Benvenut_ ad una Ghinea speciale per parlare del film dell’estate, Barbie, diretto da Greta Gerwig. Buona lettura!
[Alt Text: Ma gouvernante - My Nurse - Mein Kindermädchen, scultura di Meret Oppenheim (1936, 1967). La scultura è composta da un piatto d’argento sul quale è “servito” un paio di eleganti scarpe da donna. Le calzature bianche sono legate con lo spago, i tacchi sono sormontati da balze di carta, come si usano per ornare gli arrosti portati in tavola. Fonte.]
Aula di bambola
Uno dei miei peggiori fallimenti pedagogici è stato proporre la visione del film Lady Bird di Greta Gerwig a una mia classe di seconda superiore, indirizzo Costruzioni Ambiente e Territorio. Una rarità per un istituto tecnico, un’eccezione nella mia carriera: una classe a maggioranza femminile. Il film che fa al caso nostro! Una storia di affermazione teen, pensai, il ritratto di una personalità complessa, il racconto del suo attrito con le aspettative e i valori della comunità provinciale che la circonda: di certo le ragazze si riconosceranno nella fatica di Christine “Lady Bird”, rideranno delle sue disavventure perché simili, se non uguali, ai loro drammi quotidiani. Mi sbagliavo. L’odiarono, e la fecero a pezzetti.
Le mie allieve trovarono inconcepibile la scena del balzo volontario fuori dalla macchina in corsa, ridicola l’insistenza sullo pseudonimo creativo, capriccioso l’attrito costante della figlia con una madre la cui premura leggevano come esercizio ragionevole di protezione ed economia. Umorismo e causticità resi inassimilabili dalla barriera linguistica (da brava insegnante pignola, imposi la visione in lingua originale e la stesura di un testo di commento al riguardo), di Christine “Lady Bird” restarono il manierismo vanesio, l’insensibilità ingiustificata nei confronti di amicizie e familiari, i comportamenti isterici con i fidanzati. Non certo un esempio positivo, e fu questo il mio errore di metodo: pensare che da una storia che, personalmente, avevo giudicato riduttiva al limite dell’insignificanza, potessero filtrare segnali educativi utili ad un pubblico principiante, proprio perché semplificati, e circoscritti entro una trama trasparente. Sbagliai perché di conseguenza non riuscii in alcun modo a difendere o giustificare il nervosismo collerico di Lady Bird davanti alle pertinenti sferzate della classe: “Prof, perché Lady Bird tratta così male sua mamma?”, “Certo che non riuscirà mai a trovarsi un ragazzo se fa così la matta!”, “Chi si crede di essere per pretendere che tutti la chiamino col soprannome che vuole lei?”.
La logica inscalfibile delle menti quindicenni aggirò ogni esca vezzosa preparata da Gerwig, annientò ogni ammiccamento all’egotismo dell’osservatrice, si rivoltò ed esigé da me – l’educatrice, il soggetto supposto sapere – una spiegazione sul senso di una storia così insoddisfacente (“Sarebbe stato più bello vedere la parte in cui vive a New York, non a Sacramento!”), l’utilità di un personaggio così sgradevole. La parentesi di intrattenimento con finalità educative, il momento pedagogico mascherato da attività ludica, richiesto dalla classe stessa, mi veniva spedito dritto indietro, la bambola Lady Bird abbandonata scomposta sul pavimento dopo pochi attimi di gioco convulso.
Chi, se non l’adulto, dona il giocattolo al bambino, si chiede Walter Benjamin in Giocattolo e gioco, e mi chiedo se quest’estate le mie ex alunne riconosceranno dal cartellone di Barbie al cinema il nome Greta Gerwig come lo stesso della regista di quel filmetto assurdo che la loro sciroccata prof di inglese le costrinse a vedere in seconda. Se all’epoca avevo proposto una storia radicata nella biografia autentica di Gerwig, pronunciata in toni sia affettuosi sia canzonatori, era perché immaginavo che la classe avrebbe provato un certo piacere nel riconoscervi un frammento del proprio vissuto presente. Lo scontento e la noia della classe mi dissero in termini chiari, senza alcun bisogno che singole bocche lo articolassero, che una narrazione di successo dev’essere ben più posticcia, più esagerata, più colorata, deve abbagliare, ammaliare e creare un mondo talmente altro, così stupendo, da essere irriconoscibile.
