La ghinea di dicembre
Benvenut* a Ghinea, questo mese ospitiamo il contributo di Elisa Bosisio, che analizza per noi il testo Bestie da soma. Disabilità e liberazione animale di Sunaura Taylor. Inoltre, un aggiornamento sulla Polonia di Giorgia Maurovich. Buona lettura!
Rivoluzione come poesia dal futuro: per una nuova narrazione del dissenso
di Giorgia Maurovich
[Alt Text: frame dalla performance Gentre Protest di Ola Korbańska. Una figura femminile inginocchiata per terra lava il pavimento lastricato con uno straccio, al suo fianco il secchio dell’acqua. Fonte.]
È con una strana sensazione a metà tra l’orgoglio e il rammarico che mi ritrovo ad ammettere che non capita spesso di scrivere due pezzi su Ghinea sullo stesso argomento a distanza di un anno. L’argomento in questione sono, prevedibilmente, le proteste in Polonia, ma oltre alle sollevazioni di Strajk Kobiet dopo la morte della trentenne Isabella Sajbor, prima vittima della restrizione alla legge sull’aborto, è la crisi umanitaria al confine con la Bielorussia che si protrae da agosto a infiammare le strade e il dibattito pubblico.
Fuori dal ricatto dei corpi migranti, che già da tempo lacera i margini orientali di un’Europa che preferisce voltarsi dall’altra parte, la tensione tra Polonia e Bielorussia non è recente: nonostante gli attriti sorti dalle proteste contro la rielezione di Aljaksandr Lukašėnka, ha un’origine ben più atavica e ha a che fare con l’annosa questione dei Kresy, le “terre di confine” oggi appartenenti a Ucraina, Lituania e Bielorussia, ma che rientravano nel territorio polacco prima delle spartizioni. La formazione e l’utilizzo deliberato di questo tipo di mitografia è, ad ogni modo, un elemento che vale la pena analizzare per notare come le battaglie politiche si costituiscano sempre su un piano discorsivo. Allo stesso modo, le manifestazioni di dissenso si innestano proprio sulla creazione di una narrazione che riscrive la storia in un’ottica inclusiva e consapevole per tutte le soggettività che abitano il territorio e il suo portato storico e culturale, nel rifiuto categorico di un passato dai significati fissi e immutabili.
Il contesto della coscienza nazionalista e nazionale polacca è innanzitutto culturale. I miti riproposti dalla rilettura conservatrice sono sempre quelli di un nazionalismo legato a doppio filo con la Chiesa di Roma. Eppure già nel XVI secolo nell’area contesa convivevano popolazioni di diversa etnia e religione. Questo elemento complica di molto la collocazione dell’area nel discorso postcoloniale, perché nel caso della Polonia ci si trova a metà tra l’Europa “occidentale, cattolica e civilizzata” e l’Europa “orientale, barbara, esotica e retrograda” costruita a tavolino su una contrapposizione immaginaria tra la Polonia e l’Altro, sia questo Altro l’Europa o la Russia. Sul piano postcoloniale la posizione polacca è quanto mai peculiare proprio perché è tra i pochi Paesi a essere stati sia colonizzati che colonizzatori. Motivo per cui la pubblicazione degli Księgi Jakubowe di Olga Tokarczuk – romanzo storico in sette libri che riscrivono un periodo fin troppo estetizzato della storia polacca ed eviscerano le contraddittorietà della Polonia multietnica del XVII secolo – suscitò tanto scalpore e tante polemiche da parte delle frange nazionaliste, non ancora pronte a fronteggiare criticamente un sostrato storico problematico di cui si avverte la gravità dei postumi.
La tanto agognata indipendenza, ottenuta nel 1918, diede il via a una narrazione del patriottismo impostata sulla lotta contro l’altro, il nemico visibile, che nel suo escludere chiunque non fosse un polacco etnico e madrelingua escludeva anche i residenti nelle attuali Lituania, Ucraina e Bielorussia (una narrazione di cui Lukašėnka si serve consapevolmente da anni, e che è causa dell’attuale crisi). A cementare questa visione tutt’altro che idilliaca fu la figura di Roman Dmowski, Ministro degli esteri nel periodo tra le due guerre, che incentivò l’antisemitismo e la gerarchizzazione dei gruppi etnici con l’appoggio della Chiesa e della destra: non è un caso che durante le prime proteste di Strajk Kobiet uno dei bersagli fu proprio il cartello stradale della Rondo Dmowskiego a Varsavia, sostituito dai manifestanti con un cartello analogo che recita “Rondo Praw Kobiet”, ossia “Rotonda Diritti delle donne”. Il cambio del toponimo è attualmente al centro di un’accesa discussione nel dibattito pubblico.
La narrazione identitaria dominante, nervo scoperto soprattutto per i Paesi dell’Est, che si ritrovano a doversi creare e ridefinire quasi ex novo dopo il crollo del blocco, non è soltanto appannaggio di politica e storia: si crea, viene creata e crea l’individuo anche e soprattutto nell’interazione con lo spazio pubblico nella vita quotidiana. Nel corso delle proteste, codificate da un linguaggio particolarmente attento all’ambiente urbano già dai tempi dello Stonewall polacco di agosto 2020, le immagini più forti sono arrivate proprio dalla creatività con cui il dissenso si inscriveva nello spazio pubblico, a testimonianza del fatto che i valori incarnati da statue e toponimi non rispecchiavano più lo spirito dei tempi.
Nella conversazione che ho avuto modo di intrattenere con l’artista Ola Korbańska, Ola mi disse che:
[...] Se le statue devono fungere da specchio o esempio per la società allora la cosa non può funzionare solo da un lato. E anche il modo in cui le persone si interfacciano con la città, come la cambiano, le statue, l’architettura, perfino i graffiti sulle chiese riflettono il momento storico che stiamo vivendo.
