Benvenut* a Ghinea, la newsletter pronta per l’anno che verrà. Arriviamo pochi giorni dopo il nostro ultimo speciale, che puoi leggere qui, e in ottima compagnia con ben tre contributi. Eugenia Campanella discute il pensiero e soprattutto le opere di Franca Ongaro, moglie di Franco Basaglia e figura decisiva nella rivoluzione che ha condotto all’approvazione della Legge 180. Allison Grimaldi Donahue riflette su Carla Lonzi e i femminismi recenti. Infine, Pietro Rossi prende spunto da un recente film per parlare di genitorialità, cura e ruoli di genere. Buona lettura!
“Radicalità è andare alla radice delle questioni”: il ruolo di Franca Ongaro nella rivoluzione basagliana
di Eugenia Campanella
[Alt Text: fotografia in bianco e nero dei coniugi Basaglia, entrambi in primo piano e probabilmente su un balcone o una terrazza. Lei è ripresa di profilo e sorride verso sinistra, lui è accanto a lei ma rivolto dal lato opposto. Sullo sfondo tetti e palazzi. Fonte.]
Il nome di Franco Basaglia è immediatamente associato alla parola manicomio. Non è un caso che la Legge 180 sia conosciuta come legge Basaglia: la chiusura dei manicomi in Italia parte infatti dall’esperienza che un giovane psichiatra veneziano mette in atto a Gorizia, dove viene mandato a dirigere il manicomio locale.
Lo straordinario carisma e l’incredibile intelligenza di Franco Basaglia, forse uniti al prestigio sociale che la professione di medico aveva (e in parte ha ancora), hanno permesso che il suo nome rimanesse vivido nella memoria anche di chi non si occupa di salute mentale.
Il tempo, però, sembra far sbiadire il ricordo sia della portata rivoluzionaria dell’opera basagliana, sia il contesto e le persone che hanno lavorato insieme a lui nel cercare di cambiare un mondo: Basaglia, infatti, era immerso in un clima culturale e politico ricco, circondato da persone in grado di portare avanti l’utopia della realtà che aveva in mente. E una delle persone più importanti in questo contesto rivoluzionario è stata, senza alcun dubbio, Franca Ongaro, sua moglie dal 1953.
Per provare a raccontare chi è stata Franca Ongaro Basaglia si può partire dal suo ultimo saggio, letto al pubblico il 27 Aprile 2001 in occasione del conferimento della laurea honoris causa in Scienze Politiche dall’università di Sassari. Parlando dell’importanza della radicalità, Ongaro scrive:
[...] porsi il problema prioritario della disuguaglianza e del conflitto che essa produce come radice con cui confrontarsi.
Radicale è un termine che torna spesso negli ultimi lavori di Franca Ongaro e – parafrasando le sue parole – significa andare alla radice delle questioni, mettendo a nudo la retorica che vede la radicalità come una pratica intransigente e per questo utopistica, irrealizzabile quando si scontra con la realtà.
Quello che accade a Gorizia dal 1961 in poi è, invece, molto lontano dall’utopia ed estremamente ancorato a una realtà cruda e nascosta come era quella dei manicomi.
Franco Basaglia arriva a Gorizia come nuovo direttore dell’Ospedale Psichiatrico Provinciale, dopo una difficile esperienza come accademico all’Università di Padova dove non godeva di grande fama e stima da parte dei suoi colleghi per via di idee e pensieri che, seppur si svilupperanno maggiormente nella sua esperienza successiva a Gorizia, erano già chiaramente rivoluzionari. Gorizia era, infatti, una punizione e un esilio: confinato nel manicomio più periferico d'Italia, i cui muri coincidevano con il confine tra Italia e Jugoslavia.
Quella che sembrava una punizione, sancisce, invece, un processo rivoluzionario unico, che mostrerà come il rovesciamento di una realtà passi necessariamente dal dissotterrare le radici e non ci sia nulla di più pragmatico del desiderio di cercare le origini di un sistema mal funzionante per rivoluzionare ciò che sembra immutabile. E se con rivoluzione si intende uno sconvolgimento dei costumi e delle abitudini, quella basagliana lo è stata sicuramente, a partire dalla scelta di Franco Basaglia di rifiutarsi di firmare il registro degli internati legati al letto la notte precedente, prassi istituzionalizzata allora e ancora lontana da essere abbandonata oggi.
