La ghinea di agosto
Benvenutə a Ghinea, la newsletter con la mascherina. Questo mese torna a trovarci Fabiola Fiocco, che conosci dal numero dello scorso giugno: grazie a lei scopriamo i lavori dell’artista e designer Sheila Levrant de Bretteville. Noi invece ricordiamo Franca Valeri, celebriamo Kae Tempest e diamo un’occhiata a cosa sta succedendo in Bielorussia, Turchia e Filippine. E poi ci sono molti consigli: articoli, libri, video, podcast.
Buona lettura!
Sul numero di giugno di American Quarterly è uscito un breve saggio a cui Noura Erakat ha lavorato per anni. Erakat è attivista per la causa palestinese e avvocata per i diritti umani, oltre che autrice del recente Justice for Some. Law and the Question of Palestine. Nel saggio Geographies of Intimacy: Contemporary Renewals of Black–Palestinian Solidarity, Erakat esplora il legame di solidarietà tra l’attivismo della comunità afroamericana negli Stati Uniti e le rivendicazioni del popolo palestinese individuando per prima cosa il momento preciso in cui gli obiettivi dei due movimenti hanno cominciato a convergere. La guerra dei sei giorni, afferma Erakat, “stabilì un nuovo status quo in cui Israele si configurava come potenza coloniale, in linea con gli Stati Uniti, il Portogallo e il Sudafrica dell’apartheid”, e spinse organizzazioni come le Pantere Nere a solidarizzare con la lotta palestinese e a criticare apertamente le politiche israeliane.
Per alcuni anni i due movimenti di liberazione operarono insieme, ma nel frattempo stava prendendo forma la “figura razzializzata dell’arabo-americano”. Sottoponendo le comunità arabe e musulmane a più stretta sorveglianza e facendo mostra di assegnare una corsia preferenziale per cittadinanza e diritti a chi prendesse le distanze dai movimenti antirazzisti, gli Stati Uniti riuscirono a fiaccare e infine distruggere quest’alleanza — fino all’estate del 2014, in cui a distanza di poche settimane avvennero l’omicidio di Michael Brown a Ferguson e l’Operazione Margine di Protezione a Gaza. La concomitanza dei due eventi fu il terreno su cui ricostruire l’indispensabile solidarietà tra le due comunità, grazie anche a quattro figure-ponte di attivistə che Erakat prende in esame per analizzare quelle che, appoggiandosi al pensiero di Adrienne Rich e in particolare al saggio Notes Towards a Politics of Location (1984), chiama “strutture di intimità”:
Una vasta rete di persone nere e palestinesi che stabilivano contatti diretti e senza mediazioni l’una con l’altra hanno rinnovato queste affinità attraverso relazioni personali, esperienze dirette di occupazione e suprematismo bianco, e una pratica di testimonianza della lotta. I colloqui con le persone intervistate mostrano che non sono state solo le loro identità, anche nel contesto della violenza di stato che avveniva a Ferguson e Gaza nello stesso momento, a rafforzare queste alleanze. Le storie di radicalizzazione degli attivisti mostrano che tale solidarietà si è prodotta nella lotta anziché precederla, ed evidenziano una politica di posizionamento e impegno.
[Alt Text: immagine risalente al 2016 di un corteo di attivistx BLM. In primo piano uno striscione recita: “Dalla Palestina a Ferguson, ora fermiamo il razzismo”. Fonte.]
Sull’aumento di casi di violenza domestica in Alaska durante il lockdown.
Imparare a leggere un articolo: Hannah McCann analizzaKilling Joy: Feminism and the History of Happiness di Sarah Ahmed.
Conversazione con Nuria Alabao.
La dodicesima edizione del festival di cinema lesbico "Some prefer cake" si svolgerà dal 19 al 26 settembre, e per quest'anno sarà online e gratuita per tuttx.
Fotografia e femminismo negli anni Settanta: una tavola rotonda.
Medicina di genere non è medicina delle donne.
Stroller Flâneur è un breve video in cui Katerie Gladdys cammina per il suo quartiere insieme al figlio piccolo, comodo nel passeggino. Nel video appaiono più immagini contemporaneamente: rimane fissa la testa del bimbo, ripresa dall'alto dalla madre che spinge il passeggino, e attorno compaiono i giardini, le case, piccole mappe della zona. L'intento di Gladdys è dare vita a una narrazione che susciti la curiosità dello spettatore, spingendolo a esplorare i suoi dintorni con la stessa curiosità per il quotidiano che ha dato a lei l'idea del video. Dovremmo essere tuttə flâneur, insomma. Ma chi è il flâneur? Coniato da Baudelaire e poi raccolto da Benjamin, è una delle figure chiave della modernità urbana: bighellona per le città senza alcuno scopo, pronto a osservare l'architettura e la folla e a seguire i pensieri e i ricordi da esse evocati.
Così connotato, il flâneur non può che essere un uomo — difficile che un'ipotetica flâneuse possa attraversare piazze e strade nella totale libertà di perdersi nelle proprie fantasticherie: deve badare alle minacce che il semplice atto di camminare da sola in uno spazio pubblico comporta e non può permettersi distrazioni. Per una donna, afferma Lauren Elkin in Flâneuse: Women Walk the City in Paris, New York, Tokyo, Venice, and London (2017), apparire in strada non è un gesto neutro bensì una piccola sovversione: significa reclamare il diritto a uno spazio che non è stato progettato per lei.
Lo stesso vale per la madre flâneuse: come può prestare attenzione al paesaggio urbano se deve prestarne ai bisogni e all'incolumità dex bambinx, alle buche nel manto stradale che fanno sobbalzare il passeggino, ai marciapiedi troppo stretti, alle scale della metropolitana, ai mezzi pubblici in cui bisogna salire in fretta e non occupare troppo spazio se non si vuole incorrere nelle lamentele e negli inviti a restare a casa da parte delle altre persone a bordo? Ed è veramente possibile per una madre, con o senza figli al seguito, sparire per qualche ora per godersi la città? "La performance della passeggiata col bambino" osserva Gladdys "è in verità quella dei processi sociali che riguardano l'abitare e il riappropriarsi degli spazi pubblici, in periferia così come in città".
