La ghinea di giugno
Benvenut* a Ghinea! Questo mese Diletta Crudeli torna con un nuovo pezzo sul mostruoso femminile in letteratura (ma non solo), mentre Valentina Fornelli ci racconta l'incredibile, avventurosa vita di Elaine Mokhtefi. Buona lettura!
Il patriarcato che infetta il terreno: riprendersi il mito e i mostri
di Diletta Crudeli
[Jude Ellison Sady Doyle è un autore trans-queer non-binary la cui preferenza pronominale oscilla tra il maschile e il neutro. Non potendo la lingua italiana accogliere questa oscillazione, e avendo Doyle espresso he/him come pari opzione di preferenza, il contributo qui di seguito declina al maschile tenendo conto dell'autoidentificazione e autonominazione del soggetto.]
Nell’introduzione al suo saggio Il mostruoso femminile (Edizioni Tlon, 2021) Jude Ellison Sady Doyle, giornalista statunitense già autore di diversi saggi, scrive:
Da qualunque angolazione si scavi per arrivare alle fondamenta del nostro mondo, durante la discesa si incontreranno tutte queste altre strutture, o solo alcune.
Le strutture di cui parla sono quelle narrative che trasformano le donne che rifiutano il controllo maschile in mostri. Ma non solo; Doyle ha scritto il libro durante la gravidanza e quando ancora non era del tutto consapevole di essere una persona transgender ma osservava con meraviglia quello che il suo corpo percepiva e i cambiamenti in atto. Da lì ha ricostruito il lignaggio di tutte le creature che il patriarcato ha sottomesso e relegato in forma abbietta. Ciò che sfugge al controllo maschile, che esce quindi dal confine dell’uomo maschio bianco cisgender, diviene automaticamente mostruoso, una creatura non conforme. Il primo interesse è quindi quello di bloccare, di tenere ciò che è diverso in trappola. Il secondo è di far passare chi riesce a liberarsi dal confinamento come un abominio.
Ed è interessante che Doyle utilizzi il termine “scavare”; la paura della donna, della sessualità disobbediente alla norma indicata da chi si trova in cima alla piramide gerarchica, i corpi diversi, e le conseguenti trasformazioni in mostro, strega, agente mortifero e letale, sono concetti che si dipanano in modo sottile e sotterraneo. È una rete ctonia ormai perfettamente integrata con il modo di raccontare: ogni storia, mito, leggenda, ogni narrazione si rivela materiale rielaborato dagli uomini, il risultato di secoli di oppressione che hanno trasformato la donna e la diversità in ragazze da esorcizzare e mostri da debellare.
Sono schemi che si ripetono in modo più o meno coerente, dalle ragazze demoniache che non riescono a integrarsi con la società a quelle necessariamente virginali che verranno risparmiate negli slasher. Ogni figura femminile, ogni suo attributo, può trasformarsi in orrore e fonte di raccapriccio: dalla vergine appunto, alla madre, i due poli analizzati in particolare da Doyle.
Sembra, insomma, che non ci sia scampo. La bibliografia presente a fine volume è solo una piccola parte delle storie che potrebbero comporla. Quello che bisogna chiedersi è quindi: è possibile riprendersi questi territori ormai mostruosi? Se davvero le storie riguardanti le streghe, i mostri, le assassine non possono essere del tutto sradicate, allora perché non infiltrarci noi stess* in questo substrato e cominciare a coltivarlo?
[Alt Text: frame dal primo episodio della terza stagione di Buffy The Vampire Slayer: durante un combattimento in un’altra dimensione, la giovane protagonista Buffy impugna un martello nella mano sinistra e un’arma da lancio chiamata mambele in quella destra. Buffy indossa dei pantaloni cargo e una felpa con cappuccio, vestiti comodi e adatti al suo ruolo di cacciatrice di demoni e vampiri. Fonte.]
La stessa opera di Doyle mostra come alcune storie escano dal circuito dell’uomo per raccontare nuovi modi di vedere la realtà. Parlando di mostri e creature soprannaturali da un’ottica differente Doyle cita The Witch, pellicola del 2015 didi Robert Eggers, un horror che si rivela un dramma capace di parlare di superstizione, magia ed emancipazione, o il meno recente Buffy l’ammazzavampiri, serie ideata da Joss Whedon andata in onda dal 1997 al 2003. Non necessariamente un mondo di dead blondes da un lato e final girl dall’altro, ovvero la ragazza stereotipata che viene sacrificata sull’altare dagli horror e la sua controparte mascolina che sempre sopravvive, ma storie in cui esistono unioni, senza binarismi e punti di vista condizionati da quella che si pensa l'élite vincente.
Ripensate all’ultima inquadratura del T-rex: dopo aver buttato giù il proprio scheletro fossilizzato, si erge dietro uno striscione che ricorda al mondo come lei un tempo «dominava la Terra». E la domina ancora. Il messaggio di Jurassic Park è che l'umanità intera non basta a fermarla e che, fino a quando sarà su questo pianeta non potremo in nessun modo impedirle di riprendere il potere. Libere grazie alle conquiste sociali del XX e XXI secolo ora le donne non possono più fermarsi. Ci riprenderemo il mondo, i nostri corpi e tutte le possibilità che ci sono state negate. Quando apriremo bocca i nostri oppressori dovranno tacere e, quando cammineremo, la terra tremerà.
Partiamo riprendendoci le storie, scendiamo per prim* nel sottosuolo e vediamo quali creature incontreremo in modo da ricondurle in superficie. Partiamo dal mito. Come Doyle fa notare a più riprese già qui avviene la trasformazione: sin dall’alba dei tempi l’Apocalisse è donna. Dalla primordiale Lilith, fonte di sciagura e inaccettabile prima moglie di Adamo, alla ben nota Meretrice di Babilonia, figura che preannuncia la fine dei tempi. Quest’ultima, come evidenzia anche Doyle, mantiene il suo aspetto di donna lussuriosa e crudele attraverso i tempi: dal sistema di credenze ideato dal mago inglese Crowley alla serie Supernatural. La figura di Babalon come male incarnato è presente anche in Twin Peaks (altra opera citata da Doyle), sebbene in questo caso si tratti quasi di una forza elementale evocata dagli uomini attraverso gli esperimenti nucleari. Già i creatori della serie David Lynch e Mark Frost riescono quindi almeno in parte a contestualizzare in modo differente la figura biblica.
Due figure in particolare, sotterranee ed emarginate, che possiamo partire a reinserire nelle nostre narrazioni sono Medusa e Holle, anch’esse vittime della trasformazione in mostro operata dagli uomini raccontata e analizzata da Doyle.
Medusa è l’unica mortale in mezzo alle Gorgoni, probabilmente in modo che possa essere sconfitta da Perseo. Il suo aspetto mostruso le è stato donato, in una delle versioni del mito, da Atena che la punisce perché troppo bella e per questo amata persino dagli dei. Ecco cosa ci racconta il mito dell’uomo, tramite l’operato di una dea nata lei stessa non da una madre ma dal cranio del padre: il troppo, per una donna, non va bene.
Medusa dovrà così starsene nascosta, e chiunque posi su di lei il suo sguardo verrà pietrificato dalla sua chioma letale. Questi sono gli attributi donati dal mostruoso: la diversità e l’obbligo a rimanere inconoscibile.
Ma basta andare indietro nel tempo per scoprire che il prototipo per le Gorgoni sono probabilmente le maschere della dea paleolitica simboleggianti rigenerazione, come evidenziato nell’immenso lavoro di Marija Gimbutas riguardo alla Dea Madre: figure contornate da serpenti o da api, entità che avevano a che fare con il mistero della morte e della rinascita.
Le dee diventano mostri.
[Alt Text: Scudo con testa di Medusa di Caravaggio. L’opera si trova nella Galleria degli Uffizi di Firenze e mostra su fondo verde la testa decollata della Gorgone che sprizza sangue, mentre una smorfia di dolore e sorpresa le contorce il viso. Fonte.]
La stessa cosa è accaduta a Holle, che molt* conoscono sicuramente grazie alla fiaba dei Fratelli Grimm. Una strega dai denti affilati, orribile e ricurva. Anche la germanica Holle è collegata al mistero della morte e della rinascita, alla terra che per risollevarsi dal lungo inverno deve prima morire e poi fiorire di nuovo. Holle, che diventa in altre culture Morrigan o Baba Yaga, e che trasformandosi in rana restituisce al terreno la mela caduta in un pozzo, appartiene a un regno sotterraneo dal quale però emergeva un tempo senza fatica per riportare ordine e luce dopo un’apparente fine.
Nel sottosuolo esistono anche storie più recenti, come quelle raccontate da Doyle, che possono diventare compagne e armi per combattere lo stagnamento che il patriarcato desidera.
Nella speculative fiction due storie che già hanno utilizzato i termini e i territori imposti dall’uomo per sovvertire la narrazione o dimostrare quanto sia corrotta sono Jestella, il racconto di Susan Palwick contenuto in Le visionarie (Not, 2018) e La Bellezza, il romanzo dell’autrice gallese Aliya Whiteley (Carbonio Edizioni, 2017).
Il racconto ribalta due volte la questione utilizzando l’elemento soprannaturale ma permettendo che venga comunque compromesso dall’uomo, in modo da far comprendere a* lettor* quanto sia infestante il suo operato. Il romanzo invece scende in profondità facendone emergere creature fungine che travolgono la società degli uomini.
Jestella, la protagonista del racconto di Palwick, è una donna in grado di trasformarsi in lupa secondo le fasi lunari. La conosciamo innamorata di Jonathan, un uomo che accetta senza paura la sua condizione soprannaturale. Mano a mano che la storia procede, tuttavia, Jonathan comincia a imporsi su Jestella sia nella sua forma umana sia in quella bestiale.
Quando è una lupa le ricorda che deve comportarsi come “un bravo cane”, che deve portare un guinzaglio, che deve vaccinarsi. Jestella, in quei frangenti, viene costantemente trascinata, condotta da qualche parte.
Ti dava da mangiare carne cruda, nella tua fase a quattro zampe, ma niente che avevi ucciso tu stessa. Ti aveva insegnato a prendere i bocconi della sua mano con delicatezza, senza morderlo. Ti aveva insegnato a scodinzolare, e ti stavo insegnando anche a correre dietro alla palla, perché dalle sue parti i bravi quadrupedi facevano così.
Ma è la forma umana, quindi quella più vicina al suo compagno e di cui lui può abusare più facilmente, che causa il tracollo nella loro relazione.
Ogni anno che Jestella compie in forma di lupa corrisponde a sette anni come donna. Lentamente diventa più anziana di Jonathan e lui non la desidera più. A quel punto non è più una fidanzata accettabile, ma nemmeno un cane che Jonathan vuole accudire. Il finale crudele e doloroso del racconto ci dimostra una cosa soltanto: esiste un rapporto di squilibrio creato dall’uomo e lui farà di tutto per mantenerlo. Abuserà di questo suo potere su qualsiasi creatura vivente che considera inferiore. È una riflessione che riguarda anche il nostro modo di rapportarci agli animali: il racconto di Palwick dimostra che la gabbia in cui l’uomo vincola le creature che reputa inferiori a sè stesso, come le donne e gli animali, è una gabbia che prende forma tramite le sue manipolazioni, i suoi trucchi meschini. E se glielo permetteremo toglierà il terreno anche sotto i piedi delle creature soprannaturali.
Il terreno se lo riprendono invece le protagoniste di La Bellezza. Nel romanzo di Whiteley la popolazione femminile del pianeta è stata decimata da un “male giallo”, una sorta di spora che aveva contaminato e ucciso solo le donne.
Gli uomini della Valle delle Rocce vivono commemorando compagne, madri e sorelle scomparse e raccontandosi storie di fronte al fuoco. Nathan, che si occupa di queste narrazioni, trasforma le vecchie abitudini in mito e ammanta le donne perdute di leggenda e purezza.
Tuttavia proprio Nathan un giorno è costretto a infrangere il passato e le sue storie: dal sottosuolo emergono delle creature fungine che si sono innestate sopra le ossa delle donne scomparse. L’evento causa una scissione all’interno del Gruppo.
“Tu sei il più strano di tutti”, riflette. “Non voglio più sentirti parlare di corpi e di roba che si sviluppa a partire da essi. Stasera racconterai come è nato il Gruppo: è la storia che mi piace di più.”
Parte degli uomini, tra cui Nathan, decide di accompagnarsi a queste creature, l’altra metà opera la scelta standard, quella che probabilmente era già stata operata in passato verso le donne malate: il diverso deve stare isolato. Gli uomini non sono pronti ad ammettere che queste creature siano davvero amichevoli, ma soprattutto non sono pronti ad accettarle come parte integrante della società. Ma non possono imporre su di loro il giogo maschile: le donne-fungo sono forti, imprevedibili e vanno in fretta a ricoprire ruoli che un tempo spettavano agli uomini.
Al contrario del compagno di Jestella, che riesce a imporsi sulla narrazione e sul soprannaturale, la comunità della Valle delle Rocce perde la partita ed è costretta a costruire una nuova società. Whiteley ci racconta proprio questo alla fine: possiamo continuare a raccontare vecchie storie, ma quando le stesse storie si ribellano ed emergono dal terreno, vestendo gli scheletri di chi abbiamo lasciato indietro, la forza di manipolare la narrazione viene meno.
Le donne della comunità erano madri, sorelle, compagne al tempo considerate affidabili. Affidabili, tuttavia, dal punto di vista maschile. Perché prevedibili, mansuete e perfettamente allineate ed etichettate secondo ruoli precostituiti all’interno della società. Una volta operata la loro trasformazione in donne-fungo queste perdono tutte le loro caratteristiche accettabili per l’uomo.
La prima, ovviamente, è il fatto che il loro aspetto è mostruoso. Non rientrano più in quel canone estetico che i maschi della comunità sapevano amare. Solo alcuni di loro accettano queste creature come partner sessuali e per questo vengono anch’essi ripudiati dal resto della comunità. Secondariamente, non sono più né madri né sorelle, né rientrano in qualsiasi tipo di rapporto che gli uomini possano riconoscere. Rivestono un ruolo scevro da qualsiasi obbligo e per questo diventano pericolose.
Come nel caso di Jestella, quando queste figure si allontanano dal recinto creato per loro e cercano di scavalcarlo, improvvisamente diventano mostri, creature selvagge e ingestibili.
Eppure, per loro, è proprio attraverso questa mostruosità, questo passaggio tra l’umano e l’inumano che le rende libere, potenti e capaci di districarsi nel mondo materiale in modo sicuramente più degno degli uomini.
Jestella e le creature di Whiteley, Medusa e Holle, insieme alla schiera di narrazioni evocate da Doyle, ci dimostrano che queste storie sono ormai profondamente radicate, ma che anche le più antiche possono esserci utili a dimostrare che quel terreno deve essere tolto a chi lo ha contaminato.
Narrazioni che non devono restare sotto controllo, ma emergere, ribellarsi e azzannare chi le tratta secondo etichette e chi pensa che creando recinzioni, ostacoli e fosse si possano mettere a tacere cambiamenti e possibilità. L’Apocalisse, come ricorda Doyle nelle ultime pagine del volume, avrà certo un nome e un volto femminile, ma è pur sempre rivelazione, cambiamento e nuovo spazio vuoto pieno di promesse.
Diletta Crudeli ha studiato Beni Culturali ed editing ma ne sa molto di più su zone infestate e creature impossibili. Gestisce il blog Paper Moon ed è capa di Spore Rivista. Scrive su L’Eco del Nulla e i suoi racconti sono usciti su diverse riviste online, come Tre Racconti, Narrandom, In fuga dalla bocciofila. Altre storie si trovano nelle raccolte PRISMA Vol. 1, PRISMA Vol. 2 e Women of Weird, tutte edite da Moscabianca Edizioni.
Denuncia contro la violenza razzista della polizia di Milano nei confronti di un gruppo di giovani razzializzati, attaccati fisicamente e verbalmente dalle forze dell’ordine.
La prefazione di Zero, uno. Donne digitali e tecnocultura di Sadie Plant, a cura del gruppo Ippolita, è disponibile su Not.
L’opera di Laura Aguilar, “materialismo queer [espresso] attraverso la fotografia”.
Alle origini del femminismo marxista.
Un'intervista a Stefania N’Kombo che racconta cosa vuole dire essere donna con la pelle nera (in Italia).
Hanno rubato l’incasso della Libreria Antigone, luogo di sensibilizzazione alle sottoculture. Si può sostenere qui.
Due sorelle inuit canadesi sotto il nome PIQSIQ fondono la tradizione del canto di gola (katajjaq) con i sintetizzatori.
La storia di Mariasilvia Spolato comincia con la sua nascita nel 1935 a Padova ma solo nel 1972 diventerà il soggetto politico iconico che ha cambiato il panorama italiano nei confronti dell’omosessualità, e in particolare dell' omosessualità femminile. Dopo la laurea in scienze matematiche – spesso ricordata come eccellente nel successo – cominciò a lavorare dapprima a Milano, alla Pirelli, per poi trasferirsi a Roma, sede principale della sua aderenza al movimento omosessuale e delle prime campagne che la vedranno non solo partecipante ma fondamentale punto di riferimento iconografico. Sebbene fosse già nota all'interno dei circoli di discussione e promozione per i diritti delle persone omosessuali, avendo Spolato preso parte al Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano (F.U.O.R.I.) e avendo fondato assieme ad Angelo Pezzana l'omonima rivista nel 1971 (Fuori!), facendosi creatrice e traduttrice, dall’inglese e dal francese, dell’avanzamento delle istanze che lei stessa supportava in Italia.
[Alt Text: pagine da Fuori!, mensile di rivoluzione sessuale, con un gruppo di militanti e una serie di punti di lotta riportati. Immagine raccolta nel prezioso A Queer Archive]
Nel marzo dell'anno seguente, la vicenda personale e politica di Mariasilvia diviene centrale per la propria generazione e così per tutte quelle a venire. In occasione della manifestazione a favore dei diritti delle donne celebrata attraverso l’occupazione di Campo de’ Fiori, l'8 marzo 1972, evento al quale partecipò anche la nota attrice e attivista Jane Fonda, le femministe presidiarono la piazza con cartelli e discorsi che rivendicavano l’autonomia dei soggetti non maschili. Lo ricorda Adele Cambria, in una delle molte pagine, tra giornali e libri, che ha dedicato nel corso della sua carriera al movimento femminista di cui faceva parte in prima persona.
Flash su Jane Fonda 1'8 marzo 1972 in Campo de’ Fiori. Telecamere si affollano attorno a lei, la piazza è circondata dalla forza pubblica, le donne sono — siamo — poche, una sessantina; quando Jane sorride luminosa e se ne va, se ne vanno anche le telecamere, tutte dedicate all'attrice americana [...] Intanto parte il corteo, anzi «la cortea!», come proclama al megafono Alma Sabatini. Alma è un gran personaggio: anglista, femminista, cofondatrice del Movimento di liberazione della donna federato al Partito radicale, che ha lasciato per dare vita al Collettivo femminista separatista di Pompeo Magno. La sua parola d'ordine, «Cortea!», è una provocazione... Sarà lei a scrivere il primo libro contro Il sessismo nella lingua italiana, pubblicato nel 1987 dalla Commissione Parità presieduta da Elena Marinucci. E dunque mi unisco alla «cortea» e facciamo un paio di giri attorno a Giordano Bruno. Gli agenti accerchiano il vasto marciapiede del mercato di frutta e verdura; e quando il Collettivo Cerchio spezzato dell'Universi-tà di Trento si schiera di fronte ai poliziotti, una bambina, Susanna, figlia di Giovanna Pala, del Collettivo Pompeo Magno, alza il braccio col pugno chiuso e strilla con la sua vocetta: «Via via la polizia». A questo punto il commissario (in borghese) cinge la fascia tricolore, avverte che il corteo non autorizzato deve sciogliersi (si era già sciolto, stavamo sedute in terra!) e dà l'ordine di caricare... Finisce al Santo Spirito, per le manganellate, proprio Alma, la più felicemente anziana di tutte noi. «Menopausa è bello» dirà qualche anno dopo il cartello che inalbera sul petto, mentre, abbigliata da suffragetta, sfila in uno dei cortei dell'8 marzo.
[Alt Text: una giovane Mariasilvia con capelli scuri, occhiali, e un eskimo, sfila nella folla mostrando il celebre cartello (Fronte di) Liberazione Omosessuale.]
In questa occasione Mariasilvia decide di presentarsi con un cartello che la renderà famosa, soprattutto per via della pubblicazione ripetuta delle fotografie che la ritraggono. Sul cartello si legge Liberazione omosessuale, ma quello che non si legge chiaramente sono le parole “Fronte di”, scolorite fino quasi a essersi cancellate (il FLO, Fronte di Liberazione Omosessuale, era stato fondato da lei stessa nel 1971). Mariasilvia aveva quindi scelto in quella occasione di partecipare apertamente non solo come donna ma anche come lesbica, segnalando come le due cose non fossero mai separabili – nella sua esperienza come in quella di tante altre persone –, e scegliendo finalmente di mettere il mondo davanti al fatto che l'esistenza della soggettività lesbica politica era argomento fondamentale per una liberazione davvero trasversale. Ad oggi guardiamo all'azione di Mariasilvia come a una esemplare denuncia di oppressione intersezionale, con la terminologia giuridico-sociologica offerta da Kimberlé Crenshaw (nel 1989). Mariasilvia, lucidissima nell’azione seppur senza il vocabolario odierno, non aveva mai smesso di frequentare il circolo femminista Pompeo Magno nonostante l'adesione al fronte omosessuale, e nella teoria come nella pratica metteva in comunicazione i diversi aspetti che costituivano la sua più piena identità, insegnando come poteva e offrendosi come ponte umano ad altri soggetti perché vivessero questa dimensione senza ridurre le diverse esperienze come assimilabili ad aspetti univoci e dividere in compartimenti stagni le stesse, quanto piuttosto mostrando e lottando per una liberazione di orizzonte comune. Grazie a questa azione diretta, che sconterà lungamente e dolorosamente, viene centralizzata l’esperienza di quei soggetti che subiscono forme di discriminazione, marginalizzazione, o aggressione diverse, sentendosi così di fatto attaccati da più fronti e aspettandosi, o sperando, giustamente, che una comunità plurale sia in grado di comprendere e proteggere, combattere anche al loro fianco senza gerarchizzazioni, isolamenti, e priorità storiche.
Il coraggio di questa docente però non è stato accolto con entusiasmo da una società patriarcale etero-normata, e le tristi conseguenze di questa sovra-esposizione mediatica le costarono innanzitutto un allontanamento dal luogo di lavoro e poi, successivamente, nonostante la coerenza e l'impegno con cui Mariasilvia non si sottrasse mai alla lotta, con un progressivo isolamento che la portò a vivere senza fissa dimora e morire poi nel 2018 in una casa di cura.
In un panorama editoriale che finalmente riporta in superficie l’editoria queer, non sono mancati nel corso degli anni occasioni di tributo a una figura così importante per la storia dei diritti dei soggetti omosessuali in Italia. Un esempio importante del ricordo politico di Mariasilvia è la riedizione del suo testo I movimenti omosessuali di liberazione uscito con un'introduzione di Elena Biagini, la quale di Spolato aveva già tracciato un bellissimo profilo in memoria sulle pagine de il manifesto nell'occasione della sua morte.
Ma cosa ne è stato di Mariasilvia nei 27 anni che ha trascorso vivendo in strada, dopo aver perduto il lavoro e prima di essere finalmente accolta nella casa di cura di Bolzano che la vide morire? Se l'è domandato Sara Poma, decidendo di intraprendere un percorso di ricerca per delineare un profilo tanto intimo quanto politico di una persona a cui dobbiamo moltissimo ma della quale in fondo, bisogna ammettere, sappiamo poco o niente.
Prima è il viaggio di Sara Poma attraverso la vita di Maria Silvia Spolato, la sua militanza e la sua sparizione, la scelta o la condanna all’oblio, a seconda dei punti di vista. Un viaggio che parte da una domanda personale: come sarebbe stata la vita dell’autrice se non ci fosse stato il coraggio di Maria Silvia e di tutte quelle e quelli venuti prima.
Sara Poma, donna lesbica anche lei, dichiara già nella sigla del podcast di voler fare un tributo al coraggio di Mariasilvia. Quello che in aggiunta si evince dalle puntate successive, e in particolare quella dedicata al coming out in famiglia di Sara, in un momento molto lucido e catartico, è un senso di gratitudine nei confronti di chi le ha permesso di essere meno faticosamente sé stessa. Questa delicata tensione tra chi parla e chi viene narrata sposta in parte il fuoco dal coraggio, indiscutibile, di Mariasilvia, ponendo al centro la generosità di quelle difficili scelte. Il rapporto che chi ascolta la storia di Mariasilvia instaura quindi con chi la ricostruisce produce una catena di empatia che rende particolarmente fruibile emotivamente quelle sfumature che contraddistinguono l’identità completa di un soggetto, probabilmente sempre inafferrabile, ma in questo caso delicatamente e fermamente ricomposta.
L’operazione di ricostruzione che offre il viaggio di Poma nella vita di Mariasilvia parte dai dati certi della vita della persona, come il voto di laurea, e li confronta con la narrazione mitopoietica del personaggio, un profilo tramandato per eccessi. Senza voler così intaccare la memoria scintillante della “prima lesbica d’Italia”, Poma chiama in causa chi ha conosciuto Mariasilvia per tratteggiarne una silhouette più completa e profondamente umana. Gli eventi storici che segnano il cambiamento del volto di un paese si illuminano di autenticità nel racconto che di Mariasilvia fanno le persone che le son state amiche e compagne di viaggio e di movimento. La scelta di ondeggiare tra documenti ufficiali e ufficiosi, tra registri anagrafici e memorie personali, è una scelta ponderata e che Poma ha già messo alla prova nella sua prima esperienza di narrazione del nostro paese nel podcast Carla, una ragazza del Novecento. Se nel caso del ritrovamento dei diari della nonna, Carla appunto, classe 1923, la storia familiare di Poma e quella personale di sua nonna venivano ricontestualizzate attraverso una serie di interviste a studiosx del dopoguerra ed espertx delle fonti diaristiche, nel caso della vita di Mariasilvia l’autrice sceglie di compiere un processo uguale ma di direzione contraria, partendo dalla Storia, seppur quella dei margini, per restituire la parzialità del dato biografico, riumanizzando profondamente una figura la cui fortuna oscilla da sempre tra idolatria e oblio. Lo riconosce perfettamente lei stessa in un’intervista che, seppur in maniera tangenziale, esplicita il metodo di costruzione e decostruzione delle protagoniste delle storie che rintraccia, in cui rievoca:
S.P. Sono partita da una figura bidimensionale, una fotografia che avevo visto on-line, che la ritraeva mentre teneva stretto un cartellone, e da una pagina Wikipedia piena zeppa di notizie sbagliate. Ma proseguendo le ricerche, Maria Silvia mi si è mostrata come persona estremamente complessa. Ineffabile, in qualche modo. Infatti, sono rimaste insolute tantissime domande che hanno a che vedere proprio con quella sua complessità. Quello che riesco a dirti è che, ricomponendo pazientemente i tasselli della sua storia, mi sono accorta che Maria Silvia non era solo una foto o una pagina Wikipedia. E non era nemmeno soltanto un simbolo, la prima donna scesa in piazza a dichiarare la propria omosessualità. Era molto, molto di più.
A 50 anni dalla nascita dei primi movimenti per i diritti omosessuali torniamo a parlare di Marisilvia con rinnovato interesse e con nuove possibilità di sguardo, nella speranza di imparare dagli errori del passato come non lasciare più alcuna persona sola e fare davvero comunità, come costruire una storia alternativa e complementare a quella che viene ricordata nei libri di testo e che invece della voce e delle esperienze di chi vive ai margini non ha interesse. Anche grazie a contributi come quello di Sara Poma, ci riappropriamo e riconosciamo in una storia che ci appartiene, popolata da persone prima ancora che martiri e idoli; vere e proprie persone e come tali vogliamo riscoprire, per avere finalmente restituita una memoria completa, complessa, capace di farci interrogare continuamente sugli strumenti con cui decidiamo di interagire e curare la nostra eredità identitaria.
[Alt Text: ritratto fotografico di Mariasilvia oramai anziana, indossa un berretto blu. Foto scattata da Lorenzo Zambello presso Villa Armonia nella primavera del 2018.]
FATTO DA NOI
Francesca ha recensito per Il Tascabile il libro L’abito bianco di Nathalie Léger, appena uscito in traduzione italiana per i tipi de La Nuova Frontiera. Si tratta di un saggio ibrido, che mescola memoir e ricerca storica, ma soprattutto affronta la figura dell’artista e performer Pippa Bacca insieme l’ingombrante storia della madre di Léger stessa.
Gloria ha discusso pregi e difetti di Promising Young Woman nel podcast Ricciotto, insieme ad Alice Cucchetti e a* padron* di casa Federica Bordin e Aldo Fresia. Puoi leggere un lungo approfondimento sullo stesso film, a cura di Cristina Resa, nella Ghinea di febbraio.
FATTO DA VOI
È uscito STAR - Azione Travestite di Strada Rivoluzionarie, per Edizioni Minoritarie. Parte dei ricavati delle vendite saranno devolute per il finanziamento dal basso di Casa Marcella.
Radio Città Aperta ha dedicato una puntata speciale a Goliarda Sapienza. Tra le persone invitate, anche la nostra amica Alberica Bazzoni.
UNA DONNA
Elaine Mokhtefi: una vita in un mondo in lotta
di Valentina Fornelli
La prospettiva italiana sul secondo dopoguerra, schiacciata sui nascenti movimenti studenteschi, sul legame tra il PCI e l'Unione Sovietica e, in seguito, sulla lotta armata, fatica a rendere percepibile la reale posizione del baricentro globale in quell'epoca. Era nelle ex colonie e nei paesi lontani dai grandi centri del capitalismo – l'Africa, l'America Latina, il Sud Est asiatico – che accadevano gli eventi più straordinari, attirando persone allergiche ai confini, appassionate, avventurose, ribelli. Tra loro c'era Elaine Mokhtefi. E se questo mondo in lotta avesse dovuto scegliersi una capitale, avrebbe probabilmente scelto Algeri.
Nel suo bellissimo libro Algiers, Third World Capital: Freedom Fighters, Revolutionaries, Black Panthers, pubblicato da Verso Books, Elaine Mokhtefi Elaine non ha dubbi.
[La copertina del libro di Elaine Mokhtefi edito da Verso Books, Algiers, Third World Capital. Fonte.]
Nata Klein a New York in una famiglia della classe lavoratrice di confessione ebraica, a poco più di 20 anni è la leader della sezione studentesca degli United World Federalists (oggi World Federalist Movement), movimento per la costruzione di un governo federale mondiale che ebbe un boom nel secondo dopoguerra. Nel 1950 Elaine Mokhtefi lascia gli Stati Uniti per Parigi: per lei la Francia è il paese di Zola e di Dreyfus, degli impressionisti, e il luogo in cui i soldati afroamericani erano stati accolti come eguali, come non accadeva negli Stati Uniti. La vita libera della rive gauche e la militanza politica la assorbono completamente.
Presto si accorge però che anche la Francia all’apparenza tanto egualitaria è attraversata, anzi spaccata, da una profonda contraddizione: da alcuni anni un movimento nazionalista algerino chiede l’indipendenza del paese, la cui popolazione non bianca vive in condizioni di indicibile miseria. Persino il sindacato CGT e il partito comunista francese sono a favore del mantenimento del dominio sull’Algeria, abitata ormai, dopo più di 120 anni di colonizzazione, da oltre un milione di “europei”. Francesi, soprattutto, ma anche spagnoli, greci e italiani, in molti casi operai nelle tante industrie che lavorano le risorse minerarie e agricole di cui il paese viene sistematicamente spogliato, e che trovano nella colonia condizioni di lavoro migliori rispetto alle miniere della madrepatria, che invece si riempiono di lavoratori “indigeni” algerini importati come un qualunque altro bene.
Il primo novembre 1954 la lotta innesca una vera e propria rivoluzione, cui la Francia risponde con il dispiegamento di centinaia di migliaia di soldati, la costruzione di campi di prigionia, gli stupri bellici, l’utilizzo pervasivo della tortura. Ci vogliono otto anni perché la guerra finalmente si concluda: l'ultima grande potenza coloniale viene sconfitta, e l’asse politico mondiale si sposta verso i paesi non allineati.
E anche se di quella lotta prevale soprattutto la narrazione militare, spesso si dimentica che fu una battaglia combattuta su molti altri fronti. Ci furono quello propagandistico, quello economico – ad esempio con gli scioperi e le azioni di sabotaggio come quella compiuta dall'algerino europeo Fernand Iveton – e anche quello diplomatico. Non solo, ma se è innegabile che a condurla furono soprattutto gli algerini che la Francia definiva “musulmani”, accendendo la miccia della guerra di religione che brucia ancora oggi, fu anche molto più trasversale a religioni e appartenenze di quello che entrambi i paesi coinvolti vogliono oggi ammettere.
Elaine Mokhtefi lavora in tutta Europa come interprete, e ovunque si trovi partecipa alle iniziative di sostegno alla lotta di liberazione algerina. A trentun anni ha una lunghissima esperienza nelle organizzazioni della sinistra internazionale ed è una militante sulle cui capacità e lealtà non ci sono dubbi. Il Governo Provvisorio della Repubblica Algerina la invita a installarsi nel suo ufficio a New York, con l'incarico di perorarne la causa all'ONU, tra le grandi organizzazioni di sinistra, e sulle prime pagine dei giornali occidentali.
L'ufficio è un microcosmo che ospita futuri ministri, intellettuali, marinai algerini di passaggio per consegnare chili di cibo del paese d'origine e il denaro raccolto con le collette sulle navi, militanti dell'IRA solidali con la lotta.
Elaine Mokhtefi lavora con Frantz Fanon ed è al suo fianco nei suoi ultimi giorni. Lo psichiatra e filosofo martinicano muore infatti di leucemia nel 1961, negli Stati Uniti, poco dopo aver concluso la sua opera più influente, I dannati della terra. Giunto in Algeria per lavorare all’ospedale psichiatrico di Blida, nelle vicinanze di Algeri, Fanon vi aveva messo in pratica le sue teorie sugli effetti dell’oppressione coloniale sulla psiche, eliminando la costrizione dei malati e rendendo l’ospedale un piccolo mondo sociale, in cui i malati erano soggetti attivi. Con lo scoppio della guerra, Fanon era entrato a far parte del Fronte di Liberazione Nazionale e, una volta espulso dal paese, ne era divenuto la voce più nota all’estero. Il suo pensiero sulla violenza come necessaria alla nascita di una nuova umanità liberata dall’oppressione coloniale diventa un punto di riferimento fondamentale per moltissimi movimenti dell’epoca, incluse le Pantere Nere.
La guerra conduce finalmente alla vittoria e alla dichiarazione di indipendenza, il 5 luglio 1962. Poco dopo, Elaine Mokhtefi mette piede per la prima volta in quel paese per cui tanto ha lottato. Non sono molte le persone che possono rispondere alla domanda “Cosa si fa dopo una rivoluzione?” raccontando la propria reale esperienza, e lei è una di queste.
“Eravamo tutti dei militanti, l'avvenire ci apparteneva”, racconta dei suoi primi giorni ad Algeri.
Le case abbandonate dagli europei (in gran parte fuggiti nonostante i sinceri inviti a restare del nuovo governo) vengono occupate da nuovi inquilini, le aziende agricole sono collettivizzate ed è adottato il socialismo. Il paese può contare solo su poche centinaia di laureati a fronte di una popolazione quasi totalmente analfabeta. Viene avviata una campagna di scolarizzazione di massa con pochi precedenti per rapidità ed efficacia. I figli di persone che non avevano potuto neanche imparare a leggere accedono a un'educazione universitaria gratuita e di alto livello.
Elaine Mokhtefi va ad abitare in un appartamento abbandonato nel centro di Algeri, nel vivace quartiere raccontato da Kaouther Adimi nel suo bellissimo romanzo La libreria della Rue Charras.
La città ribolle di energie. Migliaia di stranieri che hanno parteggiato per l'Algeria affluiscono dai paesi limitrofi, dalla Francia e dal resto dell'Africa, accolti a braccia aperte dal giovanissimo paese. Non c'è movimento di liberazione che non abbia un suo ufficio ad Algeri, dal Fronte di Liberazione del Vietnam del sud a quello del Quebec. Per le strade della casbah Gillo Pontecorvo gira La battaglia di Algeri – in cui Elaine Mokhtefi ha persino una piccola parte come comparsa – e il panafricanismo vive il suo momento d'oro.
Le istituzioni algerine sono un cantiere aperto, in cui un’esperta di comunicazione politica bilingue è una figura preziosa. Il fatto che sia una donna, americana, atea e di origini ebraiche non ha alcuna rilevanza in un paese che ha davvero, anche se per breve tempo, abbracciato l’egualitarismo. Elaine Mokhtefi lavora all'ufficio stampa della Presidenza, detenuta da Ahmed Ben Bella, e quindi all'Agence National de Presse.
Nel 1965 Ben Bella viene spodestato da un golpe capeggiato dal suo Ministro della difesa, Houari Boumédiène. L’ala militare del FLN conquista il predominio su quella civile – senza mai più perderlo – e il paese comincia, prima impercettibilmente e poi in modo sempre più netto, a imboccare la strada tracciata dall’Egitto di Nasser: quella di un panarabismo che nega la pluralità linguistica e culturale, taglia i ponti con la classe intellettuale francofona, e reprime ferocemente i suoi avversari politici.
Ben Bella viene posto agli arresti domiciliari. Sempre agli arresti sposa una cara amica di Elaine, la giornalista e militante del FLN Zohra Sellami. Un evento che avrà immense ripercussioni sulla sua vita.
Nel frattempo, negli Stati Uniti emergono con forza il nazionalismo nero e il Black Panther Party (BPP), repressi a furia di complotti e omicidi. A Cuba, Elaine Mokhtefi incontra Stokely Carmichael, che in seguito accompagna durante un viaggio in Algeria. Il legame tra il paese e la lotta degli afroamericani è così creato.
[Alt Text: Stokely Carmichael in Algeria in visita a un'azienda agricola collettivizzata. Di taglio sulla destra, Elaine Mokhtefi. Fonte.]
Nel 1969 è la volta di Eldridge e Kathleen Cleaver, due tra le figure più prominenti del Black Panther Party. Atterrati ad Algeri dopo un tempestoso esilio cubano, la incaricano di aiutarli a stabilirsi in città per costruire la sezione internazionale del BPP. A differenza di Cuba, il governo algerino accorda al BPP lo status di movimento di liberazione, concedendogli una grande villa e aiuto economico. Con l'installazione delle Pantere ad Algeri, la vita di Elaine Mokhtefi cambia radicalmente e torna a intrecciarsi con le vicende del suo paese natale.
[Alt Text: copertina del Black Panther Party community newsservice del 9 agosto 1969. Quasi tutti i numeri della rivista sono scaricabili qui.]
Prima Cleaver le confessa di aver ucciso un altro membro del BPP (per ragioni probabilmente personali), omicidio che verrà insabbiato dalle autorità algerine. Quindi nel paese arrivano Timothy Leary, punto di riferimento per la controcultura statunitense degli anni ‘60, incarcerato per il suo supporto all’uso di droghe psichedeliche e recentemente evaso, e la moglie Rosemary. Infine ben due aerei statunitensi vengono dirottati in direzione Algeri da afroamericani intenzionati a raggiungere le Pantere. Ad attenderli all'aeroporto c'è sempre Elaine Mokhtefi, divenuta l’anello di congiunzione non ufficiale tra i tanti militanti fuggiti dagli USA in cerca di asilo e il governo algerino.
[Alt Text: Kathleen Cleaver, Eldridge Cleaver e Elaine Mokhtefi seduti a un tavolo con microfoni durante una conferenza stampa. Mentre Eldridge Cleaver parla, Kathleen Cleaver lo ascolta intenta e Mokhtefi prende appunti. Fonte.]
Viaggia moltissimo: accompagna Kathleen Cleaver in una serie di comizi negli Stati Uniti, quindi si reca in Germania con un plico di passaporti americani rubati, che consegna a un'esperta falsaria della RAF di Ulrike Meinhof perché li renda utilizzabili da Eldridge e da altri membri ricercati del BPP. Infine, nel 1972, con le Pantere ormai spaccate dalla rivalità tra le fazioni di Newton e Cleaver, aiuta quest'ultimo a lasciare l'Algeria e a entrare clandestinamente in Francia. Azione, quest'ultima, che le costa un divieto di soggiorno sul territorio francese.
In Algeria le cose non vanno meglio: dopo essersi rifiutata di spiare l'amica Zohra Sellami per conto del governo sempre più repressivo di Boumedienne, viene espulsa dall'Algeria. È la fine della sua vita nel paese che aveva contribuito a costruire. Paese in cui ha il suo lavoro, la sua casa e l’amatissimo marito Mokhtar Mokhtefi, partigiano della guerra di liberazione e anche lui inviso al nuovo potere (nonché scrittore).
Insieme a lui riesce dopo diverse peripezie a installarsi a Parigi, dove apre un laboratorio di gioielleria. Ma il paese è sempre più razzista e asfissiante, e la coppia decide di trasferirsi negli Stati Uniti. È qui che Elaine Mokhtefi oggi vive e dipinge.
[Alt Text: Elaine Mokhtefi a casa sua negli Stati Uniti, seduta su un divano giallo. Alle sue spalle una libreria disordinata e appoggiati a terra alcuni ritratti incorniciati. Fonte.]
Così ricco di ricordi, passione e ritratti sinceri (primo fra tutti quello di Eldridge Cleaver, ma anche Frantz Fanon, Stokely Carmichael, Simone de Beauvoir, e moltǝ altrǝ), il memoir di Elaine Mokhtefi è una guida preziosa a un'epoca di rivoluzioni vittoriose, internazionalismo e libertà. Un'epoca il cui cuore non pulsava qui nel vecchio continente, e tanto meno negli USA o in Unione Sovietica, ma in luoghi come Algeri, l'Avana, Accra, Conakry, e in cui la politica plasmava vite grandiose di lotta e amore.
Un periodo storico che di certo dovremmo imparare a comprendere meglio, al di là della perniciosa riduzione di quei decenni alla sola guerra fredda, che sminuisce o addirittura ignora gli eventi immensi che accadevano oltre i due blocchi. Quasi a voler esorcizzare la più grande paura dei difensori dell’Occidente: quella di perdere il timone – economico, politico e culturale – del mondo.
Valentina Fornelli lavora come copywriter e traduttrice, è tra le fondatrici del progetto Struggles in Italy e fa parte della Libreria delle Donne di Bologna.
Ringraziamo Diletta e Valentina per aver contribuito a questo numero di Ghinea, e ti invitiamo come sempre a scriverci se ti piacerebbe fare lo stesso. Ci leggiamo tra un mese!
Un abbraccio!
Francesca, Gloria e Marzia