La ghinea di agosto
Benvenut@ a Ghinea, la newsletter che non va in vacanza ma talvolta si concede di uscire in edizione ridotta. Questo mese torna Ludovica C., ormai nostra “corrispondente” letteraria fissa dagli Stati Uniti. Buona lettura!
Poiché è ormai certo che Giorgia Meloni sarà la prima donna a ricoprire il ruolo di Presidente del Consiglio, e sulla scia di una schermaglia tra Marina Terragni e Natalia Aspesi sul ruolo dell’associazionismo femminile e femminista nell’imminente scenario politico, Ida Dominijanni offre un commento a metà fra il riassunto della storia politica di Meloni e la lettura psicanalitica della nuova estrema destra. Che non può non rilevare “la pessima abitudine di parlare del femminismo approssimativamente, senza riguardo per la sua storia, le sue articolazioni interne, le sue trasformazioni maturate nel susseguirsi delle stagioni politiche; e quindi facendone una galassia confusa che riparte ogni volta dal grado zero su ogni questione. La colpevolizzazione ne consegue: così rappresentato, il femminismo si può sempre cogliere in castagna per qualche cosa”.
Perché il modello della #girlboss è una truffa.
In occasione del centenario della nascita di Elsa Morante, caduto lo scorso 18 agosto, Vanessa Roghi ha curato un documentario a lei dedicato. Lo puoi vedere su Raiplay.
Sulla spettacolarizzazione delle frontiere.
Nella sua newsletter, Mary Gaitskill riflette sull’opportunità e sulle difficoltà di affrontare questioni politiche e sociali all’interno di un romanzo:
But writing well about politics is hugely challenging because…unlike music or film, writing is not done in groups; it is hard to effectively transform the language or power of groups into the power of an individual working alone with their wrists and fingers on a keyboard. Fiction speaks in a specific language of individual consciousness that senses and interprets the world with a moral ambiguity in which issues and impulses large and small fluctuate and conflict nonstop, running from ugly to beautiful, blending the two categories in mysterious, asocial ways that reflect the depths of human nature in darkish, dream-like flashes.
Ma scrivere bene di politica è estremamente impegnativo perché… al contrario della musica o del cinema, la scrittura non è un’attività di gruppo; è difficile tradurre in modo efficace il linguaggio o la forza dei gruppi nella forza di una persona che, da sola, lavora alla tastiera con i suoi polsi e le sue dita. La finzione racconta attraverso un linguaggio specifico la coscienza individuale che percepisce e interpreta il mondo, con un’ambiguità morale in cui i problemi e gli impulsi, grandi e piccoli, fluttuano e si scontrano continuamente, passando dall’orrore alla bellezza, fondendo le due categorie in modi misteriosi, asociali, che restituiscono le profondità della natura umana in apparizioni oscure e rassomiglianti a sogni.
Da alcuni anni Jovanotti è sempre presente fra i tormentoni estivi, sebbene non grazie alla sua musica. I suoi tour sulle spiagge italiane, sebbene supportati dal WWF, sono infatti al centro di serie critiche, troppo spesso derubricate a mere polemiche, sull’impatto degli eventi a grande affluenza di pubblico sulla flora e sulla fauna costiere e marine. Dopo petizioni, proteste delle associazioni ambientaliste locali, e per finire l’appello pubblico del geologo Mario Tozzi, Jovanotti ha risposto con disprezzo e violenza, affibbiando alle voci critiche l’etichetta di “econazisti”.
Su L’Essenziale, Sarah Gainsforth si concentra invece sulle spese che la collettività sostiene per consentire al #JovaBeachParty di svolgersi. Sebbene infatti Jovanotti e il suo entourage tengano a precisare che la pulizia delle spiagge è a carico dell’organizzazione, sono le amministrazioni locali ad accollarsi tutto l’allestimento. Affinché il concerto si svolga senza intoppi, è necessario “un lavoro straordinario da parte delle amministrazioni comunali, dei loro uffici e di appositi tavoli tecnici, e poi la mobilitazione di prefetture, polizia locale e protezione civile, associazioni di volontariato, la croce verde, spesso con l’impiego di personale prestato da altri comuni”. Un lavoro che viene svolto con entusiasmo e con la consapevolezza che il passaggio di Jovanotti significa visibilità e introiti per le attività del luogo. I vantaggi per l’economia turistica vengono così anteposti non soltanto all’equilibrio dei microhabitat costieri, ma anche al benessere di residenti e, paradossalmente, turistə, vessatə da ordinanze e restrizioni che limitano la circolazione delle persone a protezione dell’area del concerto.