Da quel rifiuto, da quel “E mi no firmo”, l’idea di manicomio inizia a sgretolarsi a colpi di pratiche di cura mai viste nell’istituzione totale manicomiale, perché, come sottolinea Basaglia stesso, l’unica strategia possibile per scardinare il pessimismo della ragione che vede il manicomio come un male necessario è quella dell’ottimismo della volontà di gramsciana memoria. Volontà che si traduce in pratiche che funzionano, che creano le condizioni per far rifiorire la salute mentale delle persone e dare un senso alla pratica clinica.
Proprio la parola “pratiche”, che così spesso ritorna, sottolinea due aspetti importanti del percorso che hanno poi portato alla Legge 180. Prima di tutto emerge la consapevolezza che le pratiche di cura in psichiatria avvengono all’interno di relazioni all’interno e all’esterno dell’ospedale, ed è quindi cambiando le pratiche che cambia la relazione. In secondo luogo, come raccontato in uno splendido articolo di Internazionale, Franco Basaglia non era una sorta di San Francesco dei matti, così come non le persone che facevano parte della sua équipe, a partire da sua moglie Franca Ongaro. Al contrario Basaglia era un intellettuale – forse il più grande intellettuale del 900 in Italia –, un medico che metteva al centro del suo mondo l’individuo come parte di una collettività.
Questa immagine di Basaglia, come uomo, medico e intellettuale, emerge chiaramente in un’intervista di Sergio Zavoli che entra in manicomio e gli chiede se sia più il malato o la malattia a interessargli. E la risposta è senza esitazione “il malato”, la persona.
Nel lungo processo di sviluppo, dibattito e attuazione di una nuova visione della salute mentale una protagonista assoluta e troppo spesso dimenticata è stata Franca Ongaro Basaglia. Lo è stata come compagna di vita e di lotte di Franco Basaglia, uomo con cui ha condiviso una scelta che non è stata solo professionale, ma anche politica e familiare. La figlia Alberta, a sua volta diventata psicologa, ricorda come la scelta dei genitori abbia avuto un impatto profondo anche sulla sua vita di bambina a contatto con la sofferenza psichica e come la rivoluzione basagliana sia stata vissuta e partecipata da entrambi i coniugi, portata avanti anche grazie all'instancabile lavoro di Ongaro nel trascrivere gli appunti di Basaglia e discutere quello che accadeva nel manicomio. Scrive Ongaro: “So che ogni parola scritta era una discussione senza fine con lui per farmi capire meglio”, mettendo in luce la compenetrazione della relazione affettiva con la dimensione politica, in un intreccio fecondo dove entrambi erano autonomi e partecipi. Per Ongaro, infatti, il conflitto è alla base del cambiamento, dalla dimensione personale e familiare fino a quella sociale.
Scrive, infatti:
proprio il conflitto, cioè ogni relazione che ponga problemi, diritti, attriti, difficoltà sul piano del potere (quindi i conflitti di potere e di interesse fra il malato e la famiglia, fra il medico e il paziente, fra l’adulto e il giovane, il docente e lo scolaro, l’uomo e la donna, l’individuo e la società), se non è utilizzato come occasione per cancellare il più debole e incapacitarlo, può diventare fonte di conoscenza reciproca, di cambiamento, di ulteriore comprensione e modifica di sé e dell’altro. Accettare il conflitto significa allora tenere aperta la contraddizione, viverla e spostarla a un livello sempre più alto per mutare, attraverso la risposta, la qualità stessa delle domande e la nostra stessa capacità di rispondere. Nell’accettazione dell’altro e nel conflitto che produce c’è sempre il rischio della perdita di sé quando il ruolo – qualunque esso sia – non ti difende più, non ti ripara, non ti copre. Ma è questa uscita dal ruolo, pur giocandolo, che consente di passare da una domanda all’apertura di un’altra domanda qualitativamente diversa.
Franca Ongaro è stata protagonista come pensatrice capace di far entrare l’aspetto sociologico nella riflessione psichiatrica, cercando di scavare fino alle radici della sofferenza e dell’emarginazione, senza accontentarsi di risposte che prendessero in causa solo l’individuo. Il lavoro teorico di Ongaro mette in luce, infatti, come il superamento del dualismo salute/malattia non possa avvenire soltanto con la chiusura dell’istituzione manicomiale, ma presupponga un lavoro collettivo di cambiamento sociale necessario per creare un terreno fertile per un mondo che non abbia più bisogno di istituzioni totali. Ongaro, infatti, non si limita alla partecipazione alle attività all’interno del manicomio, ma estrae da quella esperienza riflessioni teoriche fondamentali per il successivo sviluppo della discussione basagliana.