Nella città di Bacolod (isola di Negros, Filippine centrali), Zara Alvarez è stata brutalmente assassinata da sei colpi di pistola la notte del 17 agosto, mentre rientrava in casa con del cibo da asporto camminando tra le strade di una città militarmente sorvegliatissima. Dalla salita al potere nel 2016, il Presidente delle Filippine, Rodrigo Duterte, è considerato il mandante di un circa un centinaio di omicidi politici. Tredicesima nel suo gruppo di promozione e difesa dei diritti umani (Karapatan) e ultima vittima di questa guerra di stato contro ogni forma di dissenso, Alvarez aveva ricevuto diverse minacce di morte nel corso della sua carriera di portavoce e legale attiva nell’isola di Negros, soprattutto a partire dallo scorso anno quando, in difesa dei contadini locali e dei ribelli, si era pronunciata contro il governo di repressione di Duterte arrivando a dichiarare che le più recenti morti erano state uccisioni perpetrate dalla stessa polizia. Alvarez è la più famosa esponente di una lunga serie di soprusi politici che prendono specificatamente di mira le donne: nel 2018, il presidente Duterte aveva dato ordine di sparare ai genitali delle donne ribelli per renderle ‘inutili’. La stessa Alvarez aveva sottolineato la violenza di genere che il governo infliggeva alle resistenti e come l’unione della sorellanza fosse quanto più temuto da Duterte, incapace di tollerare una donna come Alvarez, che combatteva a testa e a voce alta e così in grado di sollecitare una compatta resistenza all’autoritarismo locale e mondiale.
Le donne turche hanno lanciato nel web una sfida a informarsi, fare ricerca, e fondamentalmente fare del proprio spazio virtuale un tributo al nome e alla storia delle vittime di femminicidio in Turchia. Nasceva in memoria e ricordo di tutte le donne che sono state assassinate per via del loro appartenere al genere femminile il trend #challengedaccepted, mentre in Occidente è stata deviata in un appropriamento votato a celebrare e autocelebrarsi in virtù dell’appartenenza al genere femminile, perdendo il contatto con la lotta turca e la richiesta di visibilità mondiale di una situazione perlopiù ignorata entro e oltre i confini. La giornalista Ceyda Ulukaya aveva portato avanti un progetto di mappatura dei dati sui femminicidi, dati difficilmente raggiunti nell’ostilità generale dello stato a rilasciare le informazioni nonostante il supporto internazionale ricevuto dal progetto e che a oggi rende ancora disponibile il duro lavoro di raccolta e denuncia per il periodo tra il 2010 e 2017 al sito dedicato al progetto stesso.
[Alt Text: immagine di un corteo delle Donne in Bianco, che camminano per mano. Fonte.]
Le Donne in Bianco hanno preso le strade di Minsk per opporsi al regime dittatoriale di Lukashenko, iniziando la più grande protesta del paese. In Bielorussia, a seguito dell’incarcerazione di tre opponenti, il presidente Lukashenko, ora al suo sesto mandato consecutivo (dal 1994), aveva silenziato con la repressione ogni forma di diversificazione del voto, di opposizione, e addirittura di negatività (rendendo illegali anche le statistiche indipendenti sulle elezioni che davano il consenso elettorale al solo 3%). Non poteva immaginare che la moglie dell’attivista e blogger Siarhei Tsikhanouski, incarcerato in previsione delle elezioni, si facesse personalmente carico della rappresentazione del dissenso che aveva in principio portato avanti il compagno, raggiungendo un numero ancora più elevato di sostegno elettorale e fisico, come dimostrato dal numero di persone che ancora oggi, giorni dopo le elezioni che vedono Lukashenko di nuovo in carica, scendono in strada per opporsi al regime.
Sviatlana Tsikhanouskaya ha saputo unire un numero incredibile di persone, che hanno apprezzato il coraggio di portare avanti una campagna manomessa a ogni occasione in maniera para-legale. Ad oggi, forzatamente esiliata con i figli in Lituania per protezione, e nel timore di ripercussioni sul marito incarcerato, dice nella prima intervista rilasciata dopo le elezioni: “sono diventata un simbolo di libertà, non una leader: non posso guidare nessuno perché sono la prima ad essere spaventata, però sento di non poter smettere”. Già prima che si arrivasse al voto, Tsikhanouskaya aveva dichiarato apertamente che sapeva di non avere possibilità di vincere ma che sentiva che il popolo bielorusso avrebbe potuto vincere, prevedendo la necessità di contrastare elezioni truccate attraverso una ferma opposizione di resistenza in strada. Una rivolta che ha come simbolo di liberazione una donna e che non accenna a concludersi, nonostante le forze armate spiegate contro gli oppositori che denunciano la falsificazione delle elezioni e la dittatura di Lukashenko.
Le catene umane formate dalle donne vestite in bianco che sfilano per la città hanno avuto origine nella piazza del mercato aperto di Minsk, il mercato centrale dove sono soprattutto le donne a recarsi per comperare il cibo per le famiglie e dove sono le donne soprattutto a lavorare ai banchi di vendita. Ed è attorno a questo luogo che, dandovi inizio o facendovi ritorno, i gruppi di donne manifestanti tendono a gravitare.
Kae Tempest annuncia la sua identità di genere non-binaria, il suo nuovo nome, e i suoi pronomi in un post sui suoi profili social che, come le sue performance live o registrate, musicali e\o poetiche, racconta una storia. Avevamo parlato della sua poesia poliedrica già lo scorso anno (e quindi l’articolo, come Kae al tempo, ancora declinava al femminile).