Si fa dunque prassi scaricare sulla cittadinanza i costi, non solo pecuniari, dell’evento che richiama le folle, e ogni considerazione pare secondaria di fronte a una doppia promozione, quella edonistica del divertimento a ogni costo e quella pragmatica del turismo che ragiona per stanze affittate e panini venduti.
Poco importa che il denaro pubblico così scialacquato si traduca in ritorni privati, e rigorosamente per pochi: innanzitutto per il ricco performer che viaggia con la cuoca personale e si presenta sul palco in look “straccione” (ma firmato Dior), e in secondo luogo per chi possiede attività turistiche.
Il caso del #JovaBeachParty è così, seguendo l'analisi di Gainsforth, uno tra i più chiassosi esempi della trasformazione degli spazi urbani e naturali man mano che chi li popola, umano o non umano che sia, diventa destinatario sempre più marginale delle iniziative culturali, ambientali e politiche che li interessano.
Sarah Gainsforth è autrice di Airbnb città merce. Storie di resistenza alla gentrificazione digitale, che Chiara Rizzi ha recensito per noi quasi tre anni fa.
Nello scorso numero di Ghinea, riflettevamo sull’adattamento di Persuasione da poco uscito su Netflix. Tra i molti aspetti critici, commenta Nylah Burton su Refinery29, figura il “color-blind casting” al servizio di una storia ambientata in Inghilterra durante la Reggenza, scelta che è valsa al film numerosi accostamenti alla serie rosa Bridgerton, ugualmente distribuita da Netflix. Da anni Netflix ha fatto della rappresentazione un cavallo di battaglia, al punto da lanciare nel 2020 una collezione intitolata “Representation matters” all’interno della sezione dedicata ai bambini. Eppure gettare attorə di colore all’interno della società inglese del primo Ottocento è ben diverso da creare un catalogo che sia appetibile anche per un pubblico diverso da quello caucasico.
Non bisogna infatti perdere di vista il fatto che, mentre Jane Austen scriveva i suoi romanzi fingendo di curare la corrispondenza, e nascondendo frettolosamente i fogli quando la porta scricchiolante anticipava l’ingresso di una persona nella stanza, l’Inghilterra consolidava il proprio dominio come potenza coloniale proprio alle spese dei popoli che ora Netflix è ora ansiosa di includere. Ma l’inclusione è puramente simbolica, riflette Burton, e se nel film Mr. Malcolm’s list il protagonista menziona la sua lingua nativa yoruba questo passaggio è puramente aneddotico, e non fornisce alcuna informazione rilevante sul personaggio, né produce effetti di sorta su chi lo sta ascoltando. La presenza di persone non bianche è data, non discussa, e ininfluente all'interno della storia narrata.
Il “color-blind casting” contribuisce dunque all’escapismo inerente il genere rosa, presentando come storica una realtà mai esistita senza ulteriori commenti, e aggiungendo all’inverosimiglianza delle relazioni fra i sessi quella dei rapporti fra colonizzatorə e colonizzatə. A questə ultimə, del resto, non resta che l’assimiliazione: per questo Kate Sharma, protagonista della seconda stagione di Bridgerton, può alzare gli occhi di fronte al tè servito a Londra, ma non evitare di anglicizzare il suo nome di battesimo indiano per potersi inserire nel ton – e assurgere infine al rango di viscontessa, assicurandosi così una salda posizione all’interno di una classe sociale che non di rado investiva nelle colonie. Aspettarsi una seria riflessione sulle brutalità dell’Impero all’interno di un romance storico sarebbe forse ingenuo, ma è difficile ignorare la rimozione agevolata dalla presenza di persone di colore.
È questo cortocircuito che rende la rappresentazione di Bridgerton, Persuasione e Mr. Malcolm's list un’operazione maldestra e inaccurata, che Burton non si perita di definire un esempio cristallino di whitewashing.
[Alt Text: frame da Mr. Malcom’s list. I protagonisti, Mr. Malcolm e Miss Dalton, sono vestiti di tutto punto per un’uscita diurna e passeggiano a piedi nel verde di Londra dopo una cavalcata, conducendo i cavalli per la briglia. Fonte.]
FATTO DA VOI
Qui puoi trovare, corredata di commento, una poesia di Nadia Agustoni, che ha scritto di poesia e lavoro nel numero di Ghinea uscito lo scorso febbraio. Puoi inoltre leggere un suo pezzo su Nazione Indiana.