Il manicomio è spesso una struttura chiusa, urbanisticamente e psicologicamente lontana dalla vita della città ed è costruito per tirare una linea fisica e non solo immaginaria fra i sani e i malati, i normali e i pazzi. Questa scelta è legittimata dalla società che non vede e dimentica, relega i medici e gli infermieri al ruolo di custodi della follia e per assolvere questo compito si trasformano in carcerieri dei folli, perché l’unico modo per custodire la follia è rinchiudere chi ne è portatore.
Per Ongaro aprire le porte del manicomio non è solo un atto pratico, ma è anche un atto comunicativo che esce dalle mura dell’istituzione per raggiungere la società, rendendo visibile l’invisibile. E l’invisibile non sono solo gli abitanti del manicomio, le loro famiglie e le loro storie: l’invisibile è anche il ruolo della società nello sviluppo e nel mantenimento della sofferenza, dell’oppressione, della violenza delle istituzioni.
Per questo motivo Franca Ongaro promuove e partecipa alla realizzazione di Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin con un doppio obiettivo: mostrare l’orrore del manicomio e riflettere sull’intersezionalità tra disturbi psichiatrici e classe sociale. Questo lungo lavoro di divulgazione ha quindi l’obiettivo di decostruire un’idea di malattia individuale e ineluttabile, inserendo la sofferenza psichica all’interno di una società complessa le cui storture – economiche, culturali e sociali – hanno un impatto profondo sul malessere delle persone. Proprio qui Ongaro fa emergere quelle radici su cui crescono le sofferenze dei singoli e le scelte della comunità a cui le pratiche di cura portate avanti da suo marito cercano di far fronte.
[Alt Text: una delle fotografie comprese nell’opera Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin raffigura due persone internate, addossate a una parete nuda. Al centro dell’immagine, una figura seduta su una sedia e avvolta in una coperta, a capo chino. Sul lato destro dell’immagine una persona seduta a terra, con le gambe raccolte vicino al petto.]
La straordinaria capacità di comprendere e abbracciare i cambiamenti culturali e politici dell’epoca e di cogliere l’importanza della comunicazione trasversale portano Ongaro anche a rivolgersi ai ragazzi con il testo Manicomio perché? e a inserirsi nel dibattito riguardo la condizione femminile e il ruolo della morale patriarcale nella definizione di ciò che è sano e che è malato, mettendo in luce la violenza esercitata sulle donne sia dentro il manicomio che fuori, compresi i contesti di lotta.
Nel 1982 scrive infatti di non voler essere “relegata a preparare il latte caldo ai rivoluzionari”, una frase potente che racchiude il rischio della dispersione delle voci e dei contributi delle donne in un mondo ancora a loro ostile.
[Alt Text: uno degli scatti compresi nell’opera Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin raffigura una donna sdraiata su una panchina bassa, all’aperto. La donna è fotografata da una certa distanza e la maggior parte della fotografia è occupata dalla ghiaia che separa il fotografo e il suo soggetto, che risulta quindi sospinto ai margini dell’immagine, quasi sul punto di esserne estromesso. La scelta compositiva evidenzia quindi la distanza delle persone internate in manicomio dal resto della società.]
Tutte le riflessioni di Ongaro sono ancora straordinariamente attuali a più di 40 anni dalla Legge 180, una legge che non è del tutto riuscita a restituire la rivoluzione del pensiero delle pratiche basagliane. Per questo motivo, dopo la morte prematura di Basaglia, Franca Ongaro ha speso la sua vita per la difesa e l’attuazione della legge, consapevole che fosse imperfetta e continuamente a rischio. Una paura non infondata, come purtroppo ci ricordano gli eventi che accadono nelle psichiatrie – sia che si tratti dei pazienti e delle loro vite, sia che si parli delle scelte politiche che riguardano la salute mentale. La paura di un mondo che non ha davvero colto la portata rivoluzionaria dell’esperienza basagliana non ha mai fermato Franca Ongaro, che ha continuato a credere in quella radicalità costruita e partecipata dentro le mura del manicomio.