Giuliana Misserville e Federica Fabiani hanno creato il podcast La mano sinistra, dedicato alla letteratura fantastica. Poiché il titolo è un omaggio al celebre romanzo di Ursula K. Le Guin La mano sinistra delle tenebre, la prima puntata non poteva che concentrarsi su di lei e sulla sua lunga carriera ricca di sovversione e contraddizioni. Giuliana Misserville scrive da tempo di fantastico e la sua ricerca si è anche indirizzata sulle autrici italiane. Donne e fantastico. Narrativa oltre i generi è uscito da pochi mesi per Mimesis e analizza i romanzi di Chiara Palazzolo, Nadia Tarantini, Viola Di Grado, Laura Pugno, Lara Manni/Loredana Lipperini e Nicoletta Vallorani. Misserville segue i principali tropi e filoni che attraversano il fantastico femminile e cerca di rintracciarne le origini, “risalendo su per il Novecento” e interrogando nomi scontati nel genere di riferimento come quelli di Tolkien, Marion Zimmer Bradley o la stessa Le Guin, ma anche deviando e cercando punti di contatto con Elsa Morante.
Ben lontano da essere solo una lista di lettura, Donne e fantastico pone anche importanti quesiti sulla destinazione delle letterature gotiche, horror, fantasy e fantascientifica, e di tutte le scritture che si allontanano dal reale — specialmente ora che stanno vivendo una buona fortuna commerciale (si accenna al successo di rimbalzo de Il racconto dell’ancella, scritto da Margaret Atwood nel 1985 ma più noto negli ultimi tempi grazie alla serie televisiva che ne è stata tratta). La “dissoluzione del genere” è guardata con occhi sospettosi, ed è forte il timore che una letteratura che trova la sua forza nella posizione marginale possa essere inglobata e rimasticata dal romanzo realistico, finendo per depotenziarsi. Già Le Guin, nel saggio Why are Americans afraid of dragons?, ribaltava la prospettiva secondo cui il romanzo fantastico non sarebbe letteratura seria ma pura evasione per affermare che il rassicurante realismo dei thriller e delle storie d’amore atrofizza la fantasia ed è quindi il vero escapismo dei nostri tempi, contrariamente al fantastico che costringe all’uso continuo dell’immaginazione e all’esplorazione di territori sempre nuovi. Come evitare la necrosi per contaminazione? Tra le possibili risposte fornite da Misserville, c’è l’impegno etico di Nicoletta Vallorani, le cui parole sono citate nel capitolo conclusivo di Donne e fantastico:
Le radici della scrittura di genere affondano nella realtà, quella condivisa dai lettori, quella cosa strana che bisogna in qualche modo cambiare. Allora, questo è quello che penso: io non voglio che la mia scrittura sia innocente. Io voglio compromettermi, prendere posizione, dichiararmi colpevole. Insomma, per cambiare le cose bisogna sporcarsi le mani.
[Alt Text: ritratto fotografico in bianco e nero di Ursula K. Le Guin con un gatto in braccio. Fonte. ]
FATTO DA NOI
Francesca ha scritto un articolo molto lungo per Il Tascabile su Jia Tolentino e il suo libro d’esordio, la raccolta di saggi Trick Mirror, recentemente tradotta in italiano. Il dono della sintesi di Tolentino è una caratteristica preziosa per fare il punto su quanto è successo, a livello di cultura americana mainstream, negli ultimi quindici anni, ma il suo tono volutamente generico e amicale rischia di suonare stonato all’orecchio di persone che non condividono i riferimenti vernacolari e quotidiani su cui Tolentino ha costruito la sua carriera.
Marzia ha scritto una poesia in inglese che si può leggere nell’ultimo numero della rivista di poesia sperimentale Datableed.
Ci sono due racconti di Gloria e Francesca nell’antologia estiva di Not, “I bambini del compost”, una raccolta corale ispirata e in omaggio al lavoro di Donna Haraway. Il racconto di Gloria, “Making kin, not babies” immagina un futuro in cui la fertilità femminile collassa e viene sostituita da nuove forme comunitarie di intendere la propria esistenza. Il racconto di Francesca, “Lievito madri” immagina un futuro in cui le specie compagne degli esseri umani sono i ceppi di lievito, fondamentali per la panificazione, attorno a cui si ricostituiscono nuove comunità. Nella raccolta ci sono anche racconti di Andrea Gentile, Felice Cimatti, Sara Marzullo, Matteo De Giuli, Laura Pugno, Leonardo Caffo e Carola Provenzano, Alessandra Castellazzi, Nicolò Porcelluzzi, Pier Mauro Tamburini, Marta “Martu” Palvarini.
FATTO DA VOI
Sul blog di inutile, Francesca Astarita parte dalla propria esperienza di scrittrice di fanfiction per analizzare un fenomeno spesso irriso e sottovalutato. La rielaborazione delle storie altrui non è solo un’ottima palestra di scrittura e immaginazione, ma anche un modo per conoscersi meglio ed esplorare i propri desideri in un ambiente, quello dei fandom, tendenzialmente sereno e non giudicante. Inoltre, il mondo delle fanfiction è il mondo in cui a prendere parola sono le soggettività escluse dai canoni letterari, e possono farlo in prima persona e senza mediazioni.
