senza scomporre l’ordine delle cose, senza intaccare sogni d’amore, senza mai staccarsi dal vecchio adagio love is love - slogan che davvero dovremmo lasciarci alle spalle - non c’è spazio per il conflitto, non c’è spazio per nessuna sfumatura negativa, non c’è spazio per quello che di concreto succede al di fuori della masseria. È la Puglia perfetta che ha fatto da sfondo al G7 ad incorniciare le storie di IKAG, è una cornice perfetta e pucciosa senza nessun “villain edit”, senza nessuna nuvola in cielo. Ci si trova, ci si ama, ci di dichiara davanti a un finto altare con tuttə i tuoi parentə presenti (infantilizzante? Cringe? Retorico? Scegliete voi, per me tutte e tre) si torna in UK ad aspettare un colpo di scena.
Se musica cinema e moda che alimentano il rinascimento lesbico hanno saputo osservare la realtà circostante, interpretarne i codici, e restituire una varietà di opzioni che va bene non saranno tutte le sfumature possibili ma sono più variegate di anche solo sei mesi fa - la tv dell’omosessualità restiuisce lo stesso piattume degli anni passati senza nessun rimorso e senza nessun guizzo.
Troppo pavida per mostrare le relazioni LGBTQ quando erano ben più osteggiate, quando per rifarci al loro paradigma la visibilità avrebbe smosso ben di più, forte di un potere ormai offuscato la tv continua a presentare come verità una narrazione gay perfetta e perfettamente noiosa che vive, di fatto, solo del merito di essere “reale”.
Trentadue anni fa quando iniziava The Real World per vedere il reale bisogna aspettare gli spazi disegnati dei telegiornali, fra noi e il reale c’erano strati e strati di curatela esterna, di selezioni e editing. Il reale non ci apparteneva e non ci cercava.
Ora, grazie ad altri uragani, ad altre tecnologie, il reale al di fuori della nostra quotidianità è disponibilissimo tutto il giorno tutti i giorni:
[Alt Text: screenshot di un tweet di @stonershelb. Traduciamo: “Nel 2024 puoi vedere il video di un bambino decapitato durante la pausa & poi tornare a un lavoro che non ti fa guadagnare il minimo salariale le cui tasse contribuiscono alla decapitazione dei bambini”.]
Il reale della tv è ormai ridotto solo a un’ombra, e il suo potere di editor e selezionatore del reale da confezionare completamente svuotato da ogni senso.
Possiamo allora mettere da parte questa supposta vocazione salvifica e messianica, e iniziare a farli decentemente ‘sti programmi, per favore?
Marta Magni si è laureatə in filosofia, ma una vita fa. Vive a Berlino e ha una newsletter queer tutta sua.
Sarah Jaffe commenta le ultime elezioni del Regno Unito.
Un’intervista ad Annie Ernaux.
Masha Gessen fa il punto sulla questione delle violenze sessuali compiute dai miliziani di Hamas il 7 ottobre, districandosi fra la necessità assoluta di credere alle vittime, la consapevolezza che questi stupri hanno una spendibilità politica che si traduce nella giustificazione ai massacri di civili, e la difficoltà oggettiva di provare una o più violenze sessuali in un contesto di guerra.
Jessa Crispin scrive e parla di JD Vance, il candidato vicepresidente del partito repubblicano statunitesne.
Giorgia Bernardini recensisce Incorreggibili di Paola Moretti.
FATTO DA VOI
Nicoletta ha intrapreso un’avventura personale che si è trasformata in un movimento collettivo: CareerBreakers. Questo podcast, attualmente solo in lingua inglese, racconta, attraverso interviste dirette, la decisione di diverse donne di lasciare il proprio lavoro e interrompere una vita 'stabile' per ritrovare salute, benessere e raggiungere nuovi obiettivi. CareerBreakers è anche una vivace community su Facebook.
Alessia Ragno ha letto Biografia di X di Catherine Lacey.
UN FILM
Tornare al mare: su Piccolo corpo di Laura Samani
di Cristina Resa
Attenzione: il pezzo analizza un film che affronta tematiche legate al lutto e la perdita neonatale e contiene continue rivelazioni sulla trama, compreso il finale, del film in esame.
