Benvenutx al primo numero autunnale di Ghinea. Questo mese Graziana Marziliano firma un bellissimo pezzo su Alice Ceresa. Carla Gambale ha incontrato e intervistato la redazione della rivista femminista sudcoreana Korean women’s newspaper (여성신문), in visita a Napoli lo scorso 24 giugno. Luigi Narni Mancinelli ci parla della strage nel rifugio “Cuori liberi”. Buona lettura!
La fine dell’età delle bambine
di Graziana Marziliano
[Alt Text: ritratto fotografico di Alice Ceresa. L’autrice indossa una camicia a righe colorate e porta l’orologio al polso, è seduta davanti a un muro coperto di graffiti, sorride senza guardare in camera, ma in basso alla sua destra. Fonte.]
Il termine inglese girlhood non ha un’immediata ed esatta traduzione in italiano. Si tratta di infanzia o di adolescenza? Fanciullezza o gioventù? I confini, del tutto inventati, di questo tempo mitico sembrano smaterializzarsi mentre ne si parla in maniera goffa, nel tentativo di dire cosa si era a una determinata altezza della vita. Uno di questi tentativi – tutt’altro che goffo – viene fatto dalla scrittrice Alice Ceresa, svizzera di origine che ha vissuto gran parte della vita a Roma, nel suo romanzo Bambine pubblicato da Einaudi nel 1990, ultima opera edita dall’autrice, dopodiché verrà pubblicato postumo nel 2007 il Piccolo dizionario dell’inuguaglianza femminile a cui Ceresa aveva lavorato prima della sua morte.
L’indagine sulla “condizione esistenziale femminile” è la ragione dichiarata della scrittura ceresiana. A questa spinta universalizzante e alla ferma volontà di allontanarsi il più possibile dall’autobiografismo, però, si accompagna una scelta situata dei contesti, dei toni e dei mondi narrativi costruiti dalla scrittrice. Nel caso di Bambine siamo in un interno domestico borghese: mobili in legno scuro, tappezzeria imprescindibile, case simili tra loro, come i loro abitanti. È questo il contesto, quello del nucleo familiare tradizionalmente inteso che Ceresa decide di disintegrare. La maestria dell’autrice sta nell’inquadrare su più piani e a diverse grandezze e altezze l’ambiente familiare, il quale risulta – per il tipo di scrittura chirurgica e ironica che Ceresa applica – assolutamente privo di alcuna familiarità: i gesti, l’aspetto dei genitori, perfino il cibo che viene ingoiato nel contesto domestico hanno un effetto tragicamente perturbante.
La pubblicazione precedente a Bambine, ovvero il racconto di forte carica simbolica, La morte del padre del 1979 (e da poco ristampato), termina con una profezia: dato che i membri cominciano a non essere più ostaggi della “motivata coercizione della parentela” nel momento in cui morirà anche la madre, “allora la famiglia esploderà”.
Sia La morte del padre che Bambine esplorano il territorio ormai deserto dell’autorità paterna. Il romanzo Bambine, infatti, è composto da quadri simili al racconto del 1979: si racconta la vita di due sorelle – anche qui una figlia maggiore e una minore – che vivono all’ombra di un padre terribile e affascinante, di cui da un lato subiscono i tratti autoritari, dall’altro cercano di copiarli e metterli in pratica per potergli tenere testa, modalità di cui un esempio significativo è costituito dallo sguardo del genitore. Lo sguardo del padre è giudicante e attraversa tutto l’ambiente domestico, comprese le bambine, che si trovano sempre sotto inchiesta e non riescono a rispondere o a fronteggiare il processo simbolico che perennemente operano gli occhi del padre. Destinate a doverlo sopportare finché il loro mondo corrisponderà alle mura dello spazio domestico, e forse anche oltre, le due sorelle possono però “sperimentare di nascosto”, allenandosi in privato a riprodurre lo sguardo paterno per cercare di sostenerlo e di simulare una risposta, o almeno di rendersi insensibili al suo giudizio.
Patrizia Zappa Mulas paragona il metodo narrativo ceresiano allo studio che un entomologo fa di un formicaio, con la differenza che chi scrive e chi legge si scoprono a un certo punto “nella stupefacente condizione della formica”. E le formiche in questione sono le bambine, il loro “sguardo asimmetrico” (gli occhi della maggiore più in alto e della minore più in basso) è la nostra chiave d’accesso al mondo e a quei misteri inspiegabili che sono l’infanzia, la famiglia e la crescita. Il metodo narrativo di accesso alla loro visione sono principalmente i loro disegni: un elemento portante della narrazione in Bambine è costituito dai disegni delle due sorelline che trasformano l’aspetto della loro realtà.
All’inizio, per le due bambine vivere un’infanzia all’ombra di un padre terribile e di una madre-comparsa sembra appiattirne le distinzioni di età in una complicità senza parole. All’interno della casa – che corrisponde al mondo – le due protagoniste esplorano e dissezionano le sue componenti e noi con loro le osserviamo. Se il padre da un lato – che si dichiara “signore e padrone” della casa – definisce le bambine “marmaglia inappetitosa, urlante e defecante. Parassite di non gradevole aspetto, ingombranti e disordinate”, la madre è una figura di sfondo incastrata tra la cucina e il luogo proibito della camera da letto. Simili sono le altre figure del quartiere che le bambine osservano, vagliando l’istituzione familiare al microscopio: madri che allattano bambini immaginari, mariti violenti, e poi personaggi tanto seri da apparire ridicoli, come una moglie dormiente “con la veletta e il cappellino”.
