Benvenutx a Ghinea, la newsletter in debito di sonno. Questo mese Chiara Muzzicato torna con un ritratto della poeta australiana Lesbia Harford e traduce per noi alcune sue opere, Marta Magni ci parla di un reality show incentrato su storie d'amore queer, e noi ti proponiamo ben due libri. Buona lettura!
L’esistenza vividissima di Lesbia Harford
di Chiara Muzzicato
[Alt Text: una foto molto vecchia e molto sgranata di Lesbia Harford, di profilo con i capelli raccolti. Fonte.]
La poesia di Lesbia Harford, oltre che essere a oggi quasi sconosciuta, si presenta a noi come un terreno difficile da attraversare: non per la sua complessità, o per il rischio di un estremo intellettualismo, ma per la luminosità del suo scrivere che in un paradosso di materiali riesce a celarla dalla nostra vista. Un riflesso su un vetro che acceca all’improvviso per poi lasciare solo macchie impresse sulla retina.
Nettie Palmer, saggista e poetessa australiana, nel 1940 e poco più di dieci anni dopo la scomparsa di Lesbia Harford, scrive di lei:
Without fear, and with a great hope, Lesbia Harford set down in her own words glimpses of a new reality.
Senza alcuna paura, e piena di speranza, Lesbia Harford seppe infondere nelle sue parole spiragli di una nuova realtà.
Quello che vedeva Nettie Palmer in Lesbia Harford, nel dedicarle queste parole all’interno della prefazione alla raccolta dei suoi poemi, è lo spiraglio – una lama di luce netta che fende la nebbia o un’oscurità indefinita. Quello che possiamo fare per donare tridimensionalità alla figura di Lesbia, esclusa dal canone eppure ancora parlante, è dare le spalle a ciò che illumina e guardare la fonte di luce.
Lesbia Harford nasce il 9 aprile del 1891 a Brighton, un sobborgo di Melbourne, in una famiglia di origine nobiliare che presto perde la sua fortuna. Nata con una malattia congenita al cuore, che per troppo sforzo o per destino spegnerà la sua vita a soli trentasei anni nel 1927, Lesbia riceve la sua educazione presso le Suore brigidine. La prima delle tante divergenze che costellano la sua vita e la sua passione si manifesta presto: appena venticinquenne, Harford sceglie di rifiutare il Cattolicesimo ed entra a far parte della Free Religious Fellowship, un gruppo di cristiani progressisti guidati dal Reverendo Frederick Sinclair, pensatore radicale anti-militarista e contrario alla leva obbligatoria. Negli stessi anni, diventa una delle prime donne a laurearsi in legge all’Università di Melbourne. Lì ha modo di familiarizzare con i movimenti pacifisti, e conosce Guido Baracchi, politico e attivista marxista che seguendo i suggerimenti di Lesbia aderirà al sindacato International Industrial Workers. Subito dopo la laurea, Harford trova lavoro in una fabbrica di vestiti, impegno che alterna, compatibilmente con i suoi problemi di salute, con l’insegnamento in Università.
Sarebbe divertente se, sovrappensiero,
lasciassi alla mia morte un solo libro
e un libro di Legge - una sciocchezza
che ho scritto solamente per guadagno.
Spero solo che, quando avrò finito
per ben altri libri userò il mio tempo e spruzzi di rime.
How funny it would be if dreamy I
Should leave one book behind me when I die
And that a book of Law - this silly thing
Just written for the memory it will bring.I do hope, when it’s finished, I’ll have time
For other books and better spurts of rhyme.
In questa poesia, secondo lo scrittore e attivista socialista Jeff Sparrow “uno dei poemi più tristi di Lesbia Harford”, la poetessa fa riferimento a un pamphlet che scrive e pubblica nel 1923, The law relating to hire purchase in Australia and New Zealand. Come nota amaramente Sparrow, a mancare a Lesbia è proprio il tempo per scrivere altro che non siano solo pamphlet di diritto. Quello che ci rimane del suo tempo, sono il romanzo The Invaluable Mystery e alcuni dei suoi “spruzzi di rime” raccolti in due edizioni, di cui una curata da Palmer nel 1940 e una più estesa, negli anni ’80, a cura delle due scrittrici australiane Drusilla Modjeska e Marjorie Pizer.
Gli anni in cui si concentra la maggior parte dello sforzo poetico di Lesbia Harford sono gli anni della fabbrica: se tutto è ispirazione (“Miss Murphy ha gli occhi blu e blu-neri i capelli / La sua macchina è di fronte alla mia”, A blouse machinist), tutto è politica, e un giorno di vacanza non è da festeggiare in quanto tale, ma solo perché è un giorno senza lavoro.
Perhaps if I had weeks to spend
In doing nothing without end
I might learn better how to shirk
And never want to go to work.
Chissà, se avessi intere settimane da sprecare
Nel fare nulla senza fine
Impararei a sfuggir meglio a tutto questo,
e non lavorare mai più.
(Work-Girls’ Holiday)
La poesia e la figura di Lesbia Harford se da un lato sono capaci di lanciare queste lame di luce – gli spiragli di speranza di cui parlava Nettie Palmer – dall’altro sono forieri di una caratteristica inafferrabile, come un drappo trasparente e opaco al contempo: un vetro smerigliato a colori che lascia passare il riflesso solo in determinate condizioni di luce.
Una delle parole più ricorrenti nella sua poesia è “Beauty”, una bellezza spesso antropomorfizzata che si muove per il mondo in abiti femminili, fermandosi a contaminare e abitare la natura. Se in termini cronologici la nascita di Lesbia Harford per poco non sfiora la fine della vita di Emily Dickinson, è quasi possibile parlare di una “eredità della bellezza” che dalle mani sottili di Emily si propaga e si allunga nelle poche poesie che oggi abbiamo di Lesbia. Caratterizzate dalla stessa delicatezza e dal fascino che entrambe le poetesse provano per la caducità dell’essere, le poesie di Lesbia Harford trasudano tensione per quello che non rimane ma non per questo è meno tangibile.