Il percorso artistico di Korbańska è per sua ammissione molto più concettuale rispetto all’immediatezza situata del dissenso di Strajk Kobiet, ma la possibilità di presenziare a un evento epocale su così larga scala le ha permesso di osservare come la natura stessa di questa rivendicazione fosse un atto collettivo di risemantizzazione delle tecniche di protesta e del proprio portato nazionale, sovvertito e rielaborato attraverso meme, performance e interazione con lo spazio pubblico.
Tra cartelli, slogan e musica il linguaggio di protesta intreccia sguardo e suono, e se l’approccio di Ola Korbańska getta luce sull’apparato iconografico del dissenso, diversa è la posizione della giornalista e scrittrice Aleksandra Lipczak, che sceglie di concentrarsi sul rumore della rivoluzione, più precisamente su un aspetto che per le donne ha ancora una connotazione ambivalente: la voce. In apertura al suo articolo La voce delle donne, Lipczak cita un post di Magda Dropek, una delle organizzatrici della frangia cracoviana del movimento:
In tutti questi anni di supporto alle proteste di piazza, di una cosa ero sicura: non sono capace di gridare, urlare slogan; sono troppo confusionaria per parlare con scioltezza seguendo un filo logico. Per questo ho sempre preferito riversare i miei pensieri sulla carta o su uno schermo, con la scrittura, con una comunicazione senza voce. È la mia voce, ma non la sopporto.
La valenza simbolica della voce è il perno della riflessione di Lipczak, una voce femminile che fin troppo spesso, imprigionata in un codice di grazia e silenzio, dimentica di essere un potente veicolo di significato e di lotta che “tiene insieme i corpi e i linguaggi” e che rende possibile “l’emergenza dell’evento e della verità”.
Come conciliare, quindi, i due tempi di questa lotta, il passato dei segni e il futuro della voce? Nel suo Poesia dal futuro, un piccolo vademecum per i nuovi movimenti di liberazione, il filosofo croato Srećko Horvat afferma che
[...] il contenuto della rivoluzione futura può essere costituito solo da quella poesia che è al contempo poiesis e praxis: l’azione (praxis) deve portare all’essere (poiesis) qualcosa che costituisce una nuova creazione di vita e di società attraverso quegli stessi atti che accadono nel presente e vengono dal futuro.
Partendo dal paradosso cronologico di Marx, secondo cui “la rivoluzione sociale non può trarre la propria poesia dal passato, ma solo dall’avvenire”, è necessario, nelle parole di Horvat,
[...] divertirsi, ridere e giocare e sognare insieme, decostruendo il tempo stesso e l’idea prevalente secondo cui ciò che è passato, è passato per sempre. Dobbiamo vedere la temporalità della lotta come qualcosa che non è kronos, una mera successione di eventi [...], ma un altro spazio, un altro tempo, un’altra realtà che non è passata ma è qui e ora.
Protestare, allora, trasgredire, oltrepassare il limite e una volta dall’altra parte ancora protestare, ribadendo l’importanza di dissacrare i simboli, i miti e i riti per ritagliarci una possibilità che sia insieme catarsi e creazione. Perché se non possiamo guardare al futuro ballando, gridando e disobbedendo con gioia, non sarà mai la nostra rivoluzione.
Giorgia Maurovich studia Lingue e letterature straniere e cura il progetto Est/ranei. Puoi seguirla su Instagram.
Pensare con le Bestie da soma oltre tassonomie e normatività
di Elisa Bosisio
[Alt Text: la copertina di Bestie da soma. Disabilità e liberazione animale (Edizioni degli Animali, 2021) riporta le sagome bianche di una mucca e di una persona in sedia a rotelle su fondo azzurro. Fonte.]
Intro. Per una politica del posizionamento: endometriosi | pillola | Porto Rico | coniglie
Sono le 18.30 e, mentre le mie dita battono veloci sulla tastiera del laptop per provare a buttare su carta digitale questa appassionata recensione a Bestie da Soma di Sunaura Taylor (tradotto da feminoska, curato da Marco Reggio e feminoska, pubblicato nel 2021 dalla casa editrice milanese Edizioni degli animali), il suono metallico della sveglia del mio cellulare riempie la stanza. È ormai da otto anni che ogni giorno un suono mi ricorda di prendere la mia medicina. Sono cambiati i miei dispositivi di telefonia mobile, e con loro i jingle delle suonerie, è cambiato molte volte persino l’orario di somministrazione, ma la molecola che ingoio quotidianamente è la stessa da circa 2.880 giorni: un composto di levonorgestrel ed etinilestradiolo, noto sul mercato con il nome Loette e meglio conosciuto come la pillola. La ragione di questa prescrizione sta in una diagnosi d’endometriosi, un'infiammazione cronica del peritoneo pelvico e degli organi genitali femminili – e di coloro che vengono dignosticatə femmine alla nascita –, causata dalla presenza ectopica di cellule endometriali che, in condizioni ottimali, si troverebbero solo all'interno dell'utero. Una malattia, questa, che provoca dolori lancinanti, fino a depotenziare o addirittura impossibilitare la quotidianità, eppure poco studiata da una comunità scientifica affatto sensibile alla medicina di genere e sistematicamente in grado di invisibilizzare le esperienze di sofferenza delle soggettività che esulano dal prototipo del paziente maschio, cisgender, eterosessuale (per una disamina circa i processi di invisibilizzazione sistemica delle patologie femminili e delle soggettività diagnosticate al femminile, si consiglia la lettura del report 2021 del tavolo salute di Non Una di Meno Italia). Una malattia che accompagna per la vita, per cui non esiste una cura risolutiva: oggi, infatti, la soppressione del ciclo mestruale mediante l’assunzione continuativa di composti che inibiscono ovulazione e ciclo ormonale è il primo metodo suggerito dalla medicina per impedire un incremento dell’infiammazione e mitigarne la sintomatologia. Una malattia, dunque, che, nelle sue forme più acute, disabilita.