Franca Ongaro ha trascritto, elaborato, integrato e comunicato l’esperienza di Gorizia senza sosta, lasciandoci una solida base teorica a cui attingere per cercare tutti i luoghi dove la violenza delle istituzioni è ancora presente e resistere radicalmente, come professionisti della salute mentale ma anche come cittadini . La rivoluzione del più grande intellettuale del Novecento non sarebbe stata la stessa senza le intuizioni di Franca Ongaro e la sua fiducia nell’importanza di portare nella comunità quello che succedeva nel micro-mondo manicomiale, ricordando che la salute mentale è responsabilità di tutta la comunità.
Non è solo la clinica che cura, e il suo lavoro ne è la dimostrazione.
Eugenia Campanella è una psicologa e si occupa di apprendimento e accessibilità all’apprendimento in contesti formali, informali e non formali. Fuori dal lavoro, fa parte di un gruppo bellissimo che si chiama Brigata Basaglia (attualmente a Milano, Firenze e Pavia) che si occupa di salute mentale comunitaria e di diffusione di una cultura basagliana.
Se vuoi contattare la Brigata Basaglia la trovi qui. C'è anche un canale Telegram dove raccontano cosa succede nel mondo della salute mentale e delle lotte.
Un dialogo con/su Carla Lonzi oggi
di Allison Grimaldi Donahue
[Alt Text: fotografia in bianco e nero di Carla Lonzi, in piedi e sorridente all’interno di uno studio. Dietro di lei ci sono una sedia e una scrivania e alla parete è appesa una tela. Fonte.]
Quando si tratta di parlare di femminismo, per molto tempo ho dato per scontato il mio impulso storico a orientare il mio pensiero attuale con la sua provenienza. A prima vista sembra abbastanza ovvio che senza i femminismi del passato non potrebbero esistere i femminismi di oggi. Eppure, sebbene io faccia spesso questa affermazione, ovvero che abbiamo bisogno della storia per capire meglio il presente, mi rendo conto che non è così semplice o ovvio, soprattutto non lo è per me che cerco di riflettere su tutto questo. Pronunciare la parola "femminismo" e partecipare a questo movimento significa comunque partecipare a una particolare storia di lotta. Oggi, in un periodo in cui il femminismo viene spesso confuso con una sorta di status quo che promuove l'emancipazione femminile attraverso gli stessi canali che opprimono le donne e le persone di genere non-conforme, diventa più importante che mai riflettere su cosa siano i femminismi e da dove provengano, alle loro radici.
Qualche settimana fa ho partecipato con Elvira Vannini e Ivana Spinelli a una tavola rotonda su Arte e femminismo, curata da Yin Shuai e Zheng Ningyuan presso Alchemilla 43 a Bologna. L'evento è stato chiamato Vai Pure! dall'eponimo libro di Carla Lonzi, in cui la scrittrice trascrive quattro giorni di discussioni sul femminismo nella sfera privata e pubblica con l'artista, e allora suo compagno, Pietro Consagra. Il fatto che l'intera sala di lettura dello spazio e la tavola rotonda fossero basate su questo testo del 1980 è stato significativo e continua a esserlo. Il libro, che si conclude con Lonzi che dice: "Beh, adesso vai pure” implica un momento di passaggio, l’avvento di ciò che verrà. Quando Lonzi dice a Consagra di andarsene, lascia uno spazio aperto a ciò che ha da venire. Testi come questo forniscono quelle che sembrano pietre miliari letterali per l'evoluzione del pensiero femminista: non solo Lonzi dice a Consagra di lasciare la stanza, ma dice anche ai lettori di andare avanti, di andare oltre, di continuare a fare il lavoro. A metà dell'incontro da Alchemilla, tuttavia, una volta che il pubblico si era scaldato e aveva iniziato a partecipare alla discussione, una donna, che conosco di sfuggita, ha espresso la sua legittima preoccupazione: "Non dovremmo", ha detto, con un tono che oscillava tra la domanda e l'affermazione, "concentrarci solo su ciò che il femminismo è ora e su ciò che può fare per noi ora?". E io, sciocca, pensavo che fosse quello che stavamo facendo.