UN LIBRO
Avrai i miei occhi di Nicoletta Vallorani (Zona42)
Per Nicoletta Vallorani Milano era luogo adatto alla distopia ben prima della catastrofe del Covid-19, dello schianto dell'eccellenza lombarda e del modello produttivo che esprime da decenni, dei disastri comunicativi (o forse no) del sindaco "incazzato" Beppe Sala e del coinvolgimento del presidente della regione nella cosiddetta inchiesta dei camici. Concentrati nell'arco di poche settimane e intrecciati alla particolare severità della pandemia in Lombardia, questi avvenimenti hanno reso una volta per tutte ipervisibile la precarietà del modello milanese: avanguardistico e inclusivo a parole, violento e classista nei fatti. "Distopia" è proprio la parola adoperata in un recente articolo sull'architettura ostile e sulle recenti politiche antidegrado adottate nel capoluogo lombardo, che evidenziano la distanza tra l'immagine che la città offre allo sguardo e i numerosi dispositivi nascosti dietro tale immagine — oltre che necessari per fabbricarla:
La continua riproposizione di immagini raffiguranti centri cittadini desertificati ci ha proiettati in uno scenario di pura distopia che, solitamente, tendiamo a collocare nel microcosmo della finzione. Ma la paura del contagio ha messo a nudo tutte le contraddizioni insite nella modernità, ponendo in crisi alcuni tormentoni neoliberali che, fino a qualche settimana fa, venivano ancora presentati come verità intangibili ma che, dinanzi al primo ostacolo, hanno rivelato tutta la loro proverbiale fallacia, primo tra tutti il falso mito della naturale antecedenza dell’individuo sulla comunità: l’enfasi posta sulla necessità di cooperare per la tutela di un bene comune di portata superiore, la salute pubblica, ha chiarificato una volta per tutte che il tutto viene prima della somma delle sue parti, perlomeno su un piano puramente teorico.
(Giuseppe Luca Scaffidi, Architettura ostile. Milano è smart o unpleasant?, in Menelique02/DUE, aprile 2020)
Vallorani, marchigiana di nascita ma da lungo tempo residente a Milano, già nel 2015 parlava di "orizzonte angusto e senza respiro [...] del tutto autoreferenziale" e attribuiva il successo della narrazione expottimista alla fretta, all'accelerazione, alle vite col turbo della cittadinanza milanese, "umanità imbizzarrita" che non può, né sa, fermarsi e interrogarsi. Né condividere un progetto comunitario diverso da quello strillato con hashtag durante la manifestazione fieristica, verrebbe da aggiungere. E Milano è presente anche nella produzione narrativa dell'autrice sin dal romanzo d'esordioIl cuore finto di DR, scritto come Frankenstein dopo una scommessa e vincitore del premio Urania 1992. L'intera vicenda investigativa della detective privata Penelope De Rossi alias DR ruota alla produzione industriale del sintar, una droga sintetica, e alla diffusione del consumo e della dipendenza da stupefacenti tra le fasce più povere ed emarginate della popolazione. È difficile non cogliere il riferimento alla strage dell'eroina che si è consumata a Milano per tutti gli anni Ottanta mentre su un binario parallelo e assai più benestante nasceva il mito dell'edonistica e spumeggiante Milano da bere, destinata a evolversi nella Milano che conosciamo oggi e nelle sue variazioni #milanononsiferma e #milanoriparte.
Le crepe che il modello milanese, ora quasi grottesco ma aspirazionale fino all'altroieri, non può più nascondere (la cementificazione, l'erosione degli spazi sociali, l'insufficienza dell'edilizia popolare a fronte di una dura crisi occupazionale e della conseguente disuguaglianza economica) ispirano il paesaggio urbano in cui Vallorani ambienta il suo ultimo romanzo Avrai i miei occhi. Questa Milano fatiscente, "il corpo di ogni cosa", è spaccata in zone non comunicanti se non attraverso checkpoint, disarticolata come chi la percorre ("[n]on c'è niente di intero in me, straniero. A pensarci bene, niente di intero in nessuno di noi"), divisa da "mura sbocconcellate", attraversata da strade che sono "distes[e] butterat[e]", immersa in un "pulviscolo [che] sembra impazzito, quasi vivo", rinchiusa in una Cinta muraria e circondata da Campi Industriali. Le zone periferiche sono abitate da non-cittadini giudicati immeritevoli di controllo e per questo esclusi da ogni diritto. Del resto, anche le periferie delle nostre città restano trascurate mentre i centri storici vengono tirati a lucido. Del resto, già oggi quello di cittadino è uno status morale oltre che giuridico.
Soltanto lo scorso luglio Ernesto Galli Della Loggia, esprimendo un sentire che non è soltanto il suo, scriveva un pezzo d'opinione riguardante la volontaria diffusione del coronavirus nelle città da parte di turbe (sic) di untori di periferia. Niente di ciò che sappiamo per certo sulle modalità di trasmissione del coronavirus è stato abbastanza potente da sconfiggere il desiderio classista di individuare (e così circoscrivere) la malattia nel quasi-cittadino, quello proveniente dalle zone decentrate che Della Loggia descrive con cupi toni dickensiani. Quando accenna alla "diseguaglianza di standard socio-culturali" tra i residenti del centro e quelli delle periferie, Della Loggia sta in realtà sottolineando che questi ultimi non esibiscono la propria adesione a specifici valori cittadini, che restano impliciti tra l’editorialista e il lettore del quotidiano rispettabile. Chi dalla periferia si riversa in città per divertirsi sarebbe mosso dal "torbido proposito di seminare il contagio, d’infettare la società «per bene»": difficile dire, a questo punto, se si stia ancora parlando di coronavirus. La linea di demarcazione tra la città sana e la periferia malata è così stabilita: il passo logico successivo sarebbe chiudere fuori gli untori, magari ergendo una Cinta come quella di Avrai i miei occhi. La fantascienza non inventa, la fantascienza osserva il reale per esplorare scenari potenziali.
[Alt Text: la copertina di Avrai i miei occhi, realizzata da Annalisa Antonini, raffigura alcuni manichini osservati di spalle e privi di testa. Fonte.]