[Alt Text: frame da Piccolo corpo. In primo piano, una giovane donna, Agata, guarda verso l'orizzonte. Sullo sfondo sfocato, un gruppo di donne vestite con abiti d'epoca osserva la scena. Fonte.]
“Se non hai un nome è come se non esistessi” dice Agata (Celeste Cescutti), la protagonista di Piccolo Corpo, diretto da Laura Samani e co-sceneggiato insieme a Marco Borromei e Elisa Dondi. Pronuncia queste parole circa a metà del suo viaggio, e la persona che l'accompagna, Lince (Ondina Quadri), le risponde con un tono ambiguo, a metà tra una domanda e un'affermazione: “Tu non esisti se nessuno sa che al mattino ti svegli e respiri. Se io morissi adesso, nessuno lo saprebbe”.
Siamo a cavallo tra ‘800 e ‘900. Dopo aver perso la figlia durante il parto ed essersi vista negare dal prete del villaggio la possibilità di battezzarla, di scegliere e assegnarle un nome, Agata parte dalla sua isola del nord-est dell'Italia per dirigersi ancora più a nord, sul continente, e raggiungere un santuario tra le montagne. Qui si dice che le vittime di morte perinatale possano essere riportate in vita per un solo singolo respiro, giusto il tempo di dare loro un nome, battezzarle e salvarle dal limbo eterno che lei attende.
Dare un nome, quindi: Piccolo corpo, presentato in concorso alla Semaine de la critique di Cannes nel 2021, uscito in sala nel 2022 e da qualche mese disponibile su RaiPlay, parte da qui, dal nome, per raccontare una storia intima di perdita e ricerca d’identità. Lo fa, però, attraverso due dimensioni, una letterale e una allegorica, che si alimentano vicendevolmente e allargano costantemente gli orizzonti della narrazione, abbracciando motivi e suggestioni provenienti da diversi ambiti. In questo modo, il film riesce ad acquisire un valore emblematico, pur svolgendosi in un contesto rurale ben determinato, tratti temi legati al femminile e sia recitato in dialetto friulano e veneto.
Uno degli spunti di partenza arriva dalla storia e dal folklore locale. Come racconta la stessa Samani in un’intervista rilasciata a Ilaria Feole e pubblicata sul numero 39 della newsletter di Film TV Singolare, Femminile:
Mi è stato raccontato dell'esistenza di questi "santuari del respiro" e io, che non ne sapevo niente, proprio come Agata all’inizio del film [...] ho cominciato a indagare un po': ho scoperto che in Friuli ne esistevano tre, uno esiste ancora, è una chiesetta montana, la chiesa di Trava.
Questi santuari, detti à répit, sono rintracciabili nella Francia orientale già fra la fine XIV e l’inizio del XV secolo e si sono diffusi lungo tutto l’arco alpino, come testimoniano documenti d’archivio e atti d’indagine redatti dall’Inquisizione, in particolare risalenti al Seicento. Il santuario di Trava, a Lauco, citato dalla regista, è uno di quelli più noti, attivo dalla seconda metà del XVI al XIX secolo circa. Qui, pare, si celebrasse il rituale a cui fa riferimento anche il film, ovvero quello della doppia morte.
Scrive a novembre del 1681 fra Antonio Dall'Occhio, preposto al tribunale Sant’Uffizio di Udine:
[...] nella villa Trava sopra Tolmezo per andar nella Carnia vi sono alcune donne malvaggie, le quali da molti anni in qua di consenso del pievano abusano il sacramento del battesimo e con inganno di fedeli fingono morti risuscitati. A dette donne dunque vengono portati li bambini che morti escono da materni ventri et esse li espongono avanti l'altare della Madonna, fanno celebrare la santa messa, fare orationi particolari et all'improviso gridano che la Madonna ha fatto miracolo, che il bambino ha dato segni di vita, aperto un occhio, mandata una lagrima, mosso un braccio, urinato; e subito con acqua che tengono in pronto lo battezano, poi battezzato dicono che di nuovo torna a morire e lo sepeliscono [...].