Conosco la storia della pillola che assumo. Leggendo Testo tossico di Paul B. Preciado ho imparato che tra gli intenti del biologo Gregory Pincus e del ginecologo John Rock – i primi a sperimentare negli anni Cinquanta la pillola come metodo anticoncezionale, con l’incentivo dell’infermiera e controversa attivista Margaret Sanger – capeggiava quello di trovare un efficace sistema di controllo delle nascite “nei sobborghi, nelle giungle e fra le persone più ignoranti” (p. 155). La pillola che ingoio quotidianamente ha, dunque, come antenato un dispositivo medico che somiglia piuttosto a un dispositivo di eugenetica urbana volto a controllare la crescita della popolazione non-bianca e povera negli Stati Uniti che iniziavano a fronteggiare la politicizzazione delle minoranze etniche e razziali. Grazie a Devices and Desires: A History of Contraceptives in America di Andrea Tone scopro che Pincus e Rock, per soddisfare i criteri di sperimentazione imposti dalla FDA (l’agenzia statunitense per la regolamentazione degli alimenti e dei medicinali), scelsero come primo gruppo sperimentale le pazienti di un ospedale psichiatrico femminile nel Massachusetts e come secondo gruppo sperimentale su ampia scala il quartiere Rio Piedras di San Juan sull’isola di Porto Rico, territorio non incorporato degli Stati Uniti, che già aveva alla spalle una lunga storia coloniale di sterilizzazioni forzate alla scopo di disciplinare e controllare gli slum. Si noti, a tal proposito, che le prime fasi di sperimentazioni di un farmaco sono piuttosto rischiose per la salute di chi vi è coinvoltə e che il dosaggio ormonale della prima pillola era circa quaranta volte più alto di quelle in commercio oggigiorno.
In Bestie da soma Taylor apre un ulteriore campo di riflessione sulla molecola che quotidianamente assumo: parlando di sperimentazione animale tout court l’autrice spiega come molti animali allevati per la ricerca vengono scartati nella fase di selezione perché non soddisfano criteri come quello del sesso (p. 249). Una breve ricerca online mi permette di scoprire che la pillola contraccettiva venne in primo luogo testata su delle coniglie, i cui fratelli maschi furono uccisi in nome dei protocolli internazionali sulla sperimentazione, che consentono l’eutanasia per tutti quegli animali che non coincidono con le necessità specifiche del caso. Mi ritrovo a pensare che insieme a levonorgestrel ed etinilestradiolo io, ogni giorno, da otto anni, metabolizzo pezzi consistenti di storia e politica, in particolare la storia della marginalizzazione delle soggettività psichiatrizzate, delle persone di colore, degli animali non-umani, ossia le politiche insieme abiliste, razziste e speciste che articolano la spina dorsale della modernità occidentale.
Questa lunga introduzione, lungi dal funzionare come mero espediente retorico, mi serve a occupare una posizione precisa sulla carta geopolitica dell’intersezionalità. Seguendo l’intuizione della femminista Adrienne Rich, riconosco l’urgenza di una politica del posizionamento che agisca come una sorta di GPS in grado di ancorare la voce di chi parla (o scrive) a un corpo che occupa specifici spazi nell’intreccio sociale. Scrivere di un testo come Bestie da soma, concentrato su disabilità e liberazione animale, e firmato da un’artista, attivista e teorica affetta da artrogriposi, mi induce a dirmi come soggetto affetto da una malattia cronica che tuttavia oggi gode di un corpo piuttosto prestante proprio grazie alla quotidiana somministrazione di un composto che giunge nel reticolo complesso del mio metabolismo previa il sacrificio di soggettività marginalizzate e dunque sfruttabili.
[Alt Text: Sunaura Taylor, Self-Portrait as Manatee, 2013, olio su carta 28 x 28 cm. Il dipinto rappresenta un lamantino e una donna nuda, probabilmente in immersione. Il fondo è infatti azzurro, e il lamantino e la donna sono gli unici due soggetti raffigurati.]
Bestie da soma ha innescato un meccanismo a cascata di quesiti tra loro aggrovigliati: perché la malattia di cui sono affetta, l’endometriosi, che per anni prima della diagnosi ha inficiato la mia quotidianità, è invisibilizzata nella ricerca? Perché la sperimentazione su donne affette da disturbi alla salute mentale e donne di un paese colonizzato? E in che modo l’animalità interseca queste geografie di invisibilità e sfruttamento?
Systema Naturae: donne, animali, mostri e razza.
Sappiamo, fin dalla lettura de L’animale che dunque sono di Jacques Derrida, che la definizione di ciò che è animale ha implicazioni immediate su ciò che è stato e viene reputato umano a pieno titolo. Storicamente, lo spazio dedicato all’uno ha funzionato come una sorta di linea di demarcazione per quello che non poteva essere l’altro. Per quanto già dai tempi dell’Historia Animalium aristotelica l’essere umano è ricondotto su un piano biologico allo statuto di animale, esso mantiene sempre un grado di eccezionalità senza simili nella categorizzazione dell’esistente: l’umano è sì animale, ma animale politico (zoon politikon) in quanto dotato di logos, ossia di quella capacità di parola e d’articolazione razionale che gli consentirebbe una straordinaria capacità di comunicazione e produzione (da cui l’altra celebre definizione di zoon logon echon).