Benjamin accenna a un vago senso di colpa, un malessere nei confronti del bambino che l’adulto proietta sull’assortimento di diverse taglie e dimensioni proprie del bambolotto, della bambina, della donna: suscita una certa ansia osservare la riproduzione in scala ridotta di una figura adulta strapazzata da manine infantili, oppure, all’opposto, una miniatura creduta inerme che si scopre capace di forza e fantasia distruttrici. Così mi sentivo, mentre correggevo la pila di compitini pieni di banalità ed errori grammaticali, impotente e imbarazzata davanti alla distruzione, e al palese accantonamento dell’insegnamento che avevo mascherato da gioco. Oggi, mi chiedo se le stesse ragazze, libere dall’imposizione scolastica, sarebbero in grado di cogliere e apprezzare l’esplosione estetica di Barbie sotto la maschera dell’obbligata morale edificante. Per me, mi rendo conto, è troppo tardi: davanti ai magenta e ai turchesi del film, vince un gradevole effetto nostalgia: c’è davvero stato un momento della mia crescita in cui ho creduto alla promessa che lavorando sodo sarei potuta diventare una donna forte e indipendente!
Non esiste un mondo di pura fantasia infantile secondo Benjamin, qualsiasi gioco accettato dal bambino riflette, ripete e all’occorrenza scombina strumenti e gesti cui l’adulto ha già dato un preciso significato. L’imitazione si manifesta naturalmente nel gioco, non nel giocattolo, ogni bambina vive immersa in una cultura, e tramite il gioco cristallizza la sua comprensione dell’abitudine: mangiare, dormire, vestirsi, lavarsi. Giocando ancora e ancora, ripartendo daccapo ogni volta, l’azione diventa consuetudine, “forme fossilizzate e ormai irriconoscibili della nostra prima felicità, del nostro primo orrore – queste sono le abitudini”. C’è un potenziale sovversivo qui, appostato nella possibilità che la bambina, non trovandolo divertente, smetta di reiterare lo status quo dei gesti, reinventi un comportamento appreso, metta in crisi la tradizione, il vecchio, il solito. Scherzava, ma nemmeno troppo, un mio alunno di quarta (indirizzo Biotecnologie ambientali, schiacciante maggioranza maschile) che ad aprile mi ha chiesto “Prof, ci fa vedere Barbie?”. Se l’uscita non fosse stata programmata ben oltre la scadenza terminale dello scrutinio, mi sarebbe piaciuto molto rovinare il film costringendo la classe a scrivere un testo di analisi con annessa valutazione.
[Alt Text: Meret Oppenheim, Object (1936). La scultura si compone di una tazzina da tè con piattino e cucchiaino coperti di pelliccia di gazzella. Fonte.]
Le Barbie sognano pecore rosa?
Barbie the Movie è un giocattolo, e andarlo a vedere significa stare al gioco: ci sono regole ferree – ben oltre lo sfoggio di un capo rosa –, incredulità da sospendere e una necessaria disposizione d’animo che tolleri due ore di cornucopia carnicina senza sentirsi in dovere di rintracciare ogni rigurgito “politico”. Per essere divertente, il gioco deve anche essere inutile, dispersivo, scoppio senza soluzione. Forse il modo più sano per metabolizzare il marketing straripante del franchise Mattel è esperire il film come una casa dei sogni, non solo perché limiti e norme del Mondo Reale™ esistono per essere ribaltati in Barbie Land, dove basta un balzo delicato per passare dal secondo piano di villette senza pareti al sedile di un’automobile senza motore che si guida da sola. Dalla casa di bambola si può uscire, e se per scrupolo non strattoniamo il film come un pupazzo, è certo che verremo ipnotizzate dal ghigno plastico del fantoccio inanimato, e la scossa perturbante sarà tanto insopportabile da forzarci a imbrigliarla con traballanti spiegoni dei suoi propositi emancipatori e anti-pinkwashing.
