Benvenutx a Ghinea, la newsletter che spegne incredula sei candeline. Come per ogni compleanno, vogliamo ringraziare tutte le persone che hanno letto e diffuso la nostra newsletter e le tantissime altre che hanno donato il loro tempo libero per arricchire uno o più numeri di questo progetto, fortunatamente sempre meno ancorato ai nomi delle tre persone che sei anni fa hanno avuto un’idea e in compenso sempre più collaborativo, per desiderio, ambizione e sforzo. Questo mese continuiamo la felice tradizione con due amiche cinefile: Marta Corato e Ludovica Ciasullo. Buona lettura!
Metanarrativa di uno stupro: Not a pretty picture (Martha Coolidge, 1976)
di Ludovica Ciasullo
Nella locandina di Not a Pretty Picture, un film del 1976 di Martha Coolidge, ci sono tre volti: quello della regista e quelli di James Carrington e Michelle Manenti, che interpretano rispettivamente Curly e Martha. Come nella foto, i tre si sovrappongono anche nel film: Coolidge ha girato un film ibrido fra fiction e documentario in cui Manenti e Carrington inscenano un episodio traumatico della sua vita, uno strupro subito da un suo compagno di scuola, ma la ricostruzione finzionale viene continuamente interrotta da interventi della regista stessa, che dialoga con i due cercando di arrivare insieme a una narrazione dell’evento. Coolidge rappresenta la sua storia tramite ə due attorə, ma nel farlo ne parla con loro e presenta allo spettatore questo ragionamento collettivo.
[Alt Text: locandina del film che raffigura tre frammenti dei volti di Coolidge, Carrington e Manenti.]
Prima ancora che il film cominci un messaggio sulla schermo ci avvisa di due cose: quella a cui stiamo per assistere è una storia vera accaduta alla regista, e anche l’attrice che la interpreta ha subito uno stupro al liceo. Se il primo annuncio è usuale, il secondo molto meno: perché è importante che Manenti e Coolidge condividano questo trauma? La risposta si intuisce poco dopo: parlare di stupro con ə due interpretə è parte del progetto artistico del film.
L’evento, in sé, è una storia che conosciamo fin troppo bene: Martha frequenta il liceo (al momento in cui il film viene girato la regista ha 28 anni, quindi presumibilmente la narrazione è ambientata negli anni ‘60) in una boarding school, un collegio: la sera sghignazza con la sua compagna di stanza ben oltre l’orario in cui avrebbero dovuto spegnere le luci, di giorno studia e pratica canto. Durante una presunta festa a New York, Curly stupra Martha, per poi diffondere voci su di lei al rientro a scuola. Non succede nient’altro nel film, al netto di qualche dettaglio ulteriore sulla vicenda. Nel raccontarci la sua storia per mezzo dei corpi deə suoə attorə però la regista interviene di continuo: nella prima parte del film le sequenze “recitate” in cui viene ricostruita la storia, e quelle “documentate” in cui vediamo il backstage sono molto nettamente separate, ma poi i due registri diventano sempre più confusi. Vediamo che la sceneggiatura è una traccia, e che Coolidge invita esplicitamente Manenti e Carrington a improvvisare, a utilizzare quello che sentono per mostrarcelo. Ecco la rilevanza della biografia di Manenti: come si è sentita lei mentre veniva stuprata? E come vuole rappresentare il modo in cui si sentiva Coolidge?
La pluralità delle due esperienze viene assunta: non conosciamo i dettagli della storia di Manenti, le due parlano in termini simili di alcuni aspetti delle loro storie, ma al contempo sono due donne diverse, e Manenti non è solo un’attrice, ma un’attrice che ha vissuto una cosa simile. Non è la stessa cosa, ma non è nemmeno come se non le fosse mai successo niente. Coolidge appare in camera come regista, mentre riflette sul suo vissuto e ne costruisce la narrazione, Manenti appare come strumento di questo progetto artistico, e al contempo come soggettività coinvolta nella narrazione più ampiamente intesa.
Nella scena più dura del film, Manenti e Carrington stanno recitando i momenti immediatamente precedenti allo stupro, e la telecamera inquadra Coolidge che li fissa. Li interrompe, chiede a Carrington “Come mai lui è così educato con lei?”. Ne segue una discussione su quello che lui chiama adolescent rape, una sorta di benintenzionata ignoranza che porta un ragazzo sordo all’intimità altrui a farsi avanti con la forza. La forza emerge perché chi la perpetra crede che il gioco amoroso consista di ragazze reticenti da persuadere, o perché crede che mostrarsi reticenti, quando non riottose, sia la cifra di qualsiasi ragazza, indipendentemente dal suo umore, ma di certo non perché vuole farle del male. Secondo Carrington molti ragazzi condividono questo sentire, pensano che una ragazza che dica “no” debba solo essere persuasa, e se solo capissero, se solo sapessero che lei davvero non vuole, si fermerebbero.
