La ghinea di giugno
Benvenut@ a Ghinea, la newsletter con un filo di gas. Questo mese puoi leggere alcuni passaggi da un recente studio su Goliarda Sapienza, grazie alla disponibilità dell’autrice Alberica Bazzoni. Torna inoltre Simona Iamonte, che ci guida attraverso le opere della giovane artista Sasha Gordon. Infine, una nostra recensione del romanzo breve La cagna di Pilar Quintana. Buona lettura!
Pubblichiamo un estratto da Scrivere la libertà. Corpo, identità e potere in Goliarda Sapienza di Alberica Bazzoni. Ringraziamo l’autrice e la casa editrice.
[Alt Text: copertina di Scrivere la libertà. Corpo, identità e potere in Goliarda Sapienza, in semplice monocromia rossa.]
Il 4 ottobre del 1980 Sapienza viene arrestata per furto e portata nel carcere romano di Rebibbia, dove rimane cinque giorni. L’università di Rebibbia, pubblicato da Rizzoli nel 1983, è il racconto ispirato da quell’esperienza, che dà voce alle altre detenute e alle loro storie. Le certezze del dubbio, uscito per Pellicanolibri nel 1987, ne è il seguito e racconta dell’amicizia di Sapienza con alcune ex-carcerate incontrate a Rebibbia, e in particolare dell’amore per Roberta, una giovane donna coinvolta nel terrorismo, tossicodipendente, militante, e che ha passato buona parte della vita adulta a entrare e uscire di prigione. Questi romanzi, gli ultimi pubblicati da Sapienza in vita, formano quello che si può definire un ‘dittico della prigione’: entrambi mettono infatti al centro l’ambiente carcerario e le storie di marginalità delle donne lì incontrate dall’autrice. Tuttavia, L’università di Rebibbia si concentra sulla rappresentazione della prigione e delle donne che ci vivono, mentre nelle Certezze del dubbio il tema principale si sposta sulla relazione intima, erotica e densa di ambiguità tra Goliarda e Roberta, con il ricordo dell’esperienza carceraria e la realtà di marginalità urbana a fare da sfondo alla storia. […]
L’università di Rebibbia e Le certezze del dubbio sono in una relazione di continuità con il ciclo autobiografico di Sapienza ma intraprendono una strada molto diversa. La mescolanza di autobiografia e finzione rimanda al progetto portato avanti in Lettera aperta, Il filo di mezzogiorno, Io, Jean Gabin, di cui costituiscono l’episodio conclusivo. Condividono inoltre con i testi autobiografici e con L’arte della gioia numerose tematiche, quali la relazione tra libertà individuale, comunità e società; la marginalità, specialmente per quanto riguarda le donne; la sessualità, inclusa una varietà di orientamenti sessuali, di identità e di dinamiche relazionali rappresentate; la centralità della dimensione corporea dell’esperienza e della relazionalità; e infine la tensione formativa connessa a una visione socialmente e politicamente impegnata della comunicazione letteraria. D’altro canto, i romanzi della prigione rappresentano una svolta nella produzione di Sapienza in quanto l’attenzione si sposta dal ricordo del passato alla narrazione del presente, e dalla ricerca di identità della narratrice alla rappresentazione della realtà che la circonda.
[…]
[Alt Text: ritratto fotografico in bianco e nero di Goliarda Sapienza, immortalata di profilo. Sapienza è seduta con un ginocchio sollevato e raccolto al petto, su cui posa il braccio destro. Sullo sfondo, fuori fuoco, un mobile basso con alcuni libri e soprammobili. Fonte.]
Un primo elemento da cui partire nell’analisi di questi testi è la rappresentazione della prigione. In un mosaico di scene, dialoghi, aneddoti e riflessioni Sapienza comunica la complessità della condizione carceraria, l’ambivalenza, le protagoniste e la relazione con il mondo esterno. A questo proposito risulta particolarmente illuminante accostare l’opera di Sapienza alle testimonianze di donne in carcere raccolte nel volume Recluse, dove L’università di Rebibbia è citato come un «libro straordinario» che riesce a raccontare «[q]uesto universo di umanità schiacciata da colpe morali». La lettura di questi testi in parallelo rivela una corrispondenza puntuale di scene, storie, dinamiche e questioni aperte, e mostra in particolare due punti di contatto essenziali: il primo sul piano del metodo, basato sul dare voce alle donne, tramite interviste nel caso di Recluse e in lunghi dialoghi nell’Università di Rebibbia e Le certezze del dubbio; il secondo sul piano dell’approccio politico, che in entrambi i testi mira a reinstaurare la soggettività delle detenute mettendo in luce tanto gli aspetti negativi, degradanti, infantilizzanti e spersonalizzanti del carcere quanto le pratiche di resistenza e resilienza messe in campo dalle donne per trasformare la propria esperienza di detenzione in un’opportunità positiva.
Un secondo aspetto su cui incentrare l’analisi consiste nella rappresentazione dei problemi della società fuori dall’istituzione carceraria. Narrare la propria esperienza della prigione è un’occasione per Sapienza per riflettere sulla società in senso ampio, di cui critica aspramente il conformismo, l’individualismo, e la marginalizzazione delle persone più vulnerabili, mentre allo stesso tempo mette sotto accusa il fallimento delle politiche di sinistra. A tale fallimento risponde con un impegno politico molto più definito e attivo rispetto al posizionamento assunto nelle opere precedenti e che si riconosce nella partecipazione civica, nel femminismo e nel pensiero anarchico.