Taylor segue il lungo percorso genealogico del concetto di animalità e ci conduce dinanzi alla figura di Carlo Linneo, il tassonomista svedese che nel diciottesimo secolo inventò il sistema di nomenclatura binomiale impiegato nella classificazione del vivente. Il sistema binomiale prevede la definizione di un organismo mediante il riferimento al genere e alla specie di appartenenza: si pensi alla dicitura Homo sapiens. Taylor si concentra proprio sull’impiego del termine sapiens, saggio, come cifra per operare “la distinzione degli esseri umani dagli animali attraverso una caratteristica assegnata quasi esclusivamente ai maschi bianchi: la ragione” (p. 156). Se si sfogliano accuratamente le pagine del Systema Naturae linneano si evince come l’autore abbia effettivamente esplicitato differenze incolmabili tra alcuni tipi di sapiens: c’è l’Homo sapiens europaeus descritto come bianco ordinato, ingegnoso e creativo, fedele alle leggi da lui stesso istituite; c’è l’Homo sapiens americanus con la pelle color rosso, grande amante della libertà sconfinata, orgoglioso oltre misura e irascibile; c’è l’Homo sapiens asiaticus, giallastro, avaro e melanconico; c’è l’Homo sapiens afer, nero, indolente, infido, scarsamente intelligente e incapace di autogoverno; c’è l’Homo sapiens ferus o uomo selvaggio, muto, quadrupede, villoso e rassomigliante al tropos ricorrente nella letteratura settecentesca dell’uomo allevato e cresciuto nelle foreste con branchi di animali; e infine c’è l’Homo sapiens monstruosus o uomo teratologico, portatore di forme devianti, ovvero di malformazioni congenite e deficit cognitivi.
[Alt Text: da sinistra a destra: dalla dissertazione accademica di Hoppius Anthropomorpha, 1760, pubblicata da Linnaeus 1763. Le forme dei soggetti rappresentati nelle illustrazioni diventano gradualmente più scimmiesche, animali. Fonte.]
Nel suo Systema Naturae Linneo si spinse oltre, in un'altra direzione: sotto il termine di classe Mammalia egli va a collocare l’essere umano insieme a molti altri animali con cui la “nostra” specie condivide una serie di caratteristiche. Taylor, seguendo la linea di ricerca aperta dalla storica della scienza Londa Schiebinger, si interroga criticamente sul fatto che il termine mammiferi, quel termine che accomuna nella medesima classe animale gli esseri umani e altri animali non-umani, attinge a una caratteristica posseduta solo dalle femmine delle specie che rientrano in tale classe tassonomica: le mammelle, già altamente razzializzate dai naturalisti europei dell’epoca, che solevano sostenere la teoria per cui la loro forma e la loro dimensione legittimassero le gerarchizzazioni su base etnica (p. 156). Parrebbe che siano le donne, o almeno le loro caratteristiche esclusive, a legare la “nostra” specie agli animali. Se prestiamo attenzione a questa organizzazione della natura, e in particolare del regno animale, vediamo facilmente emergere una piramide a mo’ di schema lungo le cui coordinate poter mappare l’umanità: se al vertice c’è l’uomo bianco, europeo, istruito, alla base possiamo collocare le donne, le persone di colore e quelle soggettività ferali o simil mostruose (oggi diremmo disabili o non-conformi) che molto hanno in comune con gli altri animali. Parafrasando Orwell, pare che qualche sapiens sia più sapiens di altrə!
Affetta da artrogriposi multiforme congenita, una condizione che comporta una limitazione della motilità articolare e una conseguente morfologia fuori norma, Taylor dichiara fin dalle prime battute del testo di essere stata a lungo paragonata a una scimmia a causa della sua schiena curva e dei suoi arti, in particolare nel corso della sua infanzia. Già dai tempi di Platone, del resto, la posizione eretta è, insieme al linguaggio verbale, considerata una cifra ineludibile dell’umano e risultato di una tendenza che attrae i nostri corpi verso l’alto, verso il cielo, verso la contemplazione di Dio e non della Terra cui sono invece limitati e ancorati i corpi puramente materiali delle alterità non-umane.
[Alt Text: illustrazione di Saartjie Baartman presente nel volume Histoire Naturelle des Mammifères di Frédéric Cuvier e Étienne Geoffroy Saint-Hilaire. La donna è raffigurata nuda, sia frontalmente che di profilo. Fonte.]
Se, fedelmente alla tassonomia linneana che ancora impieghiamo, Taylor è vicina all’animalità considerato il suo genere e la sua disabilità mostruosizzante, moltissime sono le soggettività che l’hanno accompagnata nel corso della storia in questo limbo di specie. In Bestie da soma si racconta la storia di Percilla Bejano, una donna portoricana coperta da una folta peluria, nota come monkey girl e impiegata da uno showman in spettacoli circensi nella tradizione dei cosiddetti freak show. Si racconta anche la vicenda di Emmet Bejano, poi marito di Percilla, da cui ella prese il cognome, affetto da una patologia che rendeva la sua pelle spessa e squamosa come quella di un alligatore, ragione per cui era conosciuto nel mondo circense come uomo coccodrillo. Si parla di Otis Jordan, a sua volta intento ad esibirsi nei baracconi degli anni ’60, come ragazzo rana a causa proprio dell’artrogriposi che gli rendeva impossibile utilizzare le mani per svolgere qualsiasi attività quotidiana, sostituendole dunque con la bocca. Se tutti questi circensi, pur esponendosi nelle maglie di una dinamica grottesca che esibiva sul palcoscenico le anormalità e le mostruosità di cui il pubblico normodotato doveva meravigliarsi, ma con cui non avrebbe mai ingaggiato alcun tipo di compromissione, mantennero un certo grado di libertà e autodeterminazione, l’animalizzazione delle soggettività umane coinvolte in fiere e caroselli portò altresì a esperienze tragiche come nel caso di Saartjie Baartman, meglio nota come venere ottentotta. Di etnia khoikhoi, proveniente dall’odierno Sud Africa, Baartman venne condotta dal suo schiavista in Inghilterra dove venne esibita come fenomeno da baraccone a partire dal 1810. Di lei stupivano la forma e la dimensione delle natiche tipiche delle donne khoikhoi e le piccole labbra che sporgevano oltre la vulva (se ne parlava nei termini di grembiule ottentotto). Baartman era costretta a esibirsi legata ad una catena e a camminare a quattro zampe, mimando forzosamente movenze animalesche. A proposito del processo di sistematica oggettificazione – previa animalizzazione – del corpo di questa donna africana, Angela Balzano ci ricorda che, dopo la morte per una polmonite causatale dalle continue esibizioni ai rigidi climi invernali europei, la vulva di Baartman venne rimossa dal cadavere, conservata ed esposta al Musée de l’Homme di Parigi, laddove “il genitivo rimanda al diritto di proprietà dell’uomo sugli oggetti in mostra” (2021, p.71).