Il racconto di formazione delle ragazze è la trama ricorrente di Greta Gerwig, ma è una narrazione imperniata su un paradosso: sembra che, film dopo film, le sue protagoniste siano via via più avulse, sempre più avverse alla nozione stessa di femminilità. Dall’egocentrica Lady Bird, che si reinventa dietro il nome di un insetto (seppur grazioso), a Jo March, testardissimo maschiaccio tutto dedito al lavoro culturale in Piccole Donne, per arrivare ora a una bambola di plastica dalle fattezze così idealizzate da scadere nel caricaturale. Gerwig regista opera nel raggio di distanza tra la ragazza al centro – originale e unica, fedele solo a se stessa, spinta unicamente dal proprio desiderio – e le “altre” al margine, più caute e salde nell’agio del conformismo di genere. Il discorso di Gerwig ribalta l’ordine tra posizioni di confine e dominanti per innestare nozioni filo-femministe non sull’ordinarietà condivisa dell’esperienza presente, ma sulla brillantezza individuale insopprimibile, in netto anticipo sui tempi, incompresa dalle contemporanee – un soggetto cerebrale per il quale il corpo sessualizzato di donna è un ingombro che bisogna imparare a gestire, una zavorra alla sua volontà ambiziosa e sensibile.
È bizzarro, ma anche piuttosto appropriato, che Gerwig prosegua la sua riflessione con un manichino cyborg, rispolverando la più classica delle preoccupazioni esistenziali – che cos’è un essere umano? – e rimbalzando la questione seminale di ogni femminismo – una donna è un essere umano? – per forzarle entrambe dentro la conveniente cornice del girlpower. Di conseguenza, eccoci tutte arenate nella valle perturbante, condannate dalla nostra risposta empatica a immedesimarci sempre più in Barbie con la cellulite, in Barbie depressione, in Barbie sessualizzata dal male gaze fino ad avere il ribrezzo per tutto questo realismo, fino a volerla di nuovo splendente e irreale dentro la sua scatola. Resta comunque Barbie, la amiamo perché è bellissima e alla moda, la odiamo perché è bellissima e fuori dal tempo, immune a qualsiasi moda. Raccontata da Gerwig, infatti, Barbie diventa un Golem di plastica rosa convocato a suon di pensieri mortiferi a protezione del popolo girlboss, una Creatura del dott. Frankenstein composta di brandelli perfetti che cuciti insieme formano curve inquietanti, un Pinocchio che avrebbe di gran lunga preferito restare burattino senza mai conoscere tristezza. Una replicante conscia e grata di esserlo, priva di una “data di termine” imposta dall’azienda, distratta a tal punto da non aver saputo custodire nemmeno un ricordo prezioso che sente sarebbe un rammarico perdere.
Che modello propongono narrazioni del genere alle bambine e alle ragazze? Che rassicurazione o spunti danno alle loro madri, alle adulte con un lavoro diurno e notti funestate dall’ansia? Gerwig sembra avere ben poca fiducia nelle capacità di astrazione del suo pubblico, o perlomeno sembra lei stessa intuire la vertigine dell’inarrivabilità della sua proposta se ritiene opportuno inserire un appunto fuori campo per precisare che, all’apice della sua disfatta, dobbiamo pensare Barbie brutta, anche se il film si rifiuta di smussare lo scintillio di Margot Robbie. Barbie resta dall’inizio alla fine fatta di inscalfibile plastica: dorme sola in un casto letto-scrigno, è garbata e sorridente con tutti senza coltivare confidenza con nessuno, la sua identità è radicata nel suo benessere e nel suo aspetto fisico impeccabile – intesi come assenza di ritenzione idrica. Si attiva socialmente solo per organizzare feste coreografate e ordire colpi di stato che impediscano l’elettorato attivo dei Ken, e non esita ad abbandonare per sempre Barbie Land al fine di inseguire altrove ambizioni personali e solitarie. Barbie friendzona il suo Ken e nemmeno afferra uno speculum per auto-ispezionare la sua vagina nuova fiammante, preferendo affidarsi a un professionista della ginecologia. Se non vogliamo bollarla come sociopatica, ci pensa il film, proprio per bocca di un’adolescente scontrosa, ad affibbiarle un’altra diagnosi, quella di fascista.