Infine, un terzo oggetto d’investigazione è l’esperienza personale di Sapienza, il ruolo e il significato attribuiti alla detenzione nel suo percorso esistenziale e, intrecciato ad esso, il ruolo e il significato della narrazione della prigione nel suo percorso artistico. L’esperienza di Sapienza non è infatti in alcun modo rappresentativa di quella della maggior parte delle detenute: l’autrice resta in carcere solo per pochi giorni, proviene da un contesto economicamente e intellettualmente privilegiato, e si approccia alla detenzione come a un’avventura ricca di potenziale rigenerante. Il tema dell’esperienza personale di Sapienza costituisce inoltre il filo che collega L’università di Rebibbia alle Certezze del dubbio e alla relazione con Roberta.
Un elemento trasversale a tutti e tre i temi principali analizzati nel capitolo – la prigione, la critica della società e l’esperienza personale di Sapienza – è rappresentato dal corpo: il corpo percettivo della protagonista, i corpi delle altre carcerate, le relazioni di scambio, affezione e mimetismo reciproci. La rilevanza del corpo pertiene anche alle modalità della narrazione, centrate sulla prominenza di voci e sguardi e della sfera sensoriale, intensificata dallo spazio chiuso della prigione e dal coinvolgimento emotivo della narratrice. Ma il corpo è esso stesso tema dei due romanzi in quanto corpo sessuato, relazionale, e imprigionato, che Sapienza colloca al centro dell’esistenza individuale e collettiva. Vedremo che il discorso di Sapienza sul corpo e sul conformismo sociale ha diversi punti di contatto con il pensiero di Foucault in Sorvegliare e punire, ma se ne distanzia anche nel presentare il corpo come forza attiva situata e relazionale piuttosto che come oggetto anonimo e «docile» del potere.. La presenza del corpo come agente desiderante discosta la narrativa di Sapienza dal pensiero post-strutturalista e lo avvicina invece piuttosto al pensiero politico di Arendt e Cavarero, oltre che al lavoro di studiosi, giuristi e attivisti impegnati nella trasformazione del sistema penitenziario, fornendo un contributo diretto alla comprensione di questi temi.
[…]
La caratterizzazione ambivalente della prigione è centrale nelle riflessioni di Sapienza sulla sindrome carceraria. Nell’Università di Rebibbia e nelle Certezze del dubbio Sapienza si sofferma particolarmente sulle problematiche dell’istituzionalizzazione, legate al suo interesse per i meccanismi della coazione a ripetere. In tutta la sua opera Sapienza mostra una fascinazione per la coazione a ripetere, per come si può provare a modificarla e come invece può cristallizzarsi in un destino ineluttabile. Destino coatto per esempio è il titolo di una raccolta di brevissimi testi in prosa che raffigurano una molteplicità di personaggi imprigionati in ossessioni, in destini senza vie di scampo. Sapienza prova un’attrazione fortissima verso la prigione, spazio allo stesso tempo limitante e protettivo, infantilizzante e vitale. Nello sguardo di Sapienza sulle vite delle altre prigioniere l’interesse psicoanalitico per la coazione a ripetere viene a saldarsi a quello sociopolitico per la sindrome carceraria, che è il risultato dell’inefficacia ovvero dello «scacco della prigione», nei termini di Foucault.
È la struttura stessa della prigione, nel suo duplice aspetto infantilizzante e protettivo, a rischiare fortemente di produrre comportamenti recidivi invece di una riabilitazione efficace, un elemento che Sapienza mette in evidenza tanto in relazione alle altre detenute quanto per se stessa. La detenzione si fonda infatti su una contraddizione che Sapienza, così come le detenute che parlano in Recluse, identifica chiaramente, ovvero il paradosso di rieducare le persone all’esercizio responsabile della libertà attraverso la reclusione e l’infantilizzazione. Nelle parole espressive di due detenute intervistate in Recluse, «come fai tu a riabilitarmi se mi tieni tutto il giorno chiuso in cella a guardare il soffitto?»; «Dicono ‘il carcere serve a riabilitare’, ma cosa?, io quando esco (scusa la parola) mi trovo con il culo a terra».
[Alt Text: la copertina di Le certezze del dubbio è una fotografia in bianco e nero. Una donna in abito aderente e smanicato appoggia le braccia incrociate contro un muro e tiene la testa piegata, così che il suo volto sia invisibile all’obiettivo. Sullo sfondo, una coppia cammina sul lungofiume.]