Il processo di animalizzazione dei corpi considerati fuori norma – ossia divergenti rispetto al canone assunto a modello dominante, dunque bianco e abile – poggia proprio sulle forme di violenza cui sono sottoposti gli animali non-umani, e ha storicamente giustificato lo sfruttamento di coloro che per etnia, razza, genere e conformazione venivano associati a gradienti di umanità ancora vicini al reame dell’animale.
I prodromi storico-politici e pseudo-scientifici in cui si radicano le ragioni per cui la mia patologia squisitamente femminile – l’endometriosi – è una malattia essenzialmente invisibile, per cui ancora manca una cura risolutiva, e la cui diagnosi richiede solitamente molti anni di attesa, iniziano grazie a Taylor a profilarsi entro un orizzonte di intelligibilità fortemente critico. Così come diventa, al contempo, chiaro perché la pillola che mi concede di muovermi nello spazio con una certa agilità e senza dolore è stata immessa sul mercato previa lo sfruttamento di animali, donne con disabilità psichica e non-bianche. I nostri corpi di donne, i corpi non-bianchi, i corpi non-normoabili e i corpi animali sono prodotti e codificati per contare meno.
Fare e disfare la Natura.
I corpi nominati e organizzati gerarchicamente nel Sistema Naturae di Linneo sono investiti di ideologia e politicità: ma che cosa c’è di naturale nella codificazione dei corpi? E più in generale, che cosa c’è di naturale nei corpi tutti? Questa domanda sorge dalla lettura dell’undicesimo capitolo di Bestie da soma in cui Taylor parla delle cause della sua disabilità. L'artrogriposi che la costringe sulla sedia a rotelle è dovuta alle scorie chimiche scaricate in fosse non isolate dall’industria militare statunitense di stanza accanto alla sua casa di famiglia. Il corpo di Taylor, come lei stessa mette nero su bianco, è il risultato dell’acqua contaminata che sua madre beveva durante la gravidanza; è un composto di genetica, carne e “detriti mondani della militarizzazione” made in USA come metalli pesanti e sgrassatori per aeroplani (p. 192).
L’autrice dichiara di essere stata sottoposta in età infantile a diversi interventi chirurgici volti a mitigare gli effetti della sua sindrome e la curvatura dei suoi arti: quale dei suoi due corpi è naturale e quale artificiale, si domanda? Possiamo dire che il corpo modificato dalla medicina, con l’obiettivo di condurlo a somigliare il più possibile a un corpo normo-abile, sia più naturale proprio in virtù della sua conformità e malgrado la mediazione bio-info-tecnologica che lo ha plasmato? Oppure dovremmo definire naturale quel primo corpo non ancora trasformato dalla moderna tecnologia medica, seppur commistionato alla culturalità artificiale dei detriti tossici che ne hanno alterato la struttura fin dai tempi dello stadio fetale? Taylor dichiara che nessuno dei suoi corpi può in alcun modo essere separato dall’intervento umano, politico, storico, sociale, culturale, ma si spinge oltre chiedendo a chi sta leggendo le sue parole: ma, in fondo, quale corpo lo è?
L’autrice va così a collocarsi in quell’eterogeneo, composito e non ortodosso filone di pensiero che, partendo dalla Donna Haraway di Manifesto cyborg per arrivare alla Susan Stryker di Ciò che dissi a Victor Frankenstein sopra il villaggio di Chamonix, passando per la Luciana Parisi di Abstract Sex, mette in discussione la validità del binarismo natura/cultura nell’articolazione materiale della nostra carne e delle nostre membra: la nostra pelle è una membrana che funziona come soglia, e non come confine; il nostro corpo è una microecologia politica in cui si assemblano e fondono nuove tecnologie, batteri, virus, particolati derivanti dall’estrazione mineraria, informazioni genetiche ed epigenetiche, materiali tossici, microplastiche, decisioni politiche e transazioni economiche. I corpi che il cartesianesimo occidentale vorrebbe appannaggio di una natura animale, ben distinta dall’olimpo umano cui appartengono invece razionalità e pensiero intellettivo, appaiono come il coacervo di storie culturali e politiche, di materiali di varia provenienza e depositati nella stessa emergenza: i nostri corpi, dice Taylor, sono a tal punto politici&culturali (ed in questo senso, così poco naturali) che “disabilità e malattia sono spesso segnali di allarme dei danni ambientali” (p.283) arrecati dal sistema ri/produttivo capitalistico che invade gli ambienti di una tossicità capace di permeare la corporalità di ogni ente e organismo, trasformandoli ed alterandoli ineluttabilmente.