Avrai i miei occhi, fortunata operazione di recupero e arricchimento del raccontoSnuff Movie (1997), si colloca nel genere noir fantascientifico in cui Vallorani si trova comoda e di nuovo presenta un caso da risolvere per Nigredo, l'investigatore privato con precedenti da terrorista già protagonista di altre sue storie (tra cuiEva, 2002). Questa volta Nigredo è chiamato a indagare sul ritrovamento di un mucchio di cadaveri femminili nella periferia della città. Si tratta di donne senza nome ma provviste di tatuaggio da schiave e matrice, prodotti di un futuro prossimo che padroneggia la clonazione ma anche evocazioni fantasmatiche dell'assai reale passato concentrazionario e dei suoi corpi ridotti a oggetti, privati del nome e marchiati con un numero identificativo. Per trovare l'origine dei delitti, Nigredo dovrà spostarsi fra le molte zone di Milano per raccogliere indizi e testimonianze e lo farà a bordo del taxi della sua amica Olivia, donna dotata di capacità telepatiche, voce narrante e di fatto protagonista del romanzo.
L'oggettificazione che corre sulla linea del genere è l'argomento dichiarato di Avrai i miei occhi, con una varietà di riferimenti esterni a testimoniarne l'antichità e il radicamento — dalla Bibbia ("se Abele fosse nato oggi sarebbe una donna"), alla favola di Barbablù (con echi carteriani), fino all'accenno obliquo alla fotografa Francesca Woodman che del proprio corpo ha fatto oggetto di indagine artistica sfocandolo, deformandolo, isolandolo in dettagli ("Francesca Woodman è solo occhi"), proiettandolo in superfici riflettenti, esplorandone la fragilità attraverso il nudo. I corpi clonati a cui Nigredo deve trovare una storia e un senso sono a tutti gli effetti cose a disposizione delle fantasie di violenza maschili ("[s]iamo fatte di pezzi. Nessuno lo sa come me"), ma affinché infliggere dolore sia per il carnefice un'esperienza completa occorre che chi lo subisce reagisca e dimostri sofferenza, che sia inerme ma anche recalcitrante, che la sua volontà sia prevaricata. Occorrono, scoprirà Nigredo, altre donne preposte a sentire il dolore perpetrato sui corpi-fantoccio e ad animarli con urla e lacrime attraverso un collegamento telepatico. Nelle interviste e presentazioni degli ultimi mesi Vallorani ha portato a esempio il fenomeno del femminicidio e un disegno di legge turco che prevede l'amnistia per lo stupratore che sposi la sua vittima, a riprova della propria intenzione di trattare non già la violenza di genere in senso diffuso bensì uno dei suoi particolari, cioè il godimento del maschio (che sia individuo specifico oppure incarnato nel potere legislativo di un paese in cui la regola patriarcale si mantiene salda) che annulla la volontà di un'altra e si sofferma a osservare gli effetti della sua prevaricazione. Gli spettacoli di dolore, nel romanzo, sono replicabili all'infinito perché infiniti sono i corpi da usare ma anche perché attorno ai soprusi prospera uno smercio clandestino di snuff movie, che alla logica di sopraffazione salda quella del profitto.
La condivisione di esperienze sensoriali ed emotive non riguarda solo la sofferenza, ma anche l'amore. È Olivia, che grazie alla telepatia abita lo spazio mentale di Nigredo, a riferire ogni suo spostamento, dialogo o pensiero, e li racconta come se dovesse narrarli a lui che li sta vivendo, rivolgendoglisi alla seconda persona singolare. Innamorata ma non ricambiata, lo segue ovunque e organizza le sue vicissitudini in narrazione. Se è vero, come sostiene Adriana Cavarero nell'incantevoleTu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, che la singolarità delle nostre esistenze prende forma nel momento in cui l'altro ci restituisce il racconto della nostra vita come storia anziché come serie incomprensibile di eventi, e che nelle relazioni ci rendiamo visibili proprio per essere narrabili, estrema è la generosità di Olivia che non chiede mai di essere guardata e raccontata (amata, dunque). Al contrario, accompagna Nigredo e ne riporta ogni passo, aggiungendo contesto, inserendo ricordi propri, descrivendo paesaggi e incontri e combinando gli indizi per lui. Non è Nigredo a rendersi visibile a Olivia (poiché non la ama, non prova il desiderio di essere narrato da lei), ma Olivia a creare con lui un nuovo tipo di relazione che può sbarazzarsi del momento espositivo e crescere in una simultaneità in cui gli eventi vissuti non sono più mediati dal linguaggio bensì esperiti dai sensi (avrai i miei occhi, appunto). Grazie al processo affabulatorio, la donna innamorata dissotterra così con pazienza un legame che è stata la prima fra i due a riconoscere, e l'uomo amato ritrova il senso di sé riconoscendolo nelle parole che lo raccontano. La stessa telepatia che alcuni usano per brutalizzare serve a un'altra per stabilire canali empatici, costruire relazioni ma anche allontanarsi dall'uomo e trovare sorellanze: come si può leggere più volte nel romanzo, “il bene e il male stanno dentro lo stesso guscio”.
[Alt Text: Cross Point (2005), dipinto di Beppe Devalle che raffigura Sylvia Plath incinta, Francesca Woodman e un'anziana Virginia Woolf. Vallorani cita l'opera nei ringraziamenti del romanzo, che definisce un "omaggio" all'artista e alle sue rappresentazioni di figure femminili. Fonte.]
Ci sono pensieri che si legano come sorelle intente a ricamare la stessa coperta. Ogni pensiero riproduce un pezzo del quadro, insegna una parte della lezione complessiva, ma solo nel loro insieme essi hanno un senso compiuto. Noi, sorelle, lavoriamo.