Naturalmente, questo tipo di rituale non è ben visto dall’Inquisizione e considerato alla stregua di un inganno, una frode, tra l’altro messa in atto da officianti femmine che, nonostante non abbiano reali poteri secondo il compilatore, portano subito alla mente la stregoneria (“donne malvaggie”) e forme di spiritualità popolare che mettono in discussione l’ordine costituito, ecclesiastico e patriarcale. Come sostiene Silvano Cavazza dell’Università di Trieste, nel saggio La doppia morte. Resurrezione e battesimo in un rito del Seicento, in cui appunto sono analizzati questi documenti:
La credenza nelle resurrezioni temporanee può dunque esser vista come la reazione degli affetti familiari nei confronti di una dottrina teologica astratta e crudele, dalla quale derivavano solo condanne senz'appello [...] ma sembra altrettanto legittimo ritenere che le condanne ecclesiastiche abbiano soltanto ricondotto la credenza nella doppia morte dentro quel mondo folklorico, ai margini se non al di fuori della tradizione cristiana, in cui originariamente essa si era formata.
[Alt Text: frame da Piccolo corpo. Al centro dell'immagine, una figura coperta da un velo bianco è accompagnata da altre donne che la tengono per mano mentre camminano su una spiaggia. Fonte.]
Dunque, ci troviamo in un contesto religioso, sincretico e contiguo al pensiero magico. I rituali sono qui un’espressione chiara di quello che lo storico delle religioni Ernesto de Martino chiama “crisi della presenza”, ovvero il “rischio di non esserci nel mondo e la scoperta di un ordine di tecniche (magia e religione) destinate a proteggere la presenza”. In questo caso, naturalmente, la crisi della presenza ha a che fare non soltanto con la paura del non esserci, ma soprattutto con il timore di perdere i propri affetti e, nello scenario cristiano cattolico, di non potersi ricongiungere con loro dopo la morte. Questo aspetto è certamente presente nel film di Samani, ma non ne rappresenta il nucleo. Agata vive in un preciso contesto, il suo punto di vista è totalmente allineato al dogma religioso della sua comunità e non vuole che la sua bambina sia confinata nel limbo. Tuttavia, lo sguardo esterno, quello della regista e di conseguenza anche il nostro, è rivolto verso un piano di significato non religioso ma psicologico e, se vogliamo, ontologico.
[...] una delle domande che il film si pone è "ma quindi chi siamo, se nessuno sa il nostro nome?", con valenza metaforica. Ho voluto fare questo film anche per coinvolgere più persone in questa pratica, per me molto importante, di ricerca di senso. Io stessa avevo dubbi e non ero ben sicura del perché mi interessasse parlare di questi miracoli e dei santuari, e in questi anni di lavorazione, insieme ai miei compagni di squadra, spesso abbiamo parlato più di vita che del film; a volte il film era solo un pretesto.
È interessante sottolineare che, anche stando alla documentazione storica sul rituale della doppia morte, erano gli uomini a compiere questo viaggio verso il santuari à répit. Samani, Borromei e Dondi, in Piccolo corpo, scelgono di rappresentare questo viaggio dal punto di vista, affettivo e non legato al ruolo imposto dalla società, di una madre che affronta il processo di elaborazione del lutto e che si costruisce intorno all’atto del “dare un nome”.
“L’attribuzione di un nome rappresenta la «soglia degli affetti»” scrive l’antropologo João de Pina-Cabral nel suo saggio sulla costruzione sociale della persona. Il nome, dunque, “identifica e distingue la persona nello stesso tempo che la situa in una rete di relazioni familiari". È interessante che venga utilizzato il termine soglia, attribuendo quindi all’atto di nominare un valore liminale e individuando un momento che si può configurare come un rito di passaggio sia per chi nomina, sia per chi riceve il nome, in cui può avvenire una transizione di identità. In questo caso, l’atto di nominare la figlia nata morta, per Agata, diventa un modo non solo per sancirne l’esistenza, ma per sviluppare con lei un legame di tipo sociale e dare concretezza al proprio dolore. In poche parole, per elaborare sia la nascita che la perdita e renderla tangibile. L’etnografo Arnold van Gennep, nel suo studio sui sui riti di passaggio, dedica una sezione proprio ad analizzare esperienze come possono essere quella del lutto, ma anche la gravidanza o il parto, in cui si vive una fase di «margine», di sospensione dal contesto ordinario. Una zona liminale nella quale si entra tramite la «separazione» e dalla quale si esce mediante rituali di «aggregazione». È proprio quello che cerca Agata nel suo viaggio verso il santuario del respiro, che a ben guardare si configura come un percorso ascensionale dal mare verso le montagne, che tuttavia ha la forma di una discesa negli Inferi di stampo classico, raccontata attraverso la struttura tradizionale della fiaba. Ma andiamo per ordine.
