Benvenutu a Ghinea, la newsletter che potrebbe aggiustare Kendall Roy. Questo mese diamo il benvenuto a Federica Fabbiani Galleni: da tempo speravamo scrivesse per noi, e lei ci ha regalato una sua postfazione. Come sempre, ti ricordiamo che la newsletter ospita volentieri contributi esterni e ti incoraggiamo a scriverci se ti frulla in testa un’idea che ti piacerebbe sviluppare con noi. Buona lettura!
Pubblichiamo la postfazione scritta da Federica Fabbiani Galleni per il saggio Ritratte. Storie di donne che hanno scelto il cinema di Carlo Griseri. Ringraziamo Federica e la casa editrice.
[Alt Text: copertina di Ritratte. Storie di donne che hanno scelto il cinema in monocromia viola con il disegno di una macchina da presa.]
Quando ci si occupa di cinema, rivolgendo interesse e attenzione alla presenza femminile, si rischia sempre di cadere in qualche trappola. Affidandosi ai numer, si può essere colte da scoramento. Si pensi ad esempio alle percentuali del Celluloid Ceiling, il rapporto del Center for the Study of Women in Television, secondo cui oltre l’80 per cento dei film del 2021 sono stati diretti da uomini. È vero che lo studio riporta un picco nel 2020 con la presenza di registe tra i film di maggiore incasso dell’anno, ma subito il 2021 mostra una flessione considerevole. Almeno nella regia, perché meglio sembra funzionare il lavoro dietro le quinte, dove l’occupazione femminile aumenta un po’ ovunque – sceneggiatura, montaggio, produzione esecutiva – passando dal 23 al 25 per cento. Numeri comunque bassi che molto dicono di un territorio saldamente maschile che tanta influenza esercita ancora sull’immaginario collettivo. Affidandosi invece alla questione di genere, si può cedere alla tentazione essenzialista. Già in un vecchio testo che trattava di cinema delle donne, e che ancora conservo a portata di citazione, si ammonivano studiose, attiviste o appassionate, di guardarsi dalla costruzione di un “nuovo mito della femminilità, che alla lunga non sarà meno opprimente dell’altro per il solo fatto di averlo costruito da sole”. L’idea di un cinema delle donne anima il dibattito della critica cinematografica femminista da decenni; è una questione di autorialità (concetto già di per sé molto dibattuto), di temi, di sensibilità femminile, di attivismo, di spettatorialità? Per Patricia White, importante studiosa femminista di cinema, “il primo decennio del ventunesimo secolo ha mostrato che i contorni del cinema delle donne sono stati ridisegnati dai cambiamenti nella produzione globale, nella circolazione e nella valutazione dei film, nonché da una diversa percezione del femminismo”. Un panorama plurale di molte voci, provenienti da più parti del mondo, alcune dissonanti, non sempre allineate, e che stanno su territori di frontiera, lontane dal centro per vivere nel margine.
La lettura di Ritratte – Storie di donne che hanno scelto il cinema di Carlo Griseri conduce nella vita e tra le opere di registe che molto parlano dal margine. Per la maggior parte lontane da Hollywood e dal suo mo/n/do di produzione audiovisiva, le dieci registe qui analizzate presentano storie particolari, personali e politiche allo stesso tempo (che il femminismo ha lasciato tracce indelebili anche in chi non vi si riconosce), per dare voce a realtà locali alle prese con una globalizzazione che cannibalizza persone, luoghi, comunità intere. Sono voci originali, che parlano per esperienza diretta, portando sullo schermo personagge che vivono di e con conflitti interiori all’interno di granitici sistemi oppressivi. Sono voci che faticano a farsi ascoltare – spesso infatti si affidano a forme di finanziamento dal basso - e che rendono il loro cinema un lavoro potente, necessario e sì, di nuovo, politico, qualsiasi sia la storia che raccontano. Sono voci complesse, diversificate, non facilmente assimilabili che raramente si affidano a storie vincenti e straordinarie, quei tipici topoi molto occidentali della donna con i superpoteri, per orientarsi verso narrazioni intime, che rivelano vulnerabilità e fragilità, rivendicandone forza e capacità di resistenza.
Leggendo i vari ritratti, si coglie questo desiderio di mostrare, spesso attraverso il corpo di una o più personagge, un altro punto di vista, spostando il racconto su di un piano imprevisto, che è poi è quello della vita quotidiana, che c’è e continua, nonostante la guerra, le migrazioni, le violenze. Oltre i concetti universalizzanti, che nella maggior parte dei casi rinforzano le strutture di potere dominanti, quindi patriarcali e sessiste, per rappresentare ciò che è personale e familiare. Per il film Farewell Amor (2020) la regista tanzaniana americana ha dichiarato di non essere stata attratta dagli aspetti politici dell’immigrazione proprio per la volontà di de-politicizzare la figura dell’immigrato. “Tutti nella nostra vita abbiamo avuto problemi d’amore o siamo stati nuovi in un posto, ed è su questo aspetto che vorrei scattasse l’identificazione con la storia (se ci limitiamo a un caso politico magari il pubblico prova compassione, ma non si identifica)”. E qualcosa di molto simile sta nella dichiarazione programmatica di Shahrbanoo Sadat per la quale girare un film significa far emergere un’altra storia dell’Afghanistan; non la guerra, ma “i dettagli e le piccole cose [che] spiegano molto meglio la nostra comunità”; quindi non il solito film, che tanto piace agli occidentali, “sull’essere vittime o eroi. Ho pensato fosse un cliché e da persona del posto e da cineasta era come uno schiaffo in faccia vedere qualcosa su cui i cineasti insistono così tanto”.
E’ in molti casi un percorso di decostruzione di stereotipi, luoghi comuni e immagini obsolete su cui lo sguardo imperialista dell’occidente ha edificato narrazioni epiche, di salvataggio delle oppresse e di liberazione dal giogo della violenza. Addentrarsi nella filmografia della maggior parte delle registe qui ritratte significa decolonizzare il proprio sguardo. Non solo smarcandosi dal male gaze, il famigerato sguardo maschile che sempre reifica la presenza femminile sullo schermo, ma anche spostandosi di lato, uscendo dalla propria fortezza di donna bianca occidentale emancipata. Mi riferisco in particolare a due visioni: La sposa promessa (2012) di Rama Burshtein e El despertar de las hormigas (2019) di Antonella Sudasassi. In entrambi i film – il primo si concentra sulla comunità ebrea ortodossa e il secondo su una famiglia del Costa Rica – le registe hanno letteralmente spostato il mio punto di vista, consentendomi di solidarizzare con le protagoniste tanto da condividere le loro scelte; scelte che, razionalmente, fuori da quel contesto narrativo, avrei considerato scellerate, perché, qui e ora, nel mio presente e nel mio contesto di vita, appartengono ad una logica familista patriarcale che rifiuto. La maestria registica di Burshtein e Sudasassi sta qui; nell’essere riuscite a costruire una sceneggiatura e dirigere un film che mi ha permesso di stare dalla parte delle personagge, e non soltanto di guardarle (che sempre è un percorso di oggettivazione) sullo schermo.
Secondo Iris Brey che firma un bel saggio sullo sguardo femminile, “troppo spesso le immagini ci hanno insegnato a vergognarci, ad avere paura, a svalutare le esperienze femminili. Abbiamo allora distolto lo sguardo. (…) Lo sguardo maschile è mortifero. Lo sguardo femminile è uno sguardo vitale che produce immagini inedite. Le nostre immagini mancanti”. Uno sguardo dissidente e anti-egemonico che sposta chi guarda in una posizione imprevista, scomoda e vulnerabile, e che genera un nuovo tipo di relazione orizzontale tra regista – personaggia – spettatrice. “Il piacere dello sguardo maschile – prosegue Brey - deriva dall'idea che la donna sia guardata a sua insaputa, quello dello sguardo femminile della sensazione di uguaglianza tra la personaggia, lo sguardo della telecamera e lo sguardo della spettatrice”.
Le registe di questo testo – Nadine Labaki, Shahrbanoo Sadat, Alice Wu, Maïwenn, Rama Burshtein, Ekwa Msangi, Pelin Esmer, Mounia Meddour, Antonella Sudasassi, Darya Zhuk – ognuna a suo modo, attraverso un personale stile registico, producono immaginari molteplici e una pluralità di prospettive che ben valorizzano una visione multidimensionale della presenza femminile nel cinema, sia davanti sia dietro la macchina da presa. Non è più possibile oggi non tener conto della dimensione mondiale del cinema delle registe, anche e soprattutto dopo la grande attenzione che i movimenti del #MeToo e di #TimesUp hanno portato sulle questioni dell’asimmetria di genere negli ambienti della produzione cinematografica occidentale. Servono altre prospettive e nuovi approcci per esaminare questioni globali, tenendo conto delle produzioni registiche delle donne dei vari paesi per intersecare e valorizzare questioni di classe, etnia, abilità, sessualità, età. Altri immaginari per sabotare le convenzioni di un certo cinema classico e proporre nuove visioni del mondo. Come hanno fatto Alice Wu e Nadine Labaki, rispettivamente con Saving Face (2004) e Caramel (2007), che utilizzano i topoi del chick flick (il filone dei film romantici ‘rosa’) hackerandoli dall’interno per presentare storie di emancipazione femminile e lesbica in ambienti oppressivi e fortemente chiusi. Come ben analizzato anche da Patricia White, queste registe raccontano storie ad alto rischio di autonomia e riconoscimento presentando la vita di una o più personagge all’interno di un contesto che esprime, sia nel passato sia nel presente, una forte complicità con l'autoritarismo. Non conosci Papicha (2019) dell'algerina Mounia Meddour ne è un esempio illuminante e le parole della regista rendono conto dell’importanza di queste visioni: “Abbiamo mostrato la resistenza delle donne. Parlare di quegli anni è ancora un tabù perché in molti non se la sentono di ritornare a un tempo così difficile e traumatico. Oggi le donne algerine rivendicano la parità, perché il padre e i fratelli possono ancora decidere al posto loro. Tutto. Se e quali studi fare, quando sposarsi e con chi”.
Quello che più mi ha catturata nella lettura di Ritratte – Storie di donne che hanno scelto il cinema è stata la possibilità di stabilire dei punti di contatto tra le varie esperienze registiche e creare una sorta di genealogia orizzontale. Le registe qui presentate, e che sia chiaro ce ne sono molte altre altrettanto degne di nota, danno un'idea dei diversi modi in cui le donne stanno contribuendo a una revisione e un rimodellamento del cinema contemporaneo. “Non solo dando voce alle storie delle donne o attraverso le loro pratiche cinematografiche e gli approcci spesso innovativi all'estetica cinematografica, ma anche richiamando l'attenzione sullo status ontologico stesso della ‘donna’ regista, una categoria che deve essere continuamente decostruita e problematizzata da un “multiculturalismo critico e policentrico”, più simile a una concezione polifonica, complessa e diversificata del nostro mondo contemporaneo”.
Giornalista e saggista, Federica Fabbiani ama scrutare gli schermi per scovare percorsi inediti al confine tra reale e immaginario. Nel 2021 per l'editore Asterisco è uscito il volume collettaneo Architetture del desiderio. Il cinema di Céline Sciamma, curato con Chiara Zanini. Sempre nell'ambito della critica cinematografica femminista e lesbica, ha pubblicato Sguardi che contano. Il cinema al tempo della visibilità lesbica (Iacobelli editore, 2019) e Zapping di una femminista seriale (Ledizioni 2018). Cura un podcast sul cinema lesbico (Reno, 1959), fa parte della redazione della rivista femminista "Leggendaria". E’ selezionatrice per Some Prefer Cake, Bologna Lesbian Film Festival.
Nello spazio online nessuno può sentirti urlare: a quanto pare, a furia di parlare di politica sui social, moltə di noi hanno perso interesse per la politica.
I ritratti di lesbiche della fotografa Joan E. Biren.
[Alt Text: fotografia compresa nel volume Eye to Eye: portraits of lesbians di Joan E. Biren (1979). Il soggetto della fotografia, in bianco e nero, sono due ragazze nere che dormono abbracciate su una coperta distesa su un prato.]
Da che cosa sono minacciate davvero la famiglia e la natalità? Save the children ha appena pubblicato un rapporto sulla maternità in Italia che racconta di servizi inadeguati o assenti, di isolamento delle madri schiacciate dal carico quasi totale del lavoro di cura, di ansie economiche dovute all’instabilità del mercato del lavoro. Si scarica qui.
Il 20 maggio si è tenuta, a Roma, la manifestazione “Scegliamo la vita”, che ha riunito la maggior parte delle associazioni pro-life. Su Dinamopress, Cecilia Pellizzari ricostruisce la cronologia dello sviluppo dei movimenti “anti-gender” appoggiandosi a un recente testo di Massimo Prearo.
Piangere una madre: su Antinomie, Federico Ferrari legge/guarda Roland Barthes e Chantal Akerman nel lutto.
Grazie a Mutande del Lunedì, newsletter amica a cui ti consigliamo di iscriverti, abbiamo letto questo pezzo sulla questione della visibilità trans.
Cos’è successo negli ultimi mesi in Perù? Un’analisi.
Pratiche femministe dentro e fuori il perimetro della politica istituzionale: un commento di Liberty Garcia Sanabria.
Sulla violenza ostetrica in Italia.
Su Jacobin, Valentina Mira intervista un’attivista di Non Una Di Meno presente al Salone del Libro di Torino durante la contestazione alla ministra Eugenia Roccella. E il collettivo Mai Ultimə, che riunisce studentə neurodivergenti e disabili dell’Università di Torino, ha pubblicato sul proprio profilo Instagram una lista di miglioramenti da apportare per rendere questo evento culturale accessibile per tuttə.
[Alt Text: fotografia della contestazione esplosa al Salone del Libro contro la ministra per la famiglia, la natalità e le pari opportunità Eugenia Roccella, che si trovava lì per presentare il proprio libro Una famiglia radicale. Nella foto sono visibili sia lə contestatorə che la ministra, tranquillamente seduta insieme alla moderatrice.]
Parliamo seriamente di “carne sintetica”.
Cecilia Arcidiacono, che ha fondato la libreria e casa editrice Tamu, scrive su Il Tascabile de La trama alternativa e di Abolizionismo. Femminismo. Adesso:
Più che consegnare a chi legge una definizione di giustizia trasformativa, il libro di Giusi Palomba restituisce la complessità di un percorso che mette al centro il disimparare, il dismettere i processi automatici con cui la logica punitiva si riproduce, anche a partire dal quotidiano. Non ci sono prescrizioni o consigli, piuttosto una matassa di domande che interpellano nel vivo chi legge. Stare nel processo: questo è l’invito, guardare alla giustizia trasformativa non come a una soluzione applicabile all’occorrenza per rispondere a situazioni di violenza, ma come a una possibilità, un esercizio per spingere l’immaginario oltre i percorsi già tracciati, come occasione per chiedersi, in prima istanza: che cosa è una comunità? Di cosa parliamo quando parliamo di responsabilità collettiva?
Questioni che il femminismo abolizionista nero e of color aveva già anticipato, mettendo in luce il legame tra razzismo strutturale, sessismo, povertà e militarizzazione, battendosi per la strumentalizzazione razzista della violenza sessuale e allo stesso tempo lottando contro il sessismo all’interno delle proprie comunità.
Quel che ritorna, ciclica, in entrambi i libri, è la necessità di un’immaginazione radicale, che spinga oltre gli argini del già dato, che faccia spazio a quel che non è ancora pensabile, ma situato ai margini del possibile, e di farlo a partire dalle nostre vite, dalla nostra rabbia, dalle nostre intimità.
CALENDARIO
Anche quest’anno, la Italian Virginia Woolf Society ha organizzato una giornata di incontri e discussioni in occasione del Dallowday. L’evento si terrà presso la libreria Spazio Sette di Roma, e tutti i dettagli sono presenti a questo link.
FATTO DA VOI
Ricominciamo dalle rose, una poesia di Nadia Agustoni pubblicata per il 1 maggio.
Sara Deon scrive di antropofagia, e di antropofagia femminile, nel cinema.
È finalmente disponibile in italiano un gioiello: Detransition, baby di Torrey Peters. L’ha tradotto la nostra amica Chiara Reali (che aveva già regalato a Ghinea un suo intervento sulla traduzione), con l’assistenza della nostra amica Antonia Caruso (che ci aveva parlato di valenza politica della letteratura qui).
Ringraziamo Federica per il suo contributo e ti diamo appuntamento al 30 giugno.
Un abbraccio!
Francesca, Gloria e Marzia
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