La ghinea di agosto
Benvenutx a Ghinea, la newsletter che ha ricominciato a dormire con una copertina leggera. Prima di iniziare, una comunicazione di servizio: sabato 11 settembre Francesca e Gloria saranno ospiti del festival Flush, dedicato alle narrazioni digitali. L’incontro si terrà nel giardino della biblioteca del Centro delle Donne di Bologna, alle 18.30.
Questo mese torna a trovarci Paola Moretti, e ci parla della scrittura di Lydia Davis. Buona lettura!
Lydia Davis come esperienza religiosa
di Paola Moretti
[Alt Text: ritratto fotografico di Lydia Davis in primo piano. Davis porta gli occhiali e i capelli corti a caschetto, indossa un maglioncino lilla e tiene in braccio un gatto tigrato color grigio e nero. Fonte.]
Lydia Davis, scrittrice americana classe 1947, ha fatto sua la lezione di Beckett, ha letto tanto Kafka e, a tratti, ricorda Daniil Kharms. È comprensibile che qualcuno, leggendo i suoi racconti, provi perplessità, un vago disorientamento: la scrittura di Lydia Davis è il luogo in cui logica, ermeneutica e traduzione si incontrano e diventano metodi di composizione. Il procedimento di scomporre una situazione nelle sue parti essenziali al fine di comprenderla, come si farebbe per esempio nell’analisi logica del periodo o nel paradosso filosofico, è caratteristica delle strutture dei suoi racconti, e non è un caso che il titolo originale di una sua raccolta sia Break it Down. Nel racconto eponimo, tradotto in italiano da Adelaide Cioni come “Pezzo a Pezzo”, la logica viene usata come dispositivo per far avanzare la “trama”. Il narratore infatti vuole tirare le somme in merito a una relazione sentimentale cercando di quantificarla in termini monetari, e nell’atto di calcolarne i costi la analizza: negli otto giorni trascorsi con il partner ha speso ottocento dollari, e dato che hanno fatto sesso una volta al dì gli è costato cento dollari a rapporto, cinquanta all’ora. E avanti così finché il narratore non capisce che nel costo sono inclusi anche altri gesti, le attenzioni, le tenerezze, i sorrisi, gli sguardi, gli sfioramenti. La tariffa scende dunque a sei dollari l’ora, una volta che l’uomo prende in considerazione gli altri momenti della relazione e, per quanto assurdo, continua a calcolare finché non arriva al punto di mettere in conto il dolore, ed è solo allora che il ragionamento si intoppa: “non puoi quantificarlo, perché il dolore viene dopo e dura più a lungo.” Il racconto si conclude poi con una svolta in direzione della concretezza tipica della scrittrice, che fa dire al suo personaggio: “Perciò stavo solo facendo questa considerazione, che inizi con seicento dollari, diciamo pure mille dollari, e ne esci fuori con una vecchia camicia”.
Il ragionamento logico non funge solo da struttura, ma contiene anche il messaggio cruciale della poetica di Davis. Le sue voci narranti sono, senza eccezioni, dolorosamente consapevoli di sé. La loro iper-consapevolezza, tuttavia, porta solo a una maggiore confusione, prendere in considerazione tutte le variabili possibili serve solo a disperdere il problema e a complicarlo, e così come l’amante ferito non riuscirà a capire quanto gli sia costata la relazione, così Davis dimostra, in quasi ogni sua storia, l’impossibilità di escludere le alternative e tenta – fallendo consapevolmente – di assumere una posizione opposta a quella insita nell’affermazione di Didion: “Nel momento in cui cominci a mettere parole su carta stai eliminando possibilità”.
È la stessa Davis, nel saggio “Fragments” compreso nella raccolta Essays One, a chiarire la sua posizione, sostenendo che tanto più completo e dettagliato è un testo, quanto più è limitato. Nel saggio Fiction as Language Game: The Hermeneutic Parable of Lydia Davis and Maxine Chernoff(1992), Marjorie Perloff la cita scrivendo che “la narrativa deve trascendere la negazione congenita della scrittura e rinnovare, benché in maniera ellittica, la relazione tra le parole e i loro referenti”. La vicinanza tra la poetica di Davis e la filosofia di Wittgenstein è qui evidente, poiché per quest’ultimo l’indagine sul senso delle proposizioni e della formulazione dei problemi è il punto focale del suo pensiero, il linguaggio è ciò che preoccupa il filosofo austriaco. Il mondo e i suoi stati di cose per Wittgenstein viene da noi raffigurato attraverso l’uso di proposizioni controllabili, proposizioni delle scienze naturali, in quanto esse – e non la filosofia – sono in grado di indagare la realtà inserendola in un sistema di rappresentazione. Ciò che però non possiamo rappresentare, secondo Wittgenstein, è quello che le nostre proposizioni hanno in comune con la realtà o, a parole sue: “Fuori dalla logica tutto è Accidente”, e “i limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo” e “La logica riempie il mondo; i limiti del mondo sono anche i suoi limiti”.
In sostanza, non ci sarà mai una vera corrispondenza tra ciò che accade e ciò che diciamo che accada, o come spiega meglio Ingeborg Bachmann ne Il dicibile e l’indicibile,
La forma logica è il “limite” [...] poiché questa rende sì possibile la rappresentazione, ma non può a sua volta venire rappresentata. In essa appare qualcosa che indica oltre la realtà. E indica oltre alla realtà nella misura in cui nella forma logica si mostra qualcosa che per noi è impensabile. E poiché è impensabile non è possibile parlarne.
La prossimità con la scuola neopositivista di Vienna è anche uno degli aspetti che inquadra Davis come una scrittrice postmoderna, avvicinandola concettualmente a scrittori come Robert Coover.
Coover prima di altri (ma insieme a Barth, Pynchon e Barthelme) ha spinto la sperimentazione linguistica e metanarrativa in antri oscuri e remoti per cui si necessiterebbe di un articolo a parte. Ciò che però, in conclusione, accomuna Davis, Wittgenstein e Coover è la continua ricerca di un linguaggio atto alla rappresentazione perfetta malgrado l’impossibilità della missione, ricerca che si traduce dunque in una perpetua distruzione e ricostruzione delle forme di senso.
Un autore a cui Davis deve molto è il post-strutturalista Maurice Blanchot. Qui vale la pena ricordare che la scrittrice americana è anche una nota traduttrice dal francese,: tra gli altri ha tradotto Dalla Parte di Swann di Proust, Madame Bovary di Flaubert, il poeta surrealista Michael Leiris e, appunto, Maurice Blanchot. È di quest’ultimo la teorizzazione del récitcome forma letteraria nel suo saggio Il libro a venire (1959), dove spiega che il récit non è la narrazione dell’evento, ma l’evento stesso che racchiude in sé la possibilità della narrazione. Il richiamo che strappa la scrittura alla trama. Jonathan Evans, nel suo The Many Voices of Lydia Davis (2016), spiega che il récit, piuttosto che produrre una narrativa aristotelica con unità di tempo, spazio e azione, apre un’altra dimensione temporale che è il passaggio tra reale e immaginato, ed è questa relazione irregolare e irreale con il tempo che definisce la forma letteraria del récit. È dunque una narrazione che produce il proprio tempo, che chiama attenzione su di sé e rende palese la sua natura di racconto ponendo l’azione in un tempo diverso e distante dal tempo del racconto, sottolineando al lettore l’artificio della scrittura.
Leggendo gli scritti di Davis, alla luce di quelli di Blanchot, l’influenza è evidente in termini di récit soprattutto nella novella The End of the Story, in cui la narrazione viene continuamente interrotta per mettere in discussione la natura stessa del narrare, creando così sia una voluta discontinuità nella trama, sia un’alternanza estrema tra piani temporali (quello in cui gli eventi sono accaduti, quello in cui la narratrice scrive degli eventi e quel tempo impossibile che è un “adesso” fittizio della voce narrante che risuona nella testa del lettore). Una cosa simile avviene anche nel racconto “Storia”, che rappresenta la risposta autoriale a La folie du jour di Blanchot (uno dei primi racconti tradotti da Davis) e che andrà poi a confluire come parte della novella. I testi dei due autori, benché a partire da eventi differenti – uno parla dei campi di concentramento nazisti, l’altra di un litigio con l’amante – si interrogano sulla possibilità di scegliere un’unica interpretazione degli eventi e di conseguenza sulla possibilità che un’unica versione da raccontare sia esaustiva. Interpretazione, possibilità della narrazione, finitudine – queste questioni sono il nocciolo filosofico alla base della poetica di Davis, nonché il punto di partenza di ogni sua indagine, di ogni suo scritto.
Quando interrogata riguardo alle sue influenze in un’intervista condotta dallo studioso Christopher Knight, Davis, riferendosi sia a Blanchot che a Leiris, confessa di non sapere se è attratta dalla loro opera ed è contenta di tradurli perché ha un approccio simile nei racconti che scrive, o se loro l’hanno condizionata ad accentuare l’aspetto analitico della sua scrittura. In un’altra intervista pubblicata sul sito web Walks With Moose spiega più nel dettaglio che Blanchot
nella sua narrativa raggiunge certi strani posti che uno pensa di non avere il permesso di frequentare o a cui non pensa proprio di arrivare. Prende un momento particolare e lo guarda al microscopio così che sembra di guardare degli atomi e come interagiscono.
È un tratto comune anche alle sue storie che, oltre alla caratteristica brevità, spesso trattano di situazioni circoscritte, staccate da un contesto più ampio, e sostanzialmente triviali. Il tono è quello della deadpan anglosassone, tuttavia la delicatezza con cui vengono prese in considerazione le sfumature di sentimento dei personaggi ricorda Gli Amori Difficili del Calvino giovanile. Il punto di vista è sempre quello di un narratore molto vigile, curioso e arguto. I racconti contengono quasi sempre un elemento, seppur minimo, di sorpresa e molte volte strappano se non una risata vera, un sussulto di stupore. Per questo motivo Craig Morgan Teicher, in una recensione pubblicata su Cleveland.com, definisce Davis come “Monty Python sotto antidepressivi”, oltre che la maestra di un genere letterario inventato fondamentalmente da lei.
Un esempio particolarmente ilare e utile a capire l’influenza che Blanchot e Leiris hanno esercitato sull’idea di trama nella scrittura di Davis è “Fare Aria”, dalla raccolta Creature nel giardino tradotta da Adelaide Cioni. In questo racconto un uomo e una donna, probabilmente al loro primo appuntamento, si trovano in una situazione di imbarazzo quando la stanza si riempie di una leggera puzza intestinale:
Le dispiaceva un po’ per l’ospite, perché immaginava che fosse imbarazzato e nervoso a trovarsi lì con lei, e che fosse proprio per questo che aveva fatto aria. Poi improvvisamente le venne in mente che forse non era stato affatto lui, forse era stato il cane, e peggio ancora, che se era stato il cane lui poteva pensare che fosse stata lei. In effetti il cane aveva rubato un intero filone di pane quella mattina, e se l’era mangiato tutto, quindi era possibile che avesse dell’aria nella pancia, cosa che non capitava normalmente.
Da quel momento, dalla rivelazione che forse, era stato il cane e che di conseguenza l’ospite avrebbe potuto pensare che fosse stata lei a causare l’odore sgradevole, la narrazione prosegue seguendo i pensieri della donna mentre cerca il modo di chiarire il malinteso senza causare ulteriore imbarazzo. Assistiamo così a una serie di possibili scenari dipinti nella mente della protagonista a cui vengono cambiate le variabili: “poteva dire qualcosa sul cane, per scusarlo. Ma forse non era stato il cane, era stato lui” e ancora, “Forse il cane avrebbe scoreggiato di nuovo, sempre che fosse stato il cane”. E mentre il lettore si perde nel turbine di possibilità e realtà ipotetiche immaginate dalla voce narrante il fuoco si stringe progressivamente su un’unica questione, lasciando indistinto tutto il resto attorno. È come se la lente si avvicinasse così tanto a un unico punto da non ricordarsi che cos’era che si stava guardando all’inizio, nel suo insieme.
La traduzione letteraria non è solo un’occupazione per Davis, ma è anche strumento costitutivo della sua narrativa. Per sua stessa ammissione su The Paris Review, le due professioni di scrittrice e traduttrice sono indissolubili in quanto: “non esiste una vita parallela in cui non traduco”. Anche per questo è così difficile capire dove finisca l’una e dove cominci l’altra, o meglio, nella sua poetica questa distinzione diventa superflua. Nella pratica, la questione si manifesta quando Davis usa la traduzione all’interno dei suoi racconti, come concetto, come tema, come metodo di approccio al testo, ma anche come traduzione nel senso letterale del termine. L’esempio più rappresentativo è Marie Curie, una donna così onorabile, apparso per la prima volta su McSweeney’s Quarterly Concern con il titolo emblematico di Translation Exercise #1. Sulla rivista il testo è accompagnato da una serie di paratesti – uno scambio epistolare tra autrice ed editor – che ne spiegano la genesi: il racconto viene da una traduzione della biografia di Marie Curie che era stata commissionata a Davis, e benché il lavoro fosse piuttosto noioso, lo stile in cui era scritto il libro in francese era invece lezioso, sostiene Davis in una delle lettere. È stato così che ha cominciato a copiare le frasi più notevoli in un awkward English, fino a creare la biografia compressa di Marie Curie scritta in una lingua che l’autrice definisce “translationese”, e che in italiano è diventata così:
Fiera, appassionata e infaticabile, è stata protagonista della sua epoca perché ha avuto l’ambizione dei suoi mezzi e i mezzi della sua ambizione, e infine anche della nostra epoca, dato che fra Marie e l’energia atomica c’era una filiazione diretta.
E poi, ci è pure morta.
Questo testo porta all’estremo quello che su di lei ha scritto la poetessa Fanny Howe in un articolo apparso sul New York Times:
Distanziata come una traduttrice nel suo approccio alla narrazione Davis spinge il linguaggio in una nuova forma di espressione. In generale la sua prosa non è americana nel ritmo o nelle inflessioni, ma tocca un terzo tono che funge da ponte tra una lingua europea e l’inglese.
Anche l’accademica Kasia Boddy, in una recensione pubblicata dal Telegraph, collega la prosa di Davis con la sua attività di traduttrice e sostiene che “molto della sua narrativa aspira a rimandare indietro quello che lei vede come lo stato provvisorio e ageografico di un testo tradotto”.
È poi l’autrice stessa, sempre nell’intervista apparsa su The Paris Review, a spiegare che molte delle sue influenze letterarie sono state (e sono) europee e che il suo desiderio era di combinarle con una sensibilità spiccatamente americana.
Per questo motivo un linguaggio del tutto consueto come quello che usa Davis, che non si avvale di un registro alto e le cui frasi sono sempre minimali, chiare e accessibili, ha un effetto spiazzante sul lettore. L’altro motivo che rende la sua prosa obliqua è l’uso, in un contesto narrativo, di connettivi e opposizioni tipiche del sillogismo e dell’indagine logico-filosofica (“se…allora”, “o…o” ). Come lei stessa dichiara nel saggio “Forms and Influences III” compreso in Essays One, Davis ricerca una lingua che sia eloquente e allo stesso tempo straniante. Infatti, si riconosce in lei la lezione del teorico letterario russo Viktor Shklovsky, sia dalla volontà di estrarre dal loro habitat naturale i concetti e le modalità che si sono nel tempo affermate e solidificate attorno a un’idea o un genere, e trapiantarle in un altro contesto, sia nel suo desiderio di ristabilire e rinnovare il collegamento tra significante e significato. Shklovsky sostiene infatti che nel momento in cui la percezione diventa abitudinaria diventa anche automatica. L’arte esiste proprio come mezzo per contrastare l’automatismo della percezione e lo fa rendendo “l’oggetto estraneo”, facendo in modo cioè che si stabilisca una nuova relazione tra l’oggetto e il suo osservatore. Lydia Davis, con la scelta del linguaggio e con la messa a fuoco con cui decide di raccontare le situazioni, sembra riuscire nell’intento.
Poi, fortuna vuole che abbia da poco pubblicato la raccolta di saggi Essays One in cui racconta anche come fa a farlo. Qui Davis parla della sua formazione, spiega il suo pensiero e illustra, parola per parola, come lavora sui testi. Per esempio, è molto divertente venire a conoscenza della genesi del racconto “Nancy Brown will be in Town”, contenuto nella raccolta Can’t and Won’t, ancora inedita in Italia.
Nancy Brown will be in town. She will be in town to sell her things. Nancy Brown is moving far away. She would like to sell her queen mattress. Do we want her queen mattress? Do we want her ottoman? Do we want her bath items? It is time to say goodbye to Nancy Brown. We have enjoyed her friendship. We have enjoyed her tennis lessons.
Nancy Brown sarà in città. Sarà in città per vendere le sue cose. Nancy Brown si trasferisce lontano. Vuole vendere il suo materasso matrimoniale. Vogliamo il suo materasso matrimoniale? Vogliamo il suo ottomano? Vogliamo i suoi articoli da bagno? È ora di dire addio a Nancy Brown. Abbiamo goduto della sua amicizia. Abbiamo goduto delle sue lezioni di tennis. (Traduzione mia)
Nel saggio in cui ne parla, riporta anche una versione precedente e più prolissa del racconto, dove le informazioni vengono comunicate per via indiretta “we are told that she would like to sell her queen mattress” e le due frasi finali comparivano in ordine invertito. Davis illustra i suoi cambiamenti e ne spiega la motivazione – logica o stilistica, a seconda dei casi – fino a svelare la fonte d’ispirazione del racconto, ovvero una email dall’oggetto: “Darcy Brown will be in town”. Dopo aver riportato il contenuto dell’e-mail, un messaggio in cui Darcy Brown, insegnante di tennis, annunciava il suo ritorno in città per vendere alcuni possedimenti prima di trasferirsi definitivamente altrove, Davis scrive che ad attirarla furono, per prima cosa, la rima nell’oggetto dell’email e poi il fatto che, pur non conoscendo Darcy Brown, era stata improvvisamente attirata nell’intimità del suo mondo. Gli scritti della raccolta in cui Davis ci delizia con i retroscena del suo lavoro sono molteplici e mirati a dissezionare un aspetto specifico della sua scrittura, altri invece analizzano l’opera di autori e artisti, mentre un unico testo raccoglie vari consigli per aspiranti scrittori.
La prosa di Lydia Davis scardina gli stilemi, le concezioni date per assodate dal canone letterario e dimostra che anche le minuzie della logica, i dettagli minimi di un’ipervigile attenzione, la pedanteria di una mente tendente all’ossessione, la precisione quasi maniacale, la fissazione per l’esattezza, l’ordine, la sintesi, tutte quelle caratteristiche che si associano con l’idea di pensiero analitico-scientifico e che si pensa non possano trovare un posto nella letteratura, concorrono invece alla creazione di opere letterarie di grande raffinatezza.
Davis è una scrittrice che pone al centro della propria indagine narratologica il funzionamento e le peculiarità del suo modo di ragionare, e sebbene in un primo momento siano l’assurdità delle non-trame a colpirci, la voce unica dei suoi narratori a sorprenderci, se la si legge in maniera intensiva ed estensiva, si scopre che ogni suo racconto, ogni suo testo, è parte di una ricerca che ha condotto attraverso ogni ponderata scelta formale, lessicale e strutturale, alla costruzione, pezzo a pezzo, della sua solidissima poetica. Non viene in mente nessun altro autore – se non la sua dichiarata fonte d’ispirazione Thomas Bernhard – con una con una produzione letteraria talmente compatta, con un controllo tale sulla lingua, con una consapevolezza così cristallina dei propri intenti. Ma più di tutto, sono rari gli scrittori con la generosità intellettuale di dare accesso alla propria testa nella maniera onesta e modesta in cui lo fa lei. Lydia Davis è un genio, e come scrive David Foster Wallace in Federer come esperienza religiosa:
Il genio non è riproducibile. L’ispirazione, però, è contagiosa, e multiforme, e anche soltanto vedere, da vicino, la potenza e l’aggressività rese vulnerabili dalla bellezza significa sentirsi ispirati e (in modo fugace, mortale) riconciliati.
Paola Moretti collabora con diverse testate occupandosi di letteratura e traduzione. Alcuni suoi racconti sono comparsi su riviste letterarie italiane e straniere. È autrice del podcast Phenomena - audiobiografie impossibili. Bravissima, il suo primo romanzo, è uscito ad aprile per la casa editrice 66thand2nd.
Appunti sul fenomeno Vivian Maier.
Il “cottimo digitale” è esploso durante la pandemia che ha costretto moltissime donne, soprattutto madri, a lasciare il proprio lavoro in ufficio, in fabbrica o in negozio, per cercare un’occupazione che potesse essere portata avanti da casa. Quali sono gli svantaggi?
Un estratto da Comunarde. Storie di donne sulle barricate, di Federica Castelli.
Sono passati quasi due anni dalle proteste popolari in Cile.
Palestine Action è una rete britannica di attivist* solidali con la Palestina, impegnata da tempo in azioni di disobbedienza civile contro l’industria bellica e i gruppi che vendono armi, droni e tecnologie di sorveglianza e controllo a Israele. Lo scorso maggio, durante le settimane di violenze e bombardamenti scaturiti dalla disputa legale sulle abitazioni del quartiere di Sheikh Jarrah, Palestine Action si è fatta notare facendo irruzione nello stabilimento di Leicester del gruppo Elbit Systems e rimanendo per giorni sul tetto dell’edificio, mentre un presidio sempre più partecipato occupava lo spiazzo antistante. Su YouTube è disponibile un breve documentario, realizzato da Real Media, in cui gli attivisti e le attiviste chiariscono i loro scopi, illustrano come vengono utilizzate le armi prodotte in perfetta legalità su suolo britannico, e spiegano come mai Elbit Systems preferisce non denunciare i danni e non andare in tribunale. Puoi guardarlo qui.
[Alt Text: irruzione di Palestine Action negli uffici londinesi di Elbit Systems. Tre attivist si trovano nell’atrio e sorreggono uno striscione nero che recita “Shut Elbit Down”. Sul pavimento è stata rovesciata della vernice rossa, che rappresenta il sangue sparso dalle armi costruite da Elbit e vendute all’esercito israeliano (ma non solo). L’azione ha avuto luogo lo scorso 7 agosto. Fonte.]
Nonostante nelle dichiarazioni ufficiali la piattaforma non fosse stata immaginata per contenuti espliciti, OnlyFans è divenuta per certo la più nota e facile da utilizzare. Soprattutto in questo periodo pandemico, e ancor più nei momenti di severo lockdown globale, il lavoro sessuale online è divenuto per molte persone l’unico mezzo di sostentamento di sé e delle eventuali persone a proprio carico. Con l’irrigidimento dei termini di censura del web, soprattutto dovuti agli interventi politici di Trump, già nel 2018 il contenuto esplicito era stato vietato su Tumblr, piattaforma che era stata la casa di diversi progetti legati al porno etico e all’esposizione dei corpi in maniera consapevole, così come anche luogo di dibattito, informazione, e scoperta (in merito, si trova online una dolcissima lettera d’amore di Vex Ashley all’esperienza ‘Porno su Tumblr’ che, ironicamente, viene a oggi segnalata come contenuto porno per via della terminologia).
Il 19 agosto, una dichiarazione ufficiale viene rilasciata da OnlyFans: il contenuto sessualmente esplicito verrà bandito dalla piattaforma a partire dal primo ottobre. Dopo l’arricchimento dei creatori attraverso la popolarità raggiunta grazie a quello stesso contenuto, viene annunciata senza preavviso la condanna di contenuti espliciti e la rimozione del lavoro di chi questi contenuti li creava. Ad analizzare la vicenda in Italia sono intervenute prontamente Valentine (aka Fluida Wolf) ed Elettra Arazatah con una diretta instagram che si contrapponesse alla disinformazione generale sullo swork online e aprisse a una discussione sensibile al lato umano e a quello finanziario. A stretto giro, però, c’è stato il passo indietro di OnlyFans che ha dichiarato di aver voluto tenere conto delle proteste insorte; a spiegarne i passaggi di questo cambiamento repentino, un articolo in italiano di Roberta Cavaglià, e a sottolineare lo scontento e la sfiducia da parte de_ sworkers online, un‘intervista a Charlotte Shane sul ‘ban reversal’ come fallimento.
Alcune risorse per continuare a seguire quello che sta succedendo in Afghanistan:
La notizia ufficiale del prossimo “trasferimento di poteri” data dalla giornalista australiana Yalda Hakim in diretta sul canale della BBC, in una telefonata ricevuta dal portavoce talebano Suhail Shaheen.
Pangea Onlus, dal 2002 sostiene le donne afghane con microcrediti e ottimi risultati, che ha temuto per la vita di ogni collaboratrice locale che si è trovata a dover bruciare anni e anni di appunti, foto, reti sociali create per sostenere altre donne che cercavano di raggiungere autonomia finanziaria per la realizzazione personale. Fortunatamente, sono riuscite a essere portate in salvo ma moltissime altre persone sono ancora a rischio di ritorsione.
Cecilia Sala, che raccoglie informazioni sul proprio profilo instagram, e l’intervento personale e significativo diBasir Ahang, giornalista italo-hazara.
Francesca Napoli, avvocata, si occupa legalmente di sostenere persone senza documenti che chiedono asilo o cercano rifugio oltre i confini. Racconta il proprio impegno e offre uno sguardo consapevole in maniera diretta e accessibile sul profilo instagram, Storie dell’altro mondo.
Comunicato di solidarietà e invito alla resistenza da parte delle compagne curde.
Semplice e chiaro report sui finanziamenti ai talebani, datato dicembre 2020.
La disperazione del popolo afghano è trasversale, come documentato da diversi video che che come succede sempre vengono adoperati in maniera superficiale da diverse testate per lucrare sulla morte del prossimo, ma sono ancora una volta le donne le protagoniste della resistenza: in strada, gruppi di donne esercitano il diritto di protesta, con dei cartelli che chiedono il rispetto dei diritti fondamentali, e marciano per le vie della città di Kabul, consapevoli che questo le espone a rischio mortale.
La sindaca afghana Zarifa Ghafari, – anche la persona più giovane mai eletta –, sopravvissuta a numerosi attentati alla propria vita da parte dei talebani, ora siede in attesa che vengano a ucciderla; non ha dubbi sulle ritorsioni che subirà in prima persona e che tristemente, già sappiamo, la accomuna nel destino a molte altre. Fortunatamente, dopo il suo appello, è stata portata in salvo con la sua famiglia, atterrando presso Colonia. Diversa la situazione di Salima Mazari, spesso chiamala governatrice armata, che aveva saputo creare un gruppo di resistenza armata nel proprio distretto, con il supporto di lavoratoru di ogni genere, che hanno resistito nel tempo ai frequenti tentativi di avanzamento dei talebani, e le cui ultime notizie rimangono, purtroppo, di cattura da parte delle forze talebane.
Prontamente è stato tradotto in italiano un comunicato-intervista allo storico gruppo di resistenza femminista RAWA (Rebel Afghanistan Women Association), per centralizzare le voci delle femministe afghane:
A dare forma artistica dalla risonanza internazionale alla sconfitta morale e alla (preannunciata) delusione nei confronti dell’esportazione della democrazia occidentale, così come era stato ridicolmente nominato l’intervento armato di colonizzazione del territorio afghano e la conseguente ritirata delle truppe estere senza alcuna preoccupazione di transizione governativa, è soprattutto la street artist Shamshia Hassani, che dei vari modi di espressione predilige la documentazione per immagini sui muri della città, in diretta contravvenzione con tutto ciò che la dittatura talebana impone: in forma e contenuto.
[Alt Text: una ragazza con abito blu e hijab bianco piange coprendosi il volto con le mani; davanti, un vaso rovesciato con un dente di leone bianco, sulla scena incombe una mezza figura dal basso di un uomo armato, un talebano in abiti scuri. Opera di Shamshia Hassani, 2021]
FATTO DA NOI
Francesca ha recensito per Il Tascabile l’antologia di racconti di Christian Raimo, La vità che verrà, edito da Minimum Fax.
Venti giorni fa abbiamo pubblicato il nostro ottavo numero speciale, che contiene i consigli di lettura delle nostre amiche e ospiti: se te lo sei perso, puoi leggerlo qui o scaricarlo qui.
CALENDARIO
Silvia ci segnala la prima edizione del Muttolina Festival di Verbania: due giorni, venerdì 3 e sabato 4 settembre 2021, dedicati all’arte, alla musica e alla sostenibilità. Il festival si terrà nel Parco della Biblioteca di Verbania, sulle sponde piemontesi del Lago Maggiore.
UN LIBRO
Non muoiono le api, di Natalia Guerrieri (Moscabianca Edizioni, 2021)
[Alt Text: artwork della copertina di Non muoiono le api, disegnata da Marino Neri. La testa e la mano di una persona coi capelli corti e biondi, di cui è difficile determinare con certezza genere ed età, spuntano da una siepe. Questa figura guarda in alto con emozione perché sopra di lei sta volando un'ape. Il colore dominante dell'illustrazione è il viola. Fonte.]
Non muoiono le api è il romanzo d'esordio della scrittrice modenese Natalia Guerrieri, e comincia con una catastrofe. La piccola Andrea ha cinque anni e vive con i genitori e la nonna in una bella casa a due piani nel quartiere L della città M. Andrea ama gli animali, ha un phone su cui può guardare i cartoni animati, ascoltare delle storie e seguire le lezioni di scuola, e le piace accompagnare sua madre Anna a fare la spesa. Anna ha un buon titolo di studio, è una lavoratrice precisa e instancabile, è felice della propria indipendenza economica e della sua famiglia, e adora la bambina. Poco lontano da loro abita Leonard, il figlio del ministro dell'interno. Leonard si sta impegnando per diventare giornalista e ha una relazione con Kaleb, che non è un cittadino regolare ma un acomunitario. Kaleb e quelli come lui non possiedono case confortevoli, ma vivono in cittadelle in cui la gente rispettabile non entra; non hanno tranquilli impieghi da svolgere online, bensì faticosi lavori all'aria aperta che nessun altro vuole fare; non godono di particolari diritti né tantomeno di privilegi, ma devono sudarsi la cittadinanza per poter usufruire di servizi necessari, come l'assistenza medica. I cittadini, invece, escono di rado perché ogni attività umana è ora appaltata a Nuvola, un sistema di connessione online gestito da "company" private. Nuvola permette di lavorare, fare acquisti, studiare, leggere le notizie, conversare con gli amici, tutto senza lasciare la propria abitazione. Un giorno, sugli onnipresenti schermi dell'intera cittadinanza appaiono scene di violenza molto verosimili, che gettano tutti nel panico. Poco dopo i server di Nuvola vengono staccati per ragioni di sicurezza, e da quel momento tutto precipita: il governo lancia un allarme terrorismo, poi dichiara lo stato di guerra, e in men che non si dica la quasi totalità della popolazione viene prelevata e coscritta. I genitori di Anna vengono deportati in un centro di addestramento, dove vengono separati e iniziano la preparazione militare; Andrea, che è riuscita a nascondersi, rimane in casa con la nonna invalida e un mucchio di provviste che prima o poi finiranno; Leonard è scampato al rastrellamento ma non sa più come rintracciare Kaleb, e così inizia a battere la città, sperando di trovarlo e scrivendo nel frattempo un diario di guerra. Da qui Guerrieri srotola tre storie e accompagna Andrea, Anna e Leonard nelle loro diverse lotte per la sopravvivenza, in un'alternanza di capitoli brevi in prima persona che permettono l'avanzamento simultaneo delle vicende di ciascuno.
Benché caratterizzato da elementi moderni e così attuali da suonare sinistri, Non muoiono le api è un romanzo di limpida derivazione classica, riconducibile cioè ai pilastri della letteratura distopica e fantascientifica. Se la scrittrice Nicoletta Vallorani trova, nella prefazione, numerosi punti di contatto tra Nuvola e il soffocante sistema di controllo panottico di 1984, il mondo chiuso immaginato da Guerrieri si trova a metà tra il nostro e quello extraterrestre in cui nel 1957 Isaac Asimov ambientò il secondo capitolo del suo Ciclo dei Robot, Il sole nudo. Solaria è uno dei cinquanta pianeti che i terrestri hanno colonizzato molto tempo prima dello svolgimento dei fatti, e la sua società si è organizzata in modo tale che i solariani non debbano quasi mai incontrarsi. La densità della popolazione è tenuta sotto rigido controllo, e ciascun solariano dispone di un'ampia tenuta e di un grande palazzo che occupa da solo. Tutte le incombenze quotidiane sono affidate ai robot, la cui presenza sul pianeta è schiacciante in rapporto a quella umana. Il costume di farsi visita o di vedersi in gruppo non esiste, perché la tecnologia permette alle persone di comunicare in modo molto simile alle nostre videochiamate. Di più: tanto è marcata la distinzione tra l'incontro di persona e il collegamento a distanza che la lingua locale la sottolinea distinguendoli con due verbi non intercambiabili (rispettivamente to see, vedere, e to view, visualizzare). La visualizzazione avviene in un'atmosfera serena e rilassata in cui il divario fra una persona e la sua immagine è ormai molto ampio – e non dissimile da quello che ci separa oggi dalle nostre identità virtuali, che spesso si esprimono sui social media come mai, per inibizione, opportunità o tatto, noi faremmo offline. In uno dei primi capitoli, una donna solariana si presenta a una visualizzazione nuda e senza alcun imbarazzo proprio perché ciò che l'interlocutore sta vedendo non è che il suo ologramma e doppione, ben altro rispetto a lei. Tutt'altra faccenda è la condivisione di uno spazio fisico: non più abituati al contatto umano, confortevoli nella solitudine, terrorizzati dagli agenti patogeni, i solariani si incontrano solo se costretti e vivono la vicinanza con ansia se non panico. Lo stesso vale per gli abitanti di M: la famiglia di Andrea è una delle poche che di tanto in tanto esce per fare la spesa anziché ordinarla a domicilio, i bambini non vanno a scuola ma seguono le lezioni online, e solo di rado i loro genitori acconsentono a farli riunire sotto uno stesso tetto affinché possano giocare insieme. Quando Leonard raduna poche cose in uno zaino e infila la porta di casa dopo aver litigato col padre, esce per la prima volta dopo più di quaranta giorni.
La debolezza di una società così atomizzata è lampante al primo evento imprevisto, che in Asimov è un giallo politico ma in Guerrieri un'apocalisse che polverizza definitivamente la società: sbrindellate le relazioni interpersonali, basta disconnettere Nuvola per gettare ogni individuo in una condizione di abbandono, ignoranza e terrore che deve fronteggiare senza poter contare sull'aiuto di nessuno. In una conversazione con lo scrittore Andrea Viscusi, Guerrieri ha raccontato di essere stata influenzata dalla lettura deIl capitalismo della sorveglianza di Shoshana Zuboff, e di aver in particolare riflettuto, e poi lavorato, sulle condotte umane modificate dalla presenza capillare e invasiva di una tecnologia che ci facilita nella quotidianità ma in cambio raccoglie dati, ci profila, e cambia la nostra percezione della privacy. Per come il romanzo si dispiega, tale ricamo speculativo non si concentra tanto sulla genesi del Nuovo Uomo Tecnologico quanto sul processo inverso: quello che costringe quest'umanità, staccata una volta per tutte dai suoi supporti digitali, a camminare all'indietro sul sentiero già percorso, fino al ripristino dei comportamenti che l'utilizzo di Nuvola e dei phone avevano reso superflui, o controproducenti. Osservare quanto sia difficile e laborioso tale recupero, e quante aree della vita di questi personaggi così simili a noi investa, ci permette di cogliere, come nel negativo di una fotografia, in quanta parte il funzionamento senza scosse della nostra normalità dipenda da tecnologie che crediamo invece a nostra disposizione, e sotto il nostro controllo. E quanto tale dipendenza lo renda precario.
[Alt Text: sovraccoperta della prima edizione di The Naked Sun di Isaac Asimov. L'illustrazione, in monocromia gialla con titolo rosso, raffigura in primo piano un robot indistinguibile da un essere umano se non grazie a un'apertura sulla parte destra dell'addome, che non rivela organi bensì parti meccaniche. Sullo sfondo ci sono altri tre robot, più simili a cilindri di latta dotati di arti e all'incirca antropomorfi. Nell'universo immaginato da Asimov, il primo tipo di robot è tipico dei pianeti come Solaria, in cui umani e robot convivono senza tensioni; il secondo tipo, che è anche meno avanzato, si trova solo su Terra, dove gli esseri umani mantengono sospetto e ostilità nei confronti dei robot. Fonte.]
I solariani hanno rinunciato a qualcosa che l'umanità ha avuto a disposizione per un milione di anni; qualcosa che ha più valore dell'energia atomica, delle città, dell'agricoltura, degli utensili, del fuoco, di tutto. [...] Il gruppo, signore. La cooperazione tra individui. Solaria ci ha rinunciato del tutto. Si tratta di un mondo abitato da individui del tutto isolati, e l'unico sociologo del pianeta ne è felice.
(Isaac Asimov, Il sole nudo, traduzione mia.)
L'insularità descritta da Asimov è più estrema di quella di Non muoiono le api, in cui la famiglia nucleare è ancora l'unità sociale minima e i rapporti umani non solo non si sono del tutto sfilacciati ma imprimono forza cinetica alla storia narrata; tuttavia, il tramonto della comunità, la diffidenza nei confronti del prossimo, e il falso senso di sicurezza fornito dall'isolamento continuo sono preoccupazioni presenti in entrambi i romanzi – in Asimov come cornice in cui ambientare un caso di omicidio da risolvere, oltre che come ostacolo allo svolgimento delle indagini, e in Guerrieri come questione quasi centrale, che dovrà essere affrontata e superata perché tutte le altre possano giungere a una conclusione. Quasi tutto lo sforzo immaginativo di Non muoiono le api è concentrato sulla faticosa ricostruzione della fiducia fra esseri umani, necessaria non solo per rispondere in modo efficace a una catastrofe ma anche per tornare a un sapere pubblico e collettivo, tramandato da persone e non da compagnie private, e basato sullo scambio orizzontale di informazioni tra individui anziché sulla raccolta di fonti che Nuvola ha già filtrato. L'aspirazione di Leonard a diventare giornalista è ridicola, gli fa notare Kaleb nelle primissime pagine, perché limitata alla pratica di raccogliere notizie online e riassumerle in un articolo, senza mai allontanarsi dalla sua stanza. Allo stesso modo, la ricerca dell'unico sociologo di Solaria è costretta e ingabbiata proprio dall'assenza di colleghi con cui condividerla.
Non c'è nessuno che possa trasmettergli insegnamenti, nessuno che lo aiuti, nessuno a cui possa venire in mente qualcosa che magari gli è sfuggito.
(Isaac Asimov, Il sole nudo, traduzione mia.)
La conoscenza non può rinunciare allo scambio con l'altro, al confronto fra diverse ipotesi e teorie, e alla verifica fattuale. Questa è la lezione che Leonard apprenderà nel corso del romanzo, dopo essere stato come tutti privato delle sue comodità e della sua connessione a Nuvola. Dovrà inventarsi da solo il mestiere del reporter di guerra e dovrà affidarsi alla ricerca bibliografica in autonomia, senza nessun algoritmo che svolga per lui il lavoro di classificazione ed estrazione dei dati. Nel suo reportage, che scrive a tappe, Leonard tenta di dare un senso al caos del proprio presente recuperando la storia delle guerre del Novecento e dei campi di concentramento e lavoro, che Nuvola era riuscita a obliterare facendola scomparire dai risultati delle ricerche online. Al contempo, si muove da una cittadella di acomunitari all'altra, proprio nella speranza di trovare qualcuno "che possa trasmettergli insegnamenti", qualcuno "che lo aiuti", qualcuno "a cui possa venire in mente qualcosa che magari gli è sfuggito". Li incontrerà, e per approcciarsi a loro dovrà accantonare tutto ciò che ha imparato secondo i metodi della vecchia didattica, che premiavano soprattutto la capacità del discente di reperire informazioni su Nuvola. Al contrario di quanto Leonard credeva, Nuvola non conteneva tutto ciò che è possibile conoscere, tutto ciò che occorre per interpretare il reale. Esiste al contrario un sapere a cui si può accedere soltanto scollegandosi, e per acquisirlo servono ben altre competenze: guadagnarsi la fiducia e le confidenze del prossimo, confrontare testimonianze, decidere quali siano affidabili.
Man mano che Leonard sviluppa queste abilità, sul campo e da autodidatta, non è solo la sua scrittura ad acquistare vigore e sicurezza. Il suo viaggio tende infatti a un unico punto, vale a dire il momento in cui decide di mettere il proprio sapere al servizio di un impegno collettivo anziché di un'ambizione privata: se il privilegio non è nulla senza la conoscenza, questa ha ben poco valore se non si traduce in azione, e del resto l'azione puramente personale non può che fallire o esaurirsi senza produrre cambiamenti tanto più se il nemico è uno stato ipermilitarizzato. Il continuo confronto tra le due opposte strategie di sopravvivenza, la cooperazione e la competizione, attraversa ogni pagina, fino a determinare gli esiti delle vicende individuali. Guerrieri non procede per assiomi, e la sua certezza che il modello collaborativo sia vincente tanto per il gruppo quanto per il singolo emerge non come tesi preconcetta bensì come risultato credibile di esperimenti che avvengono all'interno del romanzo. Data una premessa di sospensione dello stato di diritto e deportazione di massa, che cosa succede a due persone isolate, che cosa succede a delle cellule di resistenza ben collegate fra loro, che cosa succede in un campo di lavoro in cui i prigionieri hanno a malapena il permesso di parlarsi? Non muoiono le api pone queste domande e senza forzature, seguendo i fili narrativi, giunge al superamento del paradigma della competitività.
Il raggiungimento di questa conclusione è così importante da oscurare l'iniziale oggetto della ricerca di Leonard: che cosa è successo? Gli attentati erano autentici? Perché non siamo più liberi? Una spiegazione arriva, ma non comporta alcuna conseguenza significativa. Inoltre, i responsabili della creazione dei campi di addestramento e della riduzione di un'intera città a colonia di lavoro non hanno nomi e cognomi. In fondo non si tratta che di generici capitalisti che, come sempre accade, hanno approfittato di un evento sconvolgente (o l'hanno inscenato: che differenza fa?) per accordarsi coi governi in modo tale da trovare forza lavoro a costo zero e massimizzare così i profitti. Ma tutte le persone travolte, dai tre protagonisti a ogni personaggio che incontrano, sono dotate di una singolarità, di un insieme di caratteristiche che il romanzo non lascia vadano perdute. In un capitolo del saggioUn paradiso all'inferno (2009), Rebecca Solnit critica il genere cinematografico deldisaster movie, colpevole di perpetuare la falsa credenza che per salvare l'umanità sia sufficiente un eroe, o al massimo una ristretta squadra di eroi, al cui arbitrio e alle cui capacità vanno affidate le sorti di tutti. Salvarsi, dice Solnit, è una faccenda collettiva – e lo dimostra stilando un elenco di disastri le cui vittime hanno saputo fare quadrato, aiutarsi a vicenda, e rendere la tragedia un po' più sopportabile per tutti. Non muoiono le api prosegue idealmente su questa linea di pensiero, non solo rifiutando di scegliere un personaggio centrale e privilegiando invece ben tre prospettive, ma anche valorizzando le azioni di gruppo, la vita in comune, la circolazione delle informazioni. Per lo stesso motivo, non sorprende che chi non ha più nessuno finisca a orbitare attorno alle cittadelle dei cosiddetti a-comunitari: gli esclusi dal consesso della cittadinanza, ma anche gli unici che non si sono mai potuti isolare. L'umanità si ricompone dai margini proprio perché i margini sono gli unici luoghi immuni, per discriminazione più che per virtù, alle debolezze che le sono risultate fatali.
Per non soccombere bisogna allora lavorare insieme. Ma come? Da dove passa il coagularsi di tanti individui in comunità? Consapevole che trovarsi nello stesso luogo non è che un primo passo, Guerrieri indica alcune soluzioni che conducono alla formazione di piccoli nuclei sociali di stampo pre-industriale se non pre-capitalistico: stabilire un orizzonte politico condiviso, dividersi i compiti, proteggere chi è più fragile, puntare all'autosufficienza reimparando "a seminare e a coltivare seguendo il ciclo delle stagioni, a potare e ad abbinare le piante perché crescano senza ammalarsi", curare arnie e consumare il miele prodotto dalle api. E ristabilire il legame con i morti.
Nel 2017 la piccola casa editrice statunitense AK Press ha pubblicato la raccolta di saggi Rebellious Mourning, che offre un composito seppur in larga parte americanocentrico mosaico di lotte che nascono dal dolore della perdita: i primi passi del movimento Black Lives Matter in risposta alla violenza razzista della polizia, le associazioni di volontari che accolgono e curano i migranti sul confine tra Messico e Stati Uniti, i gruppi di cittadini che pretendono chiarezza sulle ricadute a lungo termine del disastro di Fukushima sulla salute pubblica, lo sforzo di tenersi insieme delle comunità gay lasciate sole nel pieno della diffusione pandemica e incontrollata dell'AIDS. Il filo rosso che collega tutti i contributi è la creazione dal basso di reti di supporto (logistico, informativo, emotivo), che devono sopperire a diverse forme di ingiustizia sistemica e mantenere il benessere di ciascuno nel momento in cui lo stato scompare o diventa antagonista. Nell'introduzione, la curatrice del volume Cindy Milstein insiste sulla necessità di risignificare il lutto, di renderlo non solo o non più luogo di immobilità e dolore personale ma anche spinta a prendersi cura l'uno dell'altra, e insieme cercare giustizia:
Uno degli affronti più crudeli era l'aspettativa che il dolore dovesse essere nascosto, sepolto, privatizzato – una menzogna confezionata ad arte per mascherare e mantenere l'ordine sociale che produce le nostre molte, evitabili perdite. Quando invece ci apriamo ai legami che possono nascere dalla perdita e dal dolore, alleviamo ciò che ci debilita; riaffermiamo la vita e la sua bellezza. [...] Abbiamo una possibilità, insieme, di dare una qualità diversa e migliore alla nostra sofferenza e al contempo di lottare per smantellare le strutture letali che hanno l'obiettivo di distruggerci. (Traduzione mia)
Non muoiono le api è un romanzo segnato dal lutto ancora prima che la trama prenda avvio: Leonard è orfano di madre e il nonno di Andrea è scomparso da molti anni. Ma questo mondo non ha cura dei morti, non li onora, li ha lasciati indietro come tutto ciò che non appartiene al presente.
«Tanto tempo fa, quando la mamma era ancora molto piccola, c’erano dei posti dove si portavano i corpi dei defunti. Si chiamavano cimiteri. I corpi venivano chiusi nelle bare, che erano come delle grandi scatole di legno, e poi venivano seppelliti nelle tombe».
«Cosa sono le tombe?»
«Dei luoghi fatti apposta. Lì i corpi rimanevano per sempre, in modo che si potesse andare a fare visita a chi non c’era più. Le persone però hanno smesso di andarci… e qualcuno ha detto che erano inutili».
«E cosa ci hanno fatto?»
«I cimiteri sono stati smantellati. I corpi sottoposti a un trattamento che li ha… come dire… fatti scomparire».
Il distacco dalle persone scomparse è forse il più innaturale dei comportamenti degli abitanti di M. La morte di qualcuno inaugura in chi gli sopravvive un lungo processo di negoziazione col trauma in cui sono cruciali l'addio simbolico al defunto nel rituale della sepoltura e la facoltà di visitare un luogo che ne accolga i resti, o anche solo ospiti una qualunque traccia della sua esistenza terrena. Se interrompere il contatto col prossimo isola i cittadini di M nello spazio, e non conoscere la storia li isola nel tempo, fingere di poter dimenticare i morti senza fare i conti col lutto significa non solo recidere i legami familiari e amicali ma anche perdere una porzione significativa e irrinunciabile dell'esperienza umana, arrendersi alla "crisi della presenza". Anna, Andrea e Leonard non hanno in comune soltanto la ferita di essere stati divisi da chi amano, ma anche il rifiuto di accettare questa separazione, la caparbietà con cui si sforzano di ritrovare i loro cari, ciascuno nel perimetro del proprio spazio di azione, e infine il dolore di doversi rassegnare. Il principale motore delle loro storie è il lutto – ma un lutto rivoltoso, che si ribella alla consuetudine di archiviare subito chi se ne è andato e si concede di sperare che invece sia ancora in vita, cercarlo ovunque, tentare di evadere da un centro di addestramento per ritrovarlo, sopravvivere a tutti i costi nell'attesa di riabbracciarlo. Fuori dai centri, lontano dal controllo continuo dei militari, si formano gruppi che agiscono con l'obiettivo della resistenza, ma sono prima di tutto composti da individui sospinti assieme dalla perdita, che sia dei propri familiari, della propria vita serena, o di entrambi.
Tanto è centrale il recupero attivo del lutto ("la perdita non dovrebbe mai essere separata dalla vita", scrive sempre Milstein) che Guerrieri trasforma l'importanza di ricordare chi non c'è più se non proprio l'impossibilità di scordarlo, in sporadici eventi soprannaturali che si credevano arcaici, apparizioni luminose delle persone lontane, vive o morte che siano, una scia magica dal passato che si manifesta dopo lungo tempo in un presente improvvisamente privo di tecnologia. Se prima Nuvola era l'unico mezzo a cui (e tramite cui) connettersi, ora il campo è sgombro per nuove e allo stesso tempo antichissime modalità di connessione interpersonale, che non andranno perse. Nel tempo, infatti, riaffiora l'usanza di riservare ai morti un'area ben precisa, poco fuori dalle cittadelle: piccole necropoli punteggiate di lapidi e totem disposti in modo disordinato, in cui qualcuno è sepolto e per qualcuno che non è mai più tornato c'è solo una stele, luoghi silenziosi cui i vivi possano recarsi e dedicare al pianto e al dolore tutto il tempo necessario, imparando così a reintegrare la morte nella vita.
Sebbene sia stato concepito e scritto prima che il COVID-19 stravolgesse tutto ciò che conoscevamo, Non muoiono le api sa risuonare in questo presente pandemico – non tanto perché inscena un disastro che coglie impreparata un'umanità già sola e smarrita, e nemmeno tanto perché mette a tema quanta parte della nostra vita stiamo affidando all'industria del tech, ma soprattutto perché afferma con entusiasmo che non ci si può salvare se non insieme, ripensando gran parte delle nostre abitudini e convinzioni. E perché ci costringe a esaminare i nostri fallimenti. All'inizio dell'emergenza sanitaria abbiamo sventolato bandiere e cantato alla finestra, scambiando l'esibizione di un simbolo per la prova della tenuta di ciò che rappresenta. Al contempo, le esigenze della produzione e del profitto richiedevano che milioni di lavoratori e lavoratrici continuassero ad ammassarsi in fabbriche e uffici, spesso in violazione se non in assenza di protocolli di sicurezza efficaci. Molte di quelle persone si sono ammalate e sono morte. La nostra ineludibile responsabilità è quella di aver accettato di anteporre la salvaguardia di un modello economico così ferocemente anti-umano alla tutela della salute di tutti, magari sfogando un'inutile rabbia su alcuni comportamenti individuali e perlopiù innocui: è stato il nostro modo di consegnare i morti all'oblio, e una spia dell'avvenuto svuotamento del concetto di collettività. Ma prendere atto della disgregazione del tessuto sociale non può costituire il pretesto disfattista per non contribuire a ricostruirlo – o peggio per ignorare anche le poche, ristrette possibilità che ci sono rimaste di farci carico del benessere e della tutela dell'altro. Per non soccombere bisogna lavorare insieme. Ma come? Rispondere a questa domanda è imperativo. Se nuove catastrofi ci attendono, nulla è più urgente che tornare comunità.
Ringraziamo Paola per averci regalato il suo bellissimo pezzo e, come sempre, ti invitiamo a scriverci se ti piacerebbe fare altrettanto. Speriamo di vederti a Bologna, altrimenti ci rileggiamo a fine settembre.
Un abbraccio!
Francesca, Gloria e Marzia