La prima cosa che colpisce in questo senso, è che, al contrario dei modelli in cui alla catabasi (discesa) segue spesso un’anabasi (risalita), qui i due percorsi, uno effettivo e uno allegorico, coincidono. Agata, abbiamo detto, è diretta verso un santuario montano, ma il suo viaggio richiama uno dei motivi ricorrenti nella mitologia vicino-orientale e classica, ossia la ricerca degli affetti perduti nell’oltretomba. A un certo punto della narrazione, peraltro, vediamo Agata e Lince attraversare una miniera, quindi entrare nelle profondità della terra, per poi riemergere in superficie a un livello più elevato. L’illogicità di questa concomitanza di piani richiama, in qualche modo, pratiche che hanno a che fare con il lutto. È ancora de Martino, in Pianto e morte rituale, che usa i due termini derivati dal greco per analizzare alcune lamentazioni euromediterranee che si costruiscono sulla contraddizione di negare prima l’evento luttuoso, pensando alla persona defunta come in procinto di svegliarsi, e poi accettarne la dipartita.
Come scrive de Martino:
Ricerca rituale e discorso della lamentazione costituiscono [...] il sentiero tradizionale, il cammino protetto, lungo il quale si compie la catabasi verso il rischio e l’anabasi verso una soluzione di compromesso che restituisce orizzonte alla presenza.
In questo contesto, la discesa ha a che fare con il rischio emotivo associato all’immersione nel proprio dolore, che deriva dalla negazione, mentre la risalita riguarda una situazione di equilibrio, in cui il ricordo delle persone defunte è integrato nell’esperienza di chi rimane. All’interno del film questo legame non è frutto di una volontà esplicita di sceneggiatura, ma è interessante notare come nella vicenda di Agata, nel modo in cui la donna si muove attraverso lo spazio in modo fisico, risuoni comunque una tradizione legata a una ritualità che riguarda l’elaborazione psicologica della perdita.
Come rivela Laura Samani in un’intervista pubblicata su Taxidrivers da Carlo Cerofolini:
dal punto di vista fisico, quello di Agata è un viaggio ascensionale, dal mare alla montagna, dal punto di vista psicologico ed emotivo accade l’esatto contrario, c’è uno sprofondamento.
[Alt Text: frame da Piccolo corpo. Lince in primo piano tiene in mano un canarino e lo osserva, mentre cinge con un braccio una gabbia di legno. Più indietro, Agata seduta su un prato guarda verso il cielo con il braccio sollevato. Sullo sfondo, delle rocce fanno da cornice alla scena e si intravede un varco nella montagna. Fonte.]
Ed è proprio attraverso la struttura della fiaba che questo percorso può essere rappresentato in maniera immediatamente comprensibile e universale in termini di lettura. La scansione degli avvenimenti, l’entrata in scena dei personaggi e la tipologia di situazioni che costituiscono il racconto sono chiaramente ispirate alle principali funzioni codificate da Vladimir Propp, a cominciare dall’allontanamento e la rottura del divieto, che sono motori dell’azione: Agata si allontana da villaggio dopo il rifiuto del prete di battezzare la figlia, dunque ignorando esplicitamente l’autorità religiosa, e quello del marito di affrontare insieme a lei la situazione di crisi, che sicuramente vive in modo diverso. Nel farlo, di fatto, compie un atto di ribellione nei confronti del potere patriarcale che, in qualche modo, disumanizza la perdita. “Ne faremo altri” dice il marito, sostituendo agli affetti individuali le funzioni sociali e riducendo la maternità all’aspetto riproduttivo.