La domanda rimane. La donna in platea ha portato alla luce un problema che mi attanaglia da tempo. Come molti traduttori, ho trascorso il mio tempo a tradurre Autoritratto di Lonzi in inglese in uno stato di devozione, determinata dalla mia singolare missione di portare questa autrice, che amo in italiano, nella mia prima lingua, l'inglese. Ad attrarmi sono state certamente le idee di Lonzi, ma anche la scrittura, il bricolage postmoderno di questo e di molti altri suoi testi. Una volta uscito il libro con Divided, dopo molti mesi di laboriosa ma gioiosa collaborazione, ho scoperto di avere domande diverse da quelle con cui avevo iniziato: cosa fare con l'associazione di Lonzi a un certo tipo di femminismo degli anni Settanta e come confrontarla, se mai, con femminismi più contemporanei e con le mie convinzioni. Su qualsiasi scrittore circolano diverse narrazioni, soprattutto quando questo scrittore assume uno status di mito e soprattutto quando è morto da quarant'anni.
Carla Lonzi e le donne di Rivolta Femminile hanno instaurato un discorso femminista nella società italiana, forse più di molti altri gruppi, grazie al loro capitale sociale e culturale e alla loro casa editrice. Hanno espresso idee rivoluzionarie per l'epoca e hanno contribuito a orientare la cultura e la politica italiana verso una società più egualitaria per le donne. Ma cosa c'entrano queste idee con il pensiero femminista oggi, dopo tanto tempo? Fortunatamente, il femminismo è diventato più inclusivo e intersezionale dagli anni Sessanta e Settanta e quindi bisogna chiedersi se questo sia in qualche modo merito del lavoro di quelle femministe italiane della seconda ondata. Le loro idee sono per molti versi sbagliate se viste con la nostra lente attuale, quindi dovremmo semplicemente andare avanti e pensare solo a questo momento?
Lonzi e Rivolta Femminile e il Salario al Lavoro Domestico e molti altri gruppi hanno indubbiamente lasciato alle donne in Italia guadagni politici e materiali, ma forse hanno lasciato anche qualcosa di più: un quadro ontologico per comprendere e partecipare alle lotte basato sull’autoidentificazione. Voglio immaginare qualcosa di molto più solido di ciò che viene spesso chiamato con disinvoltura ‘identity politics’ (politiche identitarie). Negli anni Settanta molti gruppi femministi possono aver sostenuto un femminismo basato sulla differenza sessuale, un modo di pensare che è escludente e violento nei confronti delle donne trans, delle persone non binarie e persino delle lesbiche; ma cancellare completamente la storia del femminismo a causa di alcune voci che non sono disposte ad andare avanti significa anche ignorare modalità di pensiero più aperte ed evolute che si stavano verificando contemporaneamente e all'interno di quegli stessi gruppi. Come scrive Silvia Federici nel suo libro Beyond the Periphery of the Skin (2020),
We must be critical of any concept of identity that is not historical and transformative, that does not allow us to see our different and common forms of exploitation. But we need to address different social identities that are rooted in particular forms of exploitation and are reshaped by a history of struggle continuing in our time, for tracing our identities back to a history of exploitation and struggle allows us to find a common ground and collectively shape a more equitable vision of the future.
Se in passato le lotte potevano essere disgiunte, non c’è motivo per cui ora, cinquant'anni dopo, queste storie comuni non debbano unirci tutte contro il patriarcato cis-etero-capitalista. La genealogia del femminismo è come un albero: alcuni rami della famiglia ci rendono orgogliose, altri ci lasciano un'eredità da cui imparare e da riconsiderare.
Carla Lonzi rimane vitale e rilevante perché ha scritto di un femminismo possibile che si confronta con la storia della lotta delle donne, ha cercato di delineare un modo diverso di esistere nel mondo. Questo mondo che lei immaginava non era escludente, né era un progetto, ma piuttosto una metodologia, un modo di impegnarsi che fosse in presenza dell'altro. In Vai pure, a un certo punto, risponde a Consagra affermando:
Siccome la donna è dialogo, il Paradiso per lei significa poter esercitare questo dialogo con un altro.
Questo dialogo non è solo con chi si trova in un determinato spazio in un determinato momento, ma è anche in solidarietà con i morti e con coloro che non sono ancora arrivati alla discussione. Nella prefazione a Sputiamo su Hegel, La donna clitoridea e la donna vaginale e altri scritti (1974) Carla Lonzi scrive:
Il rischio di questi scritti è che vengano presi come punti fermi teorici mentre riflettono solo un mio primo modo di uscire allo scoperto, in cui prevaleva l'indignazione per essermi accorta che la cultura maschile in tutti i suoi aspetti aveva teorizzato l'inferiorità della donna.