È interessante come Ceresa, tenendo un tono rarefatto, scientifico e distaccato su tutto ciò che riguarda la vita adulta, scelga al contempo di prestare fiducia inestinguibile al punto di vista delle bambine, alla loro verità fanciullesca, che d’altronde è l’unica da ascoltare nel momento in cui si vuole indagare lo spazio misterioso dell’infanzia. Quest’ultima attraversa una primissima fase, scandita da preghiere e poesie dal significante masticato e da faccende domestiche che le bambine si rifiutano di fare se non avendo in cambio un compenso: preferiscono invece altre attività come, ad esempio, rubare i cani e i gatti del vicinato, levando loro collari e guinzagli di modo da garantire l’anonimato per poterli tenere in casa, o vagare sonnambule verso la camera proibita dei genitori.
Quando avviene il passaggio verso la pubertà, il racconto comincia a sfumarsi e la voce narrante stessa, che analizza scientificamente gli avvenimenti, a stento riesce a stare dietro alle osservazioni e ai sentimenti delle due sorelle durante questo periodo.
Il corpo è diventato una sorta di contenitore metamorfico, da cui non si può scappare, esso improvvisamente è al centro dell’attenzione di tutti gli adulti, e di una nuova fase di repressione paterna: perché al corpo che cresce risponde una maturazione sessuale, rendendo il mondo esterno un pericolo per due corpi (non di maschi) in sviluppo. Passata questa prima fase repressiva, della figura del padre si perderanno le tracce durante la crescita. Le due bambine scelgono – come scrive Laura Fortini – “l’inaddomesticato” in quanto precisa coscienza di non voler sottostare al verbo paterno. Infatti, riguardo la “maturazione sessuale” nutrono la più profonda indifferenza, ritenendola una trasformazione (il ciclo mestruale, la prima peluria, il gonfiarsi del petto) praticamente accidentale. Il divenire femminile è un accidente, e i ruoli di genere a questo annessi vengono subìti spesso con sforzo e disagio soprattutto dalla figlia minore, la quale abbandona le amicizie d’infanzia esclusivamente maschili per motivi “reconditi”, si disinteressa immediatamente alle differenze anatomiche e rifiuta la maternità come pratica repellente.
Ceresa cerca il segno della fine dell’infanzia e il passaggio a qualcosa di altro, quell’ingresso seppur “dormiente nel regno delle donne”, il racconto della pubertà viene fatto principalmente tramite i ricordi e le rievocazioni delle due sorelle dopo molti anni: qui insistono resistenze e rappresaglie più che confessioni, “memorie scambiate” tra le due menti che non ricordano o non vogliono ammettere di ricordare la metamorfosi del proprio corpo o piuttosto l’intero sistema di sorveglianza e repressione che su quel corpo si attiva. L’argomento decisivo su cui le due sorelle si scontrano – una che si integrerà in società, l’altra che rifiuta di farlo – è proprio il cambiamento di percezione della popolazione maschile attorno a loro: attratta dalla figlia maggiore e dal suo nuovo corpo, suscita le furie della minore che non ha “alcun interesse per i nuovi piccoli padri in miniatura”. E su questa discussione, finita in disaccordo, Ceresa scrive che così è finita forse anche la loro infanzia.
Viola Ardeni riconosce in Scrivere dalla parte delle bambine che le due pubblicazioni principali di Ceresa (e aggiungerei anche di altri testi rimasti manoscritti e inediti come “Eloise”) scelgono l’infanzia come punto di partenza al fine di dimostrare le coercizioni educative che cercano già di incasellare le bambine all’interno di un sistema polarizzante del genere – come sottolineava anche Elena Giannini Bellotti. Si potrebbe dire che Ceresa scrivesse nel progetto di decolonizzare l’infanzia da voci adulte soverchianti e narrazioni stereotipate già vent’anni prima di Bambine, dal suo esordio nel 1967 con La figlia prodiga.