Quello di Agata è un viaggio individuale, ma nel sul suo cammino incontra una serie di aiutanti: viene segretamente informata dalla perpetua (la prima di molte figure femminili che indirizzeranno il suo percorso) e poi dal saggio del villaggio, Ignac, dell’esistenza del santuario; si imbatte in Lince, e questo si rivelerà il più significativo di tutti gli incontri; viene soccorsa da alcune curatrici che agiscono, in contesto fiabesco, come donatrici e che le forniscono supporto essenziale per proseguire. Nel corso di quella che assume tutti i connotati di una quest, inoltre, affronta numerosi ostacoli. Viene rapita per essere venduta come balia per l’allattamento, episodio che sottolinea ancora una volta una visione patriarcale del femminile legato al tradizionale ruolo di cura. Subisce l’attacco di una banda criminale, trovando comprensione solo da parte di una brigantessa. Deve, come già detto, attraversare una miniera che, secondo la superstizione, inghiottisce le donne. Inoltre, il film utilizza una serie di dispositivi narrativi e stratagemmi volutamente classici. Per esempio, c'è il mistero - non per il pubblico ma per i personaggi - che avvolge la preziosa scatola che Lince chiede come pagamento per accompagnare Agata verso il santuario, strappando la promessa irrealizzabile di riceverne la metà. La scatola, sappiamo, contiene il “piccolo corpo” della figlia di Agata.
Se da una parte, dunque, il racconto aderisce alla morfologia della fiaba, dall’altra la sovverte in modo quasi radicale, soprattutto nell’ultimo atto della narrazione, dimostrando come si possa adottare un linguaggio specifico senza essere limitata dalla rigidità della sua struttura e che gli archetipi devono essere funzionali, non viceversa. Certamente non devono rinchiudere le storie in gabbie.
Il modello su cui si basa l’evoluzione del personaggio di Agata ha, in effetti, elementi in comune con il viaggio eroico nella sua connotazione femminile, codificata dalla studiosa Maureen Murdock. Un cammino che si configura in modo diverso rispetto a quello maschile, legato tradizionalmente alla teoria di Joseph Campbell, non solo come percorso di crescita e affermazione, ma innanzitutto come riscoperta di sé e riappropriazione della propria narrazione. È in questo senso che Piccolo corpo racconta una storia femminile. Non perché la maternità è uno degli elementi narrativi della vicenda, ma perché il film mette in scena l’esperienza intima di una donna che attraversa spazi abitati da persone, in particolare altre donne ma non solo, che si muovono ai margini della società patriarcale. Lo sguardo femminile diventa così la porta di accesso universale a un mondo che ha le proprie regole e la propria ritualità.
Samani fa un incredibile lavoro di world building. Sceglie un’estetica documentaristica, lavorando sulla luce naturale, sulle inquadrature e creando un paesaggio sonoro quasi esclusivamente diegetico attraverso il canto rituale. Le sequenze si svolgono principalmente all'aperto, ma la macchina da presa riduce gli spazi stando spesso a ridosso dei corpi - un po’ come succede nel cinema di Laszlo Nemes (Il figlio di Saul, Tramonto), influenza dichiarata della regista insieme a Kelly Reichardt (Wendy and Lucy, Meek's Cutoff, First Cow) - seguendo in particolare quello di Agata che diventa spesso l'elemento principale della scena. [Alt Text: frame da Piccolo corpo. Lince in primo piano tiene in mano un canarino e lo osserva, mentre cinge con un braccio una gabbia di legno. Più indietro, Agata seduta su un prato guarda verso il cielo con il braccio sollevato. Sullo sfondo, delle rocce fanno da cornice alla scena e si intravede un varco nella montagna. Fonte.]
Ed è proprio attraverso la struttura della fiaba che questo percorso può essere rappresentato in maniera immediatamente comprensibile e universale in termini di lettura. La scansione degli avvenimenti, l’entrata in scena dei personaggi e la tipologia di situazioni che costituiscono il racconto sono chiaramente ispirate alle principali funzioni codificate da Vladimir Propp, a cominciare dall’allontanamento e la rottura del divieto, che sono motori dell’azione: Agata si allontana da villaggio dopo il rifiuto del prete di battezzare la figlia, dunque ignorando esplicitamente l’autorità religiosa, e quello del marito di affrontare insieme a lei la situazione di crisi, che sicuramente vive in modo diverso. Nel farlo, di fatto, compie un atto di ribellione nei confronti del potere patriarcale che, in qualche modo, disumanizza la perdita. “Ne faremo altri” dice il marito, sostituendo agli affetti individuali le funzioni sociali e riducendo la maternità all’aspetto riproduttivo.
