Speciale Ghinea #9: Sanremo & Eurovision
Benvenutu al nono numero speciale di Ghinea! Oggi ci dedichiamo a due eventi pop per scoprirli luoghi di perpetuazione di narrazioni date, quando non veicoli di propaganda. Sara Giudice analizza per noi la presentazione e l'assimilazione dei corpi a-normali sul palco dell'Ariston, in occasione dell'ultima edizione del festival di Sanremo; noi invece ripercorriamo la storia della kermesse camp dell'Eurovision: una storia da sempre intrecciata con delicate questioni di relazioni fra stati e, più di recente, una storia di queerbaiting e rainbow washing.
Con una precisazione: se ti sei godutx questi eventi non sei solx! Il piacere e l’interesse critico per i momenti (soprattutto televisivi) di aggregazione pop sono spesso intricati; vale la pena però non ignorare la matassa. Buona lettura!
Assimilazione del corpo a-normale sul palco dell’Ariston. Tre token a Sanremo.
di Sara Giudice
Introduzione.
Nel febbraio del 2022 il festival di Sanremo ha visto la terza direzione artistica e conduzione di Amadeus che, come dal 2020, è stato accompagnato da un gruppo di co-conduttrici: Maria Chiara Giannetta, Lorena Cesarini, Drusilla Foer, Ornella Muti e Sabrina Ferilli. Di queste ultime, Muti e Ferilli, non ci occuperemo per motivi che verranno chiariti di seguito.
Lo scopo di questa piccola ricerca è, infatti, esplorare come l’a-normalità viene compresa all’interno dello schermo Rai, con lo scopo ultimo di assimilarla, avvicinandolo a quello che viene percepito come normale, ordinario, accettabile. Muti e Ferilli non sono, visibilmente, utili alla ricerca come oggetto di analisi, quindi non verranno incluse. Al netto della loro età anagrafica, Muti e Ferilli sono il massimo dell’espressione della normalità (femminile): sono eccessivamente belle, in forma, ben vestite, e sopperiscono quel sistema culturale di pregiudizio nei confronti della femminilità matura esponendosi al fianco del conduttore come gradevoli accompagnatrici. Nonostante questo, nulla suggerisce che, a differenza di Cesarini, Giannetta e Foer, Muti e Ferilli fossero lì in funzione delle loro caratteristiche “divergenti”. Tutto il contrario.
Si sta facendo riferimento, in questa sede, a quel conflitto fra normale e anormale che si trova nella quasi totalità delle materie che hanno al centro il corpo. Ad esempio, lo troviamo nella trattazione di Foucault (Sorvegliare e punire, 2013), lo troviamo negli studi sulla disabilità di Goodley (Dis/ability, 2014) e in quelli di genere di Halberstam (In a queer time and space, 2005), e lo troviamo anche e soprattutto in quella che conosciamo come critical race theory. Si può guardare a Standard white (2016), in cui Michael Morris spiega in maniera esemplare come e quando questo rapporto binario si applica:
[…] le persone bianche sono persone, e i membri di altri gruppi razziali sono persone finché assomigliano alle persone bianche. […]. La bianchezza definisce il normale o accetta una gamma di condotte e caratteristiche, e tutte le altre categorie razziali sono in contrasto con la bianchezza in quanto deviazioni dalla norma”.
(Morris, 2016)
Questo significa che, in opposizione alle persone queer, le nere, le disabili, esiste un ideale di normale, tipico, a cui ci si deve avvicinare e che non può mai essere ignorato in quanto obiettivo finale; accade perché, come per le persone non-bianche, anche le persone non-etero, non-cisgender e non-abili hanno l’unica opportunità per essere considerate accettabili, utili e umani, nella loro performance dell’eterosessualità, del cisgenderismo, dell’abilità. Si ha la certezza che un binarismo del genere (normale-anormale) non ha nessun tipo di applicazione reale e concreta, poiché l’essere umano e le sue pratiche mutano, e gli stessi concetti di bianchezza, abilità, eterosessualità e cisgenderismo con essi. È per una questione di sopravvivenza, che le tradizioni umane e i comportamenti culturali cambiano nel tempo, nello spazio e nella relazione degli individui fra di loro, ma tutto questo non è applicabile alla rappresentazione dei corpi a-normali a Sanremo e, più in generale, in Rai.
[Alt Text: Fiorello, Ornella Muti e Amadeus sul palco dell’Ariston.]
Le tre conduttrici di Sanremo 2022 protagoniste di questa analisi sono espressione proprio della necessità di Rai di tenere a bada quei corpi (queer, neri e disabili) che altrimenti rimarrebbero oltre il confine del normale e dell’accettabile, a minacciare la narrazione cisgender, bianca, eterosessuale, abile, la definizione del tipico, riflessione ideale dello spettatore. Non si vuole cadere in facili complottismi, che andrebbero a minare l’obiettivo di questa ricerca, ma rendere chiaro l’ambiente in cui ci si sta muovendo, con tutte le delicatezze e contraddizioni del caso. A questo serve l’approccio intersezionale. Non è un caso che l’oggetto della nostra ricerca sia rappresentato da tre donne (con il beneplacito teatrale del caso di Drusilla Foer) e che ognuna di queste rappresenti proprio le tre categorie più a-normali a cui lo spettatore di Rai possa pensare: la queer, la disabile, la nera.
C’è da considerare, in aggiunta, che l’inserimento di questi tre prototipi di donne a Sanremo sono la riprova di una serie di scelte della direzione artistica del festival, con lo scopo evidente di sopperire a quel distacco fra Sanremo e la fetta più giovane di utenza Rai, sia reale che potenziale. Con Cesarini, Giannetta e Foer si stanno intercettando le body knowledges di quelle stesse identità che Rai ha tentato di assorbire attraverso le tre attrici. Da specificare che, quando si parla di body knowledge, si fa riferimento a quel concetto che nutre la danza contemporanea e la videodanza insieme, particolarmente nella figura e dell’operato di William Forsythe, Motion Bank e Forsythe Company, in cui la body knowledge (trad. “conoscenza del corpo”) è contemporaneamente il risultato dell’incorporazione di informazioni nel tracciato corpo-mente (quello della memoria muscolare, alla base di questa nuova sensibilità performativa) e uno strumento per esplorare proprio lo spazio e il tempo, che rimarrebbero altrimenti nella loro forma più astratta e intangibile. Questo è ampiamente argomentato in Choreographic bodies (2016), in cui Letizia Gioia Monda rende chiaro che il concetto di body knowledge, così come motion-based knowledge (trad. “conoscenza basata sul/attraverso il movimento”) sono parte dell’esperienza umana, della doppia natura del corpo – fisico e mente, natura e cultura, cuore e cervello. Non è un caso, infatti che Marshall McLuhan parli, in Understanding media e in The medium is the message nel 1964, del mutamento dell’essere umano in relazione al mutamento degli ambienti mediali, degli strumenti che le persone utilizzano per comunicare fra di loro ed esprimere loro stessi, e non è nemmeno un caso che si ponga tanto l’attenzione sulla postura del bambino in relazione al libro (cioè alla parola stampata) e allo schermo televisivo. D’altronde, proprio McLuhan afferma che
[…] il ‘messaggio’ di ogni medium o tecnologia è il cambiamento di misura o andatura o modello che esso introduce nelle cose umane. (McLuhan, 1964)
Ci si trova quindi obbligati a considerare la questione della rappresentazione come una questione del corpo, quello del personaggio, dell’attore e, soprattutto, dello spettatore.