CALENDARIO
Francesca sarà tra gli ospiti del Festivaletteratura di Mantova. Sabato 10 settembre interverrà con Vincenzo Latronico su Annie Ernaux, Tove Ditlevsen e come le loro opere sono state lette dalla critica (h.17.00, Biblioteca Teresiana). Domenica 11 settembre dialogherà con la scrittrice Sharon Dodua Otoo a proposito del suo romanzo Una stanza per Ada (h.17.15, Museo Diocesano). Qui il programma completo del Festival.
Sabato 17 e domenica 18 torna Flush, la fiera dell’editoria femminista organizzata dal Centro delle Donne di Bologna. Dettagli e programma sono qui.
UN LIBRO
My autobiography of Carson McCullers, di Jenn Shapland
di Ludovica C.
[Alt Text: la copertina di My autobiography of Carson McCullers è un ritratto colorato di McCullers da giovane, coi capelli scuri fino alle spalle e la frangia tagliata corta. Fonte.]
Se c’è una cosa che mi spaventa è l’idea che dopo la morte di una persona i suoi oggetti rimangano qui, privi di custodia, in balia di chi, per caso o per disegno, ne entrerà in possesso. Cosa direbbero le mie cose se non ci fossi io a tradurle in pezzi della mia identità? Come suonerebbero le parole che ho scritto su quadernetti vari a chi non mi ha mai conosciuta? La autonarrazione che ciascuno di noi conduce tramite gli oggetti e le parole che si lascia dietro si mischia alla narrazione che chi vi accede può fare di chi non c’è più. È questo uno dei temi portanti di My autobiography of Carson McCullers, di Jenn Shapland, un testo ibrido che gioca sulla differenza fra narrare e narrarsi.
Jenn Shapland lavora, durante il suo dottorato, in un archivio, l’Harry Ransom Center. Frugare fra gli averi lasciati in terra da scrittori e scrittrici mort* è la sua occupazione quotidiana, ed è così che, per rispondere alla richiesta di un* studios*, incappa in uno scambio di lettere fra Annemarie Clarac-Schwarzenbach e Carson McCullers. Quest’ultima è una scrittrica americana nata nel 1917 in Ohio, che però Shapland non ha mai letto; la prima, invece, non l’ha mai sentita nemmeno nominare. Nel leggere quelle righe però non ha dubbi: sono lettere d’amore. Shapland lo sa perché lettere come quelle ne ha scambiate anche lei, con le donne che ha amato.
Her letters, like mine, are overwrought, wrung with feeling and a need to declare it in writing.
Le sue lettere, come le mie, sono agitate, straziate dal sentimento e dal bisogno di dichiararlo per iscritto.
Nessuna delle biografie di McCullers, però, parla della relazione nei termini in cui appare a Shapland. Nessuno di quei testi, in effetti, identifica McCullers come una donna lesbica, limitandosi a raccontare delle sue “amicizie femminili”, o al massimo di “cotte non ricambiate”, o “amiche speciali”.
Nasce così l’ossessione di Shapland per l’identità di McCullers, spinta sì da un interesse accademico, ma anche, e forse soprattutto, da una identificazione immediata con la scrittrice. Il libro che ne risulta gioca con questa ambiguità fin dal titolo: che significa scrivere l’autobiografia di un’altra persona? Leggendo emerge il gioco di Shapland: nel raccontare la vita di McCullers l’attenzione è su come l’autrice si sia autonarrata tramite le lettere che ha scritto e gli oggetti che ha lasciato dietro di sé, ma anche su come Shapland stessa abbia fatto luce sul suo coming out, su come anche lei abbia avuto “a lonely misfit wrestl[ing] with her hidden self, unable to articulate her own longings” (“un disadattato solitario che combatte con il suo sé nascosto, incapace di articolare i propri desideri”). Per tutto il libro Shapland chiama l’autrice col suo nome, Carson, quasi sbattendo in faccia a chi legge una intimità con l’autrice che va oltre quella di chi conosce profondamente l’oggetto dei propri studi.
Grazie ad una borsa di studio del Carson McCullers Center for Writers and Musicians, Shapland viene invitata a trascorrere un periodo di studio e ricerca presso la casa in cui McCullers stessa è nata e cresciuta, a Columbus, in Georgia. È lì che, accedendo agli archivi della università locale, legge le trascrizioni delle sedute di terapia di McCullers stessa. La terapista, Mary Mercer, aveva accettato di aiutarla a gestire un momento di blocco creativo, ma la loro relazione terapeutica ha fin da subito eluso i confini di questo scopo. L’accordo fra le due infatti era che le sedute sarebbero state registrate e trascritte in doppia copia, e che il materiale non sarebbe mai stato reso pubblico ma sarebbe solo servito a McCullers per scrivere la propria autobiografia.