Quello di Agata è un viaggio individuale, ma nel sul suo cammino incontra una serie di aiutanti: viene segretamente informata dalla perpetua (la prima di molte figure femminili che indirizzeranno il suo percorso) e poi dal saggio del villaggio, Ignac, dell’esistenza del santuario; si imbatte in Lince, e questo si rivelerà il più significativo di tutti gli incontri; viene soccorsa da alcune curatrici che agiscono, in contesto fiabesco, come donatrici e che le forniscono supporto essenziale per proseguire. Nel corso di quella che assume tutti i connotati di una quest, inoltre, affronta numerosi ostacoli. Viene rapita per essere venduta come balia per l’allattamento, episodio che sottolinea ancora una volta una visione patriarcale del femminile legato al tradizionale ruolo di cura. Subisce l’attacco di una banda criminale, trovando comprensione solo da parte di una brigantessa. Deve, come già detto, attraversare una miniera che, secondo la superstizione, inghiottisce le donne. Inoltre, il film utilizza una serie di dispositivi narrativi e stratagemmi volutamente classici. Per esempio, c'è il mistero - non per il pubblico ma per i personaggi - che avvolge la preziosa scatola che Lince chiede come pagamento per accompagnare Agata verso il santuario, strappando la promessa irrealizzabile di riceverne la metà. La scatola, sappiamo, contiene il “piccolo corpo” della figlia di Agata.
Se da una parte, dunque, il racconto aderisce alla morfologia della fiaba, dall’altra la sovverte in modo quasi radicale, soprattutto nell’ultimo atto della narrazione, dimostrando come si possa adottare un linguaggio specifico senza essere limitata dalla rigidità della sua struttura e che gli archetipi devono essere funzionali, non viceversa. Certamente non devono rinchiudere le storie in gabbie.
Il modello su cui si basa l’evoluzione del personaggio di Agata ha, in effetti, elementi in comune con il viaggio eroico nella sua connotazione femminile, codificata dalla studiosa Maureen Murdock. Un cammino che si configura in modo diverso rispetto a quello maschile, legato tradizionalmente alla teoria di Joseph Campbell, non solo come percorso di crescita e affermazione, ma innanzitutto come riscoperta di sé e riappropriazione della propria narrazione. È in questo senso che Piccolo corpo racconta una storia femminile. Non perché la maternità è uno degli elementi narrativi della vicenda, ma perché il film mette in scena l’esperienza intima di una donna che attraversa spazi abitati da persone, in particolare altre donne ma non solo, che si muovono ai margini della società patriarcale. Lo sguardo femminile diventa così la porta di accesso universale a un mondo che ha le proprie regole e la propria ritualità.
Samani fa un incredibile lavoro di world building. Sceglie un’estetica documentaristica, lavorando sulla luce naturale, sulle inquadrature e creando un paesaggio sonoro quasi esclusivamente diegetico attraverso il canto rituale. Le sequenze si svolgono principalmente all'aperto, ma la macchina da presa riduce gli spazi stando spesso a ridosso dei corpi - un po’ come succede nel cinema di Laszlo Nemes (Il figlio di Saul, Tramonto), influenza dichiarata della regista insieme a Kelly Reichardt (Wendy and Lucy, Meek's Cutoff, First Cow) - seguendo in particolare quello di Agata che diventa spesso l'elemento principale della scena.
[Alt Text: Scatto sul set di Piccolo corpo. Celeste Cescutti, vestita con un abito lungo verde, cammina su una spiaggia, osservata da un gruppo di persone vestite in abiti d'epoca. Una bambina, parte del gruppo, guarda verso la donna con attenzione. Un operatore riprende la scena con una macchina da presa, inquadrando il volto della donna. Fonte.]
Con il direttore della fotografia e operatore di macchina Mitja Licen abbiamo concordato un approccio documentaristico per provare la stessa fatica di Agata e Lince, eliminando ogni lirismo per riservarlo solo alla scena finale, girando piani sequenza abbastanza lunghi. In generale abbiamo avuto un approccio molto terreno per un racconto che terreno non è.