No, risponde Coolidge, lui mi voleva davvero fare del male. Non era solo ignorante, era cattivo. La scena riprende e lo sguardo di Carrington si fa più duro, più freddo. La telecamera inquadra Coolidge che guarda, fremendo, la sé stessa ragazzina dimenarsi e cercare di sottrarsi, di sbandierare la sua umanità in faccia a qualcuno che non la percepisce più.
Forse Curly non l’ha mai riconosciuta, la dignità umana di Martha. La prima volta che lo vediamo sta assistendo a un concerto della scuola. Martha sta cantando The first time ever I saw your face, ha una voce bellissima che cattura l’attenzione dello spettatore, ma Martha è piccola sullo schermo perché in primo piano nell’inquadratura ci sono le teste di due giovani compagni di scuola, con le spalle alla telecamera e lo sguardo verso il palco: quando il testo recita “And the first time ever I lay with you” i due sghignazzano, Curly sussurra all’altro qualcosa che non sentiamo e i due si stringono la mano lasciando intendere una scommessa suggellata.
Che i due stiano goliardicamente fantasticando su un verso allusivo di una canzone d’amore potrebbe sembrare in un certo senso bonario, misogino sicuramente, ma in qualche modo innocuo. Però la scena ha dei tratti sinistri: l’audio è riempito dalle note della canzone, intuiamo che Martha adora cantarla, ed evidentemente non immagina di essere diventata una preda in quel momento, ma le sue emozioni (orgoglio, passione, paura del palcoscenico) sono, come lei, piccole, in fondo allo schermo, irrilevanti nelle teste dei Curly per cui la canzone, e la ragazza, non sono commoventi, speranzose, giovani, ma solo ammiccanti.
La dicotomia di cui i tre discutono mentre viene girata la scena dello stupro sembra essere accettata da tutti e tre: ci sono dei giovani benintenzionati che non capiscono, e ci sono le persone cattive e spietate che vogliono ferire la controparte. È l’unico uomo del trio, Carrington, a ripeterlo più e più volte, usando parole come adolescent e uneducated, sottolineando che il film che stanno facendo potrà appunto illuminare un aspetto delle dinamiche relazionali oscuro a molti giovani. Ma è il film stesso a contraddirlo: c’è un solo nome per questa vicenda, e c’è un solo modo in cui accade. Nello stupro che ha subito Martha, è il distacco fra l’umanità della vittima e la percezione dell’aggressore a essere così brutale da guardare. Curly è rappresentato come sordo, impenetrabile a quello che sta accadendo negli occhi e nel corpo della sua vittima.
La mia scena preferita del film è quando Coolidge parla con una sua amica, Anne Mundstuk, che nel film interpreta la giovane sé stessa, compagna di stanza di Martha. Si capisce che al tempo Martha non aveva raccontato alla sua amica la storia, ma nella versione ricostruita della vicenda lo fa qualche giorno dopo. Questo è l’unico dettaglio che ci viene esplicitamente mostrato diverso da come sia avvenuto, e mi pare molto significativo che la sola cosa che Coolidge vuole mostrare diversa da com’è sia un momento di intimità, di conforto e di sorellanza.