Il libro originariamente era dedicato a Annemarie Schwarzenbach, la prima prodiga che non fu riaccolta dal contesto familiare. Laura Fortini scrive che prodiga era forse Alice Ceresa stessa che aveva lasciato “la sicurezza della famiglia d’origine per intraprendere strade appassionate ma incerte, oggi si direbbe precarie” e che ha cominciato con la sua disobbedienza a compiere un’azione erosiva sulle strutture morali e narrative dell’ordine patriarcale. C’è anche una lettura interessante di Teresa de Lauretis secondo cui la prodigalità della figlia – che la rende un problema per i suoi genitori – ha una forte connessione col lesbismo dell’autrice (ad esempio de Lauretis sostiene che la dissimulazione che la prodiga deve praticare per poter difendersi dal mondo sia assimilabile al passing), tuttavia questa lettura è discussa ma sembra opportuno prenderla in considerazione. In ogni caso, La figlia prodiga si discosta dalla forma del romanzo in quanto la sua unica protagonista non vuole essere narrata, dato che la narrazione comporta – per come concepita tradizionalmente – un atto violento di codificazione, specialmente per le figure femminili, sia di interpretazione coatta delle sue azioni, piuttosto che l’ascolto delle sue parole. Come scrive Ceresa, la figlia prodiga vuole essere una persona, un essere umano e non un personaggio, tanto che il libro finisce con la promessa di una narrazione autonoma, che è il compito che Ceresa si era riservata dai portare avanti in futuro. Ha lavorato infatti su una trilogia mai pubblicata, di cui La figlia prodiga era il primo tassello, riguardante “la mort de la partie féminine de toute personne. Celle qui subit, souffre et ne sait pas” (la morte della parte femminile di ogni persona. Quella che subisce, soffre e non sa). Alla “parte femminile” si potrebbe far corrispondere non un’essenza della femminilità, cosa che a Ceresa non è mai interessata, ma una parte oppressa, quella parte di inuguaglianza che è dentro le persone.
È utile notare come nel Piccolo dizionario dell’inuguaglianza femminile (né nei suoi scritti preparatori, a quanto sembra) non sia prevista la voce “Infanzia” o “Bambina”: forse Ceresa considerava questa particolare situazione come uno spazio politico di libertà, cruciale per la sperimentazione del sé, per questo sceglie l’infanzia come specola della soggettività che precede la compromissione con il mondo dell’età adulta e la moralizzazione dei costumi. Nonostante il contesto culturale in cui lə bambinə sono immersə anche oggi, lavorare sull’immaginario dell’infanzia come luogo affermativo e di resistenza risulta prezioso per il futuro.
Nella sua opera, Ceresa porta avanti frequentemente una riflessione non solo contenutistica sullo svolgersi e il proliferare dell’inuguaglianza, ma anche sulla forma con cui questa inuguaglianza viene narrata e quindi perpetrata. Dalla sua prima pubblicazione in contesto italiano del 1967 la scrittura Ceresiana si è sempre rivolta ai soggetti che non trovano posto nella grammatica eteropatriarcale nel mondo, dedicando tutta la sua attenzione alle figlie prodighe e degeneri, affinché possano trovare il proprio autonomo spazio narrativo.
Piccola nota biografica su Alice Ceresa
Il passaggio di Alice Ceresa (1923-2001) nella letteratura italiana è avvenuto alla stregua di quello di una cometa: dall’alto. Per chi non ha fatto in tempo a vederla, risulta in apparenza troppo distante per comprenderla a pieno, dall’altro lato lei in silenzio aveva già notato praticamente tutto. In una lettera che Ceresa inviò a Simone de Beauvoir insieme al manoscritto de La figlia prodiga, scrive che teme che questa sua prima pubblicazione avrà una ricezione tardiva, se mai l’avrà, in contesto italiano: questo è quello che è successo, l’opera ceresiana presenta solo tre pubblicazioni autoriali in Italia e una per la Svizzera, una pubblicazione postuma e tutto un materiale di bozze, riscritture e palinsesti mai pubblicato (conservato nell’Archivio Svizzero di Letteratura) a indicare una inesausta attività di scrittura. Nasce a Basilea e cresce a Bellinzona nella Svizzera italiana, va via di casa giovanissima e vive e lavora a Zurigo spostandosi spesso sulla costa francese. Pubblica il racconto Gli altri nel 1943. Poi lascia la Svizzera per Roma negli anni Cinquanta dove conduce una vita riservata, scrive sempre e lavora per la rivista Tempo Presente e Botteghe Oscure. L’esordio vero e proprio è nel primo numero della collana «La ricerca letteraria» di Einaudi, La figlia prodiga del 1967, che è un lungo discorso metanarrativo su come la letteratura e i generi letterari canonici non siano adatti a raccontare un personaggio femminile. Nel 1972 mette da parte il progetto del Piccolo dizionario dell’inuguaglianza femminile che verrà pubblicato postumo nel 2007 a cura di Tatiana Crivelli. Pubblica nel 1978 La morte del padre, un fulminante racconto lungo dalla carica fortemente simbolica che mostra la fenomenologia dei pensieri, emozioni e ragionamenti dei familiari immediatamente successiva alla perdita del pater familias, di cui si profilava ormai “una morte prevedibile”. Nel 1990 esce il romanzo Bambine, un romanzo che forse potremmo definire realista nel quadro generale della scrittura ceresiana, che racconta l’esistenza femminile agli inizi con tutte le sue conseguenze.
Muore nel 2001 a Roma, dove ha vissuto con la compagna Barbara Fittipaldi, la quale ha costituito il Fondo Ceresa nell’Archivio Svizzero di Letteratura a Berna. Il suo cane si chiamava Radclyffe, in omaggio a Radclyffe Hall di Il pozzo della solitudine.
Volevo scendere fino nel fondo delle parole scritte con lettere rotonde sul foglio davanti a me, ma non mi riusciva di scavare le lettere e le guardavo con gli occhi incerti di qualcuno che porta in sé il dubbio di saper vedere. Ecco com’ero: un grande desiderio senza direzione e un sordo rodere di essere.