E questa concretezza visiva, questo stretto legame dell’immagine con la terra, il paesaggio, così come la montagna, il mare, luoghi al centro dell’attività delle comunità rurali, permettono a Piccolo corpo di mantenere una dimensione tangibile, materica, legata a una realtà corporea, anche quando la narrazione si fa più cupa, spettrale ed entra, anche se non in modo vistoso, nei territori del fantastico, svelando la volontà di calarsi in quello che de Martino chiama “mondo magico”. Un’idea che colloca in un quadro storico un tipo di esperienza umana in cui il soprannaturale, la magia e la pratica rituale sono percepiti come parte della vita quotidiana e considerati, da chi vive all’interno di questi sistemi culturali, risposte funzionali e simboliche alle crisi esistenziali. Ridiscendere sul piano più arcaico di questa esperienza permette, a noi che fruiamo il racconto, di capirne più intimamente il contesto, ma anche di rileggerlo in maniera contemporanea. Da questo punto di vista, con le dovute differenze di contesto, Piccolo corpo sembra avere punti di contatto con un’altra opera in cui la narrazione si snoda tra reale e immaginario, tra spazio umano e magico: II demonio di Brunello Rondi, che abbiamo analizzato nella Ghinea di ottobre del 2021.
Entrambi i film, d’altronde, mettono in scena una realtà in cui le credenze della Chiesa cattolica e quelle pre-cristiane coesistono e si contaminano, soprattutto quando gli strumenti della religiosità istituzionale non sembrano sufficienti per affrontare il “dramma esistenziale”. Samani oggi, come faceva anche Rondi nel 1968, ci porta allo stesso tempo dentro e fuori dalla narrazione, con un’impostazione che potremmo definire “realismo magico all’italiana”. Questa tendenza è, in un certo senso, comune anche alle opere di Alice Rohrwacher, e in particolare con La chimera, storia di fantasmi sui generis, di suggestioni simboliche, che si svolge al confine tra il tempo mitico e il tempo storico e che racconta, anch’essa, l’elaborazione di una perdita.
Come dicevamo, Piccolo corpo non teme di tradire gli archetipi, evadere dalla gabbia narrativa, e lo dimostra nel proprio epilogo: nel momento in cui attraversa lo specchio d’acqua che la separa dalla sua meta, traghettata dalla figura di un barcaiolo che ricorda molto da vicino quella di Caronte, Agata, l’eroina, non porta a termine la sua quest. Affonda invece nella profondità del suo dolore, come d’altronde può capitare nella vita reale. Il suo viaggio, però, ha prodotto degli effetti in un altro personaggio, Lince, che da aiutante diventa protagonista, condividendo il peso del dolore di Agata, raccogliendo la piccola scatola, portando il corpo della neonata al santuario e dandole finalmente un nome. È in questo momento che la struttura della fiaba si frantuma: non c’è il ritorno all’ordine, ma la creazione di un nuovo scenario. Questo atto è ancora più ricco di significato perché compiuto da un personaggio che ha scelto il proprio nome - quello di un animale, quindi al di fuori dell’ordine sociale - e la propria espressione di genere, opponendosi alle norme vigenti. Non sappiamo se questa espressione di genere corrisponda alla sua identità, anche perché sarebbe anacronistico rappresentarlo come un personaggio transgender, ma sappiamo che Lince si muove nel mondo come un maschio e per questo è tenuto ai margini dalla società.
“Se io morissi adesso, nessuno lo saprebbe” dice Lince nel dialogo citato in apertura di questa analisi, e Agata risponde “Io sì”. Non è necessario aggiungere altro: due persone che vivono una condizione di isolamento si sono incontrate, hanno stabilito un legame comunitario interdipendente e hanno smesso di essere sole. Questo rappresenta il punto di svolta in cui Piccolo corpo esce dall’archetipo e ci parla della contemporaneità, ma anche il momento in cui termina il viaggio di due solitudini e ne inizia uno insieme.
[Alt Text: frame da Piccolo corpo. Due persone sono a bordo di una piccola barca in mezzo a un lago circondato dalle montagne. Una è seduta e tiene tra le mani una scatola di legno, l’altra è in piedi con in mano un lungo remo. Fonte.]