Da tenere a mente, infine, che l’autore non ha intenzione di prendere a bersaglio le singole individualità coinvolte di seguito. Le tre protagoniste di questa ricerca sono parte di un sistema che, volenti o nolenti, le vede vittime di un processo di tokenizzazione su cui loro hanno ben poca agenza in quanto singoli. Non sono da considerarsi responsabili della pratica di irreggimentazione e normalizzazione che si è sviluppata durante i momenti dedicati ai loro monologhi (così rinominati quei momenti in cui le co-conduttrici sono ideali protagoniste sul palco). Come anche gli spettatori, infatti, Cesarini, Giannetta e Foer si trovano nel mezzo di un enorme meccanismo narrativo, che ha bisogno di costruire corpi (quindi body knowledges) in linea con le necessità editoriali di Rai Radiotelevisione italiana e con la necessità di proiettarsi verso un nazionale italiano – questo sì, molto fragile. Come ampiamente affermato e argomentato da Antonio Gramsci nei Quaderni del carcere (Einaudi, 1975), infatti, in Italia il nazionale esiste in limiti molto sottili, molto instabili.
Di tutto questo si deve tenere conto quando si parla di Rai, un’emittente pubblica la cui dirigenza è direttamente influenzata dal governo in carica e che si è inserita, sin dalla sua nascita, in una tangente ricostruttiva che non era solo quella del dopoguerra, ma soprattutto quella della nascita della repubblica italiana, idealmente unica ma inevitabilmente frammentata.
1.2. Lorena Cesarini.
Lorena Cesarini è un’attrice italiana afrodiscendente. Ha interpretato ruoli secondari in diversi film e serie tv, ed è conosciuta ai più per il suo ruolo di Isabel Mbamba in Suburra (2017). Arriva sul palco dell’Ariston con non poche resistenze da parte del pubblico, di cui pure la stessa Cesarini ha parlato durante il suo monologo. Di questo ci si occuperà di seguente, mantenendo sempre chiaro che la presenza di Cesarini non può essere interpretata solo ed esclusivamente come un segnale negativo, di assimilazione del diverso, così come non si può nemmeno prendere il suo ruolo di co-conduttrice come un segnale di grande progressismo da parte dell’emittente.
[Alt Text: Lorena Cesarini sul palco dell'Ariston esegue il suo monologo. Il presentatore e direttore artistico Amadeus la guarda, sullo sfondo.]
Il suo intervento inizia con la descrizione della sua vita da ragazza italiana: parla del luogo di nascita del padre, delimitando un’origine extra-italiana (il Senegal), e racconta di un’infanzia e un’adolescenza felici, lontane da incontri di carattere razzista. Il tema del razzismo, come a interrompere una vita ideale, quasi favolistica, segna una svolta nel suo racconto e diventa la chiamata all’avventura di Cesarini, che argomenta sui commenti a sfondo razzista ricevuti dopo l’annuncio della sua presenza a Sanremo, nel dicembre del 2021. Gli attacchi nei confronti di Cesarini sono chiaramente dei colpi bassi: attaccano la sua identità, il colore della sua pelle e le sue competenze in quanto attrice; la più ricorrente delle insinuazioni riguarda il fatto che Cesarini sarebbe arrivata a Sanremo in funzione del suo aspetto, del suo essere nera. A questo, il pubblico dell’Ariston risponde gridando complimenti all’attrice. Un uomo urla “Sei bellissima!”. D’altronde, Cesarini è una giovane donna, dall’aspetto fisico che rientra perfettamente nei parametri di magrezza che l’industria della cura del corpo ha definito paradigma della salute e della normalità, ormai non più solo per donne bianche.
Da questo momento, la storia di Cesarini si biforca nella narrazione di Lorena Nera e Lorena Italiana, due identità che pare non possano co-esistere. Questo tema esiste già nel sistema Rai, e in parametri ben precisi: i corpi non-bianchi vengono tassativamente rappresentati quasi solo esclusivamente come rifugiati, immigrati e a-normali. Di fatto, nel periodo 2014-2020, solo 5 produzioni Rai Fiction su 30 (Tutto può succedere, 2015; Questo è il mio paese, 2015; Lampedusa. Dall’orizzonte in poi, 2016; Nero a metà, 2018; Doc. Nelle tue mani, 2020) presentano personaggi neri, ma solo una di queste (Tutto può succedere) lascia spazio ai propri personaggi non-bianchi di emanciparsi dalla loro condizione di clandestini, fuori legge. C’è quindi una continuità importante fra Rai Fiction e Sanremo: entrambi sono dipendenti da un’unica narrazione dei corpi neri, che appaiono non immaginabili al di fuori della modalità con cui sono arrivati all’interno dei confini italiani. Questo si riflette sull’inizio del monologo di Cesarini, quando spiega che la sua origine è fuori, che è qui ma è anche lì – ed è per questo che la Lorena Nera e quella Italiana non riescono a condividere nello stesso corpo: perché una è normale e l’altra no.
Il monologo prosegue con la lettura di un passaggio da Il razzismo spiegato a mia figlia (Tahar Ben Jelloun, 1998). Durante la lettura, Cesarini si commuove, quasi piange, e cerca conforto nello sguardo del presentatore, Amadeus. La regia si sofferma spesso su inquadrature che lasciano sullo sfondo la figura, seppur fuori fuoco, del presentatore: l’uomo bianco è sempre presente, guarda e sorveglia la donna nera. Si dice al pubblico che l’uomo bianco è sempre presente, pronto a riprendere il controllo della situazione, in cui il corpo non-bianco (Cesarini) è messo in difficoltà – questo avviene proprio perché quello stesso corpo ha incorporato quel tipo di oppressione, aggressione, dando vita a reazioni coerenti anche alle storie degli altri corpi non-bianchi, qui Jelloun. La reazione non è solo emotiva, ma anche fisica, empatica sul doppio fronte. Cesarini è evidentemente a disagio, sposta il peso da un piede all’altro e tiene libro in questione con entrambe le mani. Cerca conforto nel presentatore bianco, la regia lascia che lo spettatore la segua con lo sguardo della telecamera. Il suo corpo reagisce all’aggancio fra le informazioni del monologo e quelle archiviate in Cesarini, ma lo fa all’interno del frame che favorisce comunque il pubblico bianco.
In conclusione, è notevole anche la cornice (il frame) in cui Cesarini opera. Il tono dell’attrice è sempre rassicurante, anche quando si commuove: Cesarini ridacchia, si scusa, cerca conforto nella prima persona vicina a lei, e sorride quando complimenti (sul suo aspetto fisico) arrivano dal pubblico. Lo spazio intorno a lei, così come il tempo del monologo, è accuratamente costruito per essere il più accomodante possibile: mai, durante il suo intervento, Cesarini ha la possibilità di mettere in discussione le ragioni più profonde degli attacchi e gli insulti a sfondo razzista che ha ricevuto online, quindi non ha mai veramente la possibilità di trovare una via d’uscita dalla condizione di oppressione che continua a subire prima, durante e dopo il suo intervento sul palco dell’Ariston. Il suo unico scopo è coccolare il suo pubblico (bianco e benestante) e metterlo in condizione da essere abbastanza comodo da non dover mettere alla prova quella che Robin DiAngelo chiama racial stamina (trad. “resistenza razziale”) in What does it mean to be white? (2016). È credibile pensare, fra le tante varianti possibili, che il pubblico dell’Ariston, per demografia ed estrazione sociale, non abbia gli strumenti per gestire una possibile messa in discussione del suo privilegio, quello che ha dato a Lorena Cesarini il permesso di salire sul palco di Sanremo e raccontare la sua storia, ma solo nei limiti del sopportabile. D’altronde, come detto dall’attrice stessa, “non sono qui per darvi una lezione”.
1.3. Maria Chiara Giannetta.
Maria Chiara Giannetta, come Cesarini, è un’attrice italiana. In ambito televisivo, Giannetta è conosciuta agli utenti Rai principalmente per i suoi ruoli in Don Matteo (2014 – in corso), Un passo dal cielo (2017), Che Dio ci aiuti (2017 – 2019) e, ovviamente, Blanca (2021). Intorno a quest’ultima produzione si svolge il monologo che la vede protagonista a Sanremo 2022, su cui non è sola. Anche se accanto a lei sul palco, è presente un piccolo gruppo di persone disabili che lei chiama “i miei guardiani”, spiegheremo più avanti perché, nonostante si tenti di costruire una narrazione di senso contrario, di fatto è Giannetta che rimane l’unica protagonista.
L’intervento di Giannetta inizia con l’invito al pubblico a chiudere gli occhi per pochi secondi, così da “capire di cosa si tratta”. Con questo piccolo esercizio, Giannetta vuole creare un primo legame emotivo fra il pubblico di Sanremo (sia quello in presenza che quello dietro il piccolo schermo) e i suoi “guardiani”. Si può arrivare già ora alla conclusione che questo non sia abbastanza per capire cosa significhi essere ciechi – la condizione della cecità, così come tutte le disabilità, prevede infatti un corpus di pratiche incorporate e condizioni fisiche, anche dolorose, che sono esclusive dei singoli corpi disabili. Questi sono differenti fra di loro per esperienza dello spazio e del tempo, nel rapporto con l’altro e con gli ambienti circostanti, in riferimento alle singole condizioni di disabilità, le co-morbidità e la qualità della vita, oltre che la disponibilità economica e la posizione sociale.
Giannetta continua, poi, con la descrizione della sua preparazione per interpretare il personaggio di Blanca, una donna cieca la cui caratteristica principale è la sua capacità di percepire gli ambienti utilizzando il suo udito sovra-sviluppato, cosa che le garantirà gradualmente di guadagnare rispetto e riconoscimento da parte dei suoi colleghi poliziotti. Affinché il suo ruolo potesse essere interpretato nella maniera migliore possibile, dice Giannetta, ha dovuto essere seguita dai sopracitati “guardiani”, che introduce dopo aver tirato un filo di ragionamento (secondo il monologo, inevitabile) fra le seguenti tre parole: “guardiano”, “guardare”, “ciechi”. Si parla quindi di come la cecità renda la condizione dei singoli individui, i consulenti di Giannetta, contemporaneamente superiore e inferiore alla sua: superiore perché la cornice di significato li disegna come eroi, così come lo fa con il personaggio di Blanca, e inferiore perché rimane Giannetta la portatrice del discorso – è lei che parla al posto dei suoi consulenti, ed è lei che insinua, nelle menti del pubblico dell’Ariston, che chiudere gli occhi per pochi secondi sia abbastanza per “capire di cosa si tratta”.
[Alt Text: Maria Chiara Giannetta termina il suo monologo sul palco dell’Ariston. Accanto a lei, il presentatore Amadeus e una delle consulenti disabili della serie Blanca si abbracciano sorridenti.]
Uno dei passaggi finali è il giro di ringraziamenti ai disabili di Giannetta, in cui l’attrice si rivolge ai singoli chiamandoli per nome, descrivendo il loro valore solo in relazione alla loro forza di volontà, quella che le persone disabili già sanno, è utilizzata per sminuire le loro esperienze e necessità, di fronte a una società e degli ambienti che rendono spesso impossibile l’accesso a determinati spazi e tempi della vita pubblica e privata. Nonostante questo, la parola viene presa raramente dalla controparte disabile dell’attrice abile, che si assicura che il discorso proceda in maniera per cui i disabili sono oggetto, non soggetto. Prima dell’applauso di congedo, una delle consulenti, conosciuta solo per nome, prende la parola per ringraziare Giannetta e “Mamma Rai”, concludendo con “non perdiamoci di vista”.
Il caso di Giannetta e dei suoi guardiani (consulenti), sempre costretti a impegnarsi e dimostrare il loro valore con uno sforzo che mai verrebbe richiesto alla controparte abile, è un caso da manuale. Nel tentativo di dare uno spazio di legittima agenza a una delle categorie che, non solo in Rai, si è meno abituati a intercettare, si è finito per ripetere l’ennesimo schema narrativo all’interno del quale gli a-normali, in primis i disabili, sono costretti a operare. Questa costruzione del mondo, operata attraverso Giannetta, è quella che vede il corpo disabile in senso utilitario, visibile solo nel momento in cui fornisce un servizio e produce – in questo caso, il consulente disabile dell’attrice abile esiste perché ne migliora la performance. Come argomentato in Dis/ability, si costruisce il cittadino ideale nella società liberale (Goodley, 2014), un cittadino che è anche il prodotto culturale di quella abilità compulsiva di cui si occupa McRuer in Crip Theory (2004), e che costruisce con strumenti culturali una serie di operazioni performative incorporate (cioè parte integrante delle singole body knowledges) e che rimandano direttamente alla compulsività che Judith Butler argomenta in Gender Trouble nel 1990.
Si concluderà però con la consapevolezza che, almeno per Giannetta, “è stata una figata”.
1.4 Drusilla Foer.
Il caso di Drusilla Foer risulta il più complesso dei tre, per motivi che riguardano la performance teatrale e la performance di genere.
Foer è infatti un personaggio a tutti gli effetti, agito da Gianluca Gori, uno di quelli che viene solitamente chiamato en travesti, cioè incarnato da un performer del sesso opposto. In questo senso, Drusilla Foer è un’operazione performativa transmediale, perpetrata fra il teatro, la televisione e il cinema. Gori, nei panni di Foer, appare infatti in programmi tv come La repubblica delle donne (2018 – 2020) e film come Magnifica presenza (2012), oltre che in spettacoli dal vivo come Venere nemica (2020). Di fatto, Gori e Drusilla Foer non sono separabili nel contesto teatrale, perché lo spazio e il tempo della performance prevedono che l’attore e lo spettatore (colui che fruisce) siano d’accordo nella consapevolezza che quello che stanno guardando esiste in un contesto preciso, quello dello spettacolo dal vivo, che avrà fine in un dato momento dall’inizio della messa in scena. Sul palco, di fatto, non c’è Gianluca – c’è Drusilla. In questo legame, che esiste in maniera profondamente diversa quando viene mediato dal mezzo televisivo e dal suo linguaggio, lo spettatore fa parte di uno scambio continuo e reciproco di informazioni che hanno radici sia emotive che fisiche, archiviate nel corpo e sempre riattivabili, come argomenta ampiamente, in Choreographic bodies. L’esperienza della Motion Bank nel progetto multidisciplinare di Forsythe nel 2016, Letizia Gioia Monda. Questo inevitabilmente contribuisce alla vitalità, nel senso più letterale del termine, e della persistenza di Drusilla Foer, la cui presenza ora esiste grazie a Gori – e viceversa.
Riguardo alla sua presenza sul palco dell’Ariston, Foer rappresenta chiaramente la “quota queer” del Festival, senza però esserlo davvero. Senza sindacare sull’identità di genere di Gori, che non è interessante né rilevante, è stato reso evidente da Judith Butler (e da chi per lei e dopo di lei) che il genere è performativo. Si legge in Gender Trouble nel 1990:
[…] la ‘coerenza’ e la ‘continuità’ della ‘persona’ non sono caratteristiche logiche o analitiche dell’individualità, ma, piuttosto, sono istituite socialmente e mantenute da norme di intelligibilità. In quanto ‘l’identità’ è assicurata attraverso i concetti stabilizzanti del sesso, del genere, e della sessualità, la nozione di ‘persona’ è messa in discussione dall’emersione culturale degli individui sessuati ‘incoerenti’ e ‘discontinui’, che sono persone ma non si conformano alle norme di genere culturalmente intelligibili, da cui le stesse persone sono definite.
(Butler, 1990)
Questo passaggio, come l’intera produzione di Butler intorno al tema del sesso e del genere, mette in evidenza l’urgenza di capire che esistere in una società binaria in quanto individuo non-binario, o come generica identità queer, non è una questione di azioni da performare e identità da esprimere (attraverso il vestiario e il linguaggio), ma principalmente di informazioni e pratiche incarnate, incorporate nelle singole individualità, in relazione con il gruppo sociale di appartenenza, e quindi con le sue regole e convenzioni specifiche. Se si applica questo al caso di Foer, ci rendiamo conto che la sua presenza sul palco di Sanremo, così come nel caso di Cesarini e di Giannetta, non è abbastanza. Questo diventa più chiaro se si analizza il suo monologo.
[Alt Text: Drusilla Foer si esibisce sul palco dell’Ariston.]
Drusilla Foer inizia il suo intervento descrivendo Amadeus “il padrone del palco”, di fatto continuando sulla linea di Cesarini del legame indubitabile con l’uomo bianco, qui anche cisgender, che funge da controparte e punto di riferimento. Si nota anche una certa coerenza con l’intervento di Giannetta, quando Foer dice “non posso ammorbare il pubblico”, facendo riferimento al tema della fluidità che, pure, ci si aspetta da un individuo queer (con tutte le problematicità performative del caso) che è presente in diretta funzione della sua (finta, ma non falsa) espressione di genere, seppur di natura teatrale. In perfetta continuità, Foer continua il suo monologo parlando di diversità con estrema difficoltà, dicendo “non mi piace”, e proponendo un termine sostitutivo: unicità. Foer invita il pubblico di Sanremo, e di riflesso chiunque fruisca il suo monologo anche a posteriori, a prendersi per mano, abbracciarsi, a chiedersi di cosa sono fatti, cosa definisce loro e cosa definisce la loro unicità, ignorando che “loro” e “la loro unicità” sono parte dello stesso essere. Si crea quindi un invito a essere tutti sullo stesso piano, ignorando che il binomio normale-anormale in relazione all’identità di genere ha fatto, secondo il Trans Murder Monitoring, fra ottobre 2020 e settembre 2021, 375 vittime (“reported murders”), il 96% delle quali erano donne transessuali o femmes.
Si apprezza però la futuribilità queer (J. E. Muñoz, Cruising Utopia. The then and there of queer futurity, 2009) di Drusilla Foer, che afferma che “sarà una figata pazzesca”. Per il momento, sul palco dell’Ariston, non si vedono aperture di sorta per i più vitali corpi gender non-conforming, quelli che spesso sono costretti a performare il proprio genere e la propria sessualità di nascosto, sotto la superficie dell’accettabile e al di fuori del luogo dove il senso si produce in contatto con il resto della collettività.
1.5 Conclusione.
Una volta raggiunto questo punto del discorso sull’a-normalità in Rai, c’è la necessità di arrivare a delle conclusioni più solide. Mentre si è coscienti del fatto che non si può, in questa sede, certificare quanto detto e che tutto ciò che viene avanzato rimane nella sfera della proposta e dell’interpretazione, si ha l’obbligo morale di vedere nella presenza e nello spazio lasciato a Lorena Cesarini, Maria Chiara Giannetta e Drusilla Foer operazioni a carattere assimilatorio.
Questo si può affermare alla luce di un approccio analitico ai singoli monologhi e al ruolo che i corpi delle tre attrici hanno preso nella completezza della manifestazione. Queste si pongono, di fatto, come performer di loro stesse e di cosa stanno a rappresentare: essere neri in Italia, essere disabili, essere diversi (anzi, unici). Nonostante questo, non scendono mai in profondità, ma performano un interesse che rimane in superficie e non lascia mai pieno possesso del discorso, quindi il potere decisionale, a quei corpi che si vuole dare l’idea di includere.
Come affermato da Stuart Hall in Representation. Cultural representations and signifying practices nel 2013:
[…] ‘rappresentare significa usare il linguaggio per dire qualcosa di significativo sul mondo, o per rappresentarlo, agli altri’” e anche che “[…] le immagini non hanno senso o non ‘significano’ in sé. Accumulano senso, o lo definiscono in contrapposizione con altro, attraverso una varietà di testi e media.
(Hall, 2013)
Questo significa che il motivo per cui il monologo di Giannetta è stato molto criticato (quantomeno negli ambienti più sensibili al tema della disabilità) è legato al fatto che (qui in riferimento anche a Cesarini e Foer) la presenza di un corpo a-normale all’interno dello schermo televisivo non è abbastanza in sé, perché il significato dell’immagine televisiva, all’interno del più complesso linguaggio televisivo, verrà costruito nel tempo, nei limiti posti dalla stessa produzione del festival, dalle autrici dei monologhi e dall’autore della regia, cioè dagli agenti sociali che faranno propri gli strumenti narrativi che Rai ha proposto. La ripetizione su schermo di informazioni mal costruite creano presupposti sbagliati per la nascita di significati altrettanto dannosi, se non direttamente pericolosi, per la qualità della vita delle minoranze in questione. Hall rimanda alla necessità, come si è già suggerito, di considerare l’interscambio vivo delle informazioni fra i corpi messi in connessione: gli attori che performano, quelli rappresentati nel contesto performativo, e quelli che fruiscono e incorporano altre informazioni, arricchendo le proprie body knowledges, nel bene o nel male. Per questo, quando il rapporto fra il performer e lo spettatore si costruisce con il presupposto di rassicurare quest’ultimo, coccolarlo attraverso la deviazione dal nucleo centrale delle questioni di genere, dal razzismo, dall’inaccessibilità compulsiva degli ambienti a danno delle persone disabili, il risultato non potrà che essere scarso, se non addirittura negativo. Il problema del tono rassicurante rende chiaro che Cesarini, Giannetta e Foer non sono altro che token, quindi presenze vuote e infinitamente riproducibili.
Come da Oxford Dictionary, il token è il risultato di uno sforzo solo apparente di garantire spazio (quindi anche tempo) a una minoranza o a un dato tipo di persone (quindi corpi). Un token è tale quando si dà accessibilità a un singolo individuo dalla data identità o espressione di genere, etnia e disabilità, con l’idea di renderlo rappresentante di un intero gruppo di persone con le sue stesse caratteristiche, appiattendo le collettività nella loro varietà. Al di là della componente profondamente de-umanizzante di individualità accorpate in un’unica esperienza ed eliminate come parte della collettività più complessa, il problema di Cesarini, Giannetta e Foer in quanto token è che, proprio perché lo sono, il loro unico obiettivo è essere piacevoli alla persona bianca, abile ed etero-cisgender, attraverso il medium televisivo e Rai. Quest’ultima presenta, inoltre, tracciati perfettamente coerenti con quella che è l’irreggimentazione dei corpi a-normali durante i monologhi delle tre attrici. Se si guardasse una qualsiasi produzione Rai Fiction, per esempio una andata in onda su Rai 1 fra il 2014 al 2020, si avrebbe conferma della scarsa progettazione in fatto di rappresentazione e inclusione dei corpi a-normali (non-bianchi, non-abili, non-eterosessuali). Questi soffrono degli stessi limiti di cui si è appena argomentato: gli a-normali su Rai 1 esistono solo in funzione dello spettatore normale, e anche se gli scrittori pongono i loro personaggi diversi (anzi, unici) in situazioni che li vedono costretti a prendere decisioni significative per il loro percorso, questi prendono sempre la via più rasserenante. Si suggerisce, così, all’utente che il problema non sussiste veramente, che non ha radici profonde nella sua stessa quotidianità, che non deve prendersene la responsabilità di esserne un potenziale agente.
Quando, infatti, Max in Tutto può succedere (2015) affronta il proprio insegnante di educazione fisica urlando che è autistico, è disabile, affermando la propria identità, lo fa indicando un suo compagno di classe sulla sedia a rotelle, seduto in silenzio in un angolo della palestra; il bambino in questione non è infatti il protagonista, non ha né spazio né tempo per parlare, né alzare lo sguardo, esiste solo in funzione di Max, che può mascherare la propria disabilità, cioè è più facilmente addestrabile a essere normale, seppur a rischio del suo benessere psicofisico. Dopo una breve scena di amicizia, il bambino in sedia a rotelle, di fatto, sparisce.
Nella stessa fiction, Giada ha un arco narrativo di meno di una stagione: lei (personaggio secondario omosessuale) e Ambra (protagonista eterosessuale) formano un duo musicale su suggerimento di Giada, ma questo si scioglie non appena quest’ultima dichiara i suoi sentimenti ad Ambra. Quando il personaggio omosessuale scompare dalla trama, perché rifiutato, quello eterosessuale ha ormai trovato il proprio ruolo del mondo come musicista, ha scavalcato la quota queer e ne ha preso il posto.
E quando, sempre in Tutto può succedere, Robel (bambino nero) chiede a suo padre (uomo bianco) perché il suo compagno di classe lo accusa di essere a lui inferiore, perché ha un colore della pelle diverso dal suo, il padre risponde che le persone sono tutte uguali, come se il colore scuro della pelle di suo figlio non esistesse – così come non esistono le vessazioni continue che Robel subisce per sei ore ogni giorno, cinque giorni a settimana.
Non si può pensare che questo sia abbastanza, che basti proporre allo spettatore l’immagine vuota di un corpo diverso dal suo, con una vita diversa dalla sua e una percezione del mondo diversa dalla sua (unica), sperando che il pubblico riuscirà in autonomia a superare gli ostacoli culturali che determinano già il suo rapporto con quel tipo di persone, ma nella vita reale. È vero che lo spettatore sa già cosa vuole, soprattutto quello educato alla navigazione in internet, ed è proprio per questo che, come in qualsiasi esperienza di fruizione, si deve guidare l’utente normale sulla via più produttiva, quella meno breve, più tortuosa, verso l’approccio all’a-normalità. In caso contrario, gli utenti/spettatori utilizzeranno le immagini propostegli dallo schermo televisivo per confermare bias e pregiudizi che già esistono in loro, nelle loro pratiche e nella loro body knwoledges, sfociando inevitabilmente nella sfera dello stereotipo.
Con la consapevolezza che Rai e Sanremo operino con degli strumenti molto limitati, si arriva alla conclusione che un corpo queer, disabile e nero non potrà essere raccontato correttamente sulla tv generalista nel prossimo futuro. Questa continuerà a favorire il corpo e le individualità normali. Si immagina che, quindi, il finanziamento pubblico non sia sufficiente per garantire un servizio veramente estensivo e completo, inclusivo, che comprende tutti gli italiani, soprattutto quelli a-normali.
Sara Giudice (1996) ha iniziato a studiare teatro, danza e performance art, ma ora si occupa di televisione, nello specifico di Rai. Il suo campo di interesse è la narrazione dei corpi a-normali nei media, tema che approfondisce anche nel progetto indipendente Crip 101. Ha fatto parte del collettivo Yawp.
Eurovision. Una storia di tensioni geopolitiche, queerbaiting, e sfruttamento.
L'Unione Europea di Radiodiffusione (EBU) è la principale alleanza, a livello mondiale, dei media di servizio pubblico (PSM). La diffusione di eventi di vario genere e di interesse pubblico si inaugura con l’incoronazione di Elisabetta II (1953) e viene affiancata dalla creazione di programmi originali derivanti da format nazionali originariamente italiani: si tratta di Giochi senza frontiere (un’espansione dello show francese Jeux Sans Frontières, a sua volta ispirato al gioco Campanile sera diretto da Mike Bongiorno) e l’Eurovision Song Contest, un’ambiziosa versione pan-europea del Festival di Sanremo, per vivacizzare lo scambio culturale internazionale con l’idea di un’amichevole competizione tra esperimenti musicali appartenenti a qualsiasi genere della musica popolare.
L'Eurovision Song Contest (abbreviato con le sue sole iniziali, ESC) ha avuto luogo per la prima volta in Svizzera, a Lugano, nel 1956, in una competizione canora che comprendeva al tempo solo sette paesi (diffusa mediaticamente in dieci) e che si è estesa a oggi fin oltre cinquanta nazioni partecipanti. A selezionare l’artista e la canzone rappresentante la nazione di provenienza, così come a sostenere finanziariamente la partecipazione degli stessi, sono le emittenti nazionali: nel caso dell’Italia, “mamma RAI”.
Le regole generali sono semplici: ogni emittente televisiva seleziona e invia una persona (o un gruppo) che, con la performance rigorosamente dal vivo di una canzone originale, compete per il maggior numero di voti. Ad ogni paese viene data la possibilità di assegnare un certo numero di punti, e questo set è uguale per ogni paese indipendentemente dalle dimensioni dello stesso. L’impiego di questi punti è stato sempre influenzato da diversi fattori, e notevolmente da quello di un’alleanza politica che si manifestava così pubblicamente in un contesto leggero. Nel particolare, il modello chiamato “bloc voting” (cfr. John Kennedy O'Connor) identifica dei gruppi di aggregazione geografici e scambi di voto: ne sono un esempio i paese vicini, come Grecia e Cipro, Turchia e Azerbaigian, o Svezia e Danimarca, che tendono ad allocare reciprocamente gli ambiti “douze points” (la massima assegnazione possibile).
Nonostante i tentativi dell’EBU di dichiarare la competizione apolitica come da loro intenzioni, la collocazione dell’evento nella prospettiva internazionale è determinatamente storico-politica. Esiste infatti una vera e propria geopolitica dell’Eurovision, che attraverso le votazioni si rende leggibile e che è stata fonte di numerosi studi che ne hanno mappato e analizzato i dati.
Nel 1968 il regime di Franco impose la traduzione della canzone catalana La La La del Dúo Dinámico scelta per l’ESC, facendola performare dall’artista Massiel in castigliano; la vittoria (successivamente contestata per concussione) ha fatto sì che Madrid ospitasse il concorso nel 1969 con una delle edizioni più surreali (sul palco, che aveva nella scenografia una scultura disegnata da Salvador Dali, vennero dichiarati vincitori pari merito ben 4 paesi).
Come osservato estensivamente da Dean Vuletic:
Il regime di Franco in Spagna negli anni '60 ha puntato molto sulla vittoria dell'Eurovisione per la Spagna, che ha usato come un modo per affermare la sua appartenenza all'Europa occidentale in un momento in cui i governi dell'Europa occidentale stavano ancora mantenendo una distanza da questa dittatura di destra”.
In una situazione diametralmente opposta, nell’aprile del 1974 il Portogallo arrivò ultimo con la ballata romantica E Depois do Adeus, una canzone che raggiunse però un grande successo nel paese di origine; per via del contenuto amoroso e della melodia tipicamente in voga in quegli anni, la canzone non aveva alcun elemento che suscitasse interesse di censura da parte dell’Estado Novo (il regime dittatoriale inaugurato da António Salazar) e questo ne permise l’utilizzo come segnale di valutazione per le condizioni del colpo di stato da parte delle forze armate: la canzone venne lanciata precisamente il 24 aprile 1974, alle 22.55 su Rádio Alfabeta come parola d’ordine di allerta, e trovò poi risposta nell’esecuzione radio presso un’emittente cattolica alla mezzanotte della invece censuratissima Grândola vila morena, canzone di resistenza operaia.
[Alt Text: foto in bianco e nero delle quattro vincitrici dell’Eurovision Song Contest 1969 tenutosi Madrid: Lenny Kuhr (Paesi Bassi), Frida Boccara (Francia), Salomé (Spagna) and Lulu (UK). Al centro, la vincitrice dell’anno precedente: Massiel.]
Un aspetto più recentemente adoperato politicamente è il ritiro artistico dalla partecipazione all’ESC a ridosso della data dell’evento, una pratica che ancora oggi conta un rarissimo impiego. Nel 2009, la Georgia ha presentato l’accattivante disco song We Don't Wanna Put In per valutazione e ingresso alla competizione che si sarebbe tenuta quell’anno proprio a Mosca. Per via del contenuto del testo e dell’accentuazione specifica che nella performance canora sottolineava ancor più l’evidente insofferenza per Vladimir Putin, l’organizzazione decise di dare alla Georgia due opzioni: la riscrittura integrale del testo della canzone, o il ritiro dalla competizione. La manifesta ostilità espressa nella canzone derivava dagli eventi dell’estate precedente quando, per riaffermare la propria potenza militare, nell’agosto del 2008 la Russia aveva invaso il territorio autonomo settentrionale georgiano, l’Ossezia del Sud, in nome della politica delle Nazioni Unite che è la “responsabilità di proteggere”.
L'11 marzo, l'emittente georgiana GBP ha annunciato il ritiro dal concorso dopo aver rifiutato di cambiare il testo della canzone, dichiarando di non voler prendere parte a un concorso organizzato da un paese che viola i diritti umani e le leggi internazionali.
La Russia è stata protagonista di un’altra vicenda che intreccia diritti umani e Eurosivion Contest, quando nel 2017 avrebbe dovuto partecipare alla competizione che si è tenuta a Kiev, la capitale Ucraina. Nel dicembre del 2016, a soli dieci giorni dalla scadenza ultima per presentare la propria adesione o meno, la Russia ha annunciato l’intenzione di partecipare. Nell’equazione che porta alla scelta si trovano diversi fattori: la quota finanziaria da investire, l’interesse dei telespettatori nei confronti dell’evento e, naturalmente, seppur l’EBU ne neghi l’evidenza, le ramificazioni politiche. A metà marzo, secondo una selezione interna che non prevede esposizione nazionale televisiva, la Russia sceglie di presentare la canzone Flame Is Burning, cantata da Yulia Samoilova (la trascrizione del nome è oscillante, e riportata con diverse varianti tra le quali: Yulia Samojlova, Julia Samoilova). Il testo parla di amore e compassione e la canzone è stata accolta dal pubblico generale con emozioni e reazioni contrastanti perché considerata parte di una manovra da parte sia del governo russo che dell’emittente volta a distogliere l’attenzione dalla guerra in corso nell’Ucraina orientale. Oltretutto, l’artista selezionata aveva condiviso pubblicamente il proprio percorso di salute che l’aveva vista superare le condizioni dovute all’atrofia muscolare spinale e arrivare a essere protagonista della cerimonia di apertura delle Olimpiadi Invernali di Sochi 2014. Alcune persone hanno lodato la scelta russa di eleggere a rappresentante pubblica una persona che portasse con sé la lotta alla marginalizzazione delle persone con disabilità; altre l’hanno giudicata invece una scelta fatta al solo fine di presentare un’immagine della Russia da adoperarsi politicamente nel discorso internazionale sulla diversity.
Mentre la discussione proseguiva e così anche la produzione dello spettacolo, il 22 marzo il servizio di sicurezza dell'Ucraina ha rilasciato una lista di artisti a cui si proibiva di entrare in territorio ucraino, di fatto ponendo un veto sull’ingresso nel paese a tutti quei cantanti e artisti russi che si erano esibiti o avevano visitato la Crimea dopo la sua annessione. Samoilova, in un primo momento non annoverata nella lista resa pubblica, è stato poi rivelato che essersi esibita in Crimea nel 2015 e conseguentemente aggiunta alla lista del servizio di sicurezza. Per la prima volta in assoluto nella storia dell’ESC, l’EBU si è trovata davanti all’impossibilità di un’artista di esibirsi per motivi dichiaratamente politici e ha, previa consultazione, optato per l’offerta di due alternative: concedere la partecipazione dell’artista con un’esibizione dal vivo via satellite da Mosca, o permettere alla Russia di presentare una nuova candidatura tra quegli artisti ammissibili per legge. Come riportato anche dal comunicato ufficiale, entrambe le proposte sono state rifiutate e la Russia il 13 aprile ha ufficialmente annunciato il ritiro dal concorso e l’EBU ha “condannato fermamente la decisione delle autorità ucraine di imporre un divieto di viaggio a Julia Samoylova, in quanto [la scelta minava] completamente l'integrità e la natura non politica dell'Eurovision Song Contest e la sua missione di riunire tutte le nazioni in una competizione amichevole”, di fatto contribuendo alla questione con una dichiarazione dallo specifico peso politico.
Il 24 febbraio 2022, giorno d’inizio dell’invasione armata del territorio ucraino da parte delle Forze Armate della Federazione Russa, in virtù e facendosi scudo della natura apolitica dell’evento, l’EBU ha dichiarato che avrebbe garantito la possibilità di esibirsi tanto alla rappresentanza ucraina quanto a quella russa, per poi cedere alle pressioni delle varie emittenti europee che hanno sollecitato una riflessione e una necessaria presa di posizione sull’attuale aggressione russa. Con toni minimizzanti, l’EBU ha il giorno seguente rivisto le proprie posizioni e dichiarato che “alla luce della crisi senza precedenti in Ucraina, l'inclusione di una voce russa nel concorso di quest'anno avrebbe portato discredito alla competizione”.
A rappresentare l’Ucraina è il gruppo Kalush Orchestra (quasi per intero, poiché uno dei membri ha scelto di rimanere a Kiev e servire nel battaglione di difesa volontaria e non partecipare all’Eurovision), con una canzone – Stefania – che alterna a delle strofe rap un ritornello che richiama la musica tradizionale. Descrive una madre “ritratta come una donna dolce e morbida nel ritornello in stile folk, nei versi è un personaggio molto più ricco”. La canzone è diventata presto una hit in Ucraina, e viene adoperata spesso su TikTok per celebrare la terra natìa che molte persone hanno lasciato per sopravvivere o che hanno scelto di restare a difendere. La grande popolarità della canzone l’ha resa anche una forma di ricerca sui social media per la condivisione di immagini di solidarietà globali e locali, così come aggregatore per la ricerca di informazioni dall’interno sulla condizione di vita della popolazione ucraina oggi.
L'ondata di sostegno intorno alla performace ha visto il governo ucraino concedere loro un permesso speciale per viaggiare in Italia, nonostante i timori iniziali che li pensavano doversi esibirsi in collegamento video da un bunker di sicurezza per via delle leggi che impediscono ai giovani uomini di lasciare il paese. I Kalush sono ora i favoriti nella competizione di quest'anno, con la maggioranza del continente che pare intenzionata a usare il proprio voto per fare una dichiarazione in merito all’aggressione della Russia.
[Alt Text: quattro membri del gruppo Kalush Orchestra sul palco nella prima semi-finale 2022. Fonte.]
Oltre ad essere una canzone dalla melodia accattivante, gli artisti che la interpretano rivendicano l’uso della lingua ucraina senza incursioni dell’inglese (interessante come lo stesso testo della canzone reciti al suo interno: cantami una ninna nanna mamma, voglio sentire la tua lingua madre). Oltre che per i meriti artistici, si è subito palesata la possibilità che la canzone trionfasse per scelta della giuria e\o del televoto in una forma di espressione di solidarietà a confermare ancora una volta che, nonostante la apoliticità dell’evento millantata dalle emittenti e dall’EBU, come è ovvio, le dinamiche di potere si riflettono anche su questa occasione.
Era il 1999 quando Ivan Shapovalov, al tempo trentaseienne che aveva lavorato come psicologo per l’infanzia e che si era recentemente reinventato come advertising executive, decise di produrre un gruppo musicale di ragazze adolescenti. Ai provini si presentarono le allora quattordicenni Lena Katina e Julia Volkova, immediatamente messe sotto contratto come 'underage sex project’ (cfr. Dana Heller, Professor of Cultural Studies); s/vestite da scolarette, le due giovanissime lanciarono il loro primo singolo l’anno seguente sotto il nome t.A.T.u., frase russa “Та любит ту”, che significa letteralmente “questa [ragazza] ama quella [ragazza]”. La sessualizzazione dei corpi adolescenti e la presunta relazione romantica sono diventate il fulcro del duo, rendendone l’incarnata iconografia lesbica il fuoco delle apparizioni pubbliche, delle registrazioni video, e anche dei temi delle canzoni. Nel dicembre del 2000 viene rilasciato il primo fortunatissimo singolo, Ya Soshla S Uma (letteralmente: ho perso la testa), rilanciato poi internazionalmente col titolo All the things she said (ottobre 2002).
Sebbene in Russia la loro presunta relazione sessuale sia stata apertamente riconosciuta come uno stratagemma commerciale, un espediente ammesso da Katina e Volkova stesse nei media russi, altrove - e specialmente nel Regno Unito e negli Stati Uniti - il video di All the Things She Said, che ritrae Katina e Volkova come amanti in età scolare in fuga da un freddo sguardo pubblico di disapprovazione, è stato coinvolto nelle politiche su identità e moralità sessuale.
Dopo l’enorme successo del 2002, hanno continuato nel loro successo internazionale rappresentando la Russia nell’Eurocontest del 2003, aggiudicandosi il terzo posto nonostante la discutibile performance; le stesse artiste hanno successivamente dichiarato di essere state confermate all’ultimo momento quali rappresentati del loro paese, lasciando così poco tempo per le prove generali e inoltre, fino ad allora, si erano esibite sempre in lip-synch. Crebbe il timore che le due ragazze si baciassero live in eurovisione durante la performance, seppur per sola pubblicità, nonostante nulla nel regolamento vieti le effusioni affettive; questo a dimostrazione che la presunta libertà apolitica che dovrebbe rappresentare quel palco, di fatto l’EBU rimane col fiato sospeso nel timore che qualche emittente si risenta. Solo nel 2013 Krista Siegfrids, presentando la canzone Marry me per la Finlandia, vestita da sposa, baciò sul palco una delle ballerine per protestare il non riconoscimento egualitario matrimoniale per coppie non eterosessuali. Quello stesso anno, durante uno degli intervalli, la presentatrice Petra Mede (che con Måns Zelmerlöw ha reso indimenticabile l’evento, cantando in coppia un esilarante tutorial per la vittoria: Love love, peace peace) ha incluso nella propria performance di intrattenimento uno sposalizio tra due uomini di cui si è fatta officiante.
[Alt Text: Lena Katina e Julia Volkova sul palco Eurovision 2003 si tengono per mano; iindossano entrambe dei jeans e una t-shirt bianca su cui è riprodotto il numero uno. Fonte.]
Il singolo che le t.A.T.u. portarono sul palco si intitola del singolo Ne Ver Ne Boysia, ovvero: non credere, non temere; è più frequentemente però ricordato con una versione estesa, che comprendo una sorta di terzo momento: Ne Prosi, cioè non chiedere. Tendenzialmente analizzata in lingua inglese, e probabilmente anche rivolta a un pubblico anglofono, è abbastanza immediato collegare quel Ne Prosi al Don’t ask (don’t tell) della pratica militare americana (formalmente e legalmente dismessa nel 2011), un modo di dire spesso esteso culturalmente oltre le forze armate e in riferimento più generico all’orientamento sessuale delle persone nel contesto sociale occidentale dove diversi paesi che si fanno campioni di diritti civili delle comunità queer, spesso diversificano quel don’t ask nelle varie formulazioni del nostro italianissimo “per me non è un problema, basta che lo facciano a casa loro”.
Nei suoi studi del fenomeno globale specifico delle t.A.T.u., Dana Heller sostiene che attraverso la performance ostentata il gruppo “si prende gioco del desiderio che imita” e, a questa maniera, sfrutta “deliberatamente e simultaneamente sia la fantasia eterosessuale che la politica liberale e queer dell’Occidente”. Nonostante il conclamato ‘faux lesbianism’, le due giovani erano considerate ancora fuori dal paese di origine autentiche icone gay:
non era proprio così comune vedere due ragazze limonare sul palco del Festivalbar. E infatti le due diventarono famosissime [...] A oggi restano probabilmente l’unico gruppo russo che sia ricordato dalle nostre parti.
Pur amando le pop star gender-binding, la Russia è un paese profondamente omofobo in cui le legge contro la “propaganda gay” di Putin (giugno 2013) sono state emanate con un grande sostegno di una maggioranza conservatrice. È importante dire che gli orientamenti sessuali performativi sono ovviamente dannosi per la comunità, poiché di fatto a trarre vantaggio sono solo gli attanti che beneficiano del supporto queer ma non ne condividono realmente la lotta (Volkova si è addirittura espressa duramente con commenti apertamente omofobi) e sottraggono, piuttosto, lo spazio di rappresentazione di soggetti veramente emergenti dalla comunità stessa. In assenza però di questi soggetti rappresentativi nel contesto mainstream, anche un caso di falso-lesbismo spettacolarizzato per lo sguardo e l’appagamento del maschio eterosessuale dalla fantasia para-pedofila, non mina completamente il fascino queer dell’evento. Perché se è vero che ci meritiamo di meglio, una delle forme di sovversione e allo stesso tempo di sublimazione più comune e aperta d/alla comunità queer è la fan fiction, intrecci di fantasie come risposta collettiva alla rappresentazione negata.
[Alt Text: la band romana Måneskin fotografata col premio Eurovision 2021.]
Quest’anno, la competizione si tiene a Torino, per la prima volta dal 1990, grazie alla vittoria del gruppo glam-rock romano Måneskin del 2021, le cui apparizioni sono sempre segnate da look spettacolarizzati e destabilizzando gli archetipi di genere con abbigliamento cross-gender, in parte, però, già abbastanza assimilato dalla moda contemporanea: basti pensare alla loro partecipazione alla sfilata di Gucci Love Parade assieme a – tra gli altri – Jared Leto e Miley Cyrus (fondatrice della Happy Hippie Foundation, a cui parte dei ricavati della serata sono stati devoluti), o alla copertina di Vogue che ritrae Harry Styles con un abito. Come perfettamente analizzato da ALOK, si tratta di “Una cosa curiosa: fare spazio alla gioia, mentre si continua a insistere per una più espansiva forma di libertà”, e il sentimento più condiviso nella comunità non può che essere misto. Ma forse, vale la pena anche pacificarsi con questa conflittualità emotiva e accettare, per citare sempre ALOK che si può “celebrare e allo stesso tempo essere cautx nei confronti delle politiche di rappresentazione”.
Similmente è stato commentato l’operato di Achille Lauro, che nelle sue performance spesso compie omaggio all’estetica della comunità queer ma che rivendica una propria originalità personale. L’espressione del sé non è quindi sentita come responsabilità politica da Lauro, che veste e sveste i panni quando sale e scende dal palco e che – a sua detta – volutamente non si fa portavoce o emblema. Come sintetizza perfettamente Daphne Bohémien (che possiamo conoscere meglio anche grazie a questa bella intervista):
dice di voler rappresentare solo se stesso, eppure rappresenta tutto tranne che se stesso;
non vuole parlare per nome di nessuno eppure le didascalie delle sue foto sono chiarissime: lui a nome delle persone ci parla eccome, ma senza prendersene la responsabilità.
A mancare l’occasione di onesta e consapevole rappresentazione è stato il Portogallo, che ha visto gareggiare per l’opportunità di rappresentare il paese all’Eurovision i Fado Bicha (Fado Queer), un duo queer antifascista transfemminista che sin dalla formazione si è schierato politicamente e che raggiunto il successo nazionale non si è mai tradito e ha anzi adoperato le piattaforme offerte per importanti messaggi di solidarietà e intersezionalità (ne è un esempio la riscrittura della famosa performance di Amália Rodrigues, la più conosciuta cantante del fado, un genere che è a oggi riconosciuto dall’UNESCO patrimonio intangibile dell’umanità, e che si trasforma in un appello e una denuncia: Lisboa não sejas racista). Lila Fadista e João Caçador fanno della loro identità un baluardo e una possibilità di sovversione del sistema, e mettono a tema i bisogni e i diritti dei soggetti marginalizzati nella loro stessa musica attuando nella pratica artistica la queerness (loro e condivisa).
Intanto Harry Styles, che in più occasioni ha sventolato la bandiera arcobaleno (e ha anche indossato quella della bisessualità al Coachella), ha rimandato al mittente la domanda sul suo orientamento sessuale con un “Che importa? \ A chi importa?”. Una posizione condivisa anche dal nostrano Mahmood, che rifiuta di parlare di etichette e anzi rifiuta di parlare completamente del proprio orientamento sessuale e della sua posizione riguardo alla scelta o meno di fare coming out pubblicamente delle persone che raggiungono diversi livelli di notorietà. A oggi, Mahmood è in realtà tornato sull’argomento dichiarando che, benché le nuove generazioni non abbiano bisogno del coming out come gesto rappresentativo (come dichiarato nel 2019, sempre a ridosso del successo dell’Eurovision, “politicamente il bisogno c’è, c’è sempre. L’omofobia è presente nella nostra società e spero che i principi del ddl Zan diventino realtà il più presto possibile.”
Nonostante l’uso indiscriminato del termine queer come parola-ombrello che raccoglie sia l’identità di genere che l’orientamento sessuale delle persone non cis-eteronormate, Arfini ci ricorda che “il verbo to queer, in origine, ha un senso prettamente negativo che significa andar male, andare in rovina”. Sicuramente Mahmood non ha abbracciato il senso radicalmente politico del queer quando nel 2019 ha deciso di prendere parte all’Eurovision che si teneva a Tel Aviv.
A spiegare che la bandiera arcobaleno non riunisce tutti in maniera indiscriminata se non si pensa trasversalmente alla comunità e per la liberazione totale, Elias Jahsan in un pezzo per il Guardian: Sono un fan dell'Eurovision, ma in quanto gay e palestinese non posso sostenere questa edizione. Il Tel Aviv Pride, sostenuto dal governo israeliano, ha promosso l'Eurovision e il Pride assieme, legandoli come fossero una sorta di pacchetto promozionale, al fine di trarre il massimo beneficio da un intero mese di pinkwashing per mettere in vetrina presunte politiche di liberazione e intanto “distrarre l’attenzione dai suoi crimini di guerra contro i Palestinesi [...] e proseguire con la sua agenda di pinkwashing, l’uso cinico dei diritti degli omosessuali per sviare l’attenzione dall’Occupazione, dal colonialismo degli insediamenti e dall’apartheid e per normalizzarli”. È inoltre importante sottolineare come le fasi semifinali e finali della competizione, svoltesi il 14, 16 e 18 maggio 2019, abbiano sottratto rilevanza all'anniversario della Nakba, che cade proprio il 15 maggio in memoria dell'espulsione di centinaia di migliaia di famiglie palestinesi dalle loro case e villaggi, avvenuta nel 1948.
Gay non vuole dire queer, anche se spesso quest’accezione è divenuta pratica diffusa. Quali sono gli spazi di azione queer per le istanze dei diritti civili, quindi? Come ci ha regalato Arfini nella primissima Ghinea speciale:
Questo annacquarsi del termine [queer] avviene ancora di più nei paesi non-anglofoni, dove la parola queer perde la sua connotazione performativa di rivendicazione dell’insulto. Ma se pensiamo al queer come a uno spazio e non come a un’identità, come a un luogo dei fuori luogo, penso che sia ancora densamente popolato.
Uno spazio popolato sì ma che esiste al di fuori dell’istituzione, perché altrimenti diviene mercificazione e performatività: è il caso dell’Islanda che, durante le riprese dei partecipanti, ha tirato fuori una sciarpa con i colori della bandiera palestinese; con quel gesto ha attirato l’attenzione su di sé, contravvenendo alle regole di apoliticità della competizione ma cavandosela con una semplice multa, e soprattutto creando un certo clamore attorno al presunto coraggio ma contravvenendo alla richiesta esplicita di boicottaggio dell’evento che era stata fatta dal movimento palestinese BDS.
Nel 2022, che ha visto trionfare Mahmood e Blanco, Sanremo è stato contestato da diverse associazioni attente al climate change come Greenpeace, che ha manifestato contro l’ENI con lo slogan “ENI inquina anche la musica”; anche su quel palco, similmente a quanto avvenuto all’Eurovision di Tel Aviv, l’artista Cosmo ha preso parte all’evento nella serata dei duetti, lanciando il messaggio Stop Greenwashing dal palco.
Queste varie forme di sfruttamento ideologico vanno spesso a braccetto con lo sfruttamento diretto dei lavoratori o, come nel caso dell’Eurovision che oggi si conclude, dei volontari. Lo fa presente Valentine (Fluida Wolf) in una serie di tweet che hanno poi generato degli articoli su varie testate online costruiti con citazioni dirette dai messaggi ricevuti dall’attivista, in cui vengono raccontate (con tutela di chi condivide la propria esperienza) e denunciate le terribili condizioni di “lavoro” offerta dalla macchina di soldi che è Eurovision.
Ringraziamo Sara per averci proposto il suo pezzo e averci, di fatto, dato l’idea per questo speciale. Speriamo che ti sia piaciuto e ci leggiamo a fine mese!
Un abbraccio!
Francesca, Gloria e Marzia
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