È la modalità con cui scrive e la posizione in cui si colloca che distingue questa prassi. La conversazione e l'evoluzione del femminismo oggi devono includere una versione del passato che non sia una pergamena morta, ma piuttosto una serie di documenti e voci vive che continuano a impegnarsi, a cambiare e ad espandersi per realizzare un mondo migliore. Per tuttƏ.
Allison Grimaldi Donahue (1984, Middletown, Conn. USA) lavora con il testo e la performance esplorando le modalità con cui il linguaggio e la scrittura possono muoversi tra esperienza individuale e collettiva. Utilizza spesso metodi di scrittura partecipativa per costruire comunità improvvisate di scrittori e traduttori, indagando i modi in cui il linguaggio è utile e inutile, significativo e ricettacolo. È autrice di Body to Mineral (Publication Studio Vancouver 2016) e On Endings (Delere Press 2019) e traduttrice di Blown Away di Vito M. Bonito (Fomite 2021) e Self-portrait di Carla Lonzi (Divided 2021). Le sue performance sono state recentemente ospitate presso: Short Theatre, Almanacco Torino, MACRO, MAMbo, Fondazione Giuliani e Flip Napoli. È stata borsista 2021/22 presso la Sommerakademie Paul Klee di Berna.
C’mon C’mon. Genitorialità maschile e ruoli di cura
di Pietro Rossi
[Alt Text: frame da C’mon C’mon. Johnny (Joaquin Phoenix) e Jesse (Woody Norman) sono seduti uno accanto all’altro, a letto, e Johnny tiene in mano un quaderno aperto. Jesse parla rivolto a Johnny, che lo ascolta con attenzione. Il film è in bianco e nero.]
C’mon C’mon è un film del 2021 diretto da Mike Mills, che affronta il tema della genitorialità narrando gli sforzi di un goffo, benintenzionato Joaquin Phoenix nel superare cliché e paure al fine di comprendere il bambino di cui si prende cura. L’opera mostra l’impaccio che un uomo vive quando deve farsi carico di una serie di compiti storicamente femminili, in particolare la dimensione di madre. Joaquin Phoenix, nel suo personaggio, mostra un rapporto genitoriale che vede l’uomo emancipato dai panni del breadwinner, ruolo tipico di una società gerarchizzata, nella quale la donna subisce la responsabilità di madre, di caregiver, a prescindere dal fatto che lo sia o meno.
Gli autori del film invitano lo spettatore a riflettere su quanto la maternità sia una dimensione ideale, fittizia nelle caratteristiche relative, e quindi necessaria di una decostruzione. Nel film l’invito è interpretato da Gaby Hoffman, una donna verso cui è possibile provare empatia non perché madre, ma perché fragile nel suo esserlo e nel riconoscere le proprie difficoltà ad accompagnare la crescita emotiva del figlio. Il peso di questo compito è sottolineato più volte all’interno della pellicola, talvolta in modo sommesso, talvolta in modo netto, come fatto tramite una citazione di Jacqueline Rose, accademica femminista, e del suo Mothers: an essay on love and cruelty:
Mothers are the ultimate scapegoat for our personal and political failings, for everything that is wrong with the world, which it becomes the task, unrealisable, of course, of mothers to repair.
Le madri sono il capro espiatorio dei nostri fallimenti personali e politici, di tutto ciò che è sbagliato nel mondo, che diventa il loro compito, ovviamente irrealizzabile, di riparare.
Quello che socialmente appare naturale, dove la natura è un processo storico, crea una divisione, la quale mantiene una determinata antropologia del femminile e, di conseguenza, del maschile. Questa antropologia agisce come meccanismo disciplinante che rende i generi incatenati a posizioni prestabilite, che altro non fanno se non cristallizzare un ordine sociale.
Nell’insieme eterogeneo definibile come mainstream, la mascolinità si cuce addosso una capacità di espressione circoscritta quando si entra in ambito emotivo. L’uomo si concede (e conseguentemente gli è concessa) libertà emotiva solo in ambito “predatoriale”; l’esposizione è socialmente accettata nell’atto della conquista, del ribadire il proprio primato nei confronti degli altri, uomini e donne. È un momento in cui il ruolo maschile è protagonista in maniera attiva del proprio agire, allineandosi al mandato di eccezionalismo individualista tipico di capitalismo e patriarcato. L’emotività di altri soggetti coinvolti, in una società eteronormata quella femminile in primis, è secondaria, fasulla nella propria rappresentazione in quanto specchio di una donna ideale e quindi inesistente. Già nel luglio del 1970, la rivista Rivolta Femminile sottolineava come “l’immagine femminile con cui l’uomo ha interpretato la donna è stata una sua invenzione”; un’immagine caratterizzata dal vivere per altri, in quanto moglie e madre.
