Benvenutu a Ghinea, la newsletter che sta prendendo la rincorsa verso il fine settimana lungo. Questo mese diamo il benvenuto a Elisa Favaretto e Federica Valerio, che hanno scritto insieme una lunga analisi del romanzo Catene di Gloria di Nana Kwame Adjei-Brenyah. Come ogni ottobre, inoltre, torna Cristina Resa a parlarci dei film che fanno paura. Buona lettura!
Catene di Gloria di Nana Kwame Adjei-Brenyah: distopia e abolizionismo tra violenza sistemica e futuri possibili.
di Elisa Favaretto e Federica Valerio
Nota linguistica: abbiamo deciso di optare per un linguaggio neutro ovunque possibile, al fine di garantire una maggiore inclusività. Tuttavia, alcuni termini specifici saranno mantenuti nella loro declinazione originale, come appaiono nel libro tradotto in italiano, per preservarne il significato e il contesto.
La recensione che vogliamo proporre allə lettorə di Ghinea è un po’ diversa dal solito: la nostra ambizione non è solo quella di offrire una lettura dell’opera, ma di aprire un dibattito che colleghi la critica sociale del libro a riflessioni più ampie sulla giustizia, la violenza sistemica e le possibilità di immaginazione di futuri alternativi. Il dialogo che abbiamo sviluppato, sia tra noi che con il testo non vuole che essere un piccolo passo verso una più ampia riflessione collettiva, che speriamo possa arricchirsi con ulteriori contributi e prospettive.
La scelta di partire proprio da questo testo si colloca all’interno di una collaborazione critica favorita da un rapporto di amicizia e sorellanza decennale in cui le nostre voci e differenti esperienze si sono spesso incontrate e scontrate. Trova origine, inoltre, nella pratica delle letture condivise, che abbiamo adottato da qualche tempo come strumento per tenerci vicine, nonostante la distanza geografica. Il nostro desiderio è quello di restituire il dialogo che c’è stato fra di noi, stimolato dalla lettura di alcuni testi e passaggi del libro Catene di Gloria.
“La "fiction visionaria" è un termine che abbiamo sviluppato per distinguere la fantascienza, che ha una rilevanza nella costruzione di nuovi mondi più liberi, dalla sua corrente più mainstream, che il più delle volte rafforza le narrative dominanti del potere. La fiction visionaria comprende tutto ciò che è fantastico, con un arco che tende sempre verso la giustizia. Crediamo che questo spazio sia vitale per qualsiasi processo di decolonizzazione, perché la decolonizzazione dell’immaginazione è la forma più pericolosa e sovversiva che esista: è infatti da essa che nascono tutte le altre forme di decolonizzazione. Una volta che l’immaginazione viene sprigionata, la liberazione è illimitata”.
(da Octavia's Brood. Science Fiction Stories from Social Justice Movements.Curato da adrienne maree brown e Walidah Imarisha)
Nel vasto e variegato panorama della narrativa, la distopia si distingue come uno strumento molto evocativo per esplorare e criticare le realtà del presente. Sebbene il termine rimandi a mondi futuri o alternative a quelli conosciuti, spesso intesi come peggiori della realtà in cui chi legge si colloca, il suo vero valore risiede nella capacità di riflettere e mettere in discussione le dinamiche sociali, politiche ed economiche del nostro tempo.
Essa indaga contraddizioni, punti di frattura e violenze della nostra realtà. Quella che può sembrare una predizione negativa è invece una narrazione del nostro presente e delle sue ingiustizie. Creando mondi in cui le problematiche esistenti sono portate all'estremo, si tracciano coordinate inedite per interpretare il mondo in cui viviamo e prenderne coscienza. Questa deformazione fornisce una visione critica che può essere difficile da ottenere nella quotidianità e ha il potere di innalzare la consapevolezza pubblica riguardo a problemi emergenti o trascurati. Ursula K. Le Guin, nella prefazione di La mano sinistra del buio, sostiene che “la fantascienza non prevede, descrive”, questa affermazione riconosce nella distopia un carattere che è fortemente ancorato al presente: non si tratta di fatti che potrebbero accadere “solo se”, ma di qualcosa che sta già accadendo o è accaduto, a volte assumendo una forma meno eccezionale e più subdola, incorporata nel quotidiano.
In questo senso, la distopia non solo denuncia ma invita anche alla riflessione critica su come intervenire nel qui e ora per evitare futuri indesiderabili. Sebbene infatti possa rappresentare scenari sconvolgenti e pessimisti, essa offre anche uno spazio per immaginare come le società potrebbero reagire o superare tali crisi ed è in questo che consiste il potenziale generativo della narrativa sci-fi.
[Alt Text: copertina disegnata e coloratissima di Catene di Gloria, raffigurante una ragazza nera in abbigliamento sportivo con i dreadlock. La ragazza è inginocchiata e sorregge una grossa falce che poggia sulla sua spalla.]
Nel panorama della letteratura distopica contemporanea, si inserisce Catene di Gloria di Nana Kwame Adjei-Brenyah (in lingua originale “Chain-Gang All-Stars”) un romanzo in cui il sistema carcerario è trasformato in uno spettacolo televisivo di intrattenimento. Le persone detenute, condannate a morte, possono guadagnarsi la libertà partecipando al "Chain-Gang All-Stars", un programma in cui devono combattere fino alla morte in arene trasmesse in diretta nazionale, simile a un reality show. Coloro che sopravvivono a un determinato numero di combattimenti guadagnano la possibilità di tornare in libertà.
Al centro della narrazione ci sono le vite e le storie di alcunə combattenti, tra cui Loretta Thurwar, la star della competizione prossima alla libertà, e Hamara "Hurricane Staxxx", una giovane combattente in ascesa. Tuttavia, il libro offre ampio approfondimento a numerosə personaggə, ciascunə con ruoli ed esperienze diverse, arricchendo la narrazione con una pluralità di prospettive e sfumature.
Catene di Gloria non solo affronta temi attuali e complessi come il razzismo sistemico e l'ingiustizia sociale, ma esplora anche la profondità della violenza istituzionale, evidenziando la disumanizzazione insita nel sistema penitenziario. In questo contesto, il romanzo si lega strettamente alle riflessioni del femminismo anticarcerario, che da tempo denuncia le oppressioni sistemiche di un complesso industriale carcerario che colpisce in modo sproporzionato le comunità marginalizzate. Il libro, infatti, sottolinea come la carcerazione sia uno strumento di controllo sociale, discriminazione e sfruttamento conseguente alla solidificazione di un impianto punitivo.
Attraverso la lente della distopia, Adjei-Brenyah offre una critica feroce alla mercificazione della sofferenza e alla spettacolarizzazione della violenza. In linea con le riflessioni di attivistə e pensatorə abolizionistə, il romanzo invita a ripensare le strutture di potere che mantengono in vita questi sistemi oppressivi, interrogandosi sulla possibilità di costruire mondi alternativi, liberi dalle logiche punitive.
Con l’intenzione di preservare il contatto e le analogie tra ciò che sembra distante nel tempo e il presente, l’autore affianca alle vicende da lui raccontate dei fatti realmente accaduti. L’apparato di note al testo riporta, infatti, dati, statistiche e testimonianze relative al mondo penitenziario e alla violenza della polizia. Nonostante il romanzo faccia riferimento al contesto degli Stati Uniti, ciò che viene raccontato non è molto diverso da quanto accade in Italia. Attraverso le storie di Loretta Thurwar, Hurricane Staxxx, Sunset Harkless e altrə, si può allenare, quindi, uno sguardo distopico, necessario a riconoscere e nominare dinamiche e meccanismi che confondono la violenza statale con la giustizia.
La pena come intrattenimento
Come sempre, l’inaudita violenza dello stato era «giustizia», era «legge e ordine», mentre la resistenza a quella violenza perpetua era un atto di terrorismo. (p. 214)
Catene di Gloria è sia un programma di Intrattenimento Penale per Atti Criminali (IPAC) che una Società per Azioni, e rappresenta un’estensione della pena detentiva per coloro che hanno commesso crimini per i quali non è prevista alcuna clemenza, come l’omicidio.
Chi prende parte allo show viene chiamatə Forzato, diventa proprietà della Compagnia Carceraria del Nord America e può essere scagionatə anticipatamente. Perché questo accada è necessario riuscire a collezionare tre anni di buona riuscita nel programma, se questo avverrà significa che si è diventatə un Colosso Supremo e si è quindi vicinə a essere un Libero Alto. Coloro che muoiono prima, invece, vengono chiamatə Liberi Bassi: morte e libertà si equivalgono. Nel momento dell’ingresso al programma a ogni Forzato viene fatto firmare un contratto in cui si spiegano le condizioni necessarie alla partecipazione: viaggiare insieme ad altrə Forzati facendo parte di una Catena, essere ripresə da una CMO, ovvero una telecamera, in qualsiasi momento della propria giornata, assolvere la Compagnia da qualsiasi responsabilità circa la propria incolumità, rinunciare alle proprie proprietà. Inoltre, a ogni Forzato viene assegnato un valore economico calcolabile in Punti Sangue, che si accumula a ogni vittoria e sarà indispensabile per poter acquistare armi, cure mediche, cibo, vestiti e altri servizi. Le persone che appartengono alla stessa Catena non si scontrano tra di loro in Arena e possono sostenersi a vicenda donandosi Punti Sangue.
Catene di Gloria è a tutti gli effetti un prodotto commerciale che basa il suo successo nella costruzione di una narrazione camaleontica e nella monetizzazione delle disuguaglianze. La costruzione di personaggi per cui parteggiare, le dirette disponibili ventiquattr’ore su ventiquattro, gli approfondimenti sulle storie personali dei partecipanti, sono tattiche subdole ma funzionali a rendere la violenza assistita digeribile, carina e periferica rispetto alla narrazione. Le centinaia di migliaia di persone che si intrattengono guardando uccisioni in diretta lo fanno convinte di star assistendo a uno sport d’azione estremo e che tra questi iper-sportivə ne muoia qualcunə è irrilevante, fa parte della storia.
A rendere legittima agli occhi del pubblico la violenza tanto del programma quanto quella del sistema punitivo e carcerario subentra un’altra questione: il fatto che a parteciparvi siano criminali. Ogni Forzato ha tatuato sul suo corpo un marchio, così che possa essere riconoscibile, sempre e da chiunque, il reato per cui è stato condannatə.
È uno sport.
Si iscrivono volontariamente.
E dai, quel tizio è uno stupratore.
Partecipano anche dei bianchi, non c’è nessuna ingiustizia.
Quella gente è pericolosa. (p.47)
Questa scelta abusa dello stigma, della paura e dell’ignoranza per consolidare l’idea per cui chi sia lì se lo merita. L’assottigliamento del confine tra persona e reato commesso è funzionale alla buona riuscita di Catene di Gloria, soprattutto in termini di profitto, e crea un ottimo diversivo dal riconoscere il programma come ingiusto. Quindi, anche il razzismo sotteso appare sfocato, non identificabile come problema.
Per sottolineare come alcune vite siano reputate sacrificabili e sfruttabili rispetto ad altre, non è un caso che l’autore abbia scelto come protagoniste due donne nere.
Nutriva palesemente un senso di soggezione e rispetto per quelle due donne e al tempo stesso era indifferente al fatto che vivessero entrambe a un filo dalla morte. Mitchell sapeva che probabilmente era anche perché si trattava di donne nere: le ricerche di mercato dimostravano che in generale al pubblico importava meno della loro sopravvivenza. (p.379)
La scelta di trasformare il sistema di privazione della libertà personale in un programma d’intrattenimento rende limpida la privatizzazione che coinvolge il mondo penitenziario, individuando la quantità di aziende, privati e politicə che traggono vantaggio dalla sua esistenza. In ogni puntata di Catene di Gloria si vedono alternarsi pubblicità di diversi marchi, e lə stessə Forzati, quellə più apprezzatə dal pubblico, ricevono vestiti e oggetti dagli sponsor. Il concetto di giustizia viene strumentalizzato per nutrire estrattivismo e capitalismo, cioè sistemi in cui alcuni corpi vengono sfruttati per intrattenerne e quindi controllarne altri. Nel libro Come sono diventata abolizionista, Derecka Purnell descrive l’estrattivismo come “l’immensa e forzata rimozione delle nostre parti del corpo, delle idee, delle emozioni, e va di pari passo con il capitalismo”. In Catene di Gloria questo processo è esteso e non risparmia nessunə: anche coloro che assistono sedutə comodə sul divano e hanno l’illusione di essere intoccabili, stanno partecipando alla costruzione di un mondo in cui la perdita di libertà di chi è detenutə va di pari passo con la loro.
Il pubblico vive nell’illusione della finzione, regalo dello schermo televisivo, di non riconoscersi come possibile perpetratore di violenza, bensì come osservatore dalla parte giusta della storia. Le persone violente sono al di là dello schermo. Ma qual è la responsabilità di accettare l’esistenza di un sistema come Catene di Gloria?
L’autore forza il confine tra ciò che si può definire dentro e fuori, tra giusto e sbagliato, tra chi è buono e chi è cattivo: la lettura dicotomica e rassicurante della realtà lascia spazio a una visione più confusa e meno solcata. Cioè alla consapevolezza che questo confine è in realtà labile e che la sua costruzione è necessaria al mantenimento di uno status quo, di un ordine votato al rafforzamento di dinamiche e strutture di potere. Questo tema è reso palese nel romanzo da un paradosso: la stessa violenza per cui lə Forzati sono statə condannatə è qui incoraggiata e spettacolarizzata per scopi d’intrattenimento e di profitto. Uccidere in questo caso è accettato e caldeggiato, legittimato dal fatto che in realtà fa parte di una punizione meritata e di un piano di pulizia dalla criminalità che è garanzia di sicurezza. Però, potremmo chiederci chi ha ucciso chi, sono i Forzati o I signori dei Giochi ad essere assassinə ?
I signori dei giochi guardavano. Erano il consiglio di amministrazione ma erano anche di più: erano uomini d’affari, carcerieri, politici e proprietari, e vivevano in una versione rarefatta del mondo, uno spazio superiore, riservato solo a loro. [..] Gli davano il voltastomaco le migliaia di persone che manifestavano fuori dallo stadio. Qual era questo grande male? Non capivano, quelli che non avevano l’ironia, l'intraprendenza o la grazia necessarie a sedere in quegli altissimi salottini, che loro, i Signori dei Giochi, stavano trasformando un mondo terrificante in uno spettacolo bellissimo? (p.486)
Paura e amore
Ma un male ne cancella un altro? Far scomparire una persona dalla faccia della terra lo rende un posto più pulito? Ho visto uomini che sapevo essere un pericolo per il mondo, e neanche loro si meritano questo. Dovrei vergognarmi a sperare in qualcosa di meglio, ma so che di meglio si può fare. Non ci sono pozioni magiche per guarire la sofferenza di questi cuori. Non sarà un palazzo pieno di dolore a salvare le masse. (p. 278).
Nel libro, alcune delle persone detenute parlano di sé stesse come se fossero amalgamate con il proprio reato, incorporando quel senso di colpa e vergogna che porta a pensare di meritare di essere punite e di pensarlo anche delle persone che appartengono alla propria Catena. Attraverso questi sentimenti, si rafforza un processo di disumanizzazione per il quale le persone con cui combattono non sono viste come tali, ma come corpi pericolosi: la morte e la violenza sono i pegni da pagare per redimersi.
Sai una cosa, quel pezzo di merda che tu dipingi come un profeta della bontà aveva ucciso e stuprato anche lui, ed è proprio per questo che stava qui. Si sarà pure impegnato a recitare il ruolo del brav’uomo, i fatti non cambiano. Chi sta qui si merita di stare qui. (p.134)
Anche chi guarda il programma è complice di questo processo di disumanizzazione.
Etichettare una persona come unə delinquente, unə criminale, significa legittimare un processo di privazione della libertà. Di base questa scelta linguistica, anche nella realtà attuale, nasconde in sé una morale e uno stigma che rintraccia la colpa e la punizione come unici assi entro cui individuare la soluzione. Il contesto è obliterato dall’analisi e il peso dell’errore diventa un ingombro individuale.
Secondo te sono guasta dentro? Pensi che una come me potrebbe viverci, nel mondo? Davvero, intendo. Starei bene in mezzo alla gente? (p. 290)
Lo stigma rappresentato dai marchi, quindi, partecipa al mantenimento di logiche violente e rallenta un processo di trasformazione. È un monito mai silente del proprio passato che continua a riverberare anche dopo la pena. Il senso di colpa che scaturisce ha una funzione annichilente e bloccante, la stessa della paura. Sentimenti che vengono alimentati dai Signori dei Giochi come dalla società tutta. Staxx però, consapevole dei propri errori tanto quanto della propria natura umana, non accetta questa disumanizzazione imposta e abita il dubbio, domandandosi: “era lei a essere un’assassina o era il mondo che ce l’aveva fatta diventare?” (p.155).
La volontà di Staxx, infatti, è quella di non soccombere all’orrore, e di restituire valore e umanità alle stesse vite che si trova costretta a sopprimere per sopravvivere. Il suo compito è portare l’amore e non farsi corrompere dalla vergogna e dalla violenza. Poco prima di infliggere il colpo finale ai propri avversari li guarda fissi negli occhi e recita le parole “TI AMO”. Queste stesse parole riecheggiano in tutta l’arena.
“Amore, amore, amore. Spingeva a forza l’amore in quel luogo che ne era privo, lo rendeva il fulcro stesso della sua vita. Faceva vedere a tutti che lei, l’Uragano, era capace di grande amore e che se solo si fossero guardati dentro avrebbero scoperto che lo erano anche loro. E forse un giorno si sarebbero resi conto davvero di cosa avevano permesso, cosa avrebbero creato”. (p.31)
Anche Thurwar matura la necessità di far riflettere la propria Catena sulla possibilità di scardinare le regole divenendo una squadra che ammette tra loro il perdono. Imparare a distinguersi dalle violente categorizzazioni esterne, che agiscono come forze maligne, è un passo importante verso il cambiamento.
Da adesso ci sforzeremo di essere migliori. Questi segni sulla schiena non significano che dobbiamo comportarci per forza come vogliono loro. (p. 132)
Accogliere gli errori commessi e le contraddizioni che ci abitano significa considerare il lavoro su sé stessə una parte fondamentale del processo di liberazione collettiva.
Il messaggio d’amore di Staxxx dialoga con il percorso di consapevolezza e speranza di Thurwar , che come vedremo più avanti trova spazio anche oltre le mura dell’arena.
Lo stigma, la paura, la vergogna e il senso di colpa agiscono come inibitori per la propagazione dell’amore. In Tutto sull’amore. Nuove visioni, bell hooks spiega come l’amore non debba essere inteso solo come un sentimento ma anche come una pratica, un’azione in grado di insinuarsi nelle distopie e ribaltare quell’ordine costituito che trae beneficio dalla paralisi delle intenzioni e dell’immaginazione. Hurricane e Loretta affrontano il passato come qualcosa da cui imparare e non di cui liberarsi e il presente come il tempo in cui agire e sostare, per riappropriarsi della propria umanità, della propria voce e dei propri corpi, così da costruire un futuro in cui l’amore possa prosperare.
[Alt Text: ritratto fotografico in bianco e nero di bell hooks, sorridente e con le braccia incrociate al petto. Fonte.]
Rivendicare l’autonomia comunitaria come spazio di resistenza
Solidarietà di Catena, era questo che predicava Sunset. I forzati della tua Catena erano tra le uniche persone di cui potevi fidarti. (Pag. 41)
Stava provando a trasformare la Catena in una famiglia. Perciò da ora in avanti, in onore di Sunset, qui non si uccide più nessuno. Non si mettono proprio le mani addosso a nessuno, a meno che non ne vada della vostra vita. Qui siamo una famiglia d’accordo? La Angola-Hammond è una famiglia. Non soltanto per Sun ma per tutti noi. Abbiamo giocato a questo gioco come vogliono loro per un sacco di tempo, ma adesso è ora di cambiare le cose. (Pag. 130)
Il concetto di comunità emerge come un filo conduttore in Catene di Gloria, costituendo il sottotesto delle storie sia delle persone che vivono recluse, sia di chi, all'esterno, affronta quotidianamente forme di oppressione e controllo. La narrazione mette in luce come le dinamiche di solidarietà e cura all'interno delle comunità rappresentino un'ancora di resistenza contro la violenza istituzionale incarnata dal sistema carcerario, dalle forze di polizia e dai giochi violenti di intrattenimento. Ci siamo confrontate a lungo su questa prospettiva, perché apre a riflessioni attuali e urgenti: in un mondo in cui le misure punitive vengono continuamente presentate come soluzioni ai problemi sociali, l'idea di fare comunità diventa un atto radicale di immaginazione e costruzione di alternative.
Ma cosa intendiamo per comunità? Nel suo libro Insegnare comunità, bell hooks invita a considerarla come uno spazio di trasformazione, dove le relazioni umane possono essere rigenerate attraverso la solidarietà e il sostegno reciproco. Per bell hooks non si tratta solo di un aggregato di individuə, ma un luogo dove si coltiva la consapevolezza collettiva e si sfidano le strutture oppressive che isolano e marginalizzano.
Nel nostro lavoro, intendiamo la "comunità" come uno spazio concreto di relazioni reciproche basate sulla responsabilità, piuttosto che come un concetto astratto o idealizzato, in cui si rischia spesso di cadere. Alcunə autorə anglosassoni (consigliamo a tal proposito di prendere visione del recente lavoro di traduzione dell’opera di Mia Mingus pubblicata da Robin book) preferiscono per questo motivo il termine “pod”, che utilizzano per riferirsi a quei legami concreti e affidabili a cui ci si rivolge in situazioni variegate e differenti fra loro, soprattutto nei momenti di crisi o violenza. L'idea dei "pods" nasce dalla giustizia trasformativa e rappresenta quelle connessioni reali su cui facciamo affidamento nella vita quotidiana, evitando di romanticizzare e astrarre dall’esperienza il concetto di comunità.
In un contesto di estrema oppressione come quello narrato in Catene di Gloria emergono forme di resistenza e solidarietà. Le persone forzate che condividono l’appartenenza a una Catena trasformano una situazione di costrizione in una possibilità di alleanza. Nonostante il sistema carcerario sia pensato per dividere e controllare, questa lega riesce a creare una forma di sostegno reciproco, dimostrando che, anche nella condizione più dura, la solidarietà può emergere come atto di ribellione.
In questo senso la "solidarietà di Catena" predicata da Sunset, uno dei forzati storici della lega Angola-Hammond, non è solo una tattica di sopravvivenza, ma una filosofia di vita: i membri della Catena imparano a fidarsi l'unə dell'altrə, a condividere strategie e risorse in un ambiente che lə costringe a competere. Loretta Thurwar, guidata dal ricordo di Sunset, porta avanti questa eredità trasformando la Catena in una famiglia. In onore di Sunset, il principio non è più quello della violenza interna, ma della protezione reciproca, del rifiuto delle dinamiche divisive imposte. La dichiarazione “qui siamo una famiglia” riflette un cambio di paradigma, un richiamo alla costruzione di una comunità basata su legami di fiducia e sostegno, anche in un luogo progettato per distruggerli. La prigione, così, diventa non solo uno spazio di oppressione, ma anche un luogo in cui le persone, forzate a stare insieme, possono ricostruire la propria umanità attraverso la solidarietà e la resistenza comune, rifiutando di giocare il "gioco" della violenza.
Un coro di schiavi. Ogni nota troncata dall’elettricità, ma è un coro lo stesso. Si prendono la scossa solo per sentire la propria voce. Solo per dire qualcosa, almeno. Come me continuano a gridare il loro nome e tutto quello che gli passa per la testa. Qui dentro una voce è come un desiderio. Una stella cadente. Non la sprechi così per nulla. È un numero di magia fatto di parole veloci, poi forti grugniti, urla. Si fanno spaccare dalla scossa, poi si rialzano. (Pag. 87)
La comunità emerge come baluardo di resistenza anche in questo passaggio particolarmente disturbante e intenso, all’interno del quale viene messa in luce la brutalità della repressione all'interno del carcere, dove persino il diritto fondamentale alla parola viene punito con violenza.
Il complesso Ri-sperimentale di New Auburn impone alle persone detenute di vivere in assoluto silenzio. La repressione non è solo fisica ma anche simbolica: impedire alle persone detenute di esprimersi, di affermare la propria identità e di gridare il proprio nome significa cancellare il loro senso di sé, ridurli a corpi silenziosi e sottomessi. La scossa elettrica che interrompe le loro voci è una metafora potente della censura e della violenza istituzionale che mira a spezzare ogni forma di resistenza, persino quella più intima: la voce. Il tutto è narrato dal punto di vista del detenuto Hendrix “Scorpion Singer” Young, che a seguito di una violenta rivolta, nella quale viene gravemente ferito da un agente, decide di accettare la partecipazione ai giochi mortali di Catene di Gloria pur di non tornare mai più a New Auburn. Da quando entra nei giochi, Hendrix Young è conosciuto proprio per la sua voce: il personaggio infatti comunica principalmente cantando. È lui stesso, contestualmente alla firma del contratto per l’ingresso nel programma IPAC, a dire “quando ascolto la mia voce mi sento di nuovo tutto intero. È dura e dolce allo stesso tempo, la mia voce, come un albero col fusto tenero sotto la corteccia” (pag. 88).
La rappresentazione della rivolta scelta dall’autore è scioccante per la sua crudezza e intensità, perché porta chi legge a confrontarsi con una violenza istituzionale devastante.
Eppure, in questa situazione, emerge una forma di resistenza straordinaria. Gridare il proprio nome, continuare a esprimere qualcosa nonostante il dolore, diventa un atto di ribellione contro un sistema che cerca di annullare ogni forma di autonomia e di dignità. Il “coro di schiavi” che continua a cantare, anche se interrotto dall'elettricità, rappresenta una forma di resistenza che non può essere completamente repressa, perché affonda le radici nel desiderio di essere riconosciuti come esseri umani, di non essere ridotti a numeri o corpi senza nome.
La repressione interna al carcere è progettata proprio per disumanizzare, per distruggere ogni tentativo di organizzarsi o anche solo di affermare la propria individualità.
Resistere è quindi un atto di sopravvivenza e un atto politico non solo per proteggersi dal danno immediato, ma anche per preservare il proprio senso di sé, per mantenere viva la possibilità di immaginare un futuro diverso.
La battaglia contro il linciaggio d’intrattenimento è tornata al centro del dibattito in tutto il paese e questo ci offre una grande occasione per mostrare la nostra solidarietà sia con chi sta dentro che con chi sta fuori dal sistema. Vogliamo sfruttare questa opportunità per fargli vedere non soltanto che tutto questo è inaccettabile. Ma che non permetteremo continui. (Pag. 219)
La riflessione sull'importanza della comunità travalica le mura carcerarie perché parte dalla necessità di unire le forze contro un sistema punitivo che si nutre di violenza e disuguaglianza. La citazione che abbiamo scelto è estrapolata da un intervento di Mari, un’attivista abolizionista, che si scoprirà in seguito essere figlia del Forzato Sunset. Il suo discorso è pronunciato durante la prima assemblea della “Coalizione per la fine della neo-schiavitù” costituitasi in un momento in cui la società civile è in fermento: molte persone chiedono a gran voce la chiusura dei giochi violenti. Ciò è dovuto principalmente a seguito del cambiamento di alcune regole, tra cui l'introduzione di combattimenti anche fra membri della stessa lega, proprio quando Thurwar sta per guadagnare la libertà.
Come suggerisce questa citazione, la battaglia contro il "linciaggio d’intrattenimento" ci offre un’occasione cruciale per dimostrare solidarietà non solo con chi è reclusə, ma anche con chi vive fuori dal carcere. Questo è fondamentale perché la lotta contro le pratiche punitive non riguarda soltanto chi è incarceratә, ma coinvolge l'intera società. La comunità esterna ha il compito principale di mostrare che queste pratiche non sono solo inaccettabili, ma anche insostenibili, e che esistono alternative migliori basate su una concezione diversa della giustizia.
[Alt Text: la copertina del libro Come sono diventata abolizionista. Polizia, proteste e libertà di Derecka Purnell raffigura un’automobile della polizia da cui, anziché fiamme, spuntano foglie color rosso fuoco e fiori variopinti. ]
Derecka Purnell riflette proprio su questo tema. Partendo dalle sue esperienze personali e politiche, l’autrice mette in discussione il sistema punitivo e la percezione dell'intervento della polizia come strumento risolutivo, dimostrando come anziché risolvere un conflitto al contrario spesso lo amplifichi. I numerosi esempi che porta Purnell riguardano soprattutto quartieri poveri e prevalentemente neri degli Stati Uniti, in cui la polizia agisce per lo più con un approccio militarizzato, che intensifica le tensioni e trasforma situazioni gestibili attraverso mezzi non violenti in veri e propri scontri. Ciò viene ricondotto allo storico radicamento della polizia in una cultura di controllo sociale e di oppressione razziale, piuttosto che in un'autentica missione di protezione e servizio pubblico.
In questo senso, l'abolizionismo, come spiega Purnell, non implica solo l'abolizione delle carceri e della polizia, ma soprattutto la costruzione di infrastrutture comunitarie che possano ridurre il danno provocato da questi interventi violenti. Le comunità devono essere in grado di risolvere i conflitti, affrontare il disagio e fornire supporto senza ricorrere alle istituzioni repressive. Per esempio, negli Stati Uniti reti di mutuo soccorso, gruppi di difesa comunitaria e iniziative di mediazione sono emerse come risposte concrete alla violenza della polizia, offrendo modelli alternativi di sicurezza e giustizia.
Queste iniziative non solo rispondono a bisogni immediati, ma lavorano anche per creare relazioni più profonde e attente, riducendo così la necessità di ricorrere a forme di controllo esterne.
Perciò, le persone fuori dalle prigioni hanno una responsabilità fondamentale: non possono essere passive né semplicemente spettatrici, ma devono assumere un ruolo attivo. La costruzione di reti solidali, fuori dalle mura, è infatti l'unica via per affrontare i problemi alla radice, senza ricorrere a soluzioni violente e punitive. Questo significa creare spazi di dialogo, supporto, e cura, dove tuttə possano essere ascoltatə, compresə e sostenutə.
***
Catene di Gloria di Nana Kwame Adjei-Brenyah si rivela un’opera potente che, attraverso la lente della distopia, mette in luce le violenze e le ingiustizie sistemiche del presente, esacerbate nel futuro immaginato. La critica radicale al sistema penitenziario e alla mercificazione della sofferenza umana non si limita a denunciare ma si lega strettamente alle istanze abolizioniste, che auspicano la creazione di un mondo alternativo, libero dalle logiche punitive e basato sulla solidarietà e il sostegno reciproco. La distopia, allora, non è solo un esercizio di immaginazione negativa, ma uno spazio per visualizzare alternative alla realtà attuale, offrendo uno strumento di resistenza e speranza. Il libro ci lascia con un messaggio chiaro: il cambiamento è possibile, ma richiede una radicale trasformazione delle strutture sociali, un impegno collettivo per immaginare e costruire futuri più giusti e liberi.
Quando pensate a noi, ricordatevi che solo perchè una cosa esiste, non vuol dire che non possa cambiare, e solo perchè non avete mai visto una certa cosa, non vuol dire che sia impossibile. Questo lo chiamano un luogo di liberazione. Chi è che verrà liberato: io o voi? (p.493)
Elisa Favaretto ha una laurea in Lettere moderne e una in Antropologia culturale ed etnologia. Al momento lavora come operatrice sociale. Si interessa di giustizia riproduttiva, abolizionismo e carcere. E’ coautrice di una newsletter, Fratture, che racconta il mondo penitenziario in Italia e le sue contraddizioni.
Federica Valerio ha una laurea in Giurisprudenza e un Master in Criminologia critica e sicurezza sociale, attualmente è praticante avvocata e ha una borsa di ricerca presso l’Università Ca Foscari di Venezia in ambito di parità di genere, si interessa di femminismo giuridico e violenza istituzionale.
Ma Lidia Yuknavitch scrive… fantascienza?
In attesa della pubblicazione in Italia di Intermezzo, nuovo romanzo di Sally Rooney, recuperiamo una sua conversazione dello scorso dicembre con la scrittrice palestinese Isabella Hammad.
E una più recente con la critica letteraria Merve Emre.
Il 7 ottobre, un anno dopo:
Non lo puoi riavere—nello scorso anno, ho vissuto tra le fauci di questo pensiero. Resta sempre qualcosa per cui combattere, ma la vera perdita non è recuperabile. Talmente tante cose non possono essere rimpiazzate.
[Alt Text: fotografia dell’Università Islamica di Gaza distrutta e avvolta dal fumo. L’aviazione israeliana ha bombardato l’edificio nella notte tra 10 e 11 ottobre 2023. Fonte.]
Dopo alcuni anni di inattività, il blog Hurriya ha ripreso la pubblicazione di articoli e traduzioni. Hurriya è un fondamentale archivio militante di notizie riguardanti le prigioni per migranti e la gestione statale delle frontiere.
Un estratto dal nuovo saggio di Sarah Jaffe.
Francesca Candioli, Roberta Cavaglià e Stefania Prandi fanno parte di ESPULSE, un collettivo di giornaliste, scrittrici, fotografe e videomaker che si occupa della presenza femminile nel mondo del giornalismo. Insieme hanno realizzato un'inchiesta sugli episodi di sessismo e molestie nelle scuole di giornalismo italiane. Si legge qui.
L’archivio dei Quaderni Viola è finalmente online e consultabile a questo link.
Su Rolling Stone è uscita un’intervista meravigliosa a Steve Nicks.
Un lungo profilo della cineasta statunitense Bette Gordon.
Venticinque anni fa usciva Matrix. Autostraddle ne parla con Lily Wachowski.
[Alt Text: frame da Matrix raffigurante Neo (Keanu Reeves) e Trinity (Carrie-Anne Moss) in impermeabile di pelle nero e occhiali da sole. Fonte.]
Il Tascabile pubblica un estratto da Arabə e queer, storie LGBTq+ dal mondo arabo, da poco uscito per Tamu nella traduzione di Giorgia Sallusti:
Come leggere le storie personali raccolte in Arabə e queer senza cadere nelle trappole della diversità culturale, dell’orientalismo e dell’omonazionalismo? Per un* let tor* italian* il rischio è di appiattire le soggettività queer arabofone su un immaginario esotizzante e idealizzato basato su stereotipi falsi e negativi e su banali binarismi – come Occidente e Oriente, progresso e tradizione – senza tenere conto di come il colonialismo e la globalizzazione di economie e culture abbiano avuto e continuino ad avere un impatto sullo sviluppo di desideri, comunità e individui. Per questo c’è la tendenza a sostenere che nei paesi non occidentali categorie come gay, lesbiche e trans siano straniere e imposte, o a ricercare pratiche sessuali e di genere non normative, apparentemente autentiche, che si dice siano state rese invisibili dal colonialismo.
È necessario ovviamente evidenziare il ruolo fondamentale che la modernità coloniale ha svolto nell’imporre una visione bianca e binaria del genere e un’eterosessualizzazione del desiderio in quello che oggi chiamiamo Sud del mondo. Tuttavia, è importante notare come nazioni, culture e società non siano concetti delimitati e stabili o ermeticamente isolati da influssi esterni, e interrogarsi su come la globalizzazione e il capitalismo neoliberista abbiano plasmato e rimodellato soggettività e comunità. La queerness è oggi un’idea transnazionale, che riguarda sempre culture e storie locali ma anche la loro posizione nel contesto globale, superando l’assunto di un’alterità culturale tra soggettività occidentali e non occidentali.
Proprio questo presupposto riduce le identità alla mera diversità e a una differenza idealizzata e immaginaria, con il pericolo di riprodurre visioni razziste e feticizzazione, mentre i corpi, le tecnologie, le storie e le genealogie viaggiano, si traducono e si risignificano in un assemblaggio frammentato e complesso in cui specificità geopolitiche, economiche e sociali si mescolano a imperialismo culturale, flussi migratori globali, ineguaglianze e oppressioni neocoloniali, a guerra e devastazione. È utile allora pensare alla queerness come a una decostruzione di un modello di identità globale fisso e determinato, verso una riorganizzazione e un’immaginazione del desiderio più fluide, transnazionali e geograficamente localizzate. In questo modo diventa possibile contrapporsi sia all’assimilazione capitalizzata di specifiche soggettività sotto la sigla Lgbt sia alle narrazioni razziste, orientaliste e islamofobe che vedono nell’Occidente e nella bianchezza il centro del progresso e della modernità da esportare e imporre. Significa inoltre mettere in discussione il binarismo tra un centro e un margine del mondo e le dinamiche di potere che questo si porta inevitabilmente dietro.
Lo scorso 11 ottobre il premio Nobel per la letteratura è stato assegnato alla romanziera sudcoreana Han Kang, di cui abbiamo parlato anche su Ghinea.
[Alt Text: ritratto fotografico a mezzobusto di Han Kang appoggiata contro una parete opaca e riflettente. Fonte.]
Qui puoi leggere una breve recensione de La vegetariana che abbiamo pubblicato nel numero di novembre 2018:
La vegetariana descrive il paradosso delle risposte ostili a una scelta ispirata dalla non violenza, ma soprattutto evidenzia la catena di nuove crudeltà innescate da una scelta “etica” praticata in un contesto che la rigetta. Tra le violenze normalizzate, sembra suggerire Han, non ci sono solo quelle che tagliano la pelle (animale o umana), ma anche l’effetto che il kimchi scartato o la frutta buttata via hanno su chi quel cibo l’ha preparato come atto di cura. La barriera creata dalla sofferenza di una persona vicina che non solo non comprende la nostra scelta, ma è convinta sia sbagliata, e ci stia danneggiando, è autentica, anche se il dolore è miope. I tre capitoli de La vegetariana confermano il potere perturbatore di una scelta come il vegetarianesimo - anche come metafora - ma ci ricordano il prezzo sociale e il danno affettivo provocati da una scelta che suscita così tanta animosità, perché capace di ripercuotersi con virulenza sulle altre esistenze.
Chiara Muzzicato ha commentato lo stesso romanzo in un pezzo apparso nel numero di settembre 2021, che analizza anche le scritture di Adrienne Rich e Jeanette Winterson:
La carne nel romanzo sembra farsi emblema di una cultura fortemente patriarcale e spesso violenta, oltre che a configurarsi come elemento fondante e imprescindibile della cultura e della cucina coreana. Con il suo rifiuto, Yeong-hye dichiara la sua estraneità da quel sistema, rifiutandolo e condannandolo, e mentre si allontana da esso, sceglie di mettere una distanza anche fra sé e quel corpo di cui è finalmente di nuovo padrona.
Attraverso il controllo del proprio corpo, Yeong-hye riesce ad approdare in “una zona di frontiera” nella quale può muoversi finalmente libera dai confini che la costringevano, da quelle vetrate di cui parlava Rich che precludono un mondo altro, un’altra possibilità di vita.
FATTO DA NOI
Francesca e Gloria hanno letto I miei tre papà. Come liberarsi dai fantasmi del patriarcato di Jessa Crispin, ne hanno parlato per settimane e alla fine hanno deciso di scriverne. Puoi leggere il nostro tredicesimo speciale qui.
FATTO DA VOI
Luca Pinelli ha letto Guerre culturali e neoliberismo di Mimmo Cangiano e ne parla su Limina.
Il nuovo film di Paolo Sorrentino, visto da Sofia Racco.
Rachele Cinerari ha recensito Fare femminismo di Giulia Siviero per ll Tascabile.
Marta Corato ha scritto della seconda stagione della serie TV Pachinko, tratta dall’omonimo romanzo di Min Jin Lee.
UN FILM
The Texas Chain Saw Massacre e la tradizione del gotico femminile
di Cristina Resa
[Alt Text: frame da The Texas Chain Saw Massacre. Primissimo piano di un volto femminile, con occhi verdi spalancati e lucidi, che esprimono terrore. La pelle appare leggermente sudata, contribuendo all’atmosfera drammatica e inquietante del momento.]
Una delle scene più emblematiche in The Texas Chain Saw Massacre (Non aprite quella porta, 1974), film diretto da Tobe Hooper e co-sceneggiato insieme a Kim Henkel che quest’anno compie 50 anni, vede Sally Hardesty, interpretata da un’indimenticabile Marilyn Burns, seduta a una tavola imbandita. Di fronte a lei, una famiglia si accinge a consumare la propria cena, ma in un contesto che trasforma un’esperienza generalmente quotidiana in un incubo febbrile. La sala dove la famiglia, che nel secondo capitolo della saga scopriremo chiamarsi Sawyer, consuma il pasto è decorata con teschi, ossa e altri resti umani e animali. Sally è legata a una sedia i cui braccioli sono arti recisi e le sue mani si confondono in quelle di una delle vittime dei quattro uomini di generazioni diverse - Leatherface, Hitchhiker, Cook e Grampa - seduti a tavola. La donna urla, piange, si dimena. Gli uomini, a eccezione del più anziano, apparentemente in stato vegetativo, ululano e urlano insieme a lei, creando una cacofonia di suoni quasi intollerabile. Le parlano in modo infantile, ma minaccioso, brandendo forchette in cui sono infilzati pezzi di carne, presumibilmente umana.
La macchina da presa seziona il volto di Sally, si stringe sul viso, poi sullo sguardo, poi sul singolo occhio terrorizzato, mentre le risate degli uomini intorno a lei aumentano di intensità e volume, insieme alle sue urla disperate, finché, all’apice della sequenza, il nonno, ai suoi tempi il migliore del mattatoio, viene chiamato a darle il colpo di grazia con un martello. In questa scena, Sally appare totalmente in balia dei Sawyer, che tra l’altro tradiscono dinamiche di potere tossiche anche all’interno della famiglia stessa: i loro abusi si manifestano non solo nella brutalità fisica, ma anche nei modi oppressivi in cui Sally viene privata, fisicamente e psicologicamente, attraverso mezzi coercitivi ed espressioni di scherno, della possibilità di agire. La tavola, spazio che si pone al centro dell’ambiente quotidiano, diventa un luogo di tortura e l’idea di un pasto condiviso si trasforma in un atto di umiliazione, sopruso, violenza, che avviene tra le mura domestiche. La bianca casa di campagna della famiglia Sawyer, così curata all’esterno, cela dunque un interno opprimente e abietto, come una versione contemporanea di un castello gotico isolato, in cui si consumano orrori indicibili e incomprensibili: nel caso di The Texas Chain Saw Massacre, il massacro di un gruppo di giovani che stanno attraversando il Texas in un furgone, da parte di una famiglia di cannibali che ha perso il lavoro nel mattatoio locale.
[Alt Text: frame da The Texas Chain Saw Massacre. Scena di una cena inquietante in una stanza scarsamente illuminata. Quattro figure siedono a un lungo tavolo di legno, circondate da oggetti macabri. Un uomo a sinistra guarda verso l'obiettivo con un'espressione minacciosa, mentre un'altra figura, sulla destra, indossa una maschera di pelle dall’aspetto grottesco.]
Scrive Kate Ferguson Ellis in The Contested Castle: Gothic Novels and the Subversion of Domestic Ideology:
Il filone della cultura popolare che chiamiamo romanzo gotico si distingue per la presenza di case in cui le persone sono chiuse dentro e fuori. Sono scenario di una violenza perpetrata sui legami familiari, spesso rivolta contro le donne.
E, per certi versi, The Texas Chain Saw Massacre reinterpreta proprio i topoi del gotico, inteso come genere narrativo, portandoli alle estreme conseguenze nel contesto del cinema d’exploitation, a cominciare dall’ambientazione. Nel racconto gotico, il castello ha tradizionalmente molteplici significati: è un luogo in cui la vita quotidiana si svolge parallelamente a eventi inspiegabili e rappresenta sia un luogo di domesticità che di reclusione.
Scrivono David Punter e Glennis Byron in The Gothic:
ll castello ha a che fare con la mappa e la sua negazione; rappresenta la perdita di direzione e l'impossibilità di imporre il proprio senso del luogo in un mondo estraneo. Il castello rappresenta la desoggettivazione: all'interno delle sue mura, la persona si trova a essere sottomessa a una forza che resiste a ogni tentativo di imporre il proprio ordine. [...] Ci minaccia con confini indefiniti e allo stesso tempo, attraverso una claustrofobia tombale, mette in scena l'incombente possibilità di una prematura sepoltura. Sfida ogni concezione di liberazione e salvezza, ci espone di fronte a un eccesso di potere patriarcale [...].
Questo concetto ben si adatta a descrivere il contesto in cui si muovono i personaggi di The Texas Chain Saw Massacre. In realtà, “i castelli infestati”, nel film di Hooper, sono due: lo è anche la vecchia abitazione in rovina del defunto nonno paterno di Sally e di suo fratello Franklin (Paul A. Partain). A Sally, mentre si muove nelle stanze che abitava da bambina, casa Hardesty appare come un luogo familiare, intriso di ricordi; per Franklin, che utilizza una sedia a rotelle, costituisce un luogo inaccessibile, pericoloso e sinistro, in cui non può muoversi autonomamente. Non a caso, è lui a trovare i manufatti macabri realizzati con piume, ossa e materiale in decomposizione, oggetti sinistri che funzionano quasi come presagi narrativi e alludono a quello che accadrà ai personaggi. In ogni caso, a causa del suo stato di abbandono, casa Hardesty anticipa l’atmosfera di desolazione che caratterizza quella dei Sawyer.
Come scrive James Rose nella sua monografia su The Texas Chain Saw Massacre:
La casa stessa è nascosta dagli alberi e dai rampicanti che ne hanno ricoperto la maggior parte della facciata. L'immagine è accompagnata da una colonna sonora inquietante: un rumore di fondo che si intreccia a raffiche di vento e a un'eco bassa e inquietante che cambia tonalità. Questo mix di suoni evoca l’isolamento della casa, la sua stessa vuotezza, l'oscurità delle sue ombre e dei suoi angoli più remoti. Insieme all'inquadratura in campo largo, si tratta di un chiaro riferimento alle numerose case infestate che hanno popolato il genere horror fin dai suoi esordi.
Così, nell’ambientazione del film di Hooper, il “castello gotico” si scinde in due versioni complementari: da un lato, abbiamo un luogo familiare, ma abbandonato; dall'altro, uno abitato, ma estraneo, che mette in scena una versione grottesca e distorta delle relazioni familiari. Entrambi gli spazi, luoghi di morte e negazione della vita, alludono alla possibilità che l’orrore si annidi tanto nel familiare quanto nell’ignoto. In questo contesto, le case si rivelano essenziali nel dare vita al meccanismo narrativo che sta alla base delle storie dell'orrore, attraverso il "perturbante", quell'unheimlich, concetto psicoanalitico mutuato dalle teorie di Freud, che esprime l’inquietudine generata da ciò che si percepisce al contempo familiare e profondamente estraneo. Inoltre, come nota anche James Rose, questo tema del doppio riemerge anche nelle relazioni tra personaggi: in qualche modo, il rapporto conflittuale tra Sally e Franklin viene riproposto, in modo deformato e speculare in quello tra i due fratelli della famiglia Sawyer, Hitchhiker e Leatherface. Quest’ultimo, costituisce il mostro-non-mostro di questa storia, un essere umano che si mostrifica attraverso una maschera di pelle umana.
Riflette ancora Rose:
In The Texas Chain Saw Massacre gli elementi del gotico si manifestano chiaramente: la casa infestata, il mostro e la persecuzione. Questi topoi costituiscono un contesto per inquadrare i temi del film e permettono potenziali letture del testo che, in ultima analisi, ruotano concentricamente intorno a un concetto più grande: il perturbante.
E proprio la rappresentazione del “perturbante”, con i suoi motivi narrativi - tra questi, il tema del doppio, la ripetizione, i presagi, l’isolamento, la presenza incombente della morte, presenti The Texas Chain Saw Massacre - che, secondo Punter e Byron, non solo rappresenta il fulcro del filone gotico, ma un vero e proprio “modus operandi” per gran parte di queste narrazioni, perché “ha a che fare con il costante turbamento del quotidiano”.
[Alt Text: frame da The Texas Chain Saw Massacre. Una figura controluce brandisce una motosega al tramonto, in un'ambientazione rurale.]
È sicuramente interessante leggere The Texas Chain Saw Massacre come testo perturbante che si inserisce nel solco della tradizione gotica, come è avvenuto per precursori di altri sottogeneri, tra cui il folk horror con Witchfinder General di Michael Reeves e il giallo all’italiana con I vampiri di Riccardo Freda. Il film di Hooper getta così le basi per la nascita di un nuovo sottogenere, lo slasher, di cui anticipa motivi e struttura. Certamente, lo fa in maniera peculiare e composita, perché si innesta nell’esperienza dell’hixploitation, una tipologia di film d'exploitation culminata nel periodo del nuovo conservatorismo liberista, che sfrutta gli stereotipi legati alla cultura rurale del Sud degli Stati Uniti, servendosi di linguaggi e strutture preesistenti per raccontare una storia dalla portata sovversiva. L'efferata storia di questo massacro, infatti, nasconde una allegoria feroce della società industrializzata statunitense degli anni '70 e una chiara critica al capitalismo e alle sue derive. I membri della famiglia Sawyer, nel momento in cui perdono il lavoro al grande mattatoio locale perché la loro funzione è stata sostituita da mezzi di abbattimento più efficienti, non si fanno scrupoli a macellare e consumare carne umana, in un film "di sfruttamento" che diventa, a sua volta, una critica allo sfruttamento.
Questa brutalità viene racchiusa nel microcosmo della casa familiare che rappresenta il macrocosmo della società contemporanea. Da questo punto di vista, nell’esperienza traumatica vissuta da Sally, in particolare nella scena descritta in apertura, riecheggiano chiaramente i temi e le strutture del “gotico femminile”. Con questa espressione, coniata da Ellen Moers nel 1976 in Literary Women in riferimento al lavoro di autrici come Mary Wollstonecraft e Ann Radcliffe, si intende un sottogenere letterario del gotico che esplora temi di oppressione, potere e identità femminile all'interno di società patriarcali. Si tratta di un concetto di difficile definizione e molto dibattuto, perché, come sostiene Ellen Ledoux in un saggio dal titolo Was there ever a “Female Gothic”?, costituisce una categoria che non riflette pienamente la ricchezza e la diversità dei contributi delle donne al genere. Negli anni, tuttavia, è andato ridefinendosi nella doppia accezione di storia gotica scritta da autrici oppure con al centro figure di donne, in particolare per i temi che queste narrazioni, che raccontano l’esperienza femminile del mondo, filtrata attraverso la lente del genere, condividono.
Xavier Aldana Reyes, in Gothic Cinema, definisce il gotico femminile come
un sottogenere del gotico che si distingue per la sua configurazione di mostruosità, poiché il cattivo principale tende a essere un uomo che incarna l'oppressione dei sistemi patriarcali. Queste narrazioni infatti sviluppano un archetipo ancora più antico, quello di Barbablù, l'assassino di mogli reso popolare da Charles Perrault nella sua versione della fiaba, trascritta nel 1697.
Come scrivono ancora Punter e Byron:
Nella tradizione del gotico femminile, il maschio trasgressivo rappresenta la minaccia principale per la protagonista. Inizialmente, la donna è rappresentata mentre gode di una vita idilliaca e appartata; segue poi un periodo di prigionia in cui viene rinchiusa in una grande casa o in un castello sotto l'autorità di una figura maschile potente o del suo surrogato femminile. All'interno di questo spazio labirintico, la donna è intrappolata e inseguita e la minaccia può essere rivolta alla sua virtù o alla sua vita. Questo scenario di base è, ovviamente, presente nel gotico fin dall'inizio.
Tuttavia, nonostante un’etichetta non possa, in nessun modo, restituire la complessità di un approccio narrativo, perché si tratta per definizione di una semplificazione, rimane un utile strumento per analizzare e rileggere la realtà. In questo senso, i motivi narrativi che caratterizzano il gotico finora discussi diventano forme simboliche che rivelano le paure, i desideri e le rivendicazioni legate all'identità femminile.
Diana Wallace, in The Female Gothic: New Directions, discute questo aspetto simbolico:
Basandosi sulle teorie post-strutturali della soggettività stessa come non fissata, fluida, frammentaria e contingente, le metafore gotiche sono usate [...] come strumento per teorizzare e destabilizzare il simbolismo della cultura fallocentrica. [...] Come suggerisce la loro ubiquità, quelle che ho chiamato metafore gotiche femminili hanno un enorme potere di trasmettere l'esperienza delle donne di vivere in una cultura che storicamente ha negato loro lo status giuridico di “soggetto” all'interno del matrimonio e che ha continuato a far sentire alle donne la negazione di una piena soggettività. Queste metafore offrono un modo emotivo e avvincente di sfidare egemonie consolidate e “razionali” e di “teorizzare” verità alternative che possono essere difficili da esprimere in altri modi.
Wallace continua avvertendo di prestare attenzione a queste metafore, quando hanno un “aspetto normativo e di rinforzo” e corrono il rischio “di ridurre le donne vive a figure morte”. Tuttavia, nel caso di The Texas Chain Saw Massacre, i motivi gotici vengono filtrati da una sensibilità contemporanea e trasformati in una narrazione del tutto diversa, per stile, approccio, linguaggio. Evidenziare questi elementi permette di leggere il film di Hooper come una critica lucida e ancora profondamente attuale a un sistema, capitalistico e patriarcale, costruito su asimmetrie di potere, che parla il linguaggio della violenza.
[Alt Text: frame da The Texas Chain Saw Massacre. Una giovane donna di spalle cammina verso una casa in stile vittoriano immersa tra alberi e cespugli. Il cielo è sereno con grandi nuvole bianche che contrastano con il blu intenso.]
Nel capitolo di Caccia alle streghe, guerra alle donne, sulla violenza di genere e le nuove forme di accumulazione, Silvia Federici evidenzia in modo efficace la relazione tra patriarcato, capitalismo e violenza:
Lo sviluppo del capitalismo iniziò con una guerra alle donne: la caccia alle streghe del XVI e XVII secolo che in Europa e nel Nuovo Mondo causò la morte di migliaia di persone. [...] La caccia alle streghe, infatti, ha distrutto un universo di soggetti e pratiche che ostacolavano la formazione di quelle che erano le precondizioni del nascente sistema capitalista: l’accumulo di forza lavoro su larga scala e l’imposizione di una disciplina del lavoro più coercitiva. Definire e perseguitare le donne in quanto «streghe» ha spianato la strada in Europa al loro confinamento nel lavoro domestico non retribuito; ne ha legittimato la subordinazione agli uomini, sia dentro che fuori dalla famiglia; ha conferito allo Stato il controllo sulla loro capacità riproduttiva, garantendo la produzione di nuove generazioni di lavoratori. In questo modo, la caccia alle streghe ha costruito un ordine patriarcale specifico del capitalismo che perdura ancora oggi [...].
Sembra naturale, dunque, in una narrazione che esplora l'orrore come conseguenza dell'invasione industriale negli spazi rurali e sociali, della produzione su larga scala e dell'allevamento intensivo, in cui la violenza sugli esseri viventi, soprattutto quella attuata con efficienza come parte del ciclo produttivo, è rappresentata come un semplice ingranaggio del sistema, emerga anche una critica rispetto a questioni di genere, a maggior ragione dal momento che il film di Hooper porta avanti discorsi e istanze controculturali degli anni ‘70.
Sally, dunque, si trova a incarnare il ruolo dell’eroina gotica intrappolata in uno spazio chiuso, perseguitata da uomini che rappresentano una distorta autorità patriarcale, che acquista connotati quasi infantili, anche nella loro spaventosa efferatezza. È interessante notare come, nonostante The Texas Chain Saw Massacre sia un film d’exploitation, modello produttivo a basso costo volto al profitto, spesso caratterizzato, oltre che da un’estrema violenza esplicita, dallo sfruttamento e la sessualizzazione del corpo femminile, nel film di Hooper non emerga questo aspetto. O meglio, emerge in modo critico: Sally, nel tentativo di salvarsi, sussurra, piangendo, “farò tutto quello che volete”, ma il tipo di patriarcato abusante che caratterizza i Sawyer è strettamente legato a un certo tipo di “capitalismo cannibale” in cui chi consuma è a sua volta consumato, dove i corpi, tutti i corpi, sono carne da macello, un prodotto da consumare, un oggetto.
[Alt Text: frame da The Texas Chain Saw Massacre. Una donna sporca di sangue ride in maniera disperata e allo stesso tempo sollevata sul retro di un pick up in corsa al tramonto.]
Il ruolo di Sally come prigioniera rispecchia questa lotta contro l'oppressione sistemica, presentandola come una figura al contempo fragile e tenace, che resiste disperatamente a un sistema patriarcale che la relega al ruolo di vittima. Quello che la donna, ultima sopravvissuta, è chiamata a fare è, sostanzialmente, riprendere il pieno possesso del proprio corpo, riappropriarsi della propria soggettività, del proprio spazio di azione, uscire dalle logiche del consumo e dello sfruttamento. Nel farlo, la sua figura anticipa quella della Final Girl dello slasher, che verrà poi codificata con Halloween (1978) di John Carpenter, diventando uno dei prototipi più significativi degli anni '70.
Da questo punto di vista, è interessante ricordare cosa scrive Carol Clover in Men, Women, and Chain Saws, a proposito della differenza tra un personaggio femminile nel cinema classico come Marion di Psycho e una Final Girl:
Forse è proprio questa teatralizzazione del genere che rende possibile la disponibilità dello spettatore maschile a sottomettersi a un'esperienza visiva che Hitchcock ha definito “femminile” nel 1960 e che da allora è diventata sempre più tale. Nell'horror classico, la “femminilizzazione” del pubblico è intermittente e cessa presto. Il nostro rapporto con il corpo di Marion in Psycho si interrompe bruscamente nel momento della sua massima intensità (fendenti, strappi, lacerazioni). Come Marion, la Final Girl è la vittima designata, quella in cui si identifica il pubblico, il cui corpo, squarciato e lacerato, ci farà trasalire e urlare sulle nostre poltrone. Ma a differenza di Marion, lei non muore. Se Psycho, come altri film horror classici, risolve il problema della femminilità cancellando la donna e sostituendola con rappresentanti dell'ordine maschile, lo slasher moderno lo risolve assegnando un genere differente alle donne. Alla fine, il pubblico, è “mascolinizzato” da e attraverso la stessa figura da e attraverso la quale è stato precedentemente “femminilizzato”.
Senza nulla togliere a un testo seminale come Men, Women, and Chain Saws, Clover, partendo dalle teorizzazioni di Laura Mulvey sul male gaze, che vede il cinema realizzato essenzialmente per soddisfare le fantasie e i piaceri di uno sguardo maschile senza tener conto della complessità di un pubblico femminile o non definito da generi, arriva a delle conclusioni che oggi appaiono fin troppo binarie. Tuttavia, l’aspetto che emerge da questa riflessione, è l'enorme potenzialità delle figure femminili nel genere horror, capaci di suscitare emozioni tangibili, quasi fisiche, come paura e disgusto, di restituire esperienze diverse da quelle che vive il pubblico, di farlo compartecipare a quelle esperienze, di permette di cambiare sguardo. Sally Hardesty, grazie all’interpretazione furiosa e disperata di Marilyn Burns, è l’anello di congiunzione tra la Marion di Psycho e la Laurie Strode di Halloween (e tutte le altre a venire), tra la vittima del killer e la Final Girl capace di rimanere l’ultima donna in piedi. Questo grazie al fatto che affonda le sue radici nell’eroina gotica.
Per approfondire:
Aldana Reyes, Xavier. 2020. Gothic Cinema. 1st ed. London: Routledge.
Clover, Carol J. 2015. Men, Women, and Chain Saws: Gender in the Modern Horror Film. Princeton, N.J.: Princeton University Press.
Ellis, Kate Ferguson. 1989. The Contested Castle: Gothic Novels and the Subversion of Domestic Ideology. Urbana: University of Illinois Press.
Federici, Silvia. 2020. Caccia alle streghe, guerra alle donne. Roma: NERO.
Ledoux, Ellen, “Was There Ever a 'Female Gothic'?” (June 2017). Palgrave Communications, Vol. 3, 2017, Available at SSRN: https://ssrn.com/abstract=2979271 or http://dx.doi.org/10.1057/palcomms.2017.42
Punter, David & Byron, Glennis. 2004. The Gothic. Malden, Mass.: Blackwell.
Rose, James. 2013. The Texas Chain Saw Massacre. Oxford: Oxford University Press.
Wallace, Diana & Smith, Andrew. 2009. The Female Gothic: New Directions. Basingstoke, Hampshire: Palgrave Macmillan.
Nella sua vita precedente, Cristina Resa si è dedicata allo studio delle mitologie antiche, oggi è ossessionata da quelle contemporanee. Lavora in campo editoriale, scrive di film, serie tv e videogiochi su IGN Italia, è una delle voci di Incompetenti Podcast. A volte la trovi in giro per la rete a parlare di rappresentazione, horror e a inseguire i miti. Puoi seguirla su Instagram, Letterboxd, Medium.
Ringraziamo Federica, Elisa e Cristina per i loro bellissimi contributi. Ci leggiamo presto!
Un abbraccio!
Francesca, Gloria e Marzia
Grazie di cuore per aver parlato di Espulse e dell'inchiesta delle nostre colleghe per Irpi Media 💜