In questa recensione del film la critica Erika Balsom nota come in nessun momento del film la regista descrive questo progetto come catartico, e a eccezione di un riferimento agli strascichi che lo stupro continua ad avere nella sua vita relazionale, Coolidge non menziona nemmeno il desiderio di “processare il suo trauma”, per usare un linguaggio che ora sembra ubiquo forse negli anni ‘70 non era accessibile. Mi colpisce come Coolidge, pur rendendosi molto vulnerabile nel raccontare quanto ha subito (e nel mostrarsi in camera mentre lo racconta) faccia di questo progetto un lavoro collettivo: lo scopo non è solo “superare” l’accaduto tramite la sua sublimazione in arte, ma innanzitutto nominarlo (cosa che all’epoca dei fatti non le era possibile), poi condividerlo (con la sua “doppia” Manenti, con la sua amica Anne, con il suo attore Carrington e con il pubblico), e infine politicizzarlo. In questo mi ha ricordato il ben più recente The Tale, della documentarista Jennifer Fox. Nel film, Laura Dern interpreta la stessa Fox, una donna quarantenne che si imbatte in delle pagine scritta a tredici anni che raccontano di una relazione con un uomo più grande. Nonostante una grande reticenza a riconsiderare la sua storia sotto la luce sinistra in cui le si rivela, Fox-personaggio scava (nei suoi diari e nei suoi ricordi) fino a ri-comprendere la sua storia come un caso di adescamento e supro. La Fox-regista rappresenta sé stessa alle prese con la rivelazione della natura predatoria di quanto subito, mettendo sullo schermo le sue elucubrazioni da adulta, tramite il corpo di Dern, ma anche i suoi ricordi frammentati e falsati, tramite due giovani attrici (Isabelle Nélisse e Jessica Sarah Flaum) che la rappresentano in due diversi momenti della sua infanzia e adolescenza. Anche se le vicende raccontate dai due film sono molto diverse, mi paiono simili nel modo in cui entrambe le registe utilizzano il proprio vissuto (nel caso di Coolidge, anche il proprio corpo davanti alla telecamera) per creare una discussione a più voci che ambisca a generarne fra chi guarda il film. Possiamo immaginare che in entrambi i casi il lavoro artistico svolga un ruolo “terapeutico”, ma sia per Coolidge che per Fox il sé non è il fine della riflessione, e questo traspare in due narrazioni per nulla ombelicali e per questo particolarmente dirompenti.
Ludovica Ciasullo ha 29 anni e fa il dottorato in Economia. Ogni tanto racconta qualcosa della sua vita oltreoceano e dei suoi consumi culturali qui. Puoi seguirla su Instagram.
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UN FILM
Love lies bleeding (Rose Glass, 2024)
di Marta Corato
“Love-lies-bleeding” (letteralmente “l’amore giace sanguinante”) è il nome inglese dell’amaranto – una pianta che con il senno di poi assomiglia abbastanza a delle budella. Nel linguaggio dei fiori vittoriano, rappresenta il cuore spezzato e l’amore senza speranza. Love Lies Bleeding è naturalmente anche il titolo del nuovo film della regista britannica Rose Glass.
Si è imbattuta in questo fiore mentre cercava un titolo per la sua opera e cercava qualcosa con un “favoloso melodramma”. In più è il titolo di una canzone Elton John: lei e la co-autrice della sceneggiatura Weronika Tofilska avevano persino pensato di usarla nei titoli di coda del film.
Nonostante Glass non ne faccia menzione, sia la somiglianza alle viscere che la sua accezione ottocentesca sono delle letture piuttosto azzeccate per un film violento, trucido, che si incentra su una storia d’amore che sin dall’inizio non può che portare guai.
***
È il 1989; le nostre innamorate spacciate in partenza si incontrano in una cittadina imprecisata del New Mexico. Lou (Kristen Stewart) non ha mai lasciato il luogo dove è nata ed è la manager di una palestra, dove con “manager” si intende infilare il braccio in un water per sturarlo. Jackie (Katy M. O'Brian) sta facendo autostop per arrivare a Las Vegas, dove vuole partecipare a una competizione di bodybuilding. Tra le due è amore a prima vista e, proprio come da stereotipo, Jackie si trasferisce immediatamente a casa di Lou.
A mettere in moto la storia è l’orribile famiglia di Lou – in particolare il padre estraniato e dal torbido passato Lou senior (Ed Harris) e il repellente cognato J.J. (Dave Franco) che picchia la sorella Beth (Jena Malone). Solo una truculenta vendetta può risolvere le cose – insieme a botte da orbi, adrenalina, iniezioni di steroidi, ma anche tanta tenerezza. Se c’è una versione sublimata del meme “be gay do crime”, è Love Lies Bleeding.
[Alt text: Nell’immagine, l’attrice Kristen Stewart si accende una sigaretta in una cucina malridotta.]
Come già nel suo precedente Saint Maud, Rose Glass riesce con efficacia a detonare la purezza dei generi cinematografici: in Love Lies Bleeding c’è un po’ di horror, un po’ di noir, persino un po’ di film di supereroi. È un film veramente brutale che cresce attorno al nucleo di una commedia.
L’elemento forse più dilettevole di Love Lies Bleeding è la sua natura di film romantico. Certo, ci sono i muscoli oliati e gli ammazzamenti, ma al centro rimane il racconto di due persone estremamente sole che si incontrano e cercano di farcela nonostante le probabilità siano contro di loro, e forse la loro non sia proprio la più salutare delle relazioni.