La prigione isola le detenute dalla società, rendendo così la loro posizione ancora più emarginata e precaria e producendo soggetti sempre più dipendenti invece che rinforzati nella propria capacità di agire. Allo stesso tempo la prigione è un ambiente rassicurante che protegge le carcerate dalle sfide della società esterna. Inoltre, una volta che una persona ha attraversato la prima esperienza di ‘educazione carceraria’, la prigione non è più una minaccia sconosciuta ma un mondo in cui ha imparato come vivere. La prigione diventa un contesto rassicurante e persino un’opportunità esaltante, se paragonata a un contesto sociale caratterizzato da mancanza di supporto e da solitudine, che vede le ex-detenute occupare un posto anonimo ed emarginato. La maggior parte delle donne che Sapienza incontra entrano ed escono di prigione, avendo perduto, o forse non avendo mai avuto, la possibilità di vivere una vita soddisfacente fuori, mentre si sono adattate con successo alla vita dentro. La tensione tra desiderio di libertà e dipendenza dalla prigione è catturata distintamente dalle parole di Marrò, «delinquente abituale» (UR 91): «Da quando avevo sedici anni è che me bevono e me sputano. […] Ho la vita che me s’è cambiata in altalena… ma non me dispiace proprio… Quando ero apprendista parrucchiera la noia me se magnava tutta… […] Voglio usci’!… Voglio usci’!… Voglio usci’!…» (113). Marrò racconta che anche Annunciazione entra ed esce di prigione, alternando desiderio di sfuggire e desiderio di tornare in un circolo senza scampo (121). Ed è ovviamente Roberta, la co-protagonista delle Certezze del dubbio, a rappresentare l’esempio più drammatico di «affezione carceraria» (194). In quanto persona istruita, politicizzata, e che può contare su una rete di supporto fuori, il caso di Roberta differisce sostanzialmente da quello di Marrò e di Annunciazione, eppure ha vissuto entrando e uscendo di prigione fin da quando era ragazzina al punto da considerare la prigione come la propria casa. Roberta ragiona sulla propria condizione esistenziale, marcata dalla dipendenza dall’eroina oltre che dalla prigione, esprimendo con lucidità l’ambivalenza dell’istituzione carceraria come collettività che protegge dalla solitudine della vita fuori:
Vedi, qui la giornata è così piena di avvenimenti che alla fine diviene come una droga… […] Anch’io adesso fremo tanto d’uscire perché è un anno che sono dentro, ma dopo due o tre mesi di libertà nell’anonimato – libertà che ha il solo vantaggio d’esser lasciati a morire soli – so che mi riprenderà il desiderio di qui. Non c’è vita senza collettività… (UR 194-195)
La prigione come l’eroina paradossalmente diventa per Roberta un modo per sfuggire a una realtà in cui non riesce a vivere: «Nessuno può dare quella sensazione di liberazione che si prova al momento che ti ‘chiudono’ fuori dalla società e da te stesso» (CD 136-137). Nella dipendenza dalla prigione Sapienza mette in luce tanto il fallimento dell’istituzione carceraria nel riabilitare le detenute quanto i problemi che affliggono la società contemporanea fuori dalle mura penitenziarie: l’individualismo, l’atomizzazione, la spersonalizzazione rispetto ai quali paradossalmente la prigione rappresenta un’alternativa. Nell’insieme Sapienza riconosce le risposte creative delle donne all’ambiente carcerario, gli aspetti positivi di relazionalità e solidarietà; allo stesso tempo il ritratto complessivo dell’istituzione carcere è quello di un tragico fallimento ed è un fallimento che chiama in causa la questione più ampia della relazione fra ‘dentro’ e ‘fuori’.
[…]
I romanzi della prigione, come abbiamo visto, offrono in primo luogo una rappresentazione dell’istituzione penitenziaria, della condizione delle detenute, e del rapporto tra carcere e società esterna, ma sono anche testi autobiografici che proseguono la narrazione personale di Sapienza. Possiamo quindi riflettere sul significato che l’esperienza della prigione assume nel suo percorso esistenziale e artistico, a partire da come interpreta le motivazioni dietro al furto e all’arresto che ne è conseguito. La prigione rientra nell’interesse di Sapienza per i margini e per la sfida alle norme che l’accompagna per tutta la vita, e la prigione femminile si può dire partecipi di una doppia marginalità – rispetto alla società, ma anche rispetto all’istituzione penitenziaria, dal momento che criminalità e detenzione erano e rimangono temi prevalentemente maschili. (Nel 2020 in Italia donne e uomini rappresentavano rispettivamente il 4,2% (2.255) e il 95,8% (51.109) della popolazione carceraria complessiva (53.464). Sito del Ministero Italiano della Giustizia.)
In tutta la propria opera Sapienza si presenta come un soggetto «fuori della norma», a partire da quel nome, Goliarda, che marca la sua unicità, e dalla sua identità «bastarda» all’interno della famiglia in Lettera aperta, dove racconta anche che il padre, avvocato, era solito difendere criminali comuni, e che entrambi i genitori e diversi fratelli erano stati ripetutamente incarcerati per motivi politici. Sapienza cresce in un contesto, la Catania degli anni ’20 e ’30, in cui la legge è vista come espressione del potere fascista, che arresta i suoi oppositori. L’agire fuori norma di Modesta nell’Arte della gioia nonché la fascinazione della bambina protagonista di Io, Jean Gabin per il delinquente romantico Jean Gabin, assunto come modello di riferimento, riflettono la visione antinormativa dell’autrice. Sapienza è infatti attratta irresistibilmente dai fuorilegge, dai reietti, dalla pazzia, dagli ospedali psichiatrici, da figure queer che confondono le demarcazioni tra i generi e da espressioni della sessualità che sfidano il confine tra lecito e illecito – la bisessualità, l’omosessualità, la fluidità sessuale, l’incesto. I romanzi di Sapienza offrono un’esplorazione instancabile dei margini della società, di ciò che la società vieta, espelle e reprime, e che ne costituisce la cornice strutturante.
Bibliografia
- Goliarda Sapienza, L’università di Rebibbia, Rizzoli 1983. (abbreviato anche come UR)
- Goliarda Sapienza, Certezze del dubbio, Pellicanolibri, 1987. (abbreviato anche come CD)
- Goliarda Sapienza, Lettera aperta, Garzanti, 1967.
