Benvenutə a Ghinea, una newsletter sconcertata ma non senza parole. Questo mese leggiamo Luna Saracino, che discute di presenza femminile nel mondo del cinema, e Amy Appiani, che abbiamo interpellato a proposito dell'ultimo romanzo di Han Kang. Buona lettura!
Cinema, femminile plurale.
di Luna Saracino
In un mondo sempre più maschile, ancora ci chiediamo: dove sono le donne?
Fin dalla sua nascita, alla fine dell’Ottocento, il Cinema è sempre stato appannaggio degli uomini, per ragioni economiche, politiche e sociali (ma soprattutto politiche).
Siamo a cavallo tra Ottocento e Novecento: la maggior parte degli uomini è impegnato a difendere il proprio paese in guerra e in alcuni casi continua a lavorare nelle campagne, la crisi economica è palpabile e alle donne è richiesto di uscire di casa per contribuire ad aumentare il reddito familiare. Da un lato le donne sostituiscono gli uomini impegnati a combattere nelle fabbriche, dall’altro li affiancano nelle campagne per aumentare la forza lavoro. In alcuni casi, la società crea nuovi ruoli ritenuti “adatti” alle donne, all’ombra di uffici, palazzi e scrivanie.
In mezzo a questo tumulto nasce il Cinema - e nasce in una società rigorosa e legata a un’immagine femminile piuttosto retrograda, al punto che è facilissimo trovare donne a lavoro con paghe nettamente inferiori a quelle degli uomini. Va da sé, quindi, che all’interno dell’industria cinematografica le donne risultino quasi completamente assenti: se ci sono, ricoprono ruoli legati al “pregiudizio”, quindi soprattutto d’ufficio, amministrativi e di assistenza (agli uomini), dentro e fuori dal set.
Le donne nel cinema esistono, in realtà, ma spariscono dietro alla cronaca sociale e politica dell’epoca per le stesse ragioni sociali, economiche e politiche di cui sopra. Viaggiando nel tempo e arrivando fino a oggi, anche se le donne hanno acquisito diversi diritti dal punto di vista civile, sociale e politico, il ruolo della donna all’interno della cosiddetta “Macchina Cinema” (terminologia derivata dall’omonimo documentario-inchiesta corale diretto nel 1978 da Silvano Agosti, Marco Bellocchio, Sandro Petraglia e Stefano Rulli).
Certo, è possibile accedere praticamente a ogni ruolo possibile sia tecnico che artistico, ed è sempre più frequente trovare registe, operatrici, montatrici e tecniche. Eppure i conti non tornano e ancora oggi, con il 2025 alle porte, se proviamo a cercare su Google “cinema italia donne” il risultato è sconcertante: cliccando sui link in sequenza ci troviamo di fronte a due tipologie di informazione su tutte:
Articoli di giornale che “esaltano” una maggiore presenza di donne nei piani di produzione del 2024 (quasi come si trattasse di qualcosa di insolito e “straordinario”, appunto);
Studi parziali o approfonditi sulla mancanza di ruoli femminili nel mondo del cinema, soprattutto dietro le quinte (ma in fondo anche davanti alla macchina da presa).
[Alt Text: l’attore Josh O’Connor e la regista Alice Rohrwacher fotografati in un momento di pausa sul set de La chimera. Lo scatto è di Simona Pampallona. Fonte.]
Di fianco a tutto questo, c’è la presenza di due istituzioni private che si occupano di tutelare, supportare e incentivare il ruolo della donna nel mondo del cinema italiano: da un lato Mujeres del Cinema, collettivo nato letteralmente dal basso attraverso la creazione di un gruppo Facebook; dall’altro WiFT&M (Women in Film, Television & Media), associazione no profit nata negli USA negli anni 70 e con tantissime sedi in tutto il mondo - tra cui una in Italia. Lo Stato, invece, è pressoché assente, se non attraverso l’approvazione di bandi di concorso per incentivare il ruolo della donna nel cinema.
La presenza di bandi di concorso rivolti alle donne crea, però, una sorta di cortocircuito: da un lato, le produzioni forzano in qualche modo l’inserimento di figure femminili all’interno di cast, crew e organizzazione generale, così da ottenere più punti; dall’altro, permane una questione cruciale legata all’effettiva accessibilità ai bandi stessi, con criteri a volte davvero troppo severi per essere rispettati fino in fondo.
Viviamo una realtà distorta e distopica, in cui il solo essere donne ed esistere come tali è un atto politico e sovversivo, quasi rivoluzionario e per certi versi coraggioso, e in cui muoversi in un mondo ancora oggi tragicamente maschile ci fa sentire sbagliate, impreparate, inadeguate - dentro e fuori dal set.
Secondo il progetto di ricerca “Dea - Donne e audiovisivo” promosso dal CNR - Istituto di Ricerche sulla Popolazione e le Politiche Sociali nel 2019, solo il 12% dei film a finanziamento pubblico italiano è stato diretto da donne. Tra questi, solo il 9,2% riesce ad avere una distribuzione nelle sale cinematografiche.
La ricerca prosegue e i numeri aumentano, questo è vero, ma sono comunque preoccupanti: il 25,7% delle produzioni è gestito da donne e le sceneggiatrici sono solo il 14,6%. Spostandoci su mestieri più pratici e fisici (e - quindi - considerati maschili, in una lente tutta maschilista, ça va sans dire - n.d.r.) le foniche, operatrici, macchiniste sono meno del 10%. Scende al 6,2% il ruolo delle direttrici della fotografia e ad appena il 6% se ci spostiamo nel mondo della post produzione e della composizione delle musiche per il cinema.
Le donne al cinema ci sono, ovviamente - non è nostra intenzione cadere in questo tranello - ma dove si trovano esattamente? Nei reparti di casting, trucco, costumi e scenografia, principalmente.
C’è una verità indiscutibile: negli ultimi anni il MiBAC (Ministero per i Beni e le Attività Culturali) ha avviato tantissimi progetti per migliorare la condizione delle donne nel mondo del cinema (si possono trovare sulla pagina dedicata al Focus sulla Parità di Genere), stanziando fondi per incentivare la produzione di film scritti, diretti e/o prodotti da donne. Basterebbe poco, anche in questo caso: una legge che creasse equilibrio tra le parti e imponesse l’assunzione di donne al pari degli uomini sarebbe già un ottimo punto di partenza. Risulta difficile, però, pensare a una società evoluta ed equa se dobbiamo ancora chiederci cos’è possibile fare per consentire alle donne di lavorare (sentite com’è assordante il rumore della distopia, vero?). La ciliegina sulla torta è sempre la stessa, che torna imperterrita in ogni ambito dell’esistenza femminile (come se non fosse già abbastanza difficile così): a preoccupare non sono solo le percentuali così basse nelle assunzioni delle donne nel campo del cinema, ma nelle percentuali così alte per quanto riguarda le molestie dentro e fuori dal set cinematografico. Molestie di cui - purtroppo - non ci si stupisce più, tanto sono strutturali e “abituali”. Molestie che quasi nessuno sceglie di denunciare, per paura di perdere il posto di lavoro. Quasi, per fortuna, perché le eccezioni esistono e vanno celebrate: è il caso di Amleta, collettivo di attrici femministe intersezionali nato con lo scopo di esporre e contrastare la disparità e la violenza di genere nel mondo del cinema e che si impegna, quotidianamente, a monitorare la condizione della donna nei luoghi di lavoro.
[Alt Text: la regista nera Ava DuVernay fotografata sul set del film Selma e circondata dalla crew, tra cui un operatore di macchina. Fonte.]
Proviamo a fare un passo indietro e chiediamoci: perché il ruolo della donna è così problematico anche in un settore apparentemente progressista com’è quello del cinema (in Italia e non solo)? Sono le donne ad andare maggiormente al cinema (secondo uno studio svolto nel 2023 e nel 2024), sono le donne ad appassionarsi maggiormente alle immagini in movimento e sono sempre le donne quelle a cui ci si rivolge per pianificare, organizzare, immaginare, realizzare. Qual è il tassello mancante? Perché abbiamo bisogno ancora oggi di incentivi e investimenti per migliorare la condizione delle donne nel cinema alle porte del 2025?
Il problema è strutturale, così come lo è qualsiasi questione legata al genere femminile nel mondo del lavoro. Ed è strutturale anche e soprattutto perché molto spesso sono le donne stesse a derubricare loro stesse, a rimpicciolirsi in ruoli scomodi e ritagliati da altri reparti (al cinema e non solo), nel tentativo di mantenere un lavoro, per il quale devono lottare già con unghie, denti e braccia, nella speranza di poter mantenere anche la propria dignità.
Il dato più recente - e forse più disarmante - ce lo restituisce l’EAO, l’Osservatorio Europeo dell’Audiovisivo: in Italia c’è una donna alla regia di un film ogni circa sei registi uomini, mentre in paesi come l’Austria la proporzione sale a circa uno su tre. Secondo Lab Femmes de Cinéma, associazione francese che si occupa di parità e diversità all’interno dell’intera industria audiovisiva internazionale, nonostante i numerosi incentivi per migliorare la situazione, siamo ancora pericolosamente indietro.
All’inizio del 2024, il Trieste Film Festival si è preoccupato di tradurre questo studio condotto dal collettivo francese, restituendoci un preziosissimo documento che ci pone di fronte, ancora una volta, a una questione cruciale legata - di nuovo - alla disparità di genere. Per quanto suoni semplicistico, è inevitabile pensare che sia principalmente un bias cognitivo a governare il cinema, dentro e fuori dalle sale. Le donne hanno ruoli organizzativi, spesso legati a gestione e amministrazione, ma ancor più spesso i ruoli che tradizionalmente appartenevano alle donne in passato (i.e. costumiste, scenografe, make up artist) continuano a essere appannaggio delle donne ancora oggi. Diversamente, per una donna sperare di fare carriera nel reparto regia, fotografia o montaggio è una vera e propria utopia.
[Alt Text: Celine Song e Greta Lee sul set di Past lives (2023). La fotografia è stata scattata all’esterno, nel tardo pomeriggio o nella primissima mattinata. Le due donne sono circondate da alberi e verde, e Celine Song, che indossa una mascherina, sta dando indicazioni all’attrice. Fonte.]
Non è un paese per donne, quindi. Non lo è negli uffici di un’azienda pubblica o privata, non lo è alla dirigenza di una holding, non lo è neppure davanti alla macchina da presa - se consideriamo che i ruoli maschili superano di gran lunga quelli femminili. E se il ruolo del cinema rimane quello di farci sognare e catapultarci in un’altra dimensione senza spostarci dalla poltrona, non ci resta che sperare in un mondo migliore. Nel frattempo continueremo a lottare per ciò che è nostro. Anche al cinema.
Luna Saracino si è laureata in Arti e Scienze dello Spettacolo nel 2010, con una tesi di laurea dal titolo “Vampire e vampiri: problematiche di gender nel vampiro cinematografico”. Da quel momento il suo sguardo prova sempre a mantenere attiva una lente femminista con cui osservare il mondo. Oggi Luna è copywriter, producer e sceneggiatrice per la sua società di produzione audiovisiva Bad Toast.
Fedele al suo impegno di “vivere una vita femminista” e di guastare sempre la festa, Sarah Ahmed ha ritirato la propria partecipazione alla fiera letteraria Più libri più liberi a causa dell’invito che l’organizzazione ha rivolto, e poi revocato, a Leonardo Caffo, un filosofo che si trova al momento sotto processo per violenza domestica. Sul sito della casa editrice italiana di Ahmed è disponibile la lettera aperta alle femministe italiane, che motiva e articola la scelta di non presenziare (qui l’originale in inglese). La defezione di Ahmed segue quella di Giulia Siviero e Fumettibrutti.
L’Associazione Antigone ha preparato un e-book sul pericoloso DDL 1660 (o DDL sicurezza). Si scarica gratuitamente qui.
Dorothy Allison è mancata lo scorso 6 novembre. Rileggiamo una sua intervista di qualche anno fa.
[Alt Text: fotografia in bianco e nero di una giovane Dorothy Allison, vestita in denim dalla testa ai piedi e comodamente seduta sulla sella di una motocicletta, con le gambe allungate e gli stivali appoggiati sul manubrio. Fonte.]
Come si muore dove l'aborto è fuorilegge: la storia di Nevaeh Crain, che aveva diciotto anni.
Quattro monologhi di Laura Pugno, dal mondo di Sirene.
Da una newsletter che ci piace molto, anzi moltissimo: chi sono le ragazze di Milena Milani?
Il podcast The Dig ha ospitato Naomi Klein a qualche mese di distanza dall'uscita di Doppio. Il mio viaggio nel Mondo Specchio.
Il #MeToo della politica spagnola.
Chi sono le tradwife ma soprattutto a che cosa servono? Un fenomeno per ora soltanto statunitense ma che intuiamo sia bene conoscere.
Pezzi notevoli di Sophie Lewis #1: “Vorrei buttare lì l'idea che esistono filoni di pensiero che sono al contempo autenticamente femministi e deprecabili — persino fascisti”.
Pezzi notevoli di Sophie Lewis #2: su The Driftscrive di cop feminism e dell’ambiguità dell’immagine della “sbirra”. Distruttrice di soffitti di cristallo o utile idiota del potere?
[Alt Text: ritratto fotografico in primo piano della femminista inglese Mary Sophia Allen, citata da Sophie Lewis nel suo pezzo. Allen fu una femminista inglese che iniziò la sua attività politica impegnandosi per il suffragio femminile, per poi creare e militare in corpi di polizia formati da sole donne e infine farsi rapire dalla figura di Adolf Hitler e supportare il nazifascismo in Europa. Nella fotografia Allen indossa una divisa e un berretto da poliziotta e porta i capelli corti. Fonte.]
Sulla propria newsletter, la giornalista Taylor Lorenz sostiene che il dibattito politico online sia condotto dai soggetti di estrema destra adottando i meccanismi di discussione tipici dello stan Twitter (vale a dire le sacche di utenti che postano sui social soltanto per confrontarsi sulle celebrità che seguono). Purtroppo, quindi, conoscere queste tattiche utili a diffondere contenuti virali è essenziale per difendersi — ma anche, ci viene da aggiungere, per evitare di esprimerci allo stesso modo, camuffando se non sostituendo i contenuti con le frasi a effetto nelle nostre conversazioni (online e offline). L’articolo si legge qui.
Lorenz è inoltre ospite del podcast A bit fruity, dove discute di manosfera e radicalizzazione dei giovanissimi maschi eterocis: dal fenomeno incel all'emergere di modelli di ipermascolinità in grado di giocare un ruolo non trascurabile persino nelle elezioni politiche, come nel caso di Andrew Tate e Joe Rogan.
Infine, un bellissimo racconto di Katherine Mansfield.
FATTO DA NOI
Marzia si è messa in testa di istituzionalizzare i quir studies nell’accademia portoghese, novità su eventi e quant’altro si possono reperire iscrivendosi alla newsletter gratuita del gruppo di lavoro multilingue.
Marzia ha anche letto alcune poesie dal suo esordio per la pagina instagram dei Manufatti Poetici, si ascoltano qui con un video di Anna Papa.
FATTO DA VOI
Alessia Ragno ha letto Donne nella nebbia di Laura Acero ed Erediterai la terra di Jane Smiley, e ne scrive qui e qui.
Silvia Tebaldi firma una importante riflessione critica su Il racconto dell’elicottero, tradotto da Marzia per Zona 42.
“I fratelli (d’Italia?) e non più il padre sono quindi il soggetto del patriarcato contemporaneo, che si nutre di due concetti e di due strutture solidamente intrecciate: la Patria e la Famiglia. I fratelli, infatti, possono pensarsi come uguali, come parte di una comunità coesa, proprio perché la loro uniformità è garantita dall’aver pensato le donne come diverse – e inferiori – e dal grado di potere che in maniera uguale agiscono e detengono su tutti i soggetti femminili e femminilizzati”: un articolo di Carlotta Cossutta pubblicato poco prima del 25 novembre.
Da qualche settimana è uscito il Nuovo Film Femminista dell’anno, The Substance di Coralie Fargeat. Ne parla Cristina Resa (qui il suo commento sul precedente film di Fargeat, Revenge):
In questo senso, il film per certi versi funziona, e per altri meno. Dal punto di vista esplicitamente tematico, si ha spesso la sensazione che il racconto rimanga imbrigliato nella sua impostazione binaria, costruita attorno a un canone estetico normativo, che pensa al corpo esclusivamente attraverso il conflitto tra gioventù e vecchiaia, bellezza e bruttezza, corpo giusto e sbagliato, in una visione che appare un po' datata e limitante. Difficile, da questo punto di vista, non pensare a La morte ti fa bella di Robert Zemeckis, film da me amatissimo, che negli anni ‘90 rappresentava una satira intelligente e sagace dell'ossessione per la giovinezza del mondo dello spettacolo. Ma il film di Zemeckis è, appunto, degli anni ‘90 e la riflessione cinematografica sui corpi nel frattempo si è espansa, ha esplorato territori più ampi, si è fatta portavoce di nuove istanze e rivendicazioni, anche attraverso film che hanno saputo scardinare le categorie e il binarismo, concentrandosi su entità ibride capaci realmente di mettere in crisi i confini sociali e morali (penso a Titane di Julia Ducournau in cui, in qualche modo, riecheggia il manifesto cyborg di Donna Haraway). Si potrebbe pensare anche che la presenza di Demi Moore come protagonista di The Substance - che, non fraintendetemi, ci regala un'interpretazione memorabile, estremamente convincente in un ruolo che sembra modellato su di lei - vada in questa direzione un po' "old school": ricordo bene i discorsi che alla fine degli anni ‘90 avevano accompagnato l'uscita di Soldato Jane, ruolo per cui Moore si era rasata i capelli. In generale, quando un'attrice con una certa fisicità sceglie di cambiare il proprio aspetto per una parte - un altro esempio è Charlize Theron per Monster - l'opinione pubblica la vede come una scelta coraggiosa perché, ovviamente, di rottura rispetto ai canoni estetici vigenti. Ma ancora, trent'anni fa era forse meno frequente e il dibattito ha bisogno di essere portato in direzioni più incisive.
E anche Martina Neglia:
Fargeat governa con maestria una materia narrativa viva e ribelle e non si tira indietro di fronte a nulla, tanto da accogliere in anticipo l’accusa di didascalismo e rispedirla giocosamente al mittente in una melma di liquidi e tessuti corporei. E, in fondo, The Substance si smarca anche dal pericolo di essere eccessivamente intellettualizzato: la prospettiva femminile certamente amplifica l’impatto della riflessione su determinate iniquità e storture sociali, ma il vero obiettivo della regista è quello di realizzare un’opera che sappia anzitutto rispettare il genere e i suoi meccanismi, bizzarra, gore e lontana da ogni appiattimento realistico. Come la stessa regista si augura: un’opera di puro intrattenimento, pensata soprattutto per divertire e disgustare.
[Alt Text: frame da The Substance. Uno specchio appannato e appeso alla parete piastrellata di un bagno bianco riflette il corpo nudo di una donna.]
Martina scrive anche dell'ultima stagione della serie televisiva tratta da L’amica geniale di Elena Ferrante, stavolta sulla newsletter Singolare, femminile.
Marta Corato ha visto e recensito il musical Wicked.
Marco Reggio commenta Per una giustizia trasformativa. Una critica alla cancel culture, un saggio di Adrienne Maree Brown uscito da poco per Meltemi.
Qualche settimana fa, al Centro delle donne di Bologna, abbiamo assistito a uno splendido dialogo su Kathy Acker e Lidia Yuknavitch tra Elena Strappato dell’associazione “Lo spazio letterario”, le traduttrici Alessandra Castellazzi e Guia Cortassa, e la studiosa Arianna Preite. La conversazione continua qui.
CALENDARIO
Questa mattina alle 11:30, Carlotta Cossutta parlerà del pensiero di Silvia Federici all’interno del festival Stramonio. Tutti i dettagli e il programma del festival, che termina domani, sono consultabili a questo link, e le registrazioni di alcuni degli incontri saranno caricate online nei prossimi giorni.
Domenica 1 dicembre Martina Neglia e Amy Appiani ti aspettano alla Nuova Libreria Rinascita di Brescia per un incontro su Han Kang. Appuntamento alle 16!
UN LIBRO
Non dico addio, di Han Kang
[Alt Text: la fotografia presente nella copertina dell’edizione italiana di Non dico addio ritrae un’isola immersa nella nebbia sui toni del seppia, preceduta in primo piano da un filo rosso sul quale stanno appollaiati tre uccellini bianchi. Fonte.]
Il 10 ottobre 2024, in maniera per moltə inaspettata, la scrittrice sudcoreana Han Kang è stata insignita del premio Nobel per la letteratura, con le motivazioni di “una prosa poetica e intensa che si confronta con i traumi storici ed espone le fragilità della vita umana”. Anders Olsson, capo del comitato per l’assegnazione del Nobel, ha aggiunto inoltre che i meriti dell’autrice sono anche di avere una consapevolezza unica delle connessioni tra corpo e anima, lə vivə e lə mortə, e, tramite uno stile poetico e sperimentale, essere divenuta un’innovatrice della prosa contemporanea.
Tutte queste affermazioni racchiudono ciò che è il merito di Han Kang: aver reso i traumi storici e le problematiche sociali della Corea del Sud terreno fertile per piantare i semi dei suoi personaggi complessi e delle sue trame dolorose e intrecciate, solitamente raccontate da una serie di punti di vista differenti. Anche nell’ultima fatica della scrittrice, Non dico addio, pubblicato nel 2021 in Corea e arrivato in Italia il 5 novembre 2024 grazie alla casa editrice Adelphi, si possono rintracciare tutte queste caratteristiche.
Le prime pagine di Non dico addio risalgono al 2014, appena dopo la conclusione di Atti umani, ma il romanzo è stato completato nel 2018: forse Han Kang provava le stesse emozioni di Gyeong-ha, protagonista e voce narrante principale, lei stessa un’autrice che ha scritto un romanzo su un massacro e si trova improvvisamente svuotata dopo aver terminato la sua stesura.
Non mi ero riconciliata con la vita, ma dovevo ricominciare a vivere.
Gyeong-ha giace quotidianamente nella sua depressione dopo aver subito diversi lutti e separazioni, finché non viene risvegliata dal suo torpore dalla figura dell’amica In-seon: sua precedente collaboratrice presso un giornale in quanto videomaker, fotografa e regista di documentari, viene ricoverata in un ospedale di Seoul dopo essersi tagliata la mano durante un lavoro di falegnameria e chiama la scrittrice al suo cospetto per chiederle un favore estremamente importante, ovvero andare sull’isola di Jeju, dove si trovano la sua casa e il suo laboratorio, per sfamare Ama, l’ultimo dei due uccellini bianchi da lei allevati rimasto.
Il rapporto che lega Gyeong-ha e In-seon è molto particolare, punteggiato dall’ammirazione che la prima prova nei confronti della regista e della sua forza di carattere e irrobustito dai numerosi progetti a cui le due hanno collaborato in passato. Proprio uno di questi progetti, mai concretizzatosi, ha portato all’incidente di In-seon: Gyeong-ha aveva infatti vagheggiato, ispirata da un sogno che la perseguita continuamente, un’installazione artistica in cui centinaia di tronchi neri venissero piantati nella neve e filmati; In-seon, nonostante le proteste dell’amica e il divieto di continuare dopo che lei aveva cambiato idea, aveva deciso di intagliare ogni tronco a forma di essere umano e di portare avanti il progetto proprio a Jeju, da sola.
Alberi, uccelli e neve sono figure ricorrenti nei romanzi di Han Kang, termini chiave che fungono da torcia e scalpello per poter esplorare l’abisso delle sue narrazioni: gli alberi simbolo di resistenza in cui le persone si trasformano o si vorrebbero trasformare, come succede in Il frutto della mia donna (2000) e in La vegetariana (2007); gli uccellini emblema di libertà, come in Atti umani (2014), ma anche simbolo della preda, dell’innocente sacrificato come il passerotto morso nella Vegetariana; la neve con il suo candore che simboleggia sia purezza che morte – d’altronde il colore bianco è il colore del lutto nell’Asia orientale, e soggetto a cui l’autrice ha dedicato un intero libro, 흰, hin, tradotto in inglese con The White Book e ancora inedito in Italia.
In Non dico addio, la neve è onnipresente e fa da sfondo glaciale alla peregrinazione di Gyeong-ha, che decide di assecondare la richiesta dell’amica e volare a Jeju, la più grande isola coreana, meta estiva di moltissime famiglie e turisti da tutto il mondo: forse la scelta di ambientare il libro in una Jeju solitaria e disabitata, scossa da raffiche di vento e ricoperta da abbondanti nevicate, è stata fatta oculatamente da Han Kang proprio per allontanarsi dall’immaginario da cartolina dell’isola, dalle sue popolari e idilliache rappresentazioni di camelie in fiore e spiagge nere a causa della sua origine vulcanica. La casa stessa di In-seon, dove l’amica ha vissuto a lungo con la madre anziana e demente, pare l’ultimo bastione del mondo conosciuto, immersa nella natura e, quindi, isolata in un inverno implacabile, nel nulla bianco e assoluto.
La casa è teatro dello stato semi-allucinatorio in cui cade Gyeong-ha, che vi giunge dopo un pellegrinaggio ai limiti della sopportazione fisica e psicologica: l’uccellino Ama sembra essere morto, rendendo di fatto il suo viaggio inutile, ma è lo spirito di In-seon ad arrivare la notte per tenerle compagnia, fantasma del passato e del presente in una sorta di tragico Canto di Natale. Inizia quindi la parte più corposa del romanzo, la più ambigua nella sua narrazione doppia, con le parti di Gyeong-ha scritte in carattere regolare e quelle di In-seon in corsivo come succede nella Vegetariana: la fotografa rivela infatti all’amica il motivo per cui ha deciso di perseguire il progetto degli alberi neri, un’ideazione artistica che la connette direttamente con la piaga più suppurante della sua terra.
Tra il 1948 e il 1949, a Jeju vennero infatti arrestate e uccise moltissime persone a causa della “minaccia comunista”; nell’immediato secondo dopoguerra, l’isola aveva infatti vissuto una storia di autodeterminazione e autogoverno supportata dal Partito dei Lavoratori e aveva resistito all’occupazione statunitense della Corea con la paura – effettivamente fondata, come la storia rivelerà solo poco tempo dopo – che la presenza straniera fortificasse la divisione tra Nord e Sud del Paese. In risposta alle manifestazioni di protesta, iniziate il 3 aprile 1948, gli Stati Uniti si servirono della Gioventù del Nord-Ovest, un gruppo paramilitare fascista fortemente anticomunista, per condurre una spietata guerriglia sull’isola, torturando e uccidendo circa trentamila persone e imprigionandone duecentomila sul continente – provenienti non solo da Jeju, ma anche da altre città coreane egualmente in rivolta – per poi portare a termine la loro esecuzione nel 1949.
Tra questə coreanə, vi erano anche il papà e lo zio materno di In-seon: mentre il primo è riuscito a sfuggire al massacro delle prigioni del 1949 e a tornare sull’isola, portando con sé lo spettro delle torture e violenze subite, il secondo non ha invece fatto ritorno. La mamma di In-seon ha passato, dunque, all’inizio all’oscuro della figlia, tutta la vita a cercare sue tracce, che fossero esse sui registri nazionali o tra i cadaveri sepolti nelle miniere dai soldati statunitensi e coreani dopo le fucilazioni di massa.
Un filo rosso si dipana dunque tra esperienza individuale e familiare e trauma collettivo, come succede anche in Atti umani: l’umanità delle lettere che il fratello scrive alla sorella minore si scontra con la brutale realtà del carcere e dell’accusa politica, i ricordi dei giochi e del villaggio sull’isola si sfibrano di fronte all’indifferenza crudele della dittatura e il suo pugno di ferro e pallottole. Ma la madre di In-seon non smette di sperare, scovare, scavare, e dopo la sua morte il testimone passa alla figlia e, forse, dopo la morte di In-seon – il suo spirito appare a Jeju perché la donna sta perdendo i sensi in ospedale a Seoul? O è solo un’allucinazione causata dall’ipotermia e dalla solitudine? – passerà a Gyeong-ha, doppelgänger dell’autrice stessa, che non permetterà a nessunə dire addio, di dimenticare le anime trucidate dalla violenza militare a cui il governo non ha concesso nemmeno il diritto estremo di sepoltura:
Ho inspirato e sfregato un secondo fiammifero sulla scatola. Non si è acceso. Ho provato con un altro, ma si è spezzato. Ho trovato il punto in cui si era rotto, l’ho stretto tra pollice e indice e ne ho strofinato di nuovo la capocchia sulla superficie ruvida. La fiamma si è levata. Come un cuore. Come un bocciolo che palpita. Come il battito d’ali dell’uccellino più minuscolo del mondo.
La penna di Han Kang, brillando nel buio come una candela bianca e al tempo stesso scintillante come un piccolo coltello, continua a tracciare il sentiero per chi vuole avvicinarsi alla verità storica di un Paese in continuo sviluppo che fa ancora fatica a venire a patti con i suoi traumi più recenti, e a liberarsi dei suoi carcerieri.
Amy Appiani è insegnante di materie linguistiche e letterarie dove capita e una delle fondatrici dell’Altrosessuale, collettivo che esplora il tema di identità, sessualità e corporeità altre in arte, letteratura e pensiero. Ama il k-pop, il femminismo, la moda e la lotta – non necessariamente in quest’ordine di priorità. La trovi su Instagram come @amy_thing o come @fiocchetti_e_lame, quest’ultimo uno spazio personale di condivisione delle sue fissazioni, letterarie e non.
Grazie a Luna e Amy per aver partecipato a questo numero. Ci leggiamo a dicembre per l’ultima newsletter del 2024!
Un abbraccio!
Francesca, Gloria e Marzia