La sorellanza, la ricostruzione di genealogie e la distruzione dell'esistente sono le tattiche di resistenza escogitate da Olivia e Nigredo: tutte e tre sono pratiche femministe. Se la sorellanza, così come viene stabilita da Olivia con le donne che provano dolore, si svolge in un presente di sensazioni condivise, l'aggancio diacronico alle esperienze di altre nel passato ribadisce la sofferenza femminile come leitmotiv della storia umana ma indica anche una possibile via d'uscita. Attraverso i ritratti del Pittore, personaggio ispirato all'artista Beppe Devalle, Vallorani allestisce un pantheon di donne scelte con cura. Tutte loro raccontano del corpo femminile, della sua frammentazione, dei suoi traumi e dei suoi usi. Sylvia Plath, raffigurata incinta in un dipinto di Devalle (Cross Point, 2005), immagina una futura gravidanza nella poesiaMetaphorse si descrive oggettificandosi in una casa, un frutto maturo e una pagnotta che sta lievitando, o animalizzandosi in un'elefantessa e una vacca da riproduzione, ma soprattutto si guarda e vede un mezzo ("a means"), la tappa ("a stage") di un processo che ormai non può più arrestare ("una volta saliti sul treno non si può fermarlo"). Nel suo ridotto corpus teatrale, la drammaturga inglese Sarah Kane affronta lo stupro e la guerra, la tortura e la malattia mentale, parla di allucinazioni e derealizzazioni, non si nasconde dalla violenza, quasi la eleva a costante universale dell'esperienza umana. E di corpi violati, corpi genderizzati e corpi (e menti) malati si occupano anche le altre donne evocate da Vallorani: così Virginia Woolf, così Francesca Woodman, così anche Marilyn Monroe citata nella pagina dei ringraziamenti (ora e per sempre viso cristallizzato in un sorriso eterno e immagine dal potenziale di riproducibilità infinito disconnessa dall'unicità della persona Norma Jane, donna-oggetto come mai ce ne erano state prima). Tutte loro raccontano o dimostrano com'è abitare il corpo di una donna, com'è essere guardate e usate, ma anche come quello stesso corpo può essere riconquistato e finalmente appartenerci. Le somiglianze vanno oltre: ci sono altri puntini che la lettrice colta saprà collegare per indovinare quale direzione prenderà Avrai i miei occhi, e quanto pessimismo esprime.
Eppure Vallorani ci tiene a ricordare che scrivere storie non è lanciare profezie (il personaggio del Profeta, difatti, è tutt'altro che positivo) e che "il futuro lo costruiamo noi come comunità". Vale a dire: è nostro il dovere di osservare (ancora: avrai i miei occhi, gli occhi dell’artista diventano nostri per qualche ora) il futuro delle città, dei corpi e delle relazioni da cui la scrittrice ci mette in guardia e compiere lo sforzo di contro-immaginare, di riappropriare, di rifiutare, di agire.
UNA DONNA
[Alt Text: Franca Valeri interpreta la sora Cecioni, in vestaglia e bigodini, al telefono seduta sul divano. Fonte.]
Muore della morte dei giusti, nel sonno e serenamente, a più di cento anni, Franca Valeri.
Pur non essendosi mai definita una femminista, ha sicuramente messo in scena la destabilizzazione del modello patriarcale, nei contenuti e nei modi, come osservano Paola Bono e Anna Maria Crispino in Le comiche.
La comparsa di Valeri sugli schermi televisivi, cinematografici, sui palchi teatrali e anche la sua riconoscibilità vocale estrema che le fidelizza un seguito entusiasta nelle partecipazioni radiofoniche, non erano cosa da nulla: in un’Italia del dopoguerra che aveva dato spazio solo a comici uomini, Franca Valeri si impone in maniera sofisticata e netta. La comicità d’altro canto è sempre stata una formula di sconfinamento, prima, e di rovesciamento poi, che ha permesso alle donne nelle arti di appropriarsi di un linguaggio alternativo a quello canonico, ancora da esplorarsi e soprattutto da potersi modellare contro il sistema imposto.
Con versatilità e intelligenza, Valeri ha costruito personaggi caricaturali con autoironia (la Signorina Snob si prende gioco della borghesia milanese che la educa: ne accentua le inflessioni con irriverente sarcasmo, e inserisci continui francesismi al fine di darsi un tono per poi dimostrarsi semplicemente incapace di afferrare quella cultura di cui si riempie la bocca) e tirando fuori il meglio degli stereotipi locali (la sora Cecioni, una popolana romana che ha la bocca impastata dalla continua frase ‘Pronto, mamma?’, attraverso la quale ironizza su chi vive la città che l’ha accolta). Questi personaggi Valeri li porta in televisione fino alla fine degli anni 70, finché alle porte del decennio a seguire si rende conto che la sua formula comica non trova spazio che la esalti in quel medium e senza troppe remore prende una via differente e torna a dedicarsi quasi esclusivamente alla drammaturgia teatrale.
Certamente Valeri aveva ben chiaro da subito cosa volesse, e non permetteva a niente e nessuno che le sue decisioni venissero ostacolate. Come recita la quarta di copertina della sua autobiografia (Bugiarda no, reticente), l’obiettivo è sempre stato chiaro: "A vent'anni era affondare il fascismo, a trenta avere in pugno il teatro, a quaranta tutto, a cinquanta occhiali e quasi tutto, e... eccomi”.
Ancora giovanissima, poiché di famiglia ebraica, aveva subito le vessazioni delle leggi razziali (sopravvivendo grazie a un esilio salvifico in Svizzera) e in più tarda età non si vergognava certo di dire che era andata in piazzale Loreto per accertarsi di persona della morte di Mussolini: «Mia mamma era disperata a sapermi in giro da sola. In quei giorni a Milano si sparava ancora per strada. Ma io volevo vedere se il Duce era davvero morto. E vuol sapere se ho provato pietà? No. Nessuna pietà. Ora è comodo giudicare a distanza. Bisogna averle vissute, le cose. E noi avevamo sofferto troppo».