È una realtà delle cose evidente per qualsiasi donna, circondate da una serie di segnali continui che ribadiscono quanto la cura sia il ruolo loro destinato, come sottolineato dalla retorica usata dalle e dai leader conservatori del mondo occidentale. Riallacciandosi al concetto di maternità, si pensi a una parola nostrana, “mammo”. Il termine, addirittura riconosciuto in alcuni vocabolari (oltreché titolo di una tragica sit-com da 66 puntate di inizio millennio), riassume l’imbarazzo, la desuetudine a cui la nostra società va incontro quando un uomo si fa interprete di un linguaggio emotivo di cui non conosce i caratteri. Sempre in questo senso, un esempio è dato da come Manohla Dargis, fra le principali critiche cinematografiche del New York Times, titola la propria recensione del film di Mills, con un brillante “C’mon C’mon’ Review: Are You My Mommy?”.
Le aspettative sui ruoli di genere rappresentano una realtà che, come detto, è divisiva. Il superamento di questa divisione è ostacolato su più livelli, che siano le convenzioni sociali delle comunità di riferimento o la negligenza dei soggetti istituzionali. Lo stigma colpisce chiunque provi a deviare dal modello normalizzato: si pensi all’umiliazione vissuta da un uomo che guadagna meno della compagna; o alla colpevolizzazione di quelle donne con una propria individualità, considerata sinonimo di disattenzione verso il ruolo materno che, vale la pena ribadire, pare affibbiato a prescindere. Questo modello viene rafforzato anche da come la società e le istituzioni trattano e rappresentano la genitorialità e i ruoli di cura. Lorenzo Gasparrini, nel saggio Diventare uomini. Relazioni maschili senza oppressioni fa l’esempio dei libri dell’infanzia, che tendono a raffigurare una realtà familiare che non esiste più, fatta di padri assenti, giustificati dal proprio essere breadwinner, e di madri uniche responsabili della crescita dei figli, spesso disoccupate o impiegate in mansioni poco qualificate.
Questo è solo uno dei tanti processi di socializzazione che contribuiscono a rafforzare un ordine specifico e a creare una mascolinità emotivamente rigida e limitata nell’espressione, disinteressata in sentimenti come la compassione e l’empatia. L’assenza di una cultura che promuove la conciliazione fra maschi e ruoli di cura è provata anche dal modo con cui l’attore pubblico approccia la genitorialità: la legittimazione di modelli in cui il maschile è presente incoraggia la creazione di circoli virtuosi a livello comunitario e in questa legittimazione il potere delle istituzioni gioca, almeno a livello teorico, un ruolo decisivo. In pratica invece, i vari interventi normativi sono spesso destinati alle madri o ai figli, trascurando la figura paterna. Il congedo maschile è un esempio chiaro. Oggi in Italia un padre può richiedere un totale di dieci giorni di congedo obbligatorio, una miseria, a maggior ragione se rapportata a quanto succede in altri paesi europei: in Spagna i giorni di congedo obbligatorio sono gli stessi per entrambi i genitori, sedici settimane, in Norvegia un minimo di dodici. Esempi virtuosi in un contesto generale non brillante, nel quale l’Italia arretra, come ribadito dal quadro relativo al congedo facoltativo. In Italia un padre può usufruirne a patto che la madre lavoratrice rifiuti ad un giorno del proprio; ogni giorno di congedo facoltativo paterno è quindi sottratto alla madre. Ne deriva un’immagine di genitorialità distorta, secondo cui il ruolo maschile è secondario nella crescita dei figli, ai limiti del facoltativo, ribadendo invece la centralità della responsabilità femminile. L’assenza di una cultura istituzionale che supporta una compartecipazione nei doveri, che promuove un modello parentale condiviso è l’ennesimo contrastare una concezione di genere paritaria, capace di emanciparsi dall’influenza di stereotipi culturali inadatti.
Sembra quindi necessaria una ristrutturazione di ciò che consideriamo essere genitori, della divisione delle responsabilità che derivano dall’esserlo. Angela Garbes, scrittrice statunitense, nel libro Essential Labor: Mothering as Social Change, afferma come la crescita e la cura dei figli siano un dovere collettivo, all’interno della famiglia e della società, e non un compito individuale delle singole donne, invisibile al resto. Gasparrini invita a non dividere il mondo in “rosa e azzurro”, per non introdurre figlie e figli ad un mondo binario, e per scardinare, donne e uomini assieme, un sistema di potere opprimente.