Beauty does not walk through lovely days,
Beauty walks with horror in her hair
Bellezza non cammina nei giorni di pace,
Bellezza cammina con l’orrore tra i capelli
(Beauty and Terror)
La tensione che traspare nella poesia di Lesbia Harford sembra così dirigersi verso ciò che va oltre il quotidiano e l’afferrabile, ciò che riposa nascosto dietro o dentro le cose. La qualità particolare della poesia di Lesbia Harford – che la rende telo spesso e brillante ma traslucido e complesso al contempo – è l’inesauribilità di questa tensione, che immutata si riflette anche all’interno delle sue poesie più politiche, dove la rivolta e la coscienza di classe sono viste contemporaneamente come parti del quotidiano e come misteri insondabili. Per Lesbia Harford, la Bellezza come la Rivolta camminano nel mondo senza paura, fatte di terrore e mistero e dolore e poesia. “Sono triste / perché partecipo a una banda di ribelli (I was sad / Having signed up in a rebels’ band)” scrive in una delle sue poesie (I was sad), ma la tristezza di cui è pervasa la poesia di Lesbia Harford porta in sé quelle qualità luminose delle cose splendenti e incorrotte. Poetessa queer con coscienza di classe, Lesbia Harford parla dai recessi del canone di ciò che è bello e ciò che è triste quanto sono dolci e tristi la morte e la natura. Un’esistenza non toccata dall’incomprensione, anzi bellissima e vividissima perché vissuta come condizione naturale dello spirito, come un’attesa da riempire aspettando l’avvento della Bellezza e della Rivolta.
Nel loro saggio a sei mani, The intimate archive, le studiose Maryanne Dever, Sally Newman e Ann Vickey, nel chiedersi quali possano essere le metodologie migliori per scavare negli archivi intimi di chi fa letteratura, scelgono la figura di Lesbia Harford come fondamentale per “il movimento australiano dei diritti civili, specialmente in termini di classe, gender e orientamento sessuale” (p. 101). Se per Lesbia il politico è vissuto come un fatto “intimo e personale”, l’amore è un fatto intimo e interiore quanto politico, potente come la politica proprio perché messo sullo stesso piano.
La poesia di Harford risultava insolita per quegli anni, perché toccava tabù o argomenti controversi come le mestruazioni, il pacifismo, l’amore libero e saffico.
Gli archivi intimi di Lesbia Harford e le sue lettere confermano infatti diverse relazioni saffiche della poetessa, e quello che ancora una volta esalta questa figura è lo spiraglio, la luce. Nella sua poesia l’amore come la politica come la natura come la lotta di classe sono messi sullo stesso piano, a suggerire una visione integrata dell’esistenza in cui tutto è fondamentale perché tutto è poesia. E per Lesbia Harford se tutto è poesia, tutto può essere la nuova realtà.
I contorni di Lesbia Harford iniziano così a delineare una figura mutevole e ambivalente che non solo abita il confine – donna e poetessa fuori dal canone – ma da esso trae la sua forza di parola, il suo splendore, quegli spruzzi di versi che non possono rimanere non scritti. Cantrice del margine, Lesbia sembra assumere quel ruolo senza rimorso: cercando le parole per parlare di altre vite ed esistenze che come lei non vedranno il giorno della rivolta, ma osservano l’oltre che si trova al di là di quel confine. E l’oltre che scrutano ha i contorni ancora più sfumati di coloro che lo descrivono e lo anelano: l’unica sicurezza è che si tratta di un mondo nuovo, una realtà che ancora non c’è e che non coincide con la “normalità”, o con ciò che è fuori dal margine solo perché antagonista a esso.
Lesbia Harford ha lavorato tutta la sua vita per quegli “spiragli di una nuova realtà” più che per la “nuova realtà” effettiva. Lesbia Harford ha aiutato con la sua poesia a definire quali possono e devono essere le caratteristiche di un mondo in cui il margine non è più un luogo di sofferenza ma un posto in cui coltivare bellezza, in cui rivendicare non è più dovuto perché è già tutto dato: l’amore, la rivolta, la natura, il linguaggio, la poesia.
She interferes with destinies
At night.
My loves are free
to do the things they please
By day, or night.
Lei altera i destini
la notte.
I miei amori sono liberi di fare
ciò che vogliono,
il giorno e la notte.
(Florence kneels down to say her prayers)
Cinque poesie in traduzione e con testo originale
When Day Is Over
When day is over
I climb up the stair,
Take off my dark dress,
Pull down my hair,
Open my window
And look at the stars.
Then my heart breaks through
These prison bars
Of space and darkness
And finds what is true,
Up past the stars where
I'm one with you.
Alla fine del giorno
Alla fine del giorno
salgo su per le scale,
mi svesto,
sciolgo i capelli,
apro la finestra
e guardo le stelle.
Allora il mio cuore rompe
queste sbarre
di spazio e tenebra
e trova il vero,
al di là delle stelle dove
io sono un tutt’uno con te.
Inventory
We've a room that we call home,
With a bed in it
And a table and some chairs,
A to Z in it.
There's a mirror
And a safe
And a lamp in it.
Were there more
Our mighty love
Might get cramp in it.
L’inventario
Abbiamo una stanza e la chiamiamo casa:
ha un letto,
un tavolo, qualche sedia,
e tutto, dalla A alla Z.
Ha uno specchio,
e una cassetta di sicurezza.
Ci fosse stato altro,
il nostro grande amore
ci sarebbe andato stretto.
Green and blue
Green and blue;
First-named of colours believe these two.
They first of colours by men were seen
This grass-colour, tree-colour,
Sky-colour, sea-colour,
Magic-named, mystic-souled blue and green.
Later came
Small, subtle colours like tongues of flame,
Small jewel-colours for treasure trove,
Not fruit-colour, flower-colour.
Cloud-colour, shower-colour,
But purple, amethyst, violet, mauve.
These remain,
Two broad fair colours for our larger gain,
Stretched underfoot or spread on high
Green beech-colour, vine-colour,
Gum-colour, pine-colour,
Blue of the noonday or moonlit sky.
Verde e blu
Verde e blu,
Loro i primi due, credo, a ricevere un nome.