Reclamata a seguito della Liberazione la possibilità di terminare gli studi classici e di dedicarsi poi interamente alla sua passione teatrale (nonostante un primo rifiuto presso l’Accademia di Arte Drammatica di Roma), Valeri prosegue con risoluzione nel suo percorso. Ha dichiarato che a permetterle di arrivare a 100 anni e con successo è stato il non avere messo mai l’amore al primo posto: dell’affettività avvilente Valeri fa anche spesso tema. È il caso, per il teatro, de L’amore è poetica attesa, in cui un personaggio femminile investe il proprio tempo nel prepararsi ad accogliere il proprio amante che infine, con una semplice telefonata, ancora una volta si toglie dall’impiccio di farle visita, e anche monologo della moglie in La famiglia, quando una sposa si accontenta di un maschio mediocre come compagno ma se ne dice, per convincersene, felice.
Ideatrice del soggetto, prima ancora che interprete accanto all’amica Sophia Loren, Valeri firma il fortunato film Il segno di Venere (1955), che verrà poi sceneggiato da talenti quali Ennio Flaiano, Cesare Zavattini, e lo stesso regista Dino Risi; nel film il personaggio di Valeri, la cugina Cesira, dichiara che è tempo di raggiungere l’ambita parità di genere attraverso l’indipendenza economica, che permette anche una consapevole scelta amorosa a venire: l’impiego retribuito per le donne, idea rivoluzionaria, è una soddisfazione personale ma anche una maniera di emanciparsi dalle relazioni romantiche patriarcali. Nel 1962 Franca Valeri firma anche la prima esperienza di drammaturga di commedia non a scene con Le catacombe, spesso considerata la prima “commedia di donne” italiana. La protagonista, Fanny, interpretata dalla stessa Valeri, è una donna capace di gestire la casa, il lavoro, e anche la vita privata del suo compagno, per il quale prepara l’agenda di impegni in maniera che trovi il giusto equilibrio tra famiglia e amanti. A destabilizzare Fanny sarà, sul finale, la richiesta di abbandono alle emozioni.
Con arguzia, Valeri porta in scena il cambiamento sociale del tempo ma anche la confusione che questa acquisizione di diritti e possibilità comporta per i soggetti femminili che, in questa nuova libertà, si muovono nel tentativo di non perdere quanto guadagnato ma anche non perdere nulla di sé.
UN’ARTISTA
“Scratch pink and it bleeds”. Il design femminista di Sheila Levrant de Bretteville
di Fabiola Fiocco
“Scratch pink and it bleeds”: recita così, a grandi lettere fucsia, uno dei quadrati di Pink, poster iconico realizzato nel 1973 da Sheila Levrant de Bretteville, un patchwork di parole e di foto nato con l’obiettivo di mettere in discussione e decostruire gli stereotipi di genere legati al colore rosa. Invitata a partecipare ad una mostra sul tema del colore dall’American Institute of Graphic Arts, Levrant de Bretteville fu l’unica a scegliere il rosa, decidendo di contribuire al progetto con un’opera corale, dividendo lo spazio standard del poster in quadrati più piccoli e chiedendo a varie donne, di diversa età e provenienza, di scrivere in ognuno dei quadrati cosa significasse per loro il colore rosa.
È interessante analizzare le suggestioni e le testimonianze condivise sui trentasei quadrati che compongono l’opera. Un fitto susseguirsi di parole, grafie, tecniche e colori diversi, a volte estremamente piccole per poter sfruttare tutto lo spazio possibile, altre giganti, per urlare e imporsi alla vista di tutti. Un flusso di voci intercalato da pause, silenzi assordanti. Consapevole della necessaria parzialità e soggettività insita in un progetto del genere, Levrant de Bretteville decise di lasciare alcuni dei quadrati vuoti, a sottolineare e raccontare tutta quella moltitudine di punti di vista che erano stati lasciati fuori.
[Alt Text: Sheila de Bretteville, Pink, 1973, dettaglio. Il formato standard del poster, medium alla base della mostra organizzata dall’American Institute of Graphic Arts, venne diviso da Levrant de Bretteville in 36 quadrati. Nel dettaglio vediamo le diverse tecniche utilizzate dalle varie donne per trasmettere e raccontare la propria esperienza. Fonte.]
Molte delle frasi scritte in Pink rimandano all’idea di dolce, soffice, puro. Nel contempo però il colore rosa viene definito come una gabbia, che cristallizza le donne come deboli e impotenti, “graziosamente passive”, come individui che devono necessariamente essere infantilizzate dalla società per poter essere controllate. «Dirt really shows on pink!» E per questo dobbiamo restare ferme, immobili, calme ed ubbidienti. Le donne condividono i loro ricordi d’infanzia insieme a storie intime e difficili. Il rosa viene associato e contrapposto al rosso, un colore forte, dirompente, viscerale, il colore del sangue. Ma soprattutto, Pink racconta in modo sottile ma efficace un percorso, un percorso di lotta e affermazione. All’interno dell’opera si possono trovare dei primi tentativi di riappropriazione del colore rosa, segni di un processo di decostruzione e capovolgimento di significati e punti di vista che negli anni Settanta definiva l’attività del movimento femminista e lo sviluppo di pratiche politiche specifiche, come i gruppi di autocoscienza e il separatismo. In uno dei quadrati più marginali, un contributo anonimo racconta in modo particolarmente crudo ed efficace questa dissonanza tra l’immagine imposta alla donna nella società e la realtà:
Pink non è sicuramente uno dei lavori più complessi e importanti realizzati da Levrant de Bretteville nella sua lunga carriera di artista, professoressa e designer ma è indicativo di un approccio specifico che ha caratterizzato il suo lavoro negli anni, basato sui valori della partecipazione e del consenso. Verso la fine degli anni Sessanta, Levrant de Bretteville lavorò a Milano insieme a Giancarlo de Carlo e in questo periodo cominciò a sviluppare un particolare interesse per l’aspetto più politico e partecipativo del design, anche grazie all’influenza diretta sia di Superstudio – collettivo di architetti nato a Firenze nel 1966 e parte del movimento internazionale dell’Architettura Radicale, corrente volta alla sperimentazione di nuove metodologie di progettazione, aperte ad una maggiore sperimentazione e attenzione alla società – sia del lavoro di Paulo Freire. Nel 1970 si trasferì a Los Angeles per insegnare presso il nascente California Institute of the Arts (CalArts) il primo Women’s Design Program, un programma annuale separatista che univa corsi di design a momenti di formazione non canonici, quali sessioni di autocoscienza, workshop di arte performativa e circoli di lettura femminista.