Disabilità e malattia, dunque, sono spesso indicatori del fatto che “l’aria, il suolo o l’acqua non sono sicuri o che i governi, le aziende e le industrie stanno devastando specifiche comunità” (ibidem). Di nuovo Bestie da soma mi permette di tornare a me, passando per un’esperienza apparentemente molto lontana: un gruppo di ricercatorə dell’università di Torino ha avanzato l’ipotesi che l’insorgenza dell’endometriosi sia legata a doppio filo all’esposizione a inquinanti chimici dispersi nell’ambiente, tesi supportata dalla diffusione geografica della malattia, che tende a concentrarsi in aree e regioni particolarmente industrializzate (qui la ricaduta della ricerca). In un bel testo di Marco Reggio – uno dei due curatori dell’edizione italiana di Bestie da soma – intitolato A quattro zampe. Note su animalizzazione, disabilità e colonialismo si analizza il romanzo Animal’s People: il protagonista è un ragazzo che ha perso la capacità di reggersi su due gambe e stare in posizione eretta per via di una malattia indotta dal disastro di Bhopal, che accadde il 3 dicembre del 1984 nella città indiana a causa della fuoriuscita di 40 tonnellate di isocianato di metile dallo stabilimento della Union Carbide India Limited, consociata della multinazionale statunitense Union Carbide.
Carlotta Cossutta ci offre un altro esempio della forte correlazione esistente tra inquinamento, capitalismo e insorgenza di malattie e disabilità con un complesso e toccante resoconto della contaminazione da diossina a Seveso nel mese di Luglio del 1976, quando “il disco della valvola di sicurezza del reattore B dell’Icmesa cede e lascia fuoriuscire diossina, più precisamente tetraclorodibenzoparadiossina, o TCDD, che è la più nociva di tutte, perché può causare persistenti effetti cancerogeni, teratogeni e tossici” (2019). Ma non solo i corpi umani, anche i corpi non-umani sono costantemente ammalati e resi disabili dalle condizioni cui sono sottoposti nelle maglie dello stesso sistema capitalistico inquinante.
Nel suo illuminante Trans-Corporeal Feminism and the Ethical Space of Nature, la sociologa neomaterialista Stacy Alaimo mette ulteriormente in evidenza la natura interrelata di corpi e ambienti, facendo luce sulla cosiddetta trans-corporalità come dimensione onto-epistemologica in cui la corporeità, nel suo essere carnale e materiale, è inseparabile dalla ‘natura’ e dall’‘ambiente’. Rendersi consapevoli di questa tessitura costante – seppure non sempre visibile ad occhio nudo nella sua processualità – mi conduce a soffermarmi con particolare interesse su un punto focale di tutta la trattazione di Taylor: il sistema capitalistico, e l’ambiente che esso produce, sono causa della disabilità, ma è essenziale riconoscere che lo sono almeno in due modi differenti. Se da un lato, come abbiamo evidenziato poc’anzi, l’ambiente insalubre è bio-chimico-geneticamente causa eziologica di molte disabilità, l’ambiente sociale governato da logiche efficientiste e produttiviste produce altresì la disabilità come impossibilitazione indotta.
Taylor ci parla di due differenti modelli mediante cui leggere la disabilità: il modello medico e il modello sociale. Se il primo parte dalla presunzione di poter definire universalmente e astrattamente che cosa significa salute e quali corpi hanno la capacità di vivere appieno una vita appagante, il secondo rivendica l’urgenza di situare il concetto di salute e quello di dignità entro un preciso sistema politico di riferimento. Solo in relazione al contesto potremo parlare di salute e benessere; e, solo modificando sistemi che inficiano la salute e il benessere di moltə, accresceremo la salute e il benessere di coloro che oggi vengono compatitə come disabili e dunque inevitabilmente infelici, sfortunatə, menomatə, limitatə. Infatti, moltissime delle difficoltà, e delle conseguenti sofferenze, che le persone disabili devono affrontare nello spazio-tempo comune&privato dipendono da un’architettura semio-materiale arbitraria che risponde a esigenze strategiche e ritmi incalzanti completamente incuranti delle necessità e dei desideri di tutti quei corpi che non possono abitare lo spazio, il tempo e la socialità seguendo gli imperativi di una società plasmata sulla normo-abilità.
L’urbanistica, l’assetto familiare ed affettivo, i codici della romanticità, le richieste lavorative, tra le moltissime altre interfacce analizzabili, sono plasmati sulla corporalità e le potenzialità del corpo abile astratto, senza tenere conto delle differenze incarnate che pretenderebbero una polimorfia dell’esistente e una creatività inedita per ri-modellare ogni volta il sociale in relazione alle esigenze individuali e collettive indotte dalla diversità. In questo senso, il contesto socio-politico determina la disabilità a posteriori, ossia disabilitando il soggetto non-normato tramite esclusione e ostacoli, come evidenzia feminoska, traduttrice e curatrice di Bestie da soma, nella sua introduzione al testo. Secondo questo paradigma il soggetto marginale è forse disabilitato, non disabile in sé. In che modo parleremmo di disabilità se ci fossero più rampe e meno scale nello spazio pubblico? Se il braille fosse più diffuso? Se in moltə conoscessimo la lingua dei segni? Se i ritmi di lavoro fossero più lenti? Se le epistemologie dominanti non fossero imperniate unicamente sulla cifra della razionalità efficientista ma anche sulla sensibilità emotiva?