- Goliarda Sapienza, Il filo di mezzogiorno, Garzanti, 1969.
- Goliarda Sapienza, L’arte della gioia, Stampa Alternativa, 1994 e poi 1998.
- Goliarda Sapienza, Io, Jean Gabin, Einaudi, 2010.
- Susanna Ronconi e Grazia Zuffa (a cura di), Recluse. Lo sguardo della differenza femminile sul carcere, Ediesse, 2014.
- Michel Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Feltrinelli, 1993.
Alberica Bazzoni è ricercatrice all'ICI Berlin - Institute for Cultural Inquiry. È autrice di Writing for Freedom. Body, Identity and Power in Goliarda Sapienza’s Narrative (Peter Lang 2018), tradotto di recente in italiano in un’edizione rivista con il titolo Scrivere la libertà. Corpo, identità e potere in Goliarda Sapienza (ETS 2022), e ha co-curato i volumi Gender and Authority across Disciplines, Space and Time (Palgrave Macmillan 2020) e Goliarda Sapienza in Context (Fairleigh Dickinson UP 2016). I suoi interessi di ricerca vertono sulla letteratura contemporanea, la teoria della letteratura, gli studi femministi, queer e decoloniali, e la sociologia dei processi culturali.
La Corte Suprema degli Stati Uniti ha ribaltato la storica sentenza Roe vs Wade, che garantiva la protezione a livello federale del diritto all’aborto. Sebbene questo non significhi che abortire diventerà automaticamente illegale su tutto il territorio degli Stati Uniti, bensì che ogni stato avrà la competenza per legiferare in materia sul proprio territorio, si tratta comunque di una decisione che priverà milioni di persone di un importante aspetto della propria salute riproduttiva. Ecco i contributi migliori che abbiamo letto in proposito:
su Wired, Olivia Snow ricorda la legislazione del 2018 FOSTA/SESTA, che ha colpito l* sex worker che esercitano sul web, e spiega come la presenza online e la tracciabilità garantita dalla tecnologia di uso quotidiano giocheranno un ruolo vitale nel perseguimento penale di chi abortisce
su Vox, tutte le tappe che hanno portato alla decisione della Corte Suprema
su Politico (2021), le strategie del movimento antiabortista statunitense
su Washington Post, Rachel Roubein racconta come le organizzazioni che offrono sostegno a chi ha bisogno di abortire si stessero preparando da tempo a questo momento, e come si sono equipaggiate per fronteggiarlo
FATTO DA NOI
Se ti piacciono i podcast, puoi ascoltare l’ultima ospitata di Gloria a Ricciotto. Gloria e Aldo Fresia parlano dei lavori della regista salvadoregna Tatiana Huezo e in particolare degli ultimi due, il documentario Tempestad (2016) e il lungometraggio di finzione Noche de Fuego (2021, titolo internazionale Prayers for the Stolen). in queste due pellicole, Huezo si occupa della condizione femminile nelle zone dell’America Centrale controllate dai cartelli della droga e del tutto abbandonate dalla protezione dello stato, documentando o raccontando storie di ingiustizia kafkiana, rapimenti a scopo di tratta, sfruttamento lavorativo – ma anche, in Noche de Fuego, le tattiche di autodifesa e resistenza costruite dalle reti di donne che salvaguardano la propria vita e quella delle loro figlie.
[Alt Text: frame da Noche de Fuego. La protagonista preadolescente e le sue due migliori amiche sono all’aperto e inquadrate in primo piano, mentre sullo sfondo si vedono un elicottero in volo e alcuni militari armati.]
FATTO DA VOI
Su Il Tascabile, un lungo commento di Enrico Gullo a Cruising Utopia di José Esteban Muñoz e L’arte queer del fallimento di Jack Halberstam. Puoi trovare un articolo di Enrico su un vecchio numero di Ghinea, in cui ci ha parlato di La gaia critica di Mario Mieli.
Una nuova recensione di Alessia Ragno, su L’indiependente.
Sei già iscritt* a La smarginatura? Ti manda ottimi articoli di critica e analisi cinematografica, talvolta tradotti da Giorgia Maurovich.
L’ultima pubblicazione di Nina Ferrante, Cosa può un compost. Fare con le ecologie femministe e queer, è recensita su Effimera. Nina ci aveva anticipato l’oggetto della sua ricerca due anni fa, quando l’abbiamo intervistata per un nostro numero speciale.
UN LIBRO
La cagna di Pilar Quintana. Traduzione di Pino Cacucci. La tartaruga, 2022.
[Alt Text: ritratto fotografico in bianco e nero di Pilar Quintana, scattato da Carlos Zárrate nel 2021. Quintana regge un ombrello e indossa una giacca impermeabile, ha i capelli ricci scombinati dal vento e guarda in camera senza sorridere. Sullo sfondo una costruzione moderna circondata da un laghetto artificiale, cielo plumbeo. Fonte.]
Attenzione, spoiler!
Pilar Quintana ha scritto La cagna (La perra, 2017) con una sola mano, sulla app blocco-note del suo smartphone. Con l’altra reggeva suo figlio neonato, attaccato al seno. Una maternità per certi versi tardiva, desiderata e piuttosto fortunata: lo racconta in un’intervista doppia, insieme alla scrittrice compatriota Gloria Susana Esquivel. Un aneddoto che non conferma l’usuale dicotomia bambini-o-libri, anzi dà conferma del contrario: due ore di latte durante la siesta diventano, di fatto, due ore dedicate alla scrittura sul telefono. Un lavoro imprescindibile — sacro, indisturbato: il bebè deve mangiare — ne permette uno fragile, ai più sacrificabile, tanto che la storia iniziata come racconto si è allungata fino a diventare un romanzo breve.