Barbie Camerata
Ci rendiamo conto, in effetti, di quanto Barbie sia reazionaria, incasellata nella ripetizione di rituali e tradizioni, animata da una tolleranza condiscendente (a celare un’avversione radicale) nei confronti del “diverso” e del “debole” – un Ken, un Allan, una Midge, una Barbie Stramba – terrorizzata dall’imperativo della conoscenza e della scelta – il rifiuto della Birkenstock-pillola rossa è categorico –, è facile immaginarsi la facilità con cui, pur di garantirsi un guscio di benessere e ordine, aggiungerebbe una camicetta nera al suo guardaroba. L’autoritarismo sordo di Barbie e sodali è tanto più lampante quanto più siamo pronte a percepire come condanna l’identità personale che ciascuna bambola imbullona nella propria professione, che sia Barbie operatrice ecologica o Barbie POTUS. Definizioni e ruoli che, millantando il potenziale ispiratore e l’impatto positivo “goccia a goccia” della rappresentazione, abbagliano e suggestionano. D’altronde, Barbie non può davvero osservarsi di riflesso perché non ha uno specchio, o meglio, ne possiede solo la cornice: può solo guardarci attraverso, e mettersi al centro.
[Alt Text: in una scena del film, seduta al suo tavolo da toilette con boccette e spazzola per capelli sovradimensionata, Barbie sorride, osservando qualcosa oltre, e attraverso, la cornice vuota dello specchio, ma non certo la sua bella immagine riflessa.]
Barbie Stereotipo è una, nessuna, centomila: la sua routine serratissima accumula piacere, svago e sfarzo per incasellare l’operosità di tutta Barbie Land, cementare il ruolo di ciascuna Barbie, e soprattutto limitare l’inventiva di ogni Ken. Se da una parte la solerzia forsennata di Barbie serve a dar(l)e l’impressione che la sua esistenza abbia senso e scopo, dall’altra lo zelo di Ken è un affaccendarsi ormai sfibrato, nient’altro che una smania un po’ ridicola di essere “visto” da Barbie, l’unico modo in cui può davvero esistere, di riflesso. Lo spreco di Ken-ergy è tale da nutrire il sospetto che la crisi strutturale del regime Barbie Land fosse già stata innescata dalla crescente insoddisfazione di Ken, “destinato a vivere e morire una vita di bionda fragilità”. Non ci sono cattivi in Barbie – pure la cricca corporate del consiglio di amministrazione Mattel è abbastanza pasticciona e wesandersonizzata da fare simpatia – e nemmeno l’ammutinamento dei Ken li rende autentici antagonisti. L’iperoggetto del patriarcato, che Ken scopre e importa dalla California, resta solo in potenza un’ideologia di liberazione per i subalterni di Barbie Land, e in pratica si risolve come un concetto fumoso, le cui massime manifestazioni sono la Casa Villa Mojo Dojo e il mansplaining sulle influenze musicali di Stephen Malkmus dei Pavement. La genialità del ribaltamento di prospettiva – Kendom si presenta nelle intenzioni un’utopia emancipatoria alternativa all’egemonia matriarcale – è proprio nel dimostrare come qualsiasi “liberazione” che non miri al riconoscimento dell’altrə è destinata a innescare un ciclo di violente lotte di potere. Barbie non ha intenzione di accogliere le istanze di Ken – il suo bisogno di “contare”, la sua consapevolezza di essere ben più che un bel faccino abbronzato – e insieme alle fedelissime soffoca e umilia ogni suo progetto, dalla modifica della costituzione alla predilezione per l’estetica equestre. La rottura finale è definitiva: nel momento in cui Barbie decide di “crescere”, Ken viene lasciato indietro, insieme a tutta la comunità di Barbie Land, rinsaldata attorno al ritrovato potere esclusivo.
[Alt Text: Esemplare di bambola Bild Lilli, svestita (1955). Le bambole Lilli erano oggetti per adulti prodotti dall’azienda tedesca Greiner & Hausser, ispirate al personaggio dei fumetti Lilli, protagonista delle strisce scandalistiche pubblicate dal quotidiano Bild. La Mattel acquisì i diritti del marchio nel 1964, e dietro la guida di Ruth Handler modificò il design per creare Barbie. Fonte.]