Loro i primi tra tutti i colori che l’uomo ha guardato
Color-dell’-erba, color-dell’-albero,
Color-del-cielo, color-del-mare,
Blu e verdi dal magiconome-animasplendida.
Poi giunsero gli altri,
Piccoli colori sottili come lingue di fuoco,
Piccoli colorigioiello per tesori nascosti,
non più color-del-frutto, color-del-fiore.
Color-della-nuvola e coloracquazzone,
Ma porpora, ametista, violetto, malva.
E a nostro ampio vantaggio
Questi restano, due vasti e chiari colori
Distesi sotto ai nostri piedi o sparsi là in alto
Il verde color-di-faggio, il verderampicante,
Il verdegomma, il verdepino,
Blumezzogiorno o bluchiarodiluna.
To-day is rebels’ day. And yet we work -
All of us rebels, until day is done,
And when the stars come out we celebrate
A revolution that’s not yet begun.
To-day is rebels’ day. And men in jail
Tread the old mill-round until day is done;
And when night falls they sit at home to brood
On revolution that’s not yet begun.
To-day is rebels’ day. Let all of us
Take courage to fight on until we’re done -
Fight though we may not live to see the hour,
The revolution splendidly begun.
Oggi è il giorno dei ribelli. E lavoriamo -
tutti noi ribelli, finché il giorno è qui,
e all’arrivo delle stelle celebriamo
la rivolta che ancora non è qui.
Oggi è il giorno dei ribelli. E i prigionieri
se ne stanno in giro finché il giorno è qui;
e a casa a rimuginare quando la notte scende
sulla rivolta che ancora non è qui.
Oggi è il giorno dei ribelli. Facciamoci coraggio
e combattiamo finché siamo qui -
combattiamo anche se non lo vedremo,
il giorno splendido della rivolta.
Florence kneels down to say her prayers
At night.
I wonder what she says, and why she cares
To pray at night.
I think when she kneels down to pray
At night
The names that have been on her lips all day
Are there at night.
She interferes with destinies
At night.
My loves are free
to do the things they please
By day, or night.
Florence s’inginocchia per le sue preghiere,
la notte.
Mi chiedo cosa dice e perché lo fa,
pregare la notte.
Credo che quando s’inginocchia per pregare
la notte
I nomi che sono stati tutto il giorno sulle sue labbra
sono ancora lì, la notte.
Lei altera i destini
la notte.
I miei amori sono liberi di fare
ciò che vogliono,
il giorno e la notte.
Tutte le traduzioni sono a cura di Chiara. Puoi leggere le poesie di Lesbia Harford qui.
Chiara Muzzicato nasce nel 1996 sull’unica isola del fiume Tevere e da quasi cinque anni vive a Milano. Adora fare liste, della spesa, soprattutto, ma anche di libri e film che non leggerà e non guarderà mai. Le piacciono le piante, quando non le uccide, e ha sempre desiderato avere un animale domestico (uno qualunque). Su Instagram disegna, fotografa e parla di libri sotto il nome di @chiasmatica. Fa inutile (e ogni tanto lo è) dal 2019.
La trama del matrimonio
di Marta Magni
Questo Giugno i soliti dibattiti attorno al mese del Pride: è giusto andarci sconcə? È giusto che ci sia la polizia? È giusto che ci siano i carri dei brand? (sì, no, no) non hanno fatto nemmeno in tempo a iniziare che due argomenti si sono completamente mangiati se non il dibattito pubblico almeno i social media. Uno è la morte di Berlusconi (non ne parleremo) e l'altro The Ultimatum: Queer Love (siamo qui per parlarne).
The Ultimatum: Queer Love segue la versione etero ed americana di The Ultimatum, una versione francese del programma e un'altra declinazione brasiliana, e si inserisce come ultimo capitolo di una lunga lista di dating show/reality sentimentali firmati Netflix il cui messaggio, eterosessualità o meno, è sempre lo stesso: essere solə, essere single, essere una persona e non una coppia, è uno schifo. Per favore accasati.
Da A Shot at Love with Tila Tequila (2007) a The Ultimatum: Queer Love (da qui in poi TUQL) i reality che di volta in volta hanno “esplorato” la presenza di uno o più personaggi non eterosessuali non sono pochi ma con TULQ Netflix si porta a casa il “merito” di averlo fatto sulla grossa piazza globale con un cast interamente composto da donne e persone non binary e di aver applicato, pedissequamente e senza sconti, le regole i codici di un programma pensato e realizzato su coppie eterosessuali su delle coppie che invece eterosessuali non sono.
Però, però, guardare The Ultimatum: Queer Love è un’esperienza triste e sfiancante.
[Alt Text: in uno screenshot della trasmissione una delle concorrenti, una ragazza bionda, ride. Il testo in sovraimpressione recita “You ever accidentally had your fingers inside of somebody else?” (Hai mai messo le dita dentro un’altra persona accidentalmente?).]
Non bastano due mani per contare la varietà dei prodotti fiction di Netflix che negli ultimi otto anni hanno raccontato, anche solo tangenzialmente, storie e personaggi LGBT. Alcuni riusciti, altri decisamente meno escono con una cadenza regolare e quando non passano sotto silenzio perché troppo brutti hanno ancora il potere di social media con commenti pro/contro, svariate “shipping” e implorazioni a non cedere all’ennesima cancellazione repentina avvolta da un profumino di omofobia.
È una routine così ben affrancata che ovviamente non si limita solo a questa specifica piattaforma: dati alla mano nel mese di Giugno 2023 – ok, sì, il più favorevole dei mesi- possiamo contare 21 nuove uscite in cui almeno un personaggio o una sottotrama non è o etero o cis. È una porzione piccola ma significativa di tutta la produzione, ma una porzione abbastanza favorevole da aver concesso il salto di specie ai prodotti LGBT: dal mondo della fiction – con le sue trame rigide a base di coming out, primi amori, struggimenti e “rivendicazioni politiche,” un mondo di riferimenti a cui il pubblico è abituato; all’universo dei reality, un ecosistema così folto e ricco di sottospecie che se dovessimo creare per ognuno di loro una versione LGBTQ non basterebbero tutti i giorni presenti nell’anno per esaurirne la varietà.