Questi, come molti altri, sono inviti che mirano al superamento dell’antropologia in cui viviamo, fatta di una dialettica divisiva e quindi oppositiva. Non si tratta soltanto di riscrivere i ruoli, ma rovesciare un paradigma, trasformare le identità e attraverso esse allontanarsi dalle imposizioni di un sistema sessista. Pure gli uomini, principali beneficiari del patriarcato, ne sono in parte vittime: è richiesta loro una mentalità poggiata sul superamento dell’altr*, da cui sono disturbati e segnati. È necessario comprendere cosa vuol dire essere madre e padre; riconciliare la maternità con quel che è, un luogo di resistenza, di libertà, emancipandola da rappresentazioni fittizie, utili a logiche di controllo e dominio.
Pietro Rossi, nato a Firenze ma in stanza a Bologna, ha venticinque anni di cui diversi passati fra i libri e impieghi part-time. A volte scrive, a volte si allena in una palestra popolare di boxe. Spesso dorme.
Un estratto da Luce nell’oscurità. Luz en el oscuro di Gloria E. Anzaldúa, femminista decoloniale, appena pubblicato da Meltemi.
Mentre in Afghanistan il regime talebano erode le libertà femminili, tra cui anche il diritto all’istruzione, resistono reti e centri di supporto e aiuto come il rifugio clandestino per donne vittime di violenza domestica di Kabul.
Nel 2022, l'esercito israeliano ha ucciso una persona palestinese ogni due giorni.
[Alt Text: la giornalista Shireen Abu Akleh è una delle persone uccise dall’esercito israeliano quest’anno. La donna è morta l’11 maggio 2022 nel corso di un raid nel campo profughi di Jenin, in Cisgiordania, e al momento della sua uccisione indossava la pettorina che identifica ogni reporter in zone di guerra o guerriglia. Nella foto, Shireen Abu Akleh è in collegamento televisivo esterno da una strada cittadina: sorregge infatti un microfono ed è in piedi di fronte a un cameraman. Fonte.]
Nelle scorse settimane ci sono state violente proteste all’interno dello stabilimento Foxconn di Zhengzhou, in Cina, causate dalla mancata applicazione di protocolli anti COVID in presenza di un focolaio: la rivista Tempest ha parlato con la ricercatrice femminista Yige Dong delle condizioni della classe lavoratrice in Cina.
Una conversazione con Susanna Nicchiarelli.
Si scarica gratuitamente qui Trauma Narratives in Italian and Transnational Women’s Writing, un volume curato da Tiziana de Rogatis e Katrin Wehling-Giorgi che ospita anche un contributo di Alberica Bazzoni.
Enrica Mordicchio, intervistata dal Manifesto, commenta il taglio del reddito di cittadinanza.
Sui personaggi femminili "complessi e sfaccettati".
Un estratto da Mia madre ride, memoir di Chantal Akerman da poco uscito nella traduzione di Giorgia Tolfo. Il film di Akerman Jeanne Dielman, 23, Quai du Commerce, 1080 Bruxelles ha da poco conquistato la vetta della classifica delle migliori pellicole mai realizzate curata dalla rivista Sight and Sound. È un’occasione come un’altra per rileggere uno dei nostri primissimi speciali, che abbiamo dedicato proprio alla filmografia di Akerman.
FATTO DA NOI
Marzia ha pubblicato degli haiku su Brave Voices Magazine.
FATTO DA VOI
Su Limina, Anna Maniscalco racconta l’ultimo lavoro di Liv Strömquist, Dentro la sala degli specchi.
Su L’Indiependente, Alessia Ragno recensisce Canta ancora, ragazza di Jacqueline Roy.
Sul numero di The Past dedicato all’anno 1977, c’è un contributo di Cristina Resa su Suspiria.
Un pezzo su Menelique di Giusi Palomba sul nascere, crescere e lasciare la provincia.
Un ringraziamento a Eugenia, Allison e Pietro per averci aiutato per questo numero di Ghinea. Ci rileggiamo nel 2023, auguri!
Un abbraccio!
Francesca, Gloria e Marzia
Grazie per questo numero 💜 l'ho inoltrato a un po' di persone perché merita davvero!