Lavorando al fianco delle artiste Miriam Schapiro e Judy Chicago — che avevano fondato nello stesso anno il Feminist Art Program — nei suoi corsi Levrant de Bretteville esplorò le relazioni tra il design, le arti visive e determinati comportamenti normativi legati al genere. Nel novembre del 1971 questa sinergia portò le tre ad intraprendere insieme il progetto Womanhouse, un workshop e una mostra collettiva ospitata all’interno di un palazzo fatiscente di diciassette stanze che tra il 1971 e il 1972 venne abitato e aperto al pubblico dalle studentesse della CalArts. Per mezzo dell’esagerazione e della parodia Womanhouse intendeva indagare e rovesciare l’idea della casa come luogo del lavoro riproduttivo e il mito della casalinga bianca e agiata come dea del focolare. Ognuna delle stanze venne completamente plasmata e trasformata dalle artiste in un ambiente artistico non funzionale. A ognuna delle partecipanti venne chiesto inoltre di contribuire attivamente e fisicamente al progetto, collaborando anche alla ristrutturazione dell’edificio. Riprendendo una tecnica che veniva utilizzata in cantiere per evitare il furto dell’attrezzatura, tutti gli strumenti vennero dipinti di rosa.
Sulla scia di questa esperienza, nel 1973 Levrant de Bretteville e Chicago decisero di lasciare la CalArts e di unirsi alla storica dell'arte Arlene Raven per fondare il Feminist Studio Workshop e il Woman’s Building, uno spazio aperto alla comunità femminista e lesbica nel centro di Los Angeles. In linea con la rivendicazione dei corpi portata avanti dal movimento femminista, in questa fase l’arte femminista era caratterizzata da una maggiore attenzione verso la politica della rappresentazione, e nello specifico della rappresentazione femminile. L’obiettivo principale del Woman’s Building era rendere le donne visibili e attivare processi di apprendimento e emancipazione personale e professionale. Al centro della discussione non c’era solo la componente estetica e visiva ma la volontà di riappropriarsi di simboli, strumenti e metodologie di collaborazione e supporto reciproco, rivalutando anche forme artistiche e i tecniche storicamente sottovalutate poiché “femminili”.
[Alt Text: copertina del catalogo della mostra Womanhouse. Fonte.]
La creatività femminile era spesso ridotta ad un tratto caratteriale o ad uno stile specifico, spingendo le donne ad adeguarsi a tali aspettative per poter avere successo e veder riconosciuto il proprio lavoro. Così come il colore rosa, anche lo stile femminile veniva depotenziato, descritto come ingenuo e delicato. Utilizzando la relazionalità e l’empatia come strumenti essenziali della propria pratica artistica, Levrant de Bretteville decise di valorizzare tali elementi non in quanto femminili, e dunque legati ad un genere, ma femministi e dunque derivanti da una scelta politica. L’autocoscienza venne posta alla base del suo approccio metodologico, rendendo ogni progetto un’occasione per mettere in discussione il contesto di appartenenza e per dare spazio a voci e punti di vista diversi. Un esempio in questo senso è Private Converstations, Public Announcements, progetto realizzato in occasione di uno dei corsi tenuti presso la CalArts in cui Levrant de Bretteville chiese alle studentesse di individuare un posto in cui si sentivano particolarmente a disagio e realizzare un poster che ne indagasse e raccontasse le motivazioni da affiggere poi in quello stesso luogo. Lavorare secondo un approccio femminista come arma per mettere in discussione i limiti della società patriarcale e di una visione binaria del genere e della realtà:
L’attività professionale e pedagogica di Levrant de Bretteville, soprattutto per quanto concerne l’esperienza della Womanhouse e i primi progetti collaborativi all’interno del Feminist Art Program, sono stati messi apertamente in discussione da diverse critiche tra cui Temma Balducci, Jane Gerhard e Paula Harper in quanto esempi di un femminismo poco inclusivo ed intersezionale poiché prevalentemente testimone dell’esperienza di donne bianche, etero, cisgender ed economicamente in grado a poter dedicare tempo e risorse ad un tale tipo di formazione. Nonostante le critiche non fossero indirizzate specificatamente al suo lavoro, tale mancanza venne riconosciuta dalla stessa Levrant de Bretteville, continuando sempre ad impegnarsi nel rendere la sua pratica, formalmente e metodologicamente, il più inclusiva e intersezionale possibile, spesso a discapito della propria autorialità. Una capacità di analisi e apertura che la rende ancora oggi una voce fondamentale nel campo del design e della pedagogia radicale, e che ci ricorda la necessità di evolversi, di rimettere costantemente in discussione il proprio lavoro e i propri privilegi, e l’importanza di non avere paura di sanguinare.
Fabiola Fiocco dopo aver avuto una relazione complicata per anni con il suo paese ed essersi sentita sola e a casa in tanti letti diversi comincia ad interrogarsi su cosa voglia dire abitare, vivere e appartenere. Puoi seguire la sua ricerca su Instagram e su homeawayfromhome.
Grazie a Fabiola per averci fatto conoscere Levrant de Bretteville! Se anche tu conosci qualcosa da condividere, perché non ci aiuti a rendere Ghinea più ricca e interessante? Ci leggiamo a settembre.
Un abbraccio!
Francesca, Gloria e Marzia