Una volta rimasta sola e diventata umana, che cos’è Barbie? È curioso che il primo passo verso una risposta passi attraverso la tappa dell’essenzialismo spicciolo: una donna nel Mondo Reale è la femmina della specie, e ha una vagina. La scena conclusiva del film – Barbie nella sala d’attesa del ginecologo – è in realtà abbastanza aperta ad interpretazioni (la metafora della transizione resta valida), ma conserva un certo retrogusto TERF che, situando il fuoco del potenziale femminile nella capacità riproduttiva, indica in termini alquanto netti la linea temporale sulla quale Gerwig indirizza il percorso di “materializzazione” di Barbie. Le linee, anzi, perché la frammentazione dell’esperienza femminile renderebbe possibili tantissime diverse avventure identitarie per un eventuale Barbie 2: Barbie Endometriosi? Barbie Contraccezione d’emergenza? Barbie Partoriente? Barbie Madre Surrogata? Barbie Isterectomia? Barbie Menopausa? Sembra quasi che l’affermazione della realtà del sesso biologico oltre il simulacro della femminilità stereotipica di Barbie designi un film come Une affaire de femmes di Claude Chabrol come naturale prosieguo della storia – il primo film che mi è capitato di guardare all’indomani della serata inaugurale di Barbie, chiasmi e paralleli tra le due storie, ovviamente agli antipodi per temi e toni, sono quasi inquietanti. Una giovane madre di famiglia, durante l’occupazione nazista della Francia, inizia a compiere aborti clandestini e ad affittare la stanza in più a un’amica prostituta: attività che se all’inizio servono alla mera sussistenza, diventano presto un mezzo per arricchirsi. Il volto teso di Isabelle Huppert ha dato senso al magone con cui avevo lasciato il multisala la sera precedente, nonostante l’abbuffata di zuccheri e luccichii: desiderare cose belle e possedere contemporaneamente un utero è una combinazione potenzialmente fatale.
[Alt Text: Meret Oppenheim, X-Ray of M.O.’s Skull (Röntgenaufnahme des Schädels M.O.) 1964, stampa del 1981. Radiografia di un profilo umano, presumibilmente identificabile come femminile per l’evidente presenza di gioielli alle orecchie e alle dita. Fonte.]
Stramba™
Lo schiocco di un piccolo cranio di plastica strappato dal resto del suo corpicino e lasciato rotolare a terra: un distinto ricordo d’infanzia, così come la sensazione di ruvidezza della chioma di nylon sui polpastrelli dopo essere stata tuffata in acqua e accorciata con forbici spuntate. Lividi e contorsionismi di Barbie Stramba sono probabilmente gli appigli di umanità più schietti di tutto Barbie. I segni della violenza sono, paradossalmente, un sollievo e una scappatoia: ci ricordano che esiste un cono d’ombra irraggiungibile dalla sorveglianza e dalla programmazione corporate dell’azienda madre: il momento in cui Barbie esce dalla scatola e finisce per davvero tra le manine della cliente target, quando inizia a svolgere la sua funzione fondamentale e più imprevedibile, essere un gioco. La saggezza di Barbie Stramba è gnosi, l’esposizione sul corpo della sua esperienza passata approfondisce il senso di Unheimlich tipico delle bambole – presenze sinistre e allarmanti perché quasi umane, statiche e bonarie, ma potenzialmente pronte ad animarsi – ricordando il senso più profondo già fornito da Freud: è Unheimlich, “perturbante”, anche ciò che era segreto e nascosto alla coscienza, ma è riemerso alla luce. Una rivelazione inaspettata, un’esposizione recalcitrante, la perdita di un assodato senso di familiarità.
Nell’intimità delle camerette delle bambine si svolgono esperimenti importanti: non tanto le prove di civiltà permesse dal “fare come se” del gioco, ma la messa alla prova di resistenze e limiti degli oggetti, scossi e sbattuti fino al punto di rottura, aperti per poterne vedere l’interno, cercarne l’anima. Non è affatto un moto di rabbia, quello della bambina che tortura la sua Barbie, né disprezzo o invidia per l’oggetto dalle fattezze perfette e inimitabili. Charles Baudelaire ne intuisce la tensione ben più astratta, scrive nel breve saggio Morale du joujou (“Morale del giocattolo”, 1853):
La bambina gira, capovolge il suo giocattolo, lo graffia, lo scuote, lo sbatte contro le pareti, lo getta a terra. Di tanto in tanto gli fa ripetere i propri movimenti meccanici, a volte in senso inverso. La vita meravigliosa si ferma. La bambina, come il popolo che assedia le Tuileries, compie uno sforzo supremo; finalmente lo apre, è la più forte. Ma dov’è l’anima? È qui che iniziano lo smarrimento e la tristezza.