Glass spiega, parlando del processo creativo con la co-sceneggiatrice Weronika Tofilska, che erano “[...] a un certo livello subconscio, consapevoli di cercare di spingere contro l'idea di ciò che un film [...] fatto da una donna dovrebbe essere. Penso che entrambe siamo piuttosto frustrate dall'idea che [...] le registe e i personaggi femminili di essere in qualche modo anche moralmente virtuose ed oneste”.
Mentre ovviamente i personaggi femminili sono forti – o almeno, lo è Jackie – non sono “strong female characters”: le motivazioni di Lou e Jackie sono comprensibilissime, ma appunto decisamente poco morali. Sono due donne con i loro difetti, che si trovano in mezzo a un putiferio, e agiscono quasi completamente di stomaco.
***
Love Lies Bleeding è un film tanto amorevole quanto tattile, umido, materico; Glass stessa dichiara un interesse per “tutta la roba viscerale, violenta, sanguinosa, appiccicosa”, che scatena una reazione fisica nello spettatore, “che sia repulsione o eccitazione”, sia un momento pulp o uno sexy.
Non è sorprendente che scelga tra le sue ispirazioni film come Crash di David Cronenberg o Showgirls di Paul Verhoeven; forse per la forte aura anni ‘80, la mia mente continua a tornare a Irene Cara in Flashdance – tanto quando fa la saldatrice quanto nelle sue performance danzerine, dove tutta l’attenzione è posta sui suoi muscoli lucidi.
Il corpo è naturalmente al centro anche di Love Lies Bleeding, specialmente quello fortissimo e torreggiante di Katy M. O'Brian, i cui bicipiti pompati si gonfiano facendo letteralmente “crunch”. Quello di una bodybuilder non è un corpo che si vede comunemente – nemmeno tra le eroine d’azione – ed è un corpo patriarcalmente “non femminile” (una faccenda complessa nel mondo del bodybuilding).
Ma Glass sublima la fisicità: le due protagoniste trovano gioia e potere nei loro corpi, e anche la forza (morale oltre che fisica) di farsi giustizia. I corpi delle donne, anche nei loro momenti più splatter, rimangono bellissimi; per contrasto, quelli degli uomini sono testosteronici e sudati, rivoltanti. “Beyond sickening”, come dice Lou (oltre il nauseabondo).
[Alt text: Nell’immagine, le attrici Kristen Stewart e Katy M. O’Brian si stringono l’una all’altra sullo sfondo di una palestra degli anni ‘80.]
Dal profilo di Kristen Stewart che Rolling Stone ha pubblicato durante il ciclo di promozioni di Love Lies Bleeding, scopriamo che quando lei e la regista Rose Glass si sono incontrate, questa le ha spiegato che “quello che la gente voleva da lei dopo era un film su una donna forte, un personaggio forte” – la famosa “strong female character”.
"Che cosa significa?" chiede ora Stewart, stringendo gli occhi. “È una stronzata. Significa che in realtà non permettiamo alle donne di definire se stesse. Si parte dal presupposto che dobbiamo avere il potere delle persone che decidono chi può avere una prospettiva, che dobbiamo fornire qualcosa di ambizioso. È il frutto più a portata di mano che ci sia”.
La sovversione più grossa di Glass non è forse quella del genere in senso di tipo di film, ma quella di genere nel senso di cosa ci si aspetta da una filmmaker donna che fa un film con protagoniste donne. Pur essendo per natura politico – un fim con protagoniste donne, addirittura gay – Love Lies Bleeding sta facendo altro. Non cerca a tutti i costi una risoluzione trionfale. Sono delle persone incasinate che lo rimangono, o addirittura peggiorano.
Love Lies Bleeding verrà distribuito prossimamente in Italia da Lucky Red.
Importante segnalazione felina: c’è un adorabile gatto arancione di nome Happy Meal.
Marta Corato è una persona con troppi hobby che ogni tanto trova anche il tempo di fare cose serie. Fino al 2018 ha curato il sito femminista Soft Revolution; continua a fare brevi apparizioni online scrivendo di cinema e tv. Per i film la si trova su Letterboxd e IGN Italia; per gli hobby su Instagram.
Grazie a Marta e Ludovica per i loro articoli, ci leggiamo fra un mese!
Un abbraccio!
Francesca, Gloria e Marzia