[Alt text: ritaglio di una fotografia che ritrae la famiglia Ceresa dove si vede la piccola Alice all’età (presumibilmente) di cinque o sei anni, in piedi con le braccia incrociate dietro la schiena, indossa un completo nero con il colletto bianco e una gonna plissettata, calzette alte fino al ginocchio, ballerine nere lucide. Accanto a lei, seduta su una panchina in giardino, sua madre con un completo bianco su cui porta delle perle, le gambe incrociate, le calze bianche. Fonte.]
Link utili
Un altro articolo sul tema: Adalgisa Giorgio, 'Bad Girls' in the 1970s and 1990s : Female Desire and Experimentalism in Italian Women's Writing
Un altro libro sulla girlhood questa volta contemporaneo e una recensione: Maria Paola Corsentino, Viaggio nel corpo: “Girlhood” di Melissa Febos
Il sito dell’Italian Girlhood Studies Research Network.
Graziana Marziliano nasce in provincia di Bari e vive a Bologna. Si laurea in Italianistica con una tesi riguardante prospettive femministe e queer nella narrativa italiana contemporanea. Cura la rassegna di teoria e letteratura transfemminista queer String Figures per Lo Spazio Letterario, associazione che si occupa di letteratura contemporanea a Bologna, di cui è tra i fondatori. Di recente è entrata a far parte dell’Italian Girlhood Studies Research Network. Ha scritto un racconto che tratta di adolescenza e violenza omolesbobitransfobica nel sud Italia che verrà pubblicato in antologia.
K-Feminism
di Carla Gambale
La Korean Wave sta conquistando tutt*. Tra k-pop, k-drama e tutti i k-content in generale ci sembra di conoscere la cultura e la popolazione coreana, standardizzata dalle rappresentazioni. Basti pensare ai k-drama più famosi fuori dalla Corea: Crash Landing on You, Goblin, Hometown Cha-cha-cha e tantissimi altri, che ci mostrano uomini coreani estremamente dolci, servizievoli, ovviamente bellissimi, sempre gentili, pronti a sacrificarsi per la propria amata, dai saldissimi principi morali e donne coreane delicatissime ed eteree, che hanno sempre bisogno di qualcuno che porti loro l’ombrello per non bagnarsi o che le avvolga in un abbraccio mentre stanno erroneamente attraversando col rosso.
Questa tendenza alla rappresentazione così educata, moderata, e basata sui principi della famiglia, del totale equilibrio tra bene e male e della pietà filiale viene dal Neoconfucianesimo. Di origine cinese, nel momento in cui questa filosofia venne esportata in Corea, tra il XII e il XIII secolo, fu applicata a ogni aspetto della vita. Ed è stata proprio questa ideologia a far perdere alle donne quel poco che avevano. Fino a questo momento le donne potevano tranquillamente risposarsi se vedove, avevano diritto a far parte dell’asse ereditario, erano le detentrici di tutta la tradizione rituale legata allo sciamanesimo, non erano di certo più le donne di Silla, che versavano le tasse lavorando e potevano diventare sovrane, come la saggia Seondeok, però avevano ancora qualcosa. Il Buddhismo in poco tempo venne completamente soppiantato dall’ideologia Neoconfuciana che impose regole molto stringenti, ad esempio: dall’età di sette anni donne e uomini vennero separati e da allora le donne non poterono più mostrare il proprio viso in pubblico; all’interno delle abitazioni furono confinate nelle cosiddette stanze interne, non poterono più far parte dell’asse ereditario, né risposarsi dopo la vedovanza. L’età minima del matrimonio venne abbassata a tredici anni e chi non si sposava entro i venti venivamultata. Le donne non potevano più non solo organizzare i riti, ma neanche prendervi parte. Qual è quindi il ruolo della donna in questa realtà? Servire e riverire il marito e fargli fare bella figura a qualsiasi costo. Il divorzio poteva essere richiesto solamente dai mariti e c’erano ben sette buoni motivi per chiederlo: disobbedienza verso i suoceri, adulterio, gelosia, malattia, eccessiva favella, furto, sterilità. Da questo momento in poi, la condizione della donna non è più migliorata fino ai tempi moderni.