Questo duplice movimento che il contesto socio-politico segue nella produzione della disabilità riguarda anche il mondo degli animali non-umani. Da un lato, essi sono zootecnicamente prodotti per essere economicamente il più redditizi possibile, ossia sono selezionati e geneticamente modificati per produrre più latte nel caso delle mucche e più uova nel caso delle galline: le mammelle delle mucche diventano così grosse da impedire loro il movimento, le rendono suscettibili all’osteoporosi e a costanti fratture ossee; la galline ovaiole sono soggette alle stesse problematiche e le loro sorelle da carne hanno petti talmente grossi da non riuscire ad alzarsi da terra. Condizioni a cui dobbiamo aggiungere le malattie e le disabilità causate da cambiamento climatico e crisi ecosistemiche fuori dalle industrie ai corpi degli animali domestici e non. Dall’altro, la contenzione degli animali d’allevamento in strutture fisiche che ambiscono a massimizzare la produzione obbliga queste soggettività a stazionare per tutta la durata della loro vita in spazi angusti in cui è pressoché impossibile muoversi con la conseguenza di nuovi problemi articolari e psicologici di altissimo impatto a posteriori (p.78).
Il sistema in cui siamo immersə, dunque, fa nascere disabili e disabilità nel corso della vita.
[Alt Text: Sunaura Taylor, Chicken Truck 2008, olio su tela 244 x 320 cm. Il dipinto raffigura numerosi volatili da allevamento rinchiusi, anche in gruppi, in piccole e anguste gabbie poi ammassate l’una sull’altra e destinate al trasporto.]
La disabilità come etico-epistemologia dell’interdipendenza.
Il punto, a mio avviso, più interessante del lavoro di Sunaura Taylor è il tentativo di separare la disabilità da una lettura pietistica e unicamente negativa. Senza obnubilare in alcun modo la sofferenza fisica, psichica e sociale delle soggettività affette da una qualche forma di disabilità (fisica o psichica che sia), Taylor si chiede – e ci chiede – se è possibile pensare alla disabilità in maniera affermativa. È possibile che la disabilità ci serva? E in particolare, è possibile che le persone disabili ci conducano a qualche riflessione e prassi trasformativa altrimenti impensabile? È attorno a queste domande che si dispiega il nucleo più originale della proposta di Bestie da soma: secondo Taylor abilismo e specismo (ossia rispettivamente il complesso groviglio di sfruttamento e dominio delle persone con disabilità fisica e/o psichica e degli animali non-umani) nascono proprio dalla medesima fonte, ossia dalla presunzione di eleggere alcune capacità come superiori rispetto ad altre. Più precisamente esiste una linea di demarcazione invisibile tra abilità considerate utili e capacità che, al contrario, non accedono a un regime di valorizzazione sociale.
Ma sulla base di quale criterio alcune capacità, come quella linguistica e quella razionale, valgono più di altre? Molte specie animali, come i serpenti, sono a bassissimo impatto ecologico: verrebbe da dire che per il futuro della Terra questi animali siano più utili e funzionali degli esseri umani. Animali come i cani manifestano un livello di fedeltà a coloro che gli stanno vicino che non sembra meno utile alla vita comunitaria dell’intelligenza matematica. Taylor sembra volerci spingere a riflettere su come le capacità privilegiate dalle retoriche umanistiche dominanti siano effettivamente quelle funzionali a chi occupa il vertice della piramide linneana, l’uomo, maschio, occidentale e, aggiungiamo noi ora, produttivo nelle maglie del sistema capitalistico, ossia prestante, veloce, ottimizzante, spregiudicato. A partire da qui ci domandiamo con Taylor: è possibile che la disabilità funzioni come strumento politico oltre la retorica per cui le persone disabili ci insegnano ad essere più empaticə e ci fanno capire quanto è importante lo sforzo individuale per poter trovare un proprio modo di stare al meglio in uno spazio ostile? La risposta di Taylor è incredibilmente e liberatoriamente positiva. Se la disabilità può includere elementi di mancanza e incapacità, essa al contempo “può promuovere anche modi altri di conoscere, essere e sperimentare” (p.115) capaci di cambiare l’esistente. Come vivremmo se non potessimo andare alla velocità cui i corpi performanti e abili ci possibilitano? Come guarderemmo il mondo se fossimo ciechi? Come comprenderemmo concetti apparentemente contraddittori come autonomia e dipendenza? Come intenderemmo vulnerabilità e potenza? In Bestie da soma si prova ad hackerare la disabilità come depotenziamento per trasformarla in un’interfaccia comune per una vulnerabilità ontologicamente ineludibile, dalla quale tuttavia si dipartono potenzialità inedite: la disabilità potrebbe essere foriera di processi trasformativi e benefici per tuttə, essa infatti può diventare un’espistemologia che
ci chiede di mettere in discussione le nostre idee su chi sia un membro produttivo della società, e quali tipi di attività siano considerate preziose e utili. La disabilità ci chiede di mettere in discussione le cose che diamo per scontate: la nostra razionalità, il modo in cui ci muoviamo, il modo in cui percepiamo il mondo. Può offrire nuovi paradigmi per capire come e perché ci prendiamo cura gli uni degli altri e che tipo di società vogliamo vivere (p. 225).