C’è un altro luogo comune che La cagna esplora e ribalta, che si possa scrivere solo ciò che si conosce. “Solo perché ho avuto un bambino ho potuto scrivere La cagna”, racconta Quintana: una storia d’invenzione su di una donna che ha perso la speranza di diventare madre, ma non il sentimento del materno. Quintana rivela che la frustrazione provata con l’arrivo delle mestruazioni quando già sperava di essere incinta, e per una volta soltanto prima di diventarlo davvero, è stata un’esperienza così gravosa da poter essere smaltita solo in un personaggio che ne ha piena e prolungata cognizione.
Damaris e Rogelio hanno raggiunto e superato i quaranta senza avere figli. Sposati appena l’età lo concedesse, i primi anni di serenità coniugale si sono inaciditi in un decennio di delusione causata dall'evidente sterilità della coppia. Il quotidiano è scandito in ruoli e mansioni: Rogelio esce a pesca in barca, Damaris mantiene la casa-baracca e custodisce la villa sulla scogliera abbandonata dai proprietari, l’abbiente famiglia Reyes. Ai loro cani, Danger, Mosco e Olivo, è fatto severo divieto di entrare nella loro capanna, e a malapena ricevono qualche carezza: sono bestie da lavoro e da guardia.
È evidente a chiunque in paese che la cagnolina orfana che Damaris decide di adottare sia un sostituto del bambino mai avuto: la nutre con una siringa e morsi di pane imbevuto di latte, la trasporta al caldo nel suo reggiseno. Amatissima, battezzata col nome immaginato per la prima bambina, la cagnolina si crogiola nell’affetto di Damaris e si comporta come solo una figlia certa dell’amore saldissimo di sua madre può permettersi di fare. Per ritorsione, quando le viene fatto il primo bagno insaponato, Chirli straccia tutti, e solo, i reggiseni di Damaris appesi al sole ad asciugare.
Il paesaggio del Pacífico colombiano, la costa indocile costretta tra oceano e giungla amazzonica all’estremo ovest della nazione, forza il pensiero e l’azione dei personaggi. Non si tratta solo di tempo umano mangiato da una geografia aspra, che impone reclusione e obbliga a tragitti interminabili, ma anche di territori resi polisemici dalle attività dell’uomo. Ciò che per alcuni è vita, realtà, impresa, per altri è evasione, “altrove”.
La capanna in cui vivevano non sorgeva sulla spiaggia, ma su una impervia scogliera dove la gente bianca di città aveva case per le vacanze grandi e accoglienti, con giardini, viottoli lastricati e piscine. Per arrivare al villaggio si scendeva una lunga e ripida scalinata che, con le frequenti piogge, andava spesso ripulita per togliere muschio e fanghiglia che la rendevano scivolosa. Poi bisognava attraversare l’insenatura, un braccio di mare piuttosto vasto e con forti correnti come un fiume, che si colmava e svuotava a seconda delle maree.
L’incontro tra i due modi di intendere il territorio è inevitabilmente asimmetrico, e la frattura ha già permesso al peggio di accadere. Tra i ricordi che l’adozione della cagna Chirli ha sbloccato per Damaris, c’è quello di un incidente avvenuto sulla scogliera nel dicembre del 1977.
Nel villaggio non avevano ancora allacciato la luce elettrica, Shirley Sáenz era la nuova Miss Colombia e Damaris e Luzmila se la passavano ad ammirarla sulla rivista Cromos che la Signora Elvira aveva portato da Bogotá.
Il rampollo dei Reyes, Nicolasito, “aveva la mania dell’esploratore” e durante un’escursione sugli scogli non diede ascolto agli avvertimenti della coetanea Damaris — “in quel punto le rocce erano scivolose e il mare traditore” — e fu trascinato via dalle onde.
[Alt Text: dettaglio dal dipinto a olio La barca di Cristina Rodriguez (1996), immagine di copertina dell’edizione italiana di La perra. Il quadro rappresenta una figura antropomorfa femminilizzata, di colore giallo, gambe e braccia arcuate a imitare poppa e prua di una barca, su fondo rosa. Fonte.]
L’attenzione di Damaris, tuttavia, dalla memoria delle conseguenze per sé stessa all’epoca — la punizione: le frustate del padre, il biasimo dei compaesani — si decentra verso la madre di Nicolasito, la signora Elvira, e verso la situazione in cui fu costretta dalle circostanze: essere senza figli. La somiglianza è, tuttavia, ancora più ampia. Entrambe le donne si trovano a dover sopportare un periodo liminale in cui la loro creatura è assente, dispersa, morta solo in potenziale. Per Elvira passano trentaquattro giorni prima che l’oceano restituisca il cadavere di suo figlio. Damaris, invece, si ritrova a dover fare l’abitudine alle continue fughe della cagnolina, e a temere, a ogni ritorno, di non rivederla più .