Il nome che Lince sceglie per la bambina è Mare, e il mare è un elemento fondante della narrazione, nonostante ce lo lasciamo alle spalle praticamente all’inizio: Agata vive su un’isola e il mare è, di fatto, la soglia per un altro mondo. Se nella realtà dà l’accesso al continente e quindi apre la strada alla quest, a livello simbolico, rappresenta un luogo liminale. “Il mare in molte culture è stato descritto come luogo del caos, del disordine, dell'indifferenziato flusso primordiale” scrive Vito Teti in uno dei saggi della raccolta Storia dell’acqua da lui curata. Ha perfettamente senso, nell’orizzonte di un racconto in cui i personaggi sovvertono l’ordine costituito e si riappropriano delle loro narrazioni, che il mare assuma un ruolo simbolico, in qualche modo risolutivo, nella misura in cui la scelta di questo nome chiude gli archi narrativi di Agata e Lince. L’acqua, più in generale, rimane sempre al centro di Piccolo corpo, anche quando diventa dolce, ma oscura e profonda come quella del lago che porta al santuario.
Afferma ancora Teti:
L’acqua è il materiale e il simbolo dei contrasti che stiamo evocando, causa ed esito dello stesso tempo. L’acqua è concretamente, oltre che simbolicamente, elemento di vita e di morte. [...] Non è senza significato allora che l’acqua si ponga come una sorta di confine, di limen tra la vita e la morte. L’acqua è l’elemento che insieme conferisce una nuova condizione ai defunti e li richiama ancora alla vita.
Fulvio Librandi, in un altro saggio presente in Storia dell’acqua, scrive:
L’acqua segna un confine perenne tra un mondo e un altro: il Lete o l’Acheronte, il fiume della dimenticanza e il fiume del dolore, sono il limite da valicare anche nei racconti che oggi sottendono all’elaborazione del lutto.
Gli specchi d’acqua, dunque, sono tradizionalmente considerati non solo luoghi in cui può avvenire un contatto tra le persone vive e quelle morte, ma sono spazi trasformativi della condizione esistenziale. Nonostante il finale di Piccolo corpo sia cupo e senza speranza, a livello allegorico mostra una certa complessità: grazie all’atto di Lince, che si configura come un gesto di cura comunitaria, per Agata e Mare si apre finalmente quella “soglia degli affetti” che stabilisce il legame tra la madre e la figlia e dunque porta al compimento l’elaborazione della perdita. Le due si ricongiungono in un luogo estraneo alla dottrina cattolica, che non sembra né il Limbo, né il Paradiso, né l’Inferno, ma fluttuano serenamente nell’acqua, come a ricordarci che proprio l’acqua ha a che fare forse più con la vita che con la morte.
Piccolo Corpo, prodotto da Nefertiti Film, Rai Cinema, Tomsa Films, Vertigo, è disponibile su RaiPlay.
Per approfondire
Cavazza, Silvano (1982). “La doppia morte. Resurrezione e battesimo in un rito del Seicento”. Quaderni Storici, 17(50 (2)), 551–582.
de Martino, Ernesto (1973). Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo. Terza Edizione 2007. Torino: Bollati Boringhieri.
de Martino, Ernesto (1975). Morte e pianto rituale nel mondo antico. Edizione 2000, Torino: Bollati Boringhieri.
Pina-Cabral, Joao (2013). La soglia degli affetti: considerazioni sull’attribuzione del nome e la costruzione sociale della persona. Antropologia. 5.
Murdock, Maureen (1990). The heroine's journey. Boston & London: Shambhala. Tr. it Il Viaggio dell’Eroina (2010), Dino Audino Editore, Roma
Propp, Vladimir Jakovlevič. 1966. Morfologia Della Fiaba. Torino: Einaudi.
Teti, Vito. A cura di (2013). Storia dell'acqua. Mondi materiali e universi simbolici, Roma: Donzelli Editore.
Van Gennep, Arnold (1909). Les Rites de Passage. Paris: Dunod. Tr. it. I riti di passaggio (2012), Torino: Bollati Boringhieri.
Nella sua vita precedente, Cristina Resa si è dedicata allo studio delle mitologie antiche, oggi è ossessionata da quelle contemporanee. Lavora in campo editoriale, scrive di film, serie tv e videogiochi su IGN Italia, è una delle voci di Incompetenti Podcast. A volte la trovi in giro per la rete a parlare di rappresentazione, horror e a inseguire i miti. Puoi seguirla su Instagram, Letterboxd, Medium.
Grazie a Marta e Cristina per aver contribuito a questo numero. Ci leggiamo a fine agosto oppure, se vorrai, fra qualche giorno.
Un abbraccio!
Francesca, Gloria e Marzia
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