La terapia è per definizione la ricerca di una narrazione di sé, ed ecco quindi che entra in scena un terzo piano del racconto: Shapland che racconta sé stessa, Shapland che racconta McCullers, McCullers che racconta sé stessa. A questo terzo livello, però, non abbiamo accesso: come recita la nota di Shapland all’inizio del testo molti dei documenti su cui si basa la sua ricerca (lettere, telegrammi, ma soprattutto le trascrizioni delle sedute di psicoterapia) non possono essere citate. E così è ancora una volta Shapland a intervenire, riportando il contenuto di quello che ha letto senza potercelo far leggere. Come racconta in questa intervista, Shapland non sapeva, mentre scriveva il libro, se avrebbe ottenuto o meno il permesso di citare dall’archivio dell’autrice: quella che che leggendo pare un elemento centrale del testo (cioè appunto l’ambizione di Shapland di prestare le proprie parole a McCullers affinché questa possa autonarrarsi, e al contempo ragionare sull’ambiguità di questa ambizione) è in realtà intervenuto solo in un secondo momento, con l’arrivo del divieto di riportare citazioni dirette.
[Alt Text: il salotto della casa di Carson McCuller, ora di proprietà della Columbus State University e trasformata in un centro studi dedicato alla sua vita e alle sue opere. Nell’angolo fotografato è possibile vedere un caminetto e, di fianco, uno scrittoio. Sopra il caminetto è appeso un ritratto dell’autrice. Fonte.]
L’ambiguità di questo dato non passa inosservata: Shapland racconta del proprio timore nello scoprire le trascrizioni:
I became afraid that, in the very process of trying to know her, I would somehow change her.
Avevo il timore che, nel tentativo di stesso di conoscerla, l’avrei in qualche modo cambiata.
Il pezzo più importante di questo puzzle, cioè la relazione affettiva fra McCullers e Mercer, alimenta il suo senso di inadeguatezza:
I didn’t trust the discovery of Carson’s relationship with Mary that I found in the transcripts, in part because I suddenly didn’t trust myself as a reader.
Non mi fidavo della scoperta della relazione di Carson con Mary che avevo trovato nelle trascrizioni, in parte perché d’improvviso non mi fidavo di me stessa come lettrice.
E se Shapland non si fida di sé stessa come lettrice, come può chiedere a noi, che leggiamo il suo libro, di fidarci di lei come autrice? È in questa sospensione dell’incredulità, in questa fede cieca nel potere dell’autonarrazione, che sta la potenza di questo testo.
Nell’opera di Shapland non ci sono le “prove” dell’esistenza delle relazioni di McCullers con altre donne, in parte perché i vincoli legali le impediscono di citare direttamente da buona parte del materiale a sua disposizione, ma soprattutto perché non è questa la sua preoccupazione autoriale. Che McCullers abbia amato, riamata, delle donne, Shapland lo sa dal momento in cui legge quel primo scambio di lettere fra Carson e Annemarie, e il suo lavoro successivo non è quello accademico di chi studia la vita di un* personaggi* famos*. Anzi, se “cercare le prove” è una componente integrante del lavoro di ricerca, è evidente che non è questo il lavoro di Shapland dal momento che è lei stessa a scrivere:
... and so I must have been reading into her queerness, seeing what I wanted to see. I must have been a partisan of the gay agenda. Already I was suspicious of my own desire for “proof”.
… Dovevo essere io a leggere nella sua queerness, a vedere quello che volevo vedere. Dovevo essere una partigiana di una agenda gay. Ero già sospettosa del mio stesso desiderio di una “prova”.
Il sospetto nasce quindi perché Shapland sa che la sua ricerca è per natura impossible: vuole trovare il modo in cui McCullers avrebbe (ha?) raccontato sé stessa, e raccontarsi nel farlo. La domanda che Shapland sembra porsi è: McCullers era lesbica? Amava Annemarie? E Mary Tucker, la sua insegnante di piano? E la scrittrice Katherine Anne Porter? Se le lettere e la autobiografia incompiuta di McCullers sembrano indicare di sì, Shapland allora sembra domandarsi: interpreto così quello che leggo perché voglio che lo sia? Perché mi rivedo in lei e nelle sue parole e dichiarare Carson lesbica equivale a rinnovare e rafforzare il mio coming out? E c’è poi la terza domanda, che mi sono fatta leggendo: che differenza fa? Nessuno può raccontarsi fino in fondo né essere letto fino in fondo, e la verità della narrazione è già in questi tentativi. Mi pare questo quello che Shapland dice quando parla, per esempio, della autobiografia incompiuta di McCullers:
Carson’s story of failed and unfinished attempts at her autobiography suggests that there are numerous obstacles between writing and self – soul – reification. It is impossible to reveal the full swath of the self on the page, in fiction or in memoir, just as it is impossible not to reveal parts of it.