Le prime femministe coreane come Kim Maria e Kim Helen, diffusero le ideologie femministe nel primo Novecento, ma in quel momento storico l'obiettivo principale era l’indipendenza nazionale dal Giappone, ottenuta nel 1945, e fino agli anni Ottanta, non c’è stato spazio per i diritti delle donne. La liberazione della Corea dal Giappone non segnò però una svolta nella diffusione del femminismo nel Paese, né un periodo di pace e tranquillità. Sotto i governi estremamente autoritari di Kim Il Sung in Corea del Nord e quello di Syngman Rhee in Corea del Sud, la Corea si apprestava a un altro terribile momento storico, quello della Guerra di Corea, il più grande conflitto del periodo della Guerra Fredda. La popolazione si vide divisa dalle forze occidentali che si spartirono il territorio, dividendo ancora oggi molte famiglie. La Guerra di Corea si concluse con la divisione al 38° parallelo della Penisola e il rafforzamento dell’autorità dei due leader: Kim Il Sung e Syngman Rhee che instaurarono delle vere e proprie dittature. Rhee andò in esilio nel 1960 ad Honolulu e la Corea del Sud, rimasta senza il punto di riferimento che aveva regnato per 12 anni, iniziò una transizione verso la democrazia. Rhee aveva imposto una severa censura, eliminando anche i suoi oppositori politici, e non c’era quindi spazio per la progressione delle idee femministe, ma anche negli anni successivi non ci fu un miglioramento. La parentesi democratica durò pochi mesi, la Corea del Sud non vide alcun tipo di miglioramento e i coreani erano convinti che una democrazia di stampo occidentale non si sposasse bene con l’etica e la cultura asiatica: anche per questo motivo salutarono con entusiasmo il colpo di stato militare di Park Chung-hee del 1961. Venne sciolto il Parlamento, tutti i politici e gli uomini d’affari furono allontanati dai loro incarichi e negli incarichi pubblici furono impiegati solo militari. Le elezioni vennero soppresse, l’associazionismo vietato. I bar, le balere, i cafè e tutti i luoghi di aggregazione di divertimento furono costretti a chiudere. La Corea stava vivendo un periodo di profonda morigeratezza e tutto era improntato a far crescere l’economia: non c'era spazio per nuovi ideali, soprattutto per quelli femministi che inneggiavano alla libertà, alla parità dei diritti e che non portavano alla crescita economica.
Dopo il colpo di stato del 1980, Chun Doo Hwan proclamò di nuovo la legge marziale con una durissima repressione, censura, uccidendo migliaia di civili, soprattutto giovani universitar*, che si batterono, protestarono, manifestarono contro il regime. Con la successiva legislatura si allentò la censura: Roh Tae Woo salì al governo nel 1987 e fu subito troppo preso dalla preparazione delle Olimpiadi dell’anno successivo, evento che avrebbe portato la Corea all’apertura internazionale: tutto era improntato a far capire agli stranieri che la Corea fosse al pari dei Paesi Occidentali; l'obiettivo del capo di Stato era infatti far entrare la Corea nel G20. E in questo momento di nuovo fermento culturale, che coincise con l’allentamento del governo militare e la successiva democratizzazione del paese, nacque il Korean women’s newspaper (여성신문). A Seul, prima sede del giornale, alla fine degli anni Ottanta nacquero nuove associazioni studentesche, e poiché la stampa fino a quel momento era stata controllata a livello centrale, il bisogno di avere un’informazione libera, non di parte e accessibile a tutti fece sì che proprio in questo momento nascessero vari quotidiani come Hankyoreh (1988) e Munhwa Ilbo (1990). Mancava però un taglio femminista all’informazione, un giornale che trattasse anche del divario di genere, che sensibilizzasse sulle problematiche delle donne e per questo l’associazione di 1000 azionist*, che avevano come obiettivo la parità di genere, diede vita al Korean women’s newspaper il primo giornale al mondo improntato sulla gestione delle notizie, secondo un’ottica di genere, implementando la discussione sulle discriminazioni, per promuovere i diritti civili delle donne e promulgare la parità di genere. Il Women's Newspaper aveva l’obiettivo di scoprire e diffondere contenuti che cercassero di dare un impatto positivo alla vita delle donne, parlando di politica, sicurezza delle donne, società, salute. E lo ha tuttora.
Sono tante le iniziative portate avanti dal giornale, che collabora con diverse associazioni femministe tra cui Korea Women's Cultural Life Association. Una delle tante iniziative è la Giornata Coreana, organizzata da Oh Se – Yon, svoltasi a fine giugno a Napoli e ad Avellino: in quella occasione ho avuto il piacere di parlare con Oh Se yon, Soon-ja Choi e Si-hyeon Lee, facendomi raccontare la nascita del giornale e le maggiori conquiste delle associazioni femministe.
[Alt Text: fotografia in bianco e nero scattata in strada: due donne coreane immortalate di spalle, da lontano, passeggiano su un marciapiede sotto la pioggia, sorreggendo un ombrello. Crediti: Han Youngsoo 서울 Seoul 1956-1963 Han Youngsoo Foundation. Fonte.]
Dopo il boom economico coreano avutosi dagli anni ’70, il tasso di scolarizzazione si è alzato vertiginosamente e la Corea è diventata il paese con il più alto tasso di lettori di quotidiani, ma anche di lettori, il 92% dei giovani legge più di un libro all’anno. Questo comporta una grandissima varietà di quotidiani e di produzione editoriale. Il Women’s newspaper è un quotidiano letto in tutta la Corea, con 12 divisioni provinciali, qual è la sua storia e com’è cambiato negli anni?
A rispondere è Soon-ja Choi, responsabile del Women’s newspaper della sezione di Incheon.
Il Women’s newspaper è l’unico giornale della Corea del sud che si occupa di trattare notizie sociali, politiche, focalizzandosi sulle questioni di genere attraverso articoli e testi di critica. Questo giornale nasce dalla volontà di 1000 azionist* che nel 1988 si sono mess* insieme per fondare qualcosa di completamente nuovo. Quest’anno il quotidiano festeggia 35 anni di attività e la speranza è quella di diventare sempre più seguiti, puntando soprattutto sulla diffusione delle attività del quotidiano attraverso festival ed eventi artistici. Le donne sono il pubblico più grande del quotidiano e soprattutto dei k-content, vorremmo sfruttare questa ondata di interesse per il nostro paese come punto di appoggio per creare una rete di scambi culturali con le donne in Europa e nel mondo. In Corea abbiamo fatto molti passi avanti, ma l’Europa rimane sempre all’avanguardia per quanto riguarda le questioni di genere. Guardiamo alla gestione delle politiche di genere europee con grande ammirazione e puntiamo a creare delle connessioni con movimenti europei per poter arrivare alle conquiste che le donne hanno avuto in Europa.
Qual è l’impatto che ha oggi il giornale sulle politiche di genere in Corea del Sud?
Negli anni ’80 pubblicare un giornale con queste premesse e questi contenuti è stata una sfida immensa. La posizione sociale delle donne nella società era di completa subalternità rispetto agli uomini, questo assetto sociale era influenzato dall’ideologia neoconfuciana, che era quella dominante: l’uomo era a capo della famiglia e le donne ricoprivano un ruolo assolutamente secondario, godendo di diritti inferiori in tantissimi settori. Fino al 2008, le donne non avevano alcuna indipendenza economica. Fino al matrimonio tutto era gestito economicamente dal padre, una volta sposate i beni economici, i conti correnti, tutte le entrate e le uscite venivano gestite dai mariti. Questo rendeva le donne dipendenti dai mariti e non avevano alcuna sicurezza se fossero uscite dal matrimonio. Questo sistema è stato abolito nel 2008 e il Women’s newspaper ha avuto un ruolo primario nella proposta e promulgazione della legge che portasse, finalmente, libertà economica alle donne. Attraverso la diffusione delle petizioni, delle notizie e la sensibilizzazione sull’argomento, oltre che grazie all’appoggio delle associazioni femministe, l’opinione pubblica ha aperto gli occhi sulla questione e nel 2008 si è infine arrivati a questo grande risultato. Forti di quello che abbiamo ottenuto, vogliamo lavorare sempre meglio per ottenere nuovi obiettivi che diano alle donne la possibilità di vivere al meglio.
Strettamente legata alle attività del quotidiano, c’è la Korea Women's Cultural Life Association, un’associazione femminista che si occupa del benessere delle donne ed è presieduta da Si-hyeon Lee, che ce ne racconta la storia.
“Cultural Life” è un concetto piuttosto diffuso in Corea. La vita culturale è una parte importantissima dell’esistenza umana, tutto ciò che è cultura arricchisce l’esperienza e serve alle persone per migliorare la propria condizione. L’associazione nasce proprio con questo proposito, aumentare le occasioni in cui si può sperimentare la vita culturale per migliorare la condizione delle donne. L’associazione nasce nel giugno del 1974, un momento di crescita economica, ma politicamente duro, con la legge marziale. Per le donne che vivevano in uno stato di reclusione all’interno della sfera familiare, la vita culturale non esisteva. Per le donne era impossibile coltivare la cultura, che era appannaggio degli uomini. Ed è proprio in questo bisogno che si inserisce l’associazione, provando a sviluppare una vita culturale che abbia le donne come protagoniste e che fosse liberamente fruibile. La crescita culturale deve essere diffusa nel quotidiano e deve puntare ad un arricchimento non solo individuale, ma collettivo e questo è il motivo per cui l’associazione è nata.
Quali sono gli obiettivi primari dell’associazione?
Creare tante attività, sfilate, concerti che possano portare piacere e influenzare in modo positivo la vita delle donne, soprattutto in quei luoghi in cui c’è più bisogno di supporto emotivo e umano. Questi eventi aiutano le donne a uscire di casa, uscire da situazioni di abuso e violente per godere di uno spazio e un tempo dedicato a loro stesse. Studiamo e identifichiamo le tendenze della cultura, dell’arte, della musica e della moda per veicolarle verso le necessità delle donne, per migliorare la loro qualità della vita. L’associazione sostiene vari eventi culturali creati da donne, promuovendo i lavori culturali svolti dalle donne e creando degli spazi sicuri in cui le donne possono scambiare le loro esperienze culturali. L’associazione ha iniziato a promuovere eventi culturali anche all’estero e attraverso le nuove tecnologie coinvolgere donne da tutte le parti del mondo.
Quali sono le conquiste più grandi dell’Associazione?
Sicuramente la soddisfazione e la gioia nel vedere le donne che partecipano attivamente e con leggerezza agli eventi. Il COVID ha cambiato e in molti casi peggiorato l’equilibrio familiare: ritrovare le persone dopo anni di stop negli eventi è stato impagabile. Assicurare queste attività e avere uno spazio sicuro è fondamentale nella società ed è il motivo per cui l’organizzazione continua a esistere.
Quali sono i prossimi passi della Korea Women's Cultural Life Association?
L'obiettivo primario è formare una rete per promuovere gli scambi culturali tra associazioni femministe internazionali, creare nuove connessioni che mettano in contatto culture diverse. Vorremmo portare la cultura coreana, la vita culturale coreana in altre nazioni, ma vorremmo soprattutto che la nostra cultura si arricchisse di esperienze e attività di altre donne che ci possano fornire nuove visioni, nuove tendenze. In questo mondo potremmo fare sicuramente dei passi avanti e soprattutto creare una rete sicura che alimenti e arricchisca la vita culturale di tutte le donne.
Carla Gambale è archeologa medievista e professoressa di lettere, studentessa di Lingue e Culture Orientali. Scrive su Tararabundidee e cura il podcast di fumetti Sailor Comics. Recensisce libri e fumetti collaborando con Radio Onda Rossa, Altri Animali e MegaNerd. Cura il Bookish Bookclub della libreria Bookish di Roma.
La strage nel rifugio “Cuori liberi”: un momento di svolta per il movimento antispecista italiano.
di Luigi Narni Mancinelli
È l’alba del 20 settembre 2023. Uno schieramento di polizia e carabinieri fa irruzione nel rifugio per animali “Cuori liberi” a Sairano, frazione del comune di Zinasco, in provincia di Pavia. La scena è simile a quella di tanti sgomberi di centri sociali e occupazioni abitative: le forze dell’ordine attaccano il presidio che le attiviste tengono in piedi da oltre due settimane, manganellano e portano via con violenza le persone; volano insulti e irrisioni, i poliziotti sfondano tutto ed entrano dentro la struttura. Questa volta, però, ad essere violata non è solo la difesa di un luogo o di una esperienza di solidarietà e partecipazione, c’è qualcosa di ben più importante e profondo. L’irruzione della polizia fa infatti largo ai veterinari dell’Agenzia di Tutela della Salute, che compiono l’atto impensabile e tanto temuto dalla resistenza del presidio antispecista: entrati nel rifugio, i veterinari uccidono dieci maiali. Crosta, Freedom, Crusca, Pumba, Dorothy, Mercoledì, Bartolomeo, Ursula, Carolina e Spino. Questi i loro nomi. Un rifugio per animali liberi, un santuario come quello di Sairano, è infatti un luogo dove gli animali non sono più dei numeri, sono invece degli individui spesso strappati da una morte certa negli allevamenti, singolarità a cui si prospetta una vita degna e ricca di amore e solidarietà. Un santuario è un luogo dove convivono diverse specie, per certi versi è un luogo profetico, una anticipazione di un futuro possibile di vita in comune. Di santuari ce ne sono diversi in tutta Italia e sono esperienze sempre significative, che raccontano storie di animali strappati dai macelli o recuperati da torture inimmaginabili: mucche, maiali, pecore, struzzi, asini, cavalli, pavoni, e tante altre specie, a tutte loro viene concessa una opportunità di riscatto e di sopravvivenza, attorniate da un ambiente e un contesto di cura e di amore straordinari. Perché la polizia fa irruzione nel santuario “Cuori liberi”? La risposta a questa domanda è semplice ma contiene una serie di implicazioni piuttosto controverse e gravi. Negli ultimi mesi in Italia si è diffusa tra maiali e cinghiali la Peste Suina Africana (PSA), un morbo molto contagioso e con un elevato tasso di mortalità. L’epidemia ha colpito un contesto, quale quello dell’industria agroalimentare del nord Italia, dove i maiali non sono che numeri, meri oggetti da preservare esclusivamente per poi essere venduti come merce per il consumo alimentare. Per questo motivo, quando la PSA si è diffusa negli allevamenti, senza alcuna pietà e senza nessun tipo di ricerca per salvare le vite degli animali, sono stati massacrati oltre 30.000 suini nel comparto industriale padano. Gli allevamenti industriali della pianura padana sono luoghi terrificanti che stanno avvelenando il territorio con i loro liquami e i loro residui di morte: sono proprio questi luoghi che hanno diffuso la peste suina africana. Una indagine dell’associazione “Essere animali” ha documentato anche il modo violento con cui questi poveri e sfortunati individui sono stati massacrati, con l’uso del gas applicato su larga scala, con una morte lenta e dolorosa. La PSA, dopo aver colpito in questo contesto industriale, è penetrata anche in luogo appartato e protetto come un santuario per animali liberi: in uno spazio sicuro e completamente differente da quello degli allevamenti, si è voluto applicare lo stesso comportamento brutale e violento, a difesa del profitto. Nel rifugio di Pavia, due maiali si erano infettati, ma non tutti erano stati contagiati o mostravano sintomi di malattia: nonostante questa grande differenza, le istituzioni sanitarie hanno voluto ucciderli. Non si è trattato dunque di nessuna “eutanasia”, che le attiviste del rifugio avrebbero potuto benissimo valutare se fosse stata necessaria, ma di un deliberato assassinio. Le istituzioni statali hanno quindi applicato una norma che ha massacrato migliaia di animali per salvaguardare il consumo alimentare di carne suina (e tutto il suo relativo indotto economico) in un luogo nel quale gli animali hanno un nome, sono tutelati in quanto individui, e per questo hanno diritto di essere amati e curati. Questa volontà politica ha mostrato ancora una volta l’asservimento della polizia e delle istituzioni sanitarie locali, veterinari in testa, nei confronti della grande industria. L’enorme dispiegamento di forze che ha violato il santuario “Cuori liberi” non si è minimamente curato di osservare le necessarie protezioni contro la diffusione della PSA: mentre le attiviste in presidio erano vestite con la classica tuta bianca protettiva, i poliziotti calzavano solo delle ridicole coperture sugli scarponi, rivelando il disprezzo per ogni tipo di rispetto delle norme sanitarie. Lo Stato ha voluto colpire i rifugi per dare una lezione. Nessun luogo è al sicuro, nessun luogo è inviolabile se sono messi in discussione i profitti dell’industria agroalimentare. La strage avvenuta nel rifugio di Sairano rappresenta dunque un momento di svolta per tutto il movimento antispecista e della liberazione animale. Il presidio a difesa dei maiali è stato guidato per giorni dalle compagne, che hanno dimostrato tutta la potenza della rivoluzione femminista quando varca ogni confine di nazione o di specie, come avviene da anni in Curdistan e altrove. A questa resistenza diretta fatta con i corpi, dopo le brutalità della dispersione del presidio e, soprattutto, della strage dei maiali, è seguito un moto di indignazione e solidarietà da tutta Italia e da tutto il mondo che ha coinvolto tantissime realtà di lotta. Dopo lo shock per la perdita e il conseguente momento di lutto, questo movimento ha deciso di convocare un appuntamento nazionale per sabato 7 ottobre a Milano, alle ore 14, per protestare contro quello che è successo a Sairano e per rilanciare la difesa dei rifugi. Oggi la “Rete dei Santuari” guida di fatto il movimento antispecista in Italia, forse perché ha sviluppato negli anni una serie di pratiche concrete, di “pratica dell’obiettivo”, si sarebbe detto un tempo in un altro contesto politico, che ha ben seminato una idea di solidarietà tra specie. La manifestazione di Milano sarà un momento importante per lo sviluppo di questo movimento. Sarà importante esserci e cogliere degli spunti positivi per incrementare le pratiche e le idee di lotta. Il movimento antispecista è spesso svalutato, visto dall’esterno come estremamente minoritario o velleitario, ma, come i rifugi per animali liberati, esso è un movimento che parla al futuro: il futuro è quello della sopravvivenza del pianeta, oltre ogni crisi ambientale e climatica, oltre ogni dispositivo di potere e di sterminio, verso un modello di convivenza e solidarietà che tocchi il cuore, la tenerezza e i corpi di qualsiasi essere vivente su questo pianeta.
Luigi Narni Mancinelli, editor e scrittore, ha pubblicato "Una partita lunga un secolo. Cent’anni della Salernitana (e di Salerno)", Albatros, 2019 e "Una disperata felicità. Storie di uomini e donne in fuga", Plectica, 2014. Su Mastodon è barliario@mastodon.world
Trascorrere dodici ore a Hebron.
Il reddito di cittadinanza, di recente soppresso dal governo in carica, è stato un indispensabile sostegno per molte categorie vulnerabili, comprese le vittime di violenza domestica: ne parla Altreconomia.
Lo scorso fine settimana si è svolto a Bologna il Some Prefer Cake, festival di cinema lesbico. Per chi non ha potuto partecipare, diversi titoli rimarranno disponibili in streaming fino al 5 ottobre qui.
Quanto invidiamo Clara Ramazzotti che è andata a vedere il nuovo spettacolo di Rachel Bloom? Molto.
Un’intervista ad Alberta Basaglia: ottima occasione per rileggere le parole di Eugenia Campanella su Franca Ongaro.
Dialogo con Polly Barton, autrice di Porno. Una storia orale.
Cosa significa aver bisogno di un aborto nelle periferie delle città brasiliane.
CALENDARIO
Marzia presenterà il suo libro di poesie a Milano, al Caffè letterario Colibrì. L’appuntamento è per il 9 ottobre alle ore 19 con Marilina Ciaco.
Segnaliamo la sedicesima edizione del festival Archivio Aperto, che si terrà a Bologna tra il 25 e il 29 ottobre 2023 con il titolo “The future is memory”. Archivio Aperto è il primo festival italiano che promuove l’utilizzo del materiale d’archivio ed è organizzato dalla Fondazione Archivio Home Movies. Il 5 ottobre verrà annunciato il programma completo, ma sappiamo già che due ospiti del festival saranno Sara Poma e Sofia Borri: racconteranno il podcast Figlie, un viaggio attraverso le fratture e le crepe delle storie personali e di quella collettiva. Inoltre, la retrospettiva annuale “Storie Sperimentali” sarà dedicata all’artista e filmmaker femminista lesbica radicale Barbara Hammer (1939-2019, USA). Verranno proiettati in pellicola 16mm dodici suoi film e video, nei quali il tema del corpo lesbico si intreccia con la riflessione sulla cura, sulla storia e la memoria personale, sulla materia e i sensi come spazio e linguaggio del pensiero.
FATTO DA NOI
Sul canale di Antonio Syxty, la prima presentazione di Liricologismo (il primo libro di poesie di Marzia).
FATTO DA VOI
Anna Maniscalco ha letto uno dei casi letterari dell’estate: Tomorrow tomorrow and tomorrow di Gabrielle Zevin.
Lou Pinelli ha scritto di Simone de Beauvoir che legge Virginia Woolf, ma davvero lo fa in lingua inglese?
Ringraziamo Giuliana, Carla e Luigi per i loro contributi, e ti diamo appuntamento al 31 ottobre.
Un abbraccio!
Francesca, Gloria e Marzia