La disabilità, dunque, come stimolo e incentivo alla sovversione dei tempi e dei modi cui la contemporaneità attanaglia. Una prospettiva, questa, che ritroviamo in un altro testo – anch’esso tradotto in italiano da feminoska – La teoria della donna malata di Johanna Hedva. Affetta da endometriosi e bipolarismo, Hedva propone di leggere la vulnerabilità come una via di fuga dalle ingiunzioni del presente (2016):
La più grande protesta contro il capitalismo consiste nel prendersi cura dell’altr* e nel prendersi cura di se stess*. Assumere la pratica, storicamente femminilizzata e quindi invisibile, del curare, del nutrire, del prendersi cura. Prendere sul serio la nostra reciproca vulnerabilità, fragilità e precarietà e sostenerla, rispettarla, attribuirle potere. Proteggersi a vicenda, mettere in atto e praticare la comunità. Una parentela radicale, una socialità interdipendente, una politica della cura. Perché una volta che siamo malat* e costrett* a letto, a scambiarci esperienze di terapia e a darci conforto reciproco, a formare gruppi di sostegno, facendoci portavoce l’un* l’altr* dei racconti dei nostri traumi, dando massima priorità alle cure e all’amore nei confronti dei nostri corpi malati, doloranti, costosi, sensibili e fantastici e non rimane nessun* che vada a lavorare, forse, allora, finalmente, il capitalismo arriverà stridendo alla tanto necessaria, tanto attesa, tanto fottutamente meravigliosa fine.
In questo orizzonte Taylor propone l’idea che la disabilità possa aggiungere un tassello fondamentale al pensiero politico femminista che, storicamente, ha posto attenzione all’idea della cura come orizzonte per una sovversione del regime patriarcale capitalistico fondato su meccanismi di sfruttamento e dominio. Se il femminismo, infatti, ha messo l’accento sulla pratica della cura a partire da coloro che la agiscono, Taylor prova a domandare senza vergogna: e che succede se siamo noi ad avere bisogno di cure? per esempio che qualcuno ci pulisca il culo? Prestare attenzione alla posizione di chi riceve la cura, in particolare provare a pensarci in prima persona come colui o colei che riceverà le cure di altrə, apre la strada a una politica dell’interdipendenza pensata ed esperita a partire da una posizione ibrida in cui siamo agenti di cura e responsabilità, ma anche dipendenti da cura e responsabilità altrui. Siamo dinanzi a quella che mi azzardo a chiamare ecologia della disabilità: un complesso telaio di relazioni in cui vulnerabilità e potenza non si escludono ma ineluttabilmente co-implicano e diventano un’unica via di fuga. Forse una persona disabile avrà bisogno che gli/le/lu si pulisca il culo, ma potrebbe darsi il caso che il vissuto e lo sguardo di questa persona siano uno strumento etico-epistemologico verso la fine di oppressioni e capitale per esseri umani e animali non-umani. Verso una società della cura e dell’attenzione che sappia potenziare l’imperfetto benessere e il godimento di tuttə, oltre sfruttamento e dominio.
Bibliografia
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Elisa Bosisio è attivista e PhD Candidate in Filosofia presso l’Università di Roma Tre. Ha studiato tra l’Università Statale di Milano, il dipartimento di Humanities dell’Università di Utrecht e l’IPAK-Centar di Belgrado. Ha inoltre frequentato come studentessa il Master in Studi e Politiche di Genere di Rome Tre, per cui è diventata tutor e docente del Modulo-Scienze. Si occupa degli assemblaggi tra pratiche e saperi, con particolare interesse per gli intrecci bio-info-corpo mediati tra etiche della cura, epistemologie postumaniste e nuove tecnologie. Il suo lavoro di ricerca si inserisce nel dibattito filosofico attorno al complesso snodo dell’ecologia politica, informandolo attraverso le lenti di una prospettiva femminista che, nella cornice del biocapitalismo, combina gli stimoli del ‘nuovo materialismo’ di ispirazione post-strutturalista e quelli della tradizione marxista sulla ‘riproduzione sociale’.
Per accompagnare la lettura del pezzo di Elisa, ti proponiamo la recensione di Afro-ismo che Marco Reggio ha scritto per noi nel numero di giugno 2020.
In ricordo di bell hooks (1952-2021), l’introduzione al suo pensiero scritta da Giusi Palomba per la ghinea di dicembre 2020.
Maria Nadotti intervista bell hooks nel 1998.
Il genere è ovunque: un estratto da Genere e identità. Una introduzione di Laura Erickson-Schroth e Benjamin Davis.
Il primo volume dello Student Journal of Vegan Sociology è scaricabile qui.
Nessun addio per Liana. Ma un ricordo.
Elena Ferrante ha visto La figlia oscura, l’adattamento cinematografico del suo omonimo romanzo diretto da Maggie Gyllenhaal.
[Alt Text: Olivia Colman interpreta Leda, la protagonista di La figlia oscura. In questo frame del film, Leda si trova in spiaggia e guarda con attenzione una scena che sta avvenendo fuori campo. Leda ha i capelli bagnati e indossa occhiali e un abito copricostume bianco. Fonte.]
Mentre in Italia la comunicazione generalista ancora si regge su misgendering e deadnaming, le persone che hanno ascoltato le sorelle Wachowski hanno avanzato negli anni interessanti teorie che rispettano il loro lavoro e le loro persone.
FATTO DA NOI
Marzia ha recensito la mostra Chi ha paura di Patrizia Vicinelli? su Antinomie.
FATTO DA VOI
Complimenti a Chiara Reali, nuova socia onoraria della Società Italiana delle Letterate! Chiara ha scritto della sua esperienza di traduttrice di Ursula K. Le Guin nel numero di ottobre.
Francesca Moretti ha scritto di Farewell Amor, film della regista Ekwa Msangi, su The Submarine.
Libertà di parole contro parole che feriscono: ne parla Antonia Caruso, dopo l’affossamento del DDL Zan.
Giusi Palomba commenta la proposta, sollecitata da un caso di violenza sessuale a bordo di un treno, di istituire vagoni esclusivi per le donne sui mezzi pubblici.
Ringraziamo Giorgia ed Elisa per il loro lavoro, al mese prossimo, un abbraccio!
Francesca, Gloria e Marzia