La storia dei tentativi falliti e incompiuti di Carson di scrivere una sua autobiografia suggeriscono che ci sono molti ostacoli fra lo scrivere e la reificazione del sé – dell’anima. È impossibile rivelare l’interezza del sé sulla pagina, sia essa fiction o memoir, così come è impossibile non rivelarne delle parti.
Ma questa impossibilità non è un buon motivo per desistere anche perché la posta in gioco (conoscersi, conoscere l’altr*) è troppo alta. Scrivere storie, scrivere di sé, scrivere lettere, andare in terapia, sono tutte attività cui McCullers si dedica con generosità, quasi con testardaggine. È la sua terapista a dirle, dopo una serie di sedute particolarmente significative:
“You stand at the threshold of really coming into your own, and I would say it’s about time” (“Sei sulla soglia di dare davvero il meglio di te, e direi che era ora”).
A seguito di una lista di aggettivi con cui McCullers è stata più o meno esplicitamente definita da chi ne ha scritto (la disperata, la manipolatrice, l’ubriacona, la malata) Shapland fa seguire una frase che credo rappresenti molto onestamente il suo lavoro: “None of these is my Carson” (“Nessuna di queste è la mia Carson”). E l’uso del pronome possessivo a dire il vero è fin nella prima pagina del libro, la cui dedica recita: “For your Carson” (“Per la tua Carson”).
Considerare l’autore o l’autrice di un libro amato come “proprio” è un sentimento che mi è familiare: questo testo mi racconta, mi offende vedere quest’altro sulla bocca di qualcuno che sento non lo capisce, e via così. Non è questo però il tipo di “possesso” che trapela dalle pagine di Shapland. Un primo moto di appropriazione infatti lo ha fin da quando, al Ransom Center, legge le prime lettere di McCullers, prima ancora di aver letto anche solo qualche pagina dei suoi romanzi. Non è tramite l’arte creativa di McCullers che Shapland sviluppa un’affezione nei confronti dell’autrice, è tramite la sua queerness. McCullers è di Shapland come sono sue tutte le donne che l’hanno aiutata a definirsi lesbica.
Durante la sua residenza in casa McCullers, la confusione dei piani studiosa e oggetto di studio si acuisce: Shapland fa il bagno nella sua vasca, si muove negli spazi che la scrittrice ha abitato fin da bambina, osserva i vicini e paragona l’atmosfera conservativa e opprimente di Columbus a quella dei sobborghi di Chicago dove è cresciuta lei stessa. I suoi occhiali, la sua macchina da scrivere, il suo accendino, contengono, muti, i gesti di McCullers e consentono a Shapland di immaginarsela in quelle azioni.
The house and I carried on a conversation, even if it didn’t always answer my questions.
Io e la casa portavamo avanti una conversazione, anche se lei non rispondeva sempre alle mie domande.
Come possono, gli oggetti, rispondere? C’è un che di imbarazzate nel maneggiare gli oggetti altrui, nel leggerne le parole più intime:
The letter closes with Carson declaring that there isn’t a single word loving enough to call her. I imagine Mary blushing when she receives this letter. I imagine her quietly delighted. Is this projection?
La lettera si chiude con Carson che dichiara che non esiste una sola parola sufficientemente affettuosa per chiamarla. Mi immagino Mary arrossire mentre riceve questa lettera. La immagino silenziosamente deliziata. È una proiezione?
Il libro di Shapland fa tante cose. La prima, più evidente, è restituire McCullers all’archivio queer a cui appartiene, “calling out and naming [a] kindred spirit” (“richiamando e nominando uno spirito affine”). La seconda è ricordarci come l’onere di dimostrare e quello fra due persone è stato amore è quasi diabolico (“nor love can be proven, “né l’amore può essere provato”, specie a fronte di una serie di forze avverse (archivi censurati, matrimoni di facciata, eufemismi). La terza è delineare un rapporto complesso fra lettrice e autrice, fra ricercatrice e scrittrice: l’identificazione è un approccio viscerale e parziale a quello che si legge, ma è senza scusarsi che Shapland racconta che è stata questa la sua motivazione accademica. Confrontarsi con il desiderio, sicuramente poco deontologico, “for a Carson more willing to be open about her sexuality, for a coming out more obvious and recognizable and in print” (“di una Carson più disposta ad aprirsi sulla sua sessualità, di un coming out più ovvio e riconoscibile e scritto”), è un’operazione che Shapland fa esplicitamente restituendo così al suo sé professionale una complessità che raramente mi è capitato di veder analizzata.