Una notte di burrasca tutt’e quattro i cani scappano spaventati nella giungla. “La cagna ricomparve quando ormai nessuno ne parlava più con Damaris”. Chirli torna gravida, partorisce e abbandona i suoi cuccioli, sta legata per giorni, fugge ancora e ritorna. Damaris non resiste all’ansia, mal tollera la mancanza di devozione costante, non può comprendere l’istinto canino perché troppo ricolma di affetto a sé da darle. “Finirà che lo ammazzi, quell’animale, a forza di toccarlo tanto”, aveva profetizzato la cugina Luzmila osservando l’amore smanioso di Damaris per Chirli cucciola. Per darsi pace regala via la cagna, la caccia quando, puntuale, si ripresenta davanti alla capanna.
Dentro Villa Reyes mobili e pavimenti resistono all’abbandono grazie alle pulizie costanti di Damaris, che ha particolare cura della camera di Nicolasito.
[…] lui le aveva spiegato che gli animali e il bambino dei disegni sulle tende e il copriletto della sua stanza appartenevano al suo film preferito, che si chiamava Il libro della giungla, e infatti era anche un libro, e raccontava di un bambino che si perdeva nella selva e veniva salvato dagli animali. “Lo hanno salvato gli animali?” aveva chiesto Damaris incredula, e quando Nicolasito aveva detto sì, una pantera e una famiglia di lupi, Damaris era scoppiata a ridere perché questo era impossibile.
In La cagna non c’è scandalo nell’ordine brutale della vita non umana, e Quintana si guarda bene dall’ammiccare a imprese favolistiche alla Rudyard Kipling: come non ci sono animali antropomorfi, non c’è alcuna morale da evincere quando le bestie ringhiano, abbaiano, guaiscono e mordono. Anzi, applicare schemi di mutualità umana alla convivenza con gli animali può spezzare il cuore: Damaris non è l’unica a soffrire per il proprio cane, e una preoccupazione specifica la avvicina alle altre padrone di cani del paese, Ximena e Doña Elodia. Tuttavia Quintana non costruisce una storia per compatire un tipo di affetto materno che, per non andare sprecato, si incanala nelle premure riservate a un animale domestico.
Lo sguardo antropomorfico che gerarchizza gli animali nello spettro degli “amici a quattro zampe” è alieno ai personaggi di La cagna, né confonde la linea narrativa sottostante. Chirli non è un “bambino peloso”, eppure le maternità che Quintana ritrae sono mature e totali, rinsaldate, per assurdo, proprio dall’assenza di un referente infantile. È importante che La cagna sia una novella di appena cento pagine. Serrata nella sua esposizione e concisa nei fatti che descrive, dà l’impressione di non voler scavare più a fondo nel proprio soggetto tabù — una figura materna che uccide ciò che ha cresciuto e protetto — oltre la dizione dell’atto. Atti impensabili, logiche che restano inintelligibili sebbene mediate da una traslazione canina.
Due cose sono vere allo stesso tempo in La cagna: il senso materno è puro, e veritiero tanto quanto il suo rovescio violento. Eppure è esplorabile come storia solo perché non coinvolge, in automatico, un essere umano concepito e partorito. Il tabù di Medea resiste ed è rispettato — resta impensabile, indicibile — ma Quintana può raccontarlo (e noi leggerlo) attraverso un filtro metaforico, un personaggio che possiamo amare come un figlio, ma che resti intrinsecamente alieno al nostro amore.
UN’ARTISTA
Sasha Gordon. La pittura come strumento di accettazione
di Simona Iamonte
[Alt Text: La pittrice Sasha Gordon nel suo studio di Brooklyn (NY) fotografata da Joe Perri.]
Accettazione, identità, immagine corporea, razza e salute mentale sono alcuni dei temi trattati dalla pittrice americana Sasha Gordon, che attraverso l’uso della rappresentazione figurativa iperrealista, veicola le sue storie personali. Grazie ad una palette variopinta ed intensa di colori che saltano subito all’occhio, ed a composizioni esagerate e quasi assurde che le figure mettono in atto sulla superficie, Gordon crea un mondo a sé in cui potersi esprimere ed essere libera.
Sasha Gordon nasce nel 1998 a Somers, New York da madre coreana e padre polacco. Questa enorme differenza razziale e culturale dei genitori, ed il fatto di crescere in una comunità benestante e bianca, crea già da piccola delle crisi identitarie nella pittrice che dichiara di non essersi mai considerata asiatica fino all’età di 18 anni, nonostante abbia i tipici tratti del viso riconducibili alla fisionomia asiatica. Queste domande identitarie hanno segnato la crescita di Gordon che, solo dopo aver iniziato gli studi alla Rhode Island School of Design, ha trovato attorno a sé più persone asiatiche e di colore con cui condividere esperienze ed allargare il proprio mondo. Un ambiente totalmente diverso dalla bianca upstate di New York.
Inizia così il cammino pittorico e rappresentativo della pittrice che, incitata dai professori del college, si confronta con un tipo di pittura più narrativa che ingloba pensieri e sensazioni nelle immagini, superando la pura tecnica.
[Alt Text: “Untitled” olio su imprimitura di pasta modellante su tela, 18x13cm, 2021. Un volto dagli occhi molto grandi ed intensi, è riflesso in uno specchio d’acqua.]
Come spesso succede nelle scuole d’arte, la maggior parte degli artisti mostrati come riferimento appartiene alle scuole pittoriche antiche di predominanza bianca ed europea, incentrate sulla figurazione femminile e la copia dal vero di modella. La contemporaneità dei soggetti e dei temi, però, ha a che fare con qualcosa che si costruisce culturalmente partendo proprio dalle comunità. Ogni artista cerca riferimenti che risuonano con la propria vita e con la propria identità in artisti che spesso non hanno a che vedere con l’arte del ‘300 o del ‘700, ma che si radicano nel mondo moderno.