Anche Rainer Maria Rilke intuiva che incrociare lo sguardo vacuo di una bambola – che non ci guarda di rimando, né riconosce – causa un disagio primevo, la prima realizzazione della nostra mortalità. Nel testo Puppen (”Bambole”, 1913), Rilke descrive delusione e sconcerto provati rendendoci conto che tutta la fantasia impiegata nel gioco affettuoso con la bambola non basta a darle la carica sufficiente a renderla viva e responsiva. Non ci sarà alcun movimento del giocattolo che non abbiamo previsto e attuato noi stesse. Coltivarne l’anima è un fallimento, una frustrazione che di fatto ci porta a voler distrugge la bambola stessa:
Tu anima-bambola, non creata da Dio, tu anima, scongiurata per capriccio da qualche folletto avventato, tu anima-cosa esalata faticosamente da un idolo e mantenuta in essere da tutti noi, un po’ per ansia e un po’ per magnanimità, tu anima da cui nessuno può davvero staccarsi, tu anima mai realmente indossata da nessuno, ma sempre conservata in deposito, protetta da ogni sorta di fragranze d’altri tempi (come le pellicce d’estate) – guarda, ora ti sono entrate dentro le tarme. Sei rimasta indisturbata per troppo tempo. Ora sei scossa da una mano insieme cauta e ardita – guarda, guarda, tutte le piccole falene che escono svolazzando da te, indescrivibilmente mortali, già cominciano a prendere congedo nel momento stesso della loro nascita.
Se vedere il film Barbie è un gioco – per adulte smaliziate che, si presume, hanno già da tempo capito che la bambola non ci risponderà, e fatto i conti con i danni causati dal proprio autoinganno – distruggiamolo, apriamolo per vedere se ha un’anima. Scoprire che non possiamo più giocare con i pezzi della bambola che abbiamo rotto, capire che ci siamo fatte belle per nulla, non può essere peggio che progettare un ordigno atomico, e poi farlo esplodere per davvero.
[Alt Text: Meret Oppenheim, Glove (for Parkett no. 4), 1985. Paia di guanti scamosciati, in pelle tinta di colore azzurro-grigio, decorati con ricami e serigrafie rosa che imita le vene delle mani. Fonte.]
Altri saggi, recensioni e riflessioni su Barbie:
Cristina Resa, Barbie, IGN
Lavinia Mannelli, Barbie senza desiderio, Snaporaz
Nina Power, Socialism or Barbie-ism, Compact
Rebecca Liu, Barbie, Another Gaze
Leslie Jamison, Why Barbie Must Be Punished, The New Yorker
Giusi Palomba, Barbie, il cinema ancora da tradire e l’anticapitalismo da immaginare, Substack
Amanda Montei, Parenting in Barbie, Substack
Intervista: Greta Gerwig Brought Indie Spirit to Barbie, W Magazine
Intervista: The Official Barbie Watchlist: Greta Gerwig on the classic film influences behind her fantasy-comedy-kind-of-musical, Letterboxd
Podcast: Barbie invites you into a Dream House stuffed with existential angst, NPR
Ci rileggiamo, come d’abitudine, alla fine del mese. Buone vacanze!
Francesca, Gloria e Marzia
Ho visto il film e sono incuriosita da qualsiasi commento al film competente e originale. Ho lasciato però la lettura di questo articolo a metà.
Lo trovo un po' troppo saccente. I tanti riferimenti sono non spiegati, per cui se non si è passata la propria vita a studiare e ad acculturarsi (qualsiasi cosa voglia dire) bisogna continuamente andare a cercare il significato di ciò che si legge. Come "cornucopia carnicina" o "valle del perturbante". La lettura non è lineare ma intermittente, poiché la scrittura è costruita ed elitaria.
Si fatica a cogliere la tesi di chi scrive, ci si perde tra le subordinate.
Forse semplicemente non rientro tra il pubblico target dell'articolo. Eppure ho 34 anni, leggo da che ho memoria, amo l'italiano parlato e scritto, mi informo quotidianamente.
Si può avere una versione dell'articolo meno accademica?