Infine, questo libro gioca con i generi, primariamente con la biografia, che diventa narrazione non solo della vita di qualcun* ma anche di come questa vita è emersa agli occhi di chi ne scrive (Shapland menziona Suite per Barbara Loden come altro esempio di biografia su questo doppio binario). Anche il memoir viene piegato in forme interessanti: della vita di Shapland ci vengono raccontati dei frammenti, sparsi ma estremamente intimi, e quello che ne emerge non è tanto la storia di una vita, e nemmeno la storia di un coming out, ma soprattutto la storia di una scelta di autonarrazione. Per esempio, Shapland racconta di una lunga storia d’amore con una ragazza che tutti consideravano solo la sua coinquilina, e pertanto legge nelle reticenti allusioni con cui le relazioni omosessuali di McCullers sono descritte dalle sue biografie, ciò che lei stessa ha provato:
…any miscommunication could have been a denial of what I thought was real. Everything was so freighted.
… ogni fraintendimento poteva essere una negazione di ciò che credevo fosse reale. Tutto era così carico.
Un altro elemento biografico che le due donne condividono è la malattia cronica: McCullers è costretta a letto per lunghi periodi da diversi problemi di salute, e lo stesso vale per Shapland che soffre di dolore cronico. In un capitolo in cui Shapland accenna alla sua diagnosi di PTSD, immagina come avrebbe risposto Carson alle domande del test, e nel riportare le parole di incoraggiamento che Mary le scriveva sembra quasi ripeterle a sé stessa: “Go gently, go gently” (“Vai piano, vai piano”).
Insomma, pur non avendo, leggendo il libro di Shapland, una visione chiara e lineare della sua vita, ne conosciamo i momenti chiave: il dolore di una relazione tenuta nascosta, la gioia liberatoria del suo coming out, l’insoddisfazione verso la vita accademica, la solitudine del suo dolore cronico. Questi sono i pilastri attorno ai quali lei sceglie di narrarsi, le boe a cui ancora la sua visione di sé.
Ed è quest’ultimo aspetto ad avermi maggiormente colpito di questa lettura: Shapland ripete più e più volte come non si finisca mai di comprendersi e di raccontarsi, e ciascuna storia altrui che incrociamo diventa un pezzo da aggiungere alla nostra, una chiave di lettura del sé in più. Di recente ho pensato (e anche detto), ascoltando una persona raccontare di bisbocce adolescenziali e dinamiche familiari e canzoni amate e autobus persi, che avrei potuto ascoltarla per sempre – adesso mi pare che la ragione più profonda per cui mi sono sentita così, per cui mi capiterà di sentirmi così ancora e ancora, è che nell’autonarrazione altrui io esploro la mia. Cercando di capire cosa l’altra persona sta cercando di dire di sé io mi interrogo su come io voglio dire me stessa, e riporto nella mia stanza di terapia, nei messaggi che scrivo e in quello che dico a chi amo questa fusione di storie mie e altrui. Mi ha colpito leggere il libro di Shapland perché rende trasparente un processo che sento sobillare in me nell’ombra, esemplificandolo con una storia che mischia l’ossessione accademica, l’orgoglio per la propria identità, e l’amore per le storie.
Tutte le traduzioni sono a cura di Ludovica.
Ludovica C. ha 27 anni e fa il dottorato in Economia a New York ma in realtà vorrebbe solo leggere tutto il giorno. Puoi seguirla su Twitter.
UN FILM
Granny’s dancing on the table (Hanna Sköld, 2015)
(Attenzione agli spoiler: la trama viene discussa per intero!)
[Alt Text: frame da Granny's Dancing on the Table. La protagonista Eini si trova all'esterno, inginocchiata di fronte a un ceppo su cui è piantata un'ascia. Eini ha lunghi capelli biondi e indossa una giacca a vento, e ha qualche schizzo di sangue sul viso. Poco distante da lei c'è un secondo ceppo, su cui sono poggiate una teiera e due tazze oltre che, sul lato, un'altra ascia di cui è visibile soltanto il manico. Sullo sfondo e fuori fuoco si può vedere una casa costruita in legno. La costruzione dell'inquadratura è molto efficace perché posiziona Eini, il sangue e l'ascia sulla parte destra, schiacciando le stoviglie sulla sinistra, e in questo modo crea fra loro un vuoto attraverso cui la visione della casa diventa elemento di unione. Ed è in effetti così: nella casa, proprio come nell'inquadratura, coesistono la brutalità dell'abuso e la vita quotidiana scandita da pasti e faccende domestiche. Fonte.]
Una fiaba comincia di solito con la classica formula «c'era una volta» e l'ordinata esposizione dei personaggi e delle circostanze che costringeranno lə protagonista ad affrontare e superare una situazione avversa. Granny's Dancing on the Table, realizzato nel 2015 dalla regista e sceneggiatrice svedese Hanna Sköld, è per molti versi una fiaba, ma illustra subito il problema da risolvere senza fornire spiegazioni o appigli: dopo un'enigmatica scena in cui due feti sembrano combattere e strangolarsi a vicenda all'interno del grembo materno, appare una ragazzina con la faccia pesta e il sangue rappreso sotto al naso, seduta al buio con lo sguardo perso. Si tratta della protagonista Eini, che in voice-over prende a raccontare una storia. Non la storia rapida di come, o da chi, sia stata picchiata, bensì quella di sua nonna e della sua sorella gemella, Lucia, sfollate di una guerra senza nome che trovano rifugio in una casetta di legno abitata dal quieto Harald.
Prende così avvio un racconto che, sdoppiandosi, corre su due binari che si avvicinano fino a riunirsi: le avventure della nonna e di Lucia, illustrate in stop-motion, si alternano a brevi scene della vita di Eini, che continua a vivere con suo padre nella casa appartenuta a Harald. Come in un incanto, dopo l’arrivo delle due sorelle attorno alla casa cresce una foresta folta e fitta, che isola l'inconsueto ménage e costringe ciascunə dei tre a bastare a se stessə e allə altrə. A Lucia e soprattutto a Harald, che finiscono per sposarsi, questo non dispiace: Harald ama la pace e l'ordine e intende vivere senza turbamenti, approfittando del silenzio per studiare e conoscere il mondo attraverso l'affidabile mediazione dei libri. La nonna è però chiassosa e irrequieta, e ben presto è incinta senza sapere di chi. Viene dunque allontanata per lo scandalo causato, ma non prima che il bambino, futuro padre di Eini, nasca al sicuro della casetta di legno e sia affidato alle cure della più stabile coppia sposata. Cominciano così le meravigliose peripezie della nonna per il mondo: grazie alle sua abilità di pianista e di amante, riesce a conquistarsi un nome e una fama e accede così alla buona società. Viaggi e ricchezze, gioielli e pretendenti: questa nuova vita, piena di brividi e soddisfazioni, le è possibile solo perché è finalmente libera dall'incantesimo del silenzio che avvolge la casetta di legno, e la corrispondenza fra sorelle fa sì che anche Lucia possa assaporarla per interposta persona, attraverso i racconti vividi e particolareggiati che interrompono, anche solo per la mezz'ora dedicata alla lettura, la lenta routine del matrimonio e della maternità. Lucia resta prigioniera, sia del proprio desiderio di scappare che dell'incapacità di farlo, sia del suo ruolo domestico che della scarsa soddisfazione che ne ricava, e che la deprime. Harald non conosce la tenerezza e disprezza lo svago, ed è chiaro che sperava che dopo l'esilio la cognata sarebbe sparita per sempre come una macchia ben strofinata. Le lettere che vengono depositate nella piccola cassetta delle lettere, e i dischi che talvolta le accompagnano, irrompono nella sua tranquillità facendola a pezzi, rendono Lucia malinconica e distraggono il bambino dagli studi casalinghi che ben presto gli vengono imposti. Mentre nella casetta di legno si ripetono all'infinito noiosi elenchi di fiumi e capitali, come se il mondo fosse una sterile banca dati da riordinare nella propria memoria, Lucia attraversa quegli stessi fiumi e visita quelle stesse capitali, perché per lei il mondo è ora qualcosa di cui poter fare esperienza – caotica e inebriante.
Harald distribuisce schiaffi e carezze quando compare una nuova lettera a increspare la sua giornata e a suscitare in Lucia reazioni impreviste, e inevitabilmente il grammofono scompare dal mobile della cucina. A Lucia non resta che struggersi in silenzio: l'esistenza vissuta vicariamente attraverso le lettere della sorella è sempre meno possibilità e sempre più oggetto di amara invidia, tanto più se paragonata alle sberle, ai soldi e alle provviste che terminano, a una figlia piccola che muore. Lo sforzo di mantenersi salda ed equilibrata è evidente agli occhi del nipote-figlio, che osserva con dolore le sue difficoltà e al contempo assimila la gestione familiare brutale e tirannica di Harald. Anni dopo, padre single della piccola Eini, continua a far valere la consuetudine del silenzio e del ritiro sociale, se necessario con la forza. Costringe Eini a inutili inventari delle poche stoviglie presenti in casa e allo studio delle medesime liste di date e toponimi, e le sue rare aperture all'affetto sono innaturali e impacciate, a riprova forse che il metodo della violenza si apprende con maggior facilità rispetto alle vie dell'amore.
[Alt Text: frame da Granny's Dancing on the Table. Una delle bambole usate per le parti di racconto in stop-motion sfoggia due lunghe trecce nere e ha gli occhi verdi, e indossa un cappotto pesante e un berretto. La tracolla della sua borsa è rosa. Fonte.]
La biforcazione delle sorti della nonna e di Lucia propone e lascia sospeso una dilemma in cui spesso ci dibattiamo: sono possibili, per le donne, soltanto due destini, e mutualmente esclusivi? Dobbiamo scegliere fra la sicurezza materiale della landa del patriarcato, che ci isola in una casetta col pretesto di proteggerci dalle minacce esterne e ci lascia così indifese sotto al pugno maschile, e una libertà tuttavia inconciliabile con il desiderio di essere amate e di godere di affetti duraturi? L'accesso alle relazioni eterosessuali non può che esserci garantito dalla nostra disponibilità a restare silenziose e a non posare alcun disco sul piatto del grammofono, vale a dire dalla nostra completa adesione alla regola del padre? Le personagge di Granny's Dancing on the Table possono essere suddivise in donne che scappano e donne che restano, e la decisione che prendono non è mai indolore, o priva di conseguenze. Chi rimane paga infatti il prezzo della permanenza con la sottomissione, mentre chi se ne va rinuncia all'amore lasciando indietro una sorella o unə figliə, che restano intrappolatə nella foresta stregata – e a loro volta sottopostə alla scelta binaria fra il rispetto (e infine l'interiorizzazione) degli squilibri della casetta e, semplicemente, la perdita totale di sé. Mentre medita la fuga, Eini, ben consapevole di ciò che dovrà abbandonare e distruggere, immagina di amputarsi una mano: se si cresce nel sopruso, (ri)entrare nel mondo tuttə interə non è un'opzione.
È piuttosto l'abuso, dunque, a non consentire vie intermedie né compromessi, e chi spera di ingentilire il violento è vittima di un'illusione che somiglia a un incantesimo malvagio che ci paralizza e ci impedisce di fuggire. Il film mostra che, per attraversare la foresta che la separa dalla libertà, Eini necessita di supporto, così come per uscire da una relazione abusante è vitale poter contare su una rete di protezione. La nonna di Eini, esemplare aiutante proppiana, le fornisce coi suoi racconti la capacità di immaginarsi fuori dalla casetta, lontana dal padre, e le offre il conforto dell'affetto affinché il ciclo dell'abuso si interrompa. Non solo: il dialogo con Eini si oppone anche al silenzio spaventoso e innaturale in cui è cresciuta, e che è una delle condizioni fondamentali del perdurare della violenza domestica per lunghi periodi di tempo. L'apertura all'unità minima della socializzazione, vale a dire un significativo dialogo a due, condurrà Eini al rifiuto dell'agorafobia paterna, della sua diffidenza verso la compagnia, e di qui alla scoperta di nuove possibilità di rifugio e ripartenza, magari presso nuovə e sconosciutə aiutanti: incamminarsi è difficile e penoso, ma dopo poche ore di strada le casette si moltiplicano, diventano villaggio, e scendendo fra le strade si potranno udire i suoni delle persone e delle attività.
Così come aveva limitato le informazioni sui vagabondaggi della nonna, lasciando i rapimenti di Lucia ed Eini all'immaginazione di chi guarda, Hanna Sköld evita di mostrare anche solo i primi secondi della nuova vita di Eini dopo lo scioglimento dell'incantesimo. Questa fiaba non comincia con «c'era una volta» e non si conclude con «e visse per sempre felice e contenta». Che Eini viva libera e alle sue condizioni, però, è concesso sperarlo.
Grazie a Ludovica per aver contribuito a Ghinea! Ci leggiamo a fine settembre!
Un abbraccio!
Francesca, Gloria e Marzia