Anche per Gordon è stato fondamentale avere dei riferimenti culturali ed artistici più affini: tra gli artisti contemporanei da lei citati troviamo Yue Minjun, artista cinese noto per i suoi autoritratti spesso cinici ed esagerati, Wei Dong, artista cinese dell’avanguardia che fonde arte classica con elementi contemporanei, Namio Harukawa, disegnatore giapponese scomparso di recente che indaga i temi del sadomasochismo, della furniphilia, e della dominazione corporea e psicologica femminile, oppure artisti come il celebre fotografo cinese Ren Hang, ritenuto “osceno” in patria per i suoi ritratti di corpi nudi di giovani ragazzi e ragazze in segno di libertà, o ancora Nicole Eisenman e Cheyenne Julien, artiste americane che si confrontano con la razza, l’identità e l’orientamento sessuale nell’America contemporanea.
Questi nuovi spunti sono l’ispirazione giusta che spingono Gordon ad aprirsi alla pittura e renderla a tutti gli effetti il suo linguaggio, in cui riesce a incanalare pensieri e temi che ruotano e si mescolano attorno all’identità, alla salute mentale, alla consapevolezza di far parte di una minoranza etnica, alla rappresentazione del corpo femminile e all’essere queer.
[Alt Text: “Garden Troll” olio su tela 2021. La figura in primo piano è nuda e disinibita mentre attraversa un campo di fiori. Alle sue spalle, una figura più piccola e vestita, è sconvolta al passaggio della figura blu, e si mette le mani tra i capelli mentre urla disperata, in segno di sdegno.]
Il lavoro di Gordon è radicato nella rappresentazione del suo corpo che usa, come dichiara, come mezzo di sovversione nei confronti degli standard rappresentativi e per riaffermare l’appartenenza del proprio corpo a sé stessa e non al piacere altrui, cercando di eliminare la pressione della conformità fisica tra donne e soprattutto anche per eliminare lo stereotipo per il quale le donne asiatiche vengono descritte come servili e silenziose.
Le sue figure sono quindi enormi, voluttuose, plastiche ed eccentriche, e si muovono su e giù per le tele senza alcuna paura di mostrare seni, pance, fondoschiena o qualsiasi altro centimetro corporeo. Sono caotiche e sicure, divertenti e profonde, e sembrano quasi aliene grazie ai colori di cui la pittrice le veste: blu elettrici, gialli accecanti, rossi e verdi al neon che creano sensazioni di contrasto ma molto efficaci per rappresentare una sorta di dissociazione dalla realtà, che prende il sopravvento e che le permette di raccontare l’esperienza intensa di una sempre più cosciente accettazione di sé.
Lo stile di pittura si avvicina molto all’Iperrealismo pittorico, vale a dire una rappresentazione dei soggetti molto realistica che rendono il dipinto quasi come una foto. Da notare le lunghe ciglia, le pieghe della pancia, i capelli che danno l’impressione di essere setosi, dai riflessi delle luci, dalle incredibili ombre delle mani e sul corpo che fanno sembrare le figure reali e plastiche, quasi vive. L’uso del colore inoltre, acuisce la dissociazione della pittrice nei confronti dei contesti in cui è cresciuta: più il colore utilizzato per la pelle delle figure è forte o innaturale, più assordante risulta il distacco dalla cultura di conformità sociale.
È molto raro vedere dipinti iperrealisti dai colori così vivaci ed innaturali, perché le due tecniche si sono quasi sempre escluse a vicenda nella storia dell’arte. Una mira alla rappresentazione della realtà nei minimi dettagli, l’altra è funzionale nel veicolare sensazioni e stati d’animo non rappresentabili figurativamente. Nel caso di Gordon, sono invece il vero punto di forza, si arricchiscono e alimentano a vicenda e riescono a comunicare al meglio la sensazione di sentirsi fuori posto nel mondo.
[Art Text: installazione della personale di Sasha Gordon intitolata “Hands Of Others” alla galleria Jeffrey Deitch di New York, aperta dal 7 Maggio al 25 giugno 2022]
La mostra intitolata “Hands of Others”, aperta nel Maggio 2022 presso la galleria Jeffrey Deitch, marca un’ottima opportunità per l’artista di realizzare dei lavori che ruotano attorno la consapevolezza personale ma si concentrano anche sull’idea di come lo spettatore, o semplicemente “gli altri” intesi come persone al di fuori del soggetto dipinto e l’artista, percepiscono le opere.
A proposito della mostra, in un’intervista a Cultured Magazine, la pittrice spiega il senso del titolo e i pensieri dietro la triangolazione di sguardi tra l’opera, artista e lo spettatore:
“Crescendo, ho sentito che c'è il "me" che è presente ma c'è anche quest'altra forza esterna che giudica e controlla quello che faccio. "Hands" rappresenta le mani letterali nel lavoro, ma anche questo essere esterno cosciente che critica tutte le mie azioni, i miei pensieri e tutto ciò che faccio. Gran parte del mio lavoro ti fa mettere in discussione chi sia lo spettatore e quale potere abbia sui soggetti nel dipinto, che di solito hanno queste espressioni facciali sbalordite, o a volte sono minacciosi o storditi. Dipende molto da chi è lo spettatore e da come si relaziona al lavoro.”
[Alt Text: dettaglio del dipinto “In My Dreams I Dance For You” 2022 olio su tela, esposto alla galleria Jeffrey Deitch, New York. Due figure rosso fuoco sono riprodotte in pose ammiccanti nell’intento di ricreare una coreografia.]
C’è una forte relazione tra i dipinti esposti, ma allo stesso tempo ogni singolo dipinto riesce ad avere vita propria e a catturare l’attenzione grazie ad una straordinaria potenza comunicativa e compositiva.
La formula è sempre quella dell’uso di colori forti ed accesi che tingono i soggetti, creati come delle doppelgänger della pittrice, dai tratti realistici e dalle caratteristiche caricaturali (come ad esempio gli occhi dilatati o le parti del corpo esageratamente grandi) e anche un pò infantili che riescono a rendere l’opera ipercomunicativa e vulnerabile allo stesso tempo.
In questa serie di lavori le mani giocano un ruolo fondamentale, come suggerito dal titolo, e diventano dei mezzi per estendersi, andare verso e comunicare all’altro. Proprio le mani sono dipinte in maniera impeccabile, magistralmente rese e curate fino all’ultimo dettaglio, le luci, le ombre ed i mezzi toni.
L’uso del colore è un’altra delle maestrie della pittrice, che lo accosta e lo esalta con grande senso estetico aiutando così la narrazione ad essere percepita in modo più profondo: lì dove le mani o le espressioni facciali non arrivano, il colore riesce a descrivere mondi onirici e stati d’animo che la sola figurazione realistica non restituisce allo spettatore. Il colore è lo strumento che aiuta a scavare più a fondo e racconta il conflitto interno ed il condizionamento psicologico alla base della cultura contemporanea.
[Alt Text: “Almost A Very Rare Thing” olio su tela 2022. Una ragazza di schiena, porge un mazzo di capelli alla ragazza che vediamo di fronte. Le due figure sono sopra ad una barca in mezzo ad uno stagno circondato di ninfee.]
Uno tra i dipinti che cattura l’attenzione esposti in “Hands of Others”, è “Almost A Very Rare Thing” (2022), in cui Gordon esprime un momento di estrema vulnerabilità attraverso la rappresentazione di una scena notturna in un luogo isolato e circondato dall’acqua. Le ninfee galleggiano indisturbate e l’ambiente attorno sembra avere un’aura segreta ma anche molto intima e tranquilla. Al centro del dipinto troneggia una barca di legno che punta verso la sinistra del quadro e che sembra reggere a stento le due enormi figure gialle. Queste due figure dialogano tra loro attraverso il gesto del dono e degli sguardi e al tempo stesso si riesce a percepire il loro linguaggio corporeo che parla di vulnerabilità davanti alla condivisione di qualcosa di personale.
I due corpi sono ingigantiti e sembrano composti da un materiale plastico e morbido che straborda dai capi intimi e svela seni e fondoschiena procaci, caratteristiche corporee “più larghe della vita” come li descrive l'artista in questa intervista per Cultured Magazine.
Sempre per Cultured Magazine, la pittrice spiega che il dipinto parla del disturbo ossessivo-compulsivo chiamato Tricotillomania di cui la pittrice ha sofferto in passato. Questo disturbo si manifesta con il continuo bisogno di staccarsi i capelli dal cuoio capelluto, con il risultato di creare zone glabre. Nel dipinto, la figura di spalle ha una zona ampia e circolare della testa sprovvista di capelli, che però ritroviamo nella sua mano destra e che vengono offerti alla figura frontale, che affronta il gesto con uno sguardo di imbarazzo e un velato disgusto.
L’idea generale del dipinto è sicuramente quella di mostrare una parte nascosta della vita dell’artista, ma anche e soprattutto quella di mostrare la sensazione di sentirsi sbagliati e sentirsi a disagio con il proprio corpo in una società che punta alla perfezione e alla standardizzazione. Ma un aspetto intrigante è anche quello del percepire l’opera in relazione al fruitore: come ci sentiamo davanti ad un’opera simile? siamo assaliti dal disgusto, siamo curiosi di capire o ci sentiamo empatici di fronte ad una scena così radicalmente vulnerabile? Che tipo di emozioni e sensazioni un quadro simile suscita in chi lo osserva?
[Alt Text: “Muse II” olio su pannello, 30,5x30,5cm 2021. il dipinto è un ritratto a mezzo busto di una ragazza asiatica con la pelle illuminata di tonalità arancione e giallo. I suoi capelli volano verso la sinistra del dipinto, indossa un maglione con dei peletti che lo fa sembrare morbido e sembra essere in uno spazio non bene identificato ma naturale in cui si staglia l'orizzonte illuminato di un verde acqua molto chiaro.]
Nonostante la pittrice sia molto giovane, ha avuto la possibilità di esporre in alcune gallerie di New York ed a Los Angeles presso la galleria Matthew Brown da cui è rappresentata. Nell’attesa di poter vedere le opere di Gordon anche qui in Italia, è possibile sbirciare il suo lavoro su Instagram / Sasha Gordon.
Simona Iamonte vive a Torino e lavora come illustratrice e pittrice. Puoi seguirla su Instagram.
Ringraziamo Alberica e Simona per aver contribuito a questo numero di Ghinea, ci leggiamo a fine luglio!
Un abbraccio!
Francesca, Gloria e Marzia