Benvenutu a Ghinea, la newsletter che sta rileggendo con immutato trasporto L’amica geniale. Torniamo con due ottimi contributi: Paola Moretti scrive di Maria Judite de Carvalho ed Elizabeth Taylor, mentre Alberto Rizzelli ci propone un intervento di taglio storico e normativo sulla violenza di genere. Buona lettura!
Quanta solitudine. La letteratura di Maria Judite de Carvalho ed Elizabeth Taylor
di Paola Moretti
Cos'hanno in comune Maria Judite de Carvalho, scrittrice nata a Lisbona nel 1921, perseguitata dalla polizia segreta dello Estado Novo ed esule in Francia e Belgio; ed Elizabeth Taylor, nata a Reading, nel Regno Unito, nel 1912, scrittrice e membro attivo del partito comunista? Entrambe madri, entrambe mogli, entrambe autrici piuttosto prolifiche, entrambe troppo poco note.
Leggendole a mesi di distanza, una richiamava l’altra insistentemente. Perché, pensavo, se de Carvalho è cupa come un salotto di rappresentanza di un’anziana del sud che non apre mai gli scuri, non sposta mai i centrini né i ninnoli di ceramica dentro la vetrinetta; mentre Taylor è a tratti dolciastra a tratti acidula come le zaffate che salgono dalle moquette dei pub su cui negli anni sono stati rovesciati litri e litri di stout?
Perché, pensavo, se de Carvalho dà vita a una protagonista amara come il caffè alla cicoria, completamente sfiduciata nei suoi lampi di riflessione esistenzialista e pronta alla disfatta totale; mentre Taylor ha personagge che non si danno mai per vinte, che a modo loro lottano strenuamente per la conquista di quella che credono felicità?
Perché le associo così indissolubilmente se più ci penso e più mi sembrano differenti?
Tutte e due le raccolte delle rispettive scrittrici, recentemente edite in Italia, Ti piacerà quando ci arrivi di Elizabeth Taylor, nella mia traduzione per Racconti Edizioni 2024, e Tanta gente, Mariana di Maria Judite de Carvalho, traduzione di Vincenzo Barca, Sellerio 2024, si aprono con una novella.
[Alt Text: Ritratto fotografico di Elizabeth Taylor. Fonte]
La prima si intitola “Hester Lily”. Qui Elizabeth Taylor, in poco meno di cento pagine, condensa l'esperienza di cosa vuol dire essere una borghese nell'Inghilterra della prima metà del Novecento e lo fa raccontando tre generazioni di donne. La più giovane è la ragazza che dà il titolo al racconto, Hester Lily, rimasta orfana e senza mezzi per sostentarsi viene accolta dal cugino più grande, Robert preside di un collegio maschile, e assunta come sua dattilografa. Hester Lily non è un personaggio molto carismatico, è goffa, sciatta, imbronciata e bugiarda, fa fatica ad adattarsi al nuovo ambiente soprattutto perché Muriel, la moglie di Robert, la mette estremamente a disagio.
È infatti lei, Muriel, la vera protagonista della storia – quarantenne senza figli e senza occupazione – sente che la solidità del suo matrimonio viene messa a repentaglio dall'arrivo di questa giovane indifesa e spaurita, e fa di tutto per assicurarsi che il suo predominio non venga minato in alcun modo. Comincia con dei pettegolezzi, mettendola in guardia dall'intraprendente Rex, ex-pilota della RAF e sconsiderato sciupafemmine, per poi dileggiare il ben più posato – e per lei noiosissimo – Hugh, recente acquisto dell’istituto come professore di biologia. Si giustifica dicendo che in quell'ambiente è meglio essere al corrente di tutto, visto che loro, le donne, sono in minoranza numerica.
Muriel raggiunge un picco di maligna ingegnosità quando di punto in bianco dice a Hester che il suo innamoramento per Robert è chiaro.
Concepita nel momento in cui aveva conosciuto Hester, la sua strategia si basava sull’imporre alla ragazza i propri standard, cioè quelli di Muriel, così che ogni successo di Hester sarebbe sembrato a immagine e somiglianza della donna più matura e ogni azione avrebbe fatto pensare a Muriel. Pazienza, tolleranza, distacco, divertimento, erano tutte parte del piano, e quando all'improvviso aveva detto: “È chiaro che sei innamorata di Robert” erano giorni che aspettava di dirlo. Non le era uscito di getto per l'esasperazione, ma era parte del piano che aveva ordito.
Prima che Hester potesse rispondere, Muriel aveva sottolineato la trivialità di un amore del genere cambiando subito argomento.
Con questa mossa la donna più matura riesce ad alienare a Hester anche la vicinanza di un già molto impacciato Robert, poiché la giovane cugina comincia a sentirsi a disagio anche con lui. Ciò spinge Hester a trovare sollievo altrove, fuori dalla casa, ignorando quello che cerca di darle Hugh, infatuato di lei, e fa amicizia con la signora Despenser, l’ubriacona del paese. La incontra al cimitero, intenta a pulire le lapidi di famiglia. L’anziana, una nobile decaduta rimasta sola senza nessuno, vede in Hester l'occasione di un conforto alla sua immensa solitudine, una possibile compagnia. La ragazza non si dimostra particolarmente sveglia né volitiva, si affida alla vecchia che le affibbia compiti e la porta di qua e di là. A Hester sembra che vada bene qualsiasi cosa la tenga lontana dalla casa padronale.