Se i prodotti di fiction vivono ancora sulle spalle dello schema di Propp i reality non mancano di regole, ma sono molto più sfumate e spesso più complicate. Non mi sto riferendo alle regole scritte del programma, quelle che dettano la scaletta e le eliminazioni, le regole che ti fanno arrivare al premio finale. Quelle regole sono sempre nero su bianco, ripetute a ogni puntata e ogni recap nel caso tu ti sia distrattə. Quelle regole le sai. Ma per le regole che governano i rapporti fra i personaggi e le successive reazioni del pubblico ogni genere appartiene solo a stesso: i meccanismi che scattano nei programmi di sopravvivenza non sono gli stessi delle competizioni per affermarsi come il migliorə in qualcosa, non sono quelle degli scripted-reality e sono ancora meno le regole dei dating show.
Le regole nero su bianco di TUQL sono molto semplici – e crudeli – allo stesso tempo: cinque coppie arrivate a un punto di rottura nella loro storia “o mi sposi o te ne vai” decidono di partecipare al programma per mettere alla prova la loro relazione. Come si mette alla prova una relazione: rompendola, provando ad uscire con tutte le altrə partecipantə finchè non si trova una papabile “trial wife” con cui intraprendere tre settimane di “trial marriage”. Terminate queste tre settimane le coppie originali si ricompongono, vivono il loro hegeliano momento di sintesi, un trial marriage i cui contorni corrispondono alla loro vita di prima ma la cui sostanza è inevitabilmente mutata da quell’altro matrimonio di prova. I possibili finali a questo punto sono tre: uscire da lì single, uscire da lì ancora insieme ma con la promessa di sposarsi, uscire da lì con una nuovə fidanzatə da sposare. Segue l’immancabile “puntata reunion” per vedere chi, al netto di quanto è successo nel programma e delle belle speranze, ancora sta insieme.
[Alt Text: in uno screenshot della trasmissione una delle concorrenti, una ragazza bionda con un neo sul labbro superiore e dei cerchi oro alle orecchie guarda sbigottita una ragazza bionda di spalle di cui si vedono solo i capelli.]
TUQL non esiste nel nostro spazio-tempo, non ha riferimenti temporali né di luogo, non sappiamo niente dei dieci partecipantə – nemmeno i loro pronomi – a parte che la loro relazione a un certo punto si è stortata abbastanza da condurlə lì. Esistono solo in funzione della relazione che non riescono a portare avanti: non hanno un lavoro, non hanno interessi che ci sia dato conoscere, non hanno uno spazio nel mondo che non sia quello immediato che stiamo guardando.
È un glitch che nasce e muore in una sospensione temporale di 10 puntate e per riapparire poi in pompa magna sui social media – tutti i social media per commentare l’esito e valutare il valore di verità delle relazioni che gli abbiamo guardato intraprendere. Ma i reality show, per quanto beceri, non sono fatti per allenare la nostra schadenfreude: non ci interessa compatire i partecipantə, non ci interessa dimostrare di essere meglio di loro, o di avere una relazione che per quanto complicata almeno non sta davanti alle telecamere. Il meccanismo che alimenta un universo così affollato e rodato è semplicemente quello dell’empatia. Li guardiamo per decodificarne i meccanismi, per prendere (come IRL) le parti di qualcuno, li guardiamo per allenare la nostra percezione della realtà mentre esercitiamo una superiore, “innocua” forma di escapismo.
Empatizzare con TUQL è complesso, perché tutto è fatto storto. Se nel mondo della fiction LGBT spesso è difficile (se non impossibile) trovare personaggi LGBT apertamente sgradevoli qui è anche troppo facile. Fra quintali di discorsi ripetuti intrisi di therapy talk come i peggiori caroselli aspirazionali di Instagram tuttə le partecipantə a turno ricoprono il ruolo dell’irragionevole, dellə insopportabilə, di quellə senza spina dorsale e di quellə che per favore datti una calmata. Costantemente offertə sotto la luce peggiore e guidatə dall’unico obiettivo di non restare da solə si trascinano e ci trascinano all’ ultima puntata, dove il programma taglia corto su un caso di violenza domestica e ci intrattiene a lungo sull’amore che sta ancora in piedi.
Dieci puntate sono troppe e al contempo troppo poche perché di fatto in buona parte di queste puntate non succede niente e allo stesso tempo succede troppo: dimenticandosi delle regole dell’entertainment – taglia i momenti noiosi, lascia solo quelli interessanti, lascia quelli in cui succede qualcosa – TUQL ci restituisce un bel pastiche in cui guardiamo tutto quello che succede, sesso incluso, ma è un tutto con il medesimo registro e la medesima enfasi di una giornata al catasto, e così finiamo per non aver visto niente.
Però quel niente è successo, e questo è un mondo nuovo:
Entertainment is necessarily affirmative because the escape offered by it is not escape from a bad reality at all but from the very idea of resistance of that reality.
The only way out is surrender.
L’entertainment è per sua natura affermativo perché quello che offre non è una fuga della realtà ma una fuga dell'idea stessa che esista una realtà.
L’unico modo per uscirne è arrendersi.
Marta Magni si è laureatə in filosofia, ma una vita fa. Vive a Berlino e ha una newsletter queer tutta sua. Ogni tanto scrive in giro e partecipa a podcast.
In questa talk si analizza l'ascesa del capitalismo a partire dalla prima modernità per osservare come l'incarcerazione di massa non sia altro che l’ennesima strategia di confinamento riservata alla classe operaia.
Strupri di Stato. Ovvero di come in Gran Bretagna “dal 1968 in poi, almeno cinquanta donne sono state indotte con l’inganno in relazioni sessuali e sentimentali, alcune delle quali durate diversi anni, con agenti sotto copertura”.
I soldi di Shakira, i soldi nostri, i soldi delle donne.
Un estratto da Bodies Under Siege: How the Far–Right Attack on Reproductive Rights Went Global di Sian Norris.
Gli ultimi vent’anni delle lotte femministe in Argentina.
Si scarica qui lo studio realizzato da Margarida Silva sulla presenza e l’impatto di Amazon nel mercato europeo, per volumi di vendite, ricavi pubblicitari, distruzione della concorrenza e naturalmente gestione del lavoro.
FATTO DA VOI
Su L’indiependente, Alessia Ragno scrive di Sara Baume e del suo terzo romanzo, L’occhio della montagna.
Martina Neglia riflette sulla giustizia trasformativa.
"Gli strumenti del Papi non demoliranno Villa Certosa": il miglior coccodrillo lo ha scritto Giorgia Maurovich quando Berlusconi era ancora vivo.
Nell’ultimo numero della newsletter Singolare, femminile, Cristina Resa discute di cinema e rappresentazione della maternità.
UN LIBRO
Decostruzione antiabilista. Percorsi di autoeducazione personale e collettiva di Claudia Maltese e Gresa Fazliu. Eris Edizioni, 2023.
[Alt Text: la copertina del saggio Decostruzione antiabilista.]
Proprio come nelle cosiddette pubblicità progresso in cui vengono presentate tanto le varianti tragiche di una condizione quanto quelle inarrivabili dell’eccellenza (inspiration porn), l’esperienza della disabilità viene sempre – come sottolineato in questo scorrevole libricino – raccontata da una voce fuori campo. Cosa succede quando a prendere e riprendere voce sono invece, finalmente, le stesse persone che queste esperienze le collezionano?
Una verità mosaicale, in cui ci si rende finalmente conto che l’esperienza di disabilità si intreccia inevitabilmente con quella di ogni altro aspetto della vita e del tessuto relazionale di ogni soggetto. Ancora una volta rinnegando la semplificazione (come già ci invitava a fare, sempre per Eris, Antonia Caruso con il suo LGBTQIA+. Mantenere la complessità) ma nel nome della semplicità, Eris promuove un nuovo e riuscito piccolo marchingegno di lettura del mondo che smuove la testa anche dei più a riposo.
Perché sì, la disabilità non è qualcosa che ci portiamo dentro, che fa parte di noi: è un rapporto disfunzionale con quello che ci circonda, con un mondo che non si adatta ai nostri corpi, ma che pretende che siano i nostri corpi ad adattarsi a lui. (p. 12)
Quello che viene esplicitato al massimo in questo libro e che aiuta ogni persona che legge a rendersene conto è quanto, nella realtà ordinaria che viviamo, l’abilismo sia estremamente pervasivo. Per questa ragione il testo presenta una serie di possibili modi di reinterpretare la realtà apparentemente oggettiva secondo modalità relazionali. In primo luogo, per poter parlare di persone con disabilità in un contesto relazionale plurale, dobbiamo passare per l’inclusività: non inclusività vs pluralità, quindi, con rischio di assimilazione, ma piuttosto un passaggio fondamentale dettato da esercizi pratici anziché retorici di inclusività affinché si possa raggiungere pluralità. Per questo, specifica il testo, ci si riferisce alle persone come persone disabili (o con disabilità): perché non si riduca a un unico elemento e spersonificante l’identità dei soggetti attraverso la riduzione alla loro condizione (e non malattia).
L’inclusione cui si accennava passa anche per la rappresentazione, altro termine molto comune e poco pragmatizzato con consapevolezza: questa rappresentazione deve essere portata avanti dagli stessi soggetti con disabilità e sempre ricordando la parzialità dell’esperienza.
Allora e solo allora una pluralità di rappresentazioni potrà portare a una rappresentanza sensata, e conseguentemente a una inclusività che è la strada per la effettiva pluralità di esistenze. Viva i social media, dunque, che hanno permesso la presa di parola individuale e che hanno potuto sottrarre le persone non conformi al segreto cui spesso vengono recluse dalla società che si autoproclama ‘normale’: “La nostra presenza non deve più essere il prodigio, il segno divino, il monstrum.” (p.25)
Questo libro presenta in maniera semplice e agile l’intensità delle violenze costanti cui vengono sottoposte le persone disabili, e l’ignoranza con la quale le persone non-disabili attraversano il mondo. Ne sono un esempio la violenza verbale e psicologica a cui sono costantemente sottoposte le persone con disabilità, contraddistinte soprattutto da una de-sessualizzazione e addirittura infantilizzazione costante delle loro persone, ma una forma di violenza altrettanto insidiosa e spesso non immediatamente riconosciuta dalle persone non-disabili è anche non tenere conto delle infrastrutture che impediscono il movimento libero di chi ha mobilità ridotta, è scegliere luoghi di incontro ricreativo inaccessibili a chi non può esporsi a rumori forti o luci specifiche, e via così. D’altronde è proprio attraverso l’incapacità di socializzazione che spesso queste dinamiche impongono che manchiamo ancora di una vera e propria comunità, viene ben spiegato nel libro, così come da un’assenza di rappresentazione ponderata e non pietistica o utilitaristica.
Se nominiamo accettabile solo “una certa normalità”, definendo così una “norma”, tutto ciò che non vi rientra è devianza. Anziché domandarci se esiste l’abilismo nelle comunità, dovremmo forse chiederci: esistono le persone disabili nelle comunità non abiliste? Possiamo immaginare di nominare degli spazi tanto antiabilisti da accogliere le diversità di ognuno, comprese quelle che nel contesto di produzione ossessiva capitalistica vengono considerate disabilità? Perché questo sia possibile, la comunità di persone disabili deve in primo luogo diventare, di fatto, comunità.
Dobbiamo renderci conto che il giusto riscatto che pretendiamo dalla società non lo potremo mai trovare in nessun’altra comunità. Possiamo sostenerci a vicenda, prenderci per mano e lottare fianco a fianco per costruire il nostro spazio all’interno di questa società: uno spazio da abitare con i corpi, con le menti e con le abilità che abbiamo e in cui poter rivendicare il nostro ruolo sociale e politico di persone. (p. 15)
Il libro scende anche molto nel dettaglio, seppur in maniera maneggevole, nel presentare la casistica del rapporto tra i corpi delle persone disabili e la biomedicina occidentale, una teoria e una pratica analitica e invasiva che sembra prescindere dal contesto storico e geografico della sua ascensione a dottrina. I corpi delle persone disabili sono dunque corpi medicalizzati continuamente e sempre con quella (e spesso unica) lente osservati, come se presentassero un malfunzionamento: ma il malfunzionamento non risiede nel corpo, bensì nel rapporto malfunzionante che ogni corpo ha con l’ambiente. Perché adattiamo i nostri corpi alla società anziché adattare la società alle esigenze allargate della comunità umana, comprensiva delle persone con disabilità?
Non abbiamo bisogno di conformarci a un mondo che non vuole cambiare, vogliamo cambiare tutto ed essere liberǝ, finalmente, di vivere una vita felice con il corpo che abbiamo. (p. 18)
Tanto più che i corpi dei soggetti con disabilità vengono sempre trattati come oggetti di studio e di lavorazione e mai come soggetti-corporali che hanno impulsi, desideri; uno tra questi quello di maternità.
Sarcasmo (e rabbia, tantissima rabbia) a parte, vorremmo davvero che il nostro – e tutti gli altri – Paese tenesse in considerazione il desiderio e il diritto delle persone con disabilità di sperimentare la genitorialità, dando non solo informazioni dal punto di vista medico su eventuali rischi e problematiche, ma anche un supporto psicologico e sociale per affrontare questa esperienza nel miglior modo possibile. (p. 57)
Sul tema dell’educazione, una parte di formazione che è imprescindibile e invece viene spesso ignorata è quella per le persone con corpi non conformi che attraversano le varie fasi della crescita personale: “Serve che lǝ bambinǝ con disabilità e con corpi e abilità non conformi siano guidatǝ nella crescita e nella scoperta di sé e serve che le guide siano competenti e preparate” (p.40), ed educando contemporaneamente le persone non-disabili si può creare una vera possibile emancipazione da standard e stereotipi come quelli analizzati nel libro che non si arroga il diritto di discutere come l’argomento venga trattato oggi nelle scuole e nell’educazione dell’infanzia ma che fa esperienza del passato personale di chi scrive, contestualizzando acutamente che “Molte persone come me sono cresciute in scuole che ti presentavano la disabilità come una cosa anomala e ingombrante.” (p. 43) e dove rare ma meravigliose persone erano in grado di andare oltre l’insegnamento spesso crudele lì dove non ignorante, e capaci di incoraggiare, accettare, chiedere e comprendere: “sono queste le persone a cui dare retta, sempre e comunque, che si abbia una disabilità o meno”. (p.45)
Un caso emblematico di facilitazione di compartecipazione sociale all’educazione dell’individuo senza barriere è quello della DAD, didattica a distanza, sperimentata sotto Covid e poi lasciata nel dimenticatoio nonostante finalmente quegli spazi virtuali rendessero agevole la condivisione di cultura in maniera più egualitaria.
Come attivistǝ e studentǝ con disabilità stiamo continuando a lavorare sulla possibilità di reintegrare la dad per chi vive ogni sorta di marginalizzazione sociale e di svantaggio economico e speriamo che le istituzioni si rendano conto – anche loro, finalmente – della necessità di vivere gli spazi virtuali come quelli reali finché questi ultimi non verranno davvero costruiti a misura dei nostri corpi e delle nostre abilità e necessità. (p. 32)
Per questo bisogna che i soggetti non-disabili riflettano su questa dimensione a partire proprio dagli spazi di resistenza e di azione politica, dove le battaglie intersezionali che professiamo dovrebbero concretizzarsi in accessibilità quanto più vasta se non totale.
È veramente difficile trovare nella molteplicità delle lotte transfemministe un mix così distruttivo e devastante come quello di violenza patriarcale e violenza abilista: ciò che noi donne disabili soffriamo, in quando donne e in quanto disabili, è talmente lontano dalla comune idea di maschilismo che è difficile persino riuscire a spiegarlo a chi non l’abbia mai sperimentato sulla propria pelle. (p. 49)
Queste sole sessantacinque pagine sono l’ingresso fondamentale a una prospettiva di osservazione del mondo e delle dinamiche sociali che mancava nel panorama italiano. Un’opportunità unica di mettere a nudo i propri pregiudizi spesso sistematicamente indotti e decostruire alla base quello che è il rapporto col mondo che le persone disabili e le persone non-disabili co-operano a costruire.
UN ALTRO LIBRO
L’invincibile estate di Liliana di Cristina Rivera Garza. Traduzione di Giulia Zavagna. Sur, 2023.
[Alt Text: copertina dell’edizione italiana de L’invincibile estate di Liliana, un dipinto di Eric Zener che raffigura una donna in costume da bagno intero appena tuffatasi in una piscina.]
Il 16 luglio 1990, quando Ángel González Ramos si introdusse nel piccolo appartamento di Città del Messico della sua ex fidanzata Liliana Rivera Garza con l'intento di ucciderla, la parola femicidio non era di uso corrente nel paese. Non fu quindi usata la mattina dopo, quando il ragazzo che Liliana frequentava in quel momento ne trovò il corpo sul letto, dove era stata soffocata con il cuscino. Non fu usata nei giorni successivi dai suoi compagni di università né dalla sua migliore amica, sebbene tutti avessero incontrato Ángel in un paio di occasioni e ne fossero rimasti turbati per i modi bruschi e per la presenza costante e minacciosa nella vita di Liliana, che sembrava temerlo. Non fu usata nelle settimane successive al delitto, dedicate alla ricerca di un assassino che a oggi non è ancora stato rintracciato, prima che l'archiviazione del caso aggiungesse la rabbia dell'ingiustizia a quella del lutto. Non fu usata dai genitori di Liliana, che ora ricordano un accenno di lite davanti alla loro casa e si chiedono se avrebbero dovuto (potuto?) accorgersi che lui la minacciava. Soprattutto, la parola femicidio non fu usata dalla sorella di Liliana, Cristina, che in quegli anni viveva negli Stati Uniti e frequentava l'università, e che sarebbe diventata un'affermata scrittrice di racconti, romanzi, saggi, poesie, e memoir. O per la precisione: non fu usata subito.
El invencible verano de Liliana, testo ibrido che ricostruisce una vita breve attraverso ricordi personali e fonti scritte e cerca i motivi di una morte insensata nella produzione teorica femminista, è stato pubblicato in spagnolo nel 2021, e ad averlo reso possibile è ciò che è accaduto nei trent'anni che lo separano dall'omicidio di cui si occupa. Due momenti recenti: il 24 aprile 2016 i movimenti femministi messicani hanno organizzato una mobilitazione nazionale contro la violenza di genere e migliaia di persone hanno riempito le strade della capitale e di numerose altre città. Al contempo, sui social media prendeva piede l'hashtag #MiPrimerAcoso (la mia prima molestia), che proprio come il successivo #MeToo ha dato vita a un impensabile momento di riconoscimento pubblico di una specifica esperienza femminile, la violenza di genere, e alla diffusione su larga scala del linguaggio utile per riferirla. Pochi anni dopo, una clamorosa sentenza emessa a Città del Messico ha condannato un uomo a quarantacinque anni di carcere per il femminicidio della compagna Lesvy Berlín: si è trattato della vittoria più visibile di decenni di caparbie lotte femministe per ottenere una maggior tutela giuridica delle vittime di violenza patriarcale. L'interesse pubblico suscitato dalla morte di Lesvy Berlín, e le diverse proteste che hanno accompagnato i primi momenti delle indagini e il processo, hanno dimostrato la diffusione di una larga consapevolezza rispetto a ciò che si nasconde dietro a concetti opachi e frastornanti come "troppo amore" o "delitto passionale", oltre che la rivendicazione collettiva del diritto delle donne alla sicurezza – dentro e fuori la casa e il lavoro, negli spazi pubblici come in quelli privati.
[Alt Text: ritratto fotografico su fondo nero di Liliana Rivera Garza. La ragazza indossa occhiali da vista rotondi, orecchini a cerchio e una camicia chiara con collo alla coreana, ha i capelli neri raccolti e una borsa o uno zaino a tracolla. Guarda qualcosa o qualcuno alla sua destra e sorride un po' beffarda, con la bocca chiusa. Fonte.]
Non si è mai inermi come quando non si ha linguaggio. (p. 21)
A soli vent'anni, Liliana non disponeva delle parole adatte per descrivere la sua relazione con Ángel, la sua biblioteca non comprendeva la letteratura sulla violenza domestica di cui si sarebbe servita Cristina, e né lei né le sue amiche erano addestrate a riconoscere i comportamenti di un uomo che potrebbe uccidere. In compenso, aveva una tenace aspirazione a essere libera, a più riprese documentata nelle sue lettere e nel diario che compilava con una grafia tondeggiante replicata nel testo, e non senza dolore intuiva che la pienezza del suo desiderio era incompatibile con la presenza di un uomo. In una pagina di diario del 1985, scriveva:
Sono stata troppo dura con Ángel. È colpa sua se mi ama come mi ama... È colpa loro perché io odio che mi amino così. (p. 75)
Quattro anni più tardi, respingeva uno spasimante con quel genere di ferma onestà che non contempla ripensamenti:
Lo sai vero? Non starò mai con te. Non apparterrò mai a qualcuno. E questo, a volte, mi rende triste. E so che mi troverai presuntuosa, ma sai anche che non sono così. Ho lottato tanto per essere quella che sono, per non condizionarmi la vita. E il risultato è un costante stato d'incertezza. (p. 221)
Sulla verità di queste parole non possiamo avere dubbi, perché la lettera viene citata dopo lunghi capitoli in cui Cristina Rivera Garza, precisa archivista, ha raccontato tutto ciò che è riuscita a trovare su sua sorella. Nella casa d'infanzia era conservato uno scatolone con i diari e gli appunti di Liliana, mai aperto dopo la sua morte. Grazie alle tracce scritte lasciate da Liliana, ai registri universitari e a Facebook, Cristina ha rintracciato le sue amicizie e i ragazzi che frequentava e ha chiesto loro che cosa ricordassero di lei. Poiché, come scrive in Grieving. Dispatches from a wounded country (2020), "è impossibile provare dolore alla prima persona singolare: proviamo sempre dolore per qualcuno e con qualcuno" (traduzione mia), Rivera Garza dona a sua sorella una voce narrante plurale, composta da chi l’ha pianta e continua a piangerla. La cronologia della vita di Liliana che ne risulta è un racconto polifonico che non rinuncia al contributo della protagonista che non può più parlare, ma anzi ne fa il cuore della narrazione: gli sforzi di memoria di chi è sopravvissutə aiutano a decifrare passaggi oscuri di alcuni scritti, mentre le carte sono utili a mantenere la presenza di Liliana sempre costante nel flusso di parole, impressioni, e dubbi altrui.
Il ritratto di Liliana, di cui lei stessa è quindi "coautrice", è un mosaico che comprende e poi supera il punto di vista parziale di Cristina, che le è stata sorella ma non genitrice né amica né innamorata e tuttavia, nella veste di biografa, può raggruppare tutte queste prospettive. La raccolta del materiale per il libro è così l'unico mezzo per conoscere più a fondo una persona che non ha potuto conoscere più a lungo, e per lasciarsi stupire da ogni scoperta. Liliana lettrice costante e appassionata, Liliana che tenta di curare il mal d'amore di un'amica con citazioni di Camus, Liliana e la sua lista della spesa, Liliana che parte per una vacanza con un gruppo di amicə e a metà del viaggio si allontana con il suo ex ma poi torna, Liliana che scrive poesie – tutte queste Liliane, talvolta impreviste, non possono continuare a essere sostituite dalla Liliana vittima di femminicidio e per sempre associata al nome di chi l'ha uccisa: hanno lottato così tanto per non appartenere a qualcuno.
La tentazione di ricostruire la vita di Liliana come una vittima inerme di fronte al potere soverchiante del maschio è stata grande. Per questo ho preferito far parlare lei stessa: ho l'impressione che, a ogni curva della strada, anche nei momenti più oscuri, Liliana non abbia mai perso la capacità di vedere sé stessa come autrice della propria vita. Come molte donne nella sua situazione, Liliana le le provò tutte – circondarsi di un nutrito circolo di amici, innamorarsi di altri ragazzi dai modi più liberi, dedicarsi anima e corpo all'architettura, prepararsi per una vita autonoma – ma, a ogni curva della strada, Ángel la sorprendeva, ancora e ancora [...]. (p. 207)
L'invincibile estate di Liliana comincia dove altri resoconti sarebbero terminati. In una calda giornata del 2019 Cristina Rivera Garza ha tentato di recuperare il fascicolo delle indagini sull'omicidio di sua sorella, presentandosi in diversi uffici che non erano mai l'ufficio competente prima di scoprire che il fascicolo, così vecchio da non essere stato digitalizzato, era praticamente irrintracciabile. Il gorgo che ha risucchiato le circostanze della morte di Liliana dice, con intenzione, del lungo disinteresse rispetto alle sempre allarmanti statistiche riguardanti la violenza di genere nel paese, e non c'è lieto fine possibile. Questa non è la storia edificante di una sorella ostinata che chiede e ottiene giustizia, e non si conclude con il colpevole che viene infine rintracciato e sottoposto a giusto processo. Certi ostacoli sono semplicemente insormontabili e alcuni danni sono irreparabili: non c'è modo di rimediare al fatto che questa giovane donna sia morta e che il suo assassino non ne pagherà mai le conseguenze.
Di fronte alla certezza che la storia di Liliana Rivera Garza non terminerà come quella di Lesvy Berlín, lo spazio di azione e di speranza si riduce molto. Ma non scompare. L'unica giustizia possibile per Liliana non risiede in un qualche tribunale, bensì nello sforzo di scrittura che si oppone alla cancellazione di una vita, risale la corrente e corre in direzione opposta a quella del tempo. L'invincibile estate di Liliana non è una seduta spiritica: non è un fantasma a essere rievocato, ma una ragazza viva e tutti i suoi sogni. Che non abbia potuto realizzarli è una tragedia inesprimibile, eppure aver incontrato il peggiore dei bruti non può essere l'accidente che definisce una vita intera perché nessuna delle nostre vite comincia e finisce nelle nostre relazioni romantiche. Che in questo resoconto Ángel appaia di tanto in tanto ma non sia mai veramente protagonista non ne attenua le colpe, ma restituisce a Liliana la libertà di esistere a prescindere da lui, seppur solo sulla pagina.
[Alt Text: fotografia di Cristina e Liliana all'aperto, probabilmente nel cortile di casa. Cristina è sulla sinistra e ride a occhi chiusi con il viso rivolto verso l'obiettivo. Liliana è sulla destra e osserva sua sorella con un sorriso amorevole. È estate e c’è il sole: Cristina indossa una canottiera bianca, pantaloni leggeri e sandali aperti, mentre Liliana indossa una maglia leggera e un'ampia gonna bianche. Fonte.]
Scrivere della vita e della morte di una sorella non è soltanto un gesto d'amore privato. Convinta che la scrittura sia un'attività "intimamente e necessariamente connessa" alle comunità in cui ci capita di vivere, Cristina Rivera Garza non compila manuali di istruzioni per donne incastrate in relazioni abusanti ma sparpaglia informazioni utili, che forse avrebbero potuto salvare Liliana, a beneficio di chi ne sta leggendo la storia. Conoscere i comportamenti che destano allarme e i momenti statisticamente più critici per chi ha appena lasciato unə compagnə violentə ci consente di assumerci la maggior responsabilità possibile della nostra sicurezza senza per questo toglierne un'oncia a chi nei fatti usa violenza all'interno della relazione: fornire le informazioni e i mezzi utili per proteggersi a una parte e rendere inoffensiva l'altra sono pratiche complementari, non certo binarie e mutualmente esclusive.
Nel 1990, quando nessuno parlava di queste cose, quando la violenza di coppia continuava a essere strettamente associata ad accessi di passione che, a volte, si trasformavano inavvertitamente in delitti, quando né le vittime né i loro cari e nemmeno gli stessi soggetti abusanti avevano un linguaggio capace di definire, e ancor più di contrastare, la violenza perpetrata in nome dell'amore, era facile, dolorosamente facile non essere al corrente del rischio mortale che tale violenza implicava. (p. 225)
Come osserva la studiosa e scrittrice Nayeli García Sánchez, Cristina Rivera Garza scrive anche per educare allo sguardo e all'ascolto vigili. Prestare un'attenzione consapevole alle nostre storie d'amore e a quelle dellə nostrə amicə può essere decisivo in termini di vite preservate o almeno di traumi risparmiati. La doppia sconfitta che la storia di Liliana porta con sé (prima la morte, poi la morte impunita) non può allora che essere risolta a parole: è grazie alle parole di Cristina che Liliana non è più soltanto un numero aggregato in statistiche deprimenti, è grazie alle parole messe in circolo dai movimenti e dalle studiose femministe che si è creata e diffusa una maggior cultura rispetto alla violenza di genere, sono la parola e il dialogo i primi momenti della connessione necessaria alla solidarietà e alla cura reciproche. Le trasformazioni operate del linguaggio e dalla scrittura determinano secondo Rivera Garza "come ci percepiamo nel mondo, come ci relazioniamo nel mondo, non è affatto un cambiamento metaforico o intellettuale, bensì un cambiamento concreto che si tramuta in azione": è questa convinzione che la parola sia propedeutica alla lotta (e perciò parte di essa) che salva L'invincibile estate di Liliana dal rischio di essere lo sterile rovesciamento su pagina di un trauma personale, e lo inserisce invece in un processo di rinnovamento culturale e sociale a cui un'arte che s'impegni e partecipi non è sufficiente, ma senza dubbio necessaria.
Liliana è il nome che ho dato alla mia libertà. (p. 144)
Grazie a Chiara e Marta per aver arricchito questo numero di Ghinea. Ci leggiamo a fine luglio!
Un abbraccio!
Francesca, Gloria e Marzia
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