Le subdole macchinazioni di Muriel però non potranno che ritorcersi contro di lei e gettarla in uno stato di angoscia isterica oltre che metterla in pessima luce al marito. La crisi arriva durante un ballo a cui, con sua grande soddisfazione, Hester non aveva potuto partecipare, Muriel cede alle avances di Rex e gli concede un bacio appassionato in giardino. La scoperta del passo falso di Muriel sarà la goccia di troppo per Robert, che confesserà il suo disamore per la moglie. Ora tutte le carte sono in tavola: il matrimonio non era l’idillio che Muriel millantava, i coniugi non avevano rapporti sessualii da tempo e i ripetuti aborti di lei li avevano sfibrati parecchio. Con il tempo si erano trasformati in due semi-estranei che vivevano sotto lo stesso tetto, Hester era solo la persona “giusta al momento giusto” su cui scaricare tutte le colpe e la frustrazione.
Il tono con cui scrive l’autrice non è né compassionevole, né moraleggiante, i sotterfugi di Muriel non ricevono alcun giudizio, Miss Despenser non viene derisa, né Hester trattata con pietismo. L’uso della terza persona come voce narrante permette a Taylor di mantenere una prospettiva distaccata, necessaria per sfruttare al massimo due dei suoi punti forti: l’ironia e l’occhio per i dettagli, in particolare quei gesti involontari che tradiscono le emozioni. La scrittrice britannica riesce a creare architetture elaborate utilizzando, non solo una trama corposa, ma anche un’elegante modulazione di voci, ognuna creata ad hoc per rappresentare il personaggio con fedeltà.
Quello che fa Taylor in poche pagine è dipingere una campitura di solitudini. C’è quella di Hester che non ha più un padre né una madre e non ha ancora trovato il suo posto nel mondo, c’è quella di Muriel che non è riuscita ad avere quello che voleva e l’unica cosa che le apparteneva, il suo matrimonio, si sta lentamente erodendo, c’è quella della signora Despenser derisa e rifiutata da tutti, che ha bisogno di ottundersi con l’alcol per non pensare alla sua condizione solitaria.
[Alt Text: Ritratto fotografico di Maria Judite de Carvalho. Fonte]
La seconda novella si chiama “Tanta gente, Mariana” e dà il titolo all'intera raccolta di de Carvalho. Per stile, ambientazione, voce e portato tragico è completamente diversa da Hester Lily, ma non nella sua essenza, visto che anche lei riesce, nello spazio di un'ottantina di pagine, a raccontare l'esperienza femminile nel Portogallo, e incidentalmente anche nell'Europa, di metà Novecento. Mariana racconta la sua storia in prima persona e comincia dalla fine, dalla diagnosi di una grave malattia innominata, poi, attraverso flashback sapientemente sfruttati, ci porta in giro per le tappe fondamentali della sua vita: il matrimonio con António, osteggiato dalla famiglia di lui, più ricca della sua, l'arrivo nelle loro vite di Estrela, la donna che la coppia ha conosciuto quando vivevano a Parigi di cui António si innamora, il conseguente divorzio e ritorno in Portogallo.
Quella di Mariana non è stata una vita semplice, ma lei non ne attribuisce la colpa a nessuno, se non forse a sé stessa. La difficoltà di essere una donna senza marito e con pochi mezzi nella società portoghese dell'epoca. La relazione fallimentare con Luís, che è destinato da sempre a farsi prete. La gravidanza interrotta a causa di un incidente, i lavori avvilenti e poco remunerativi, le relazioni false e superficiali con le altre donne, dalla sedicente amica Lucia all'affittacamere Glória, l’essere considerata un’outsider, è per accumulo che Mariana arriva allo stremo.
Ho urlato quando le regole più elementari imponevano di parlare piano, ho taciuto quando dovevo assolutamente dire qualcosa, non ho saputo stare al mondo. Ecco, non ho mai saputo stare al mondo. Ho sempre scelto a sproposito le occasioni per parlare o per stare zitta. Ho ingarbugliato tutto, ho confuso tutte le cose fino a non potermi più ritrovare.
Le condizioni di vita di Mariana sono indubbiamente più dure di quelle di Muriel così come lo è il suo tono, rassegnato e disfattista. È curioso infatti che la parola “speranza” compaia nel testo almeno una dozzina di volte e non sempre con sarcasmo.
In un passo particolarmente poetico, di sé la protagonista scrive:
Fiacca. E nauseata di me stessa come se mi fossi assaggiata. Un pezzo di pane che, dopo essere stato masticato a lungo, finisce per avere un cattivo sapore. Come se avessi assaggiato la mia carne, i miei stessi succhi. Mi sono vomitata con disgusto sul letto e sono rimasta qui, liquida e sparpagliata. È uno stato d'animo a metà tra la calma e la disperazione con un parte di angoscia. A volte mi fa paura questa solitudine che è la più grande che abbia mai provato, immensa. Dovunque mi giri, trovo solo me stessa. Ma mi sono già vista abbastanza e mi accorgo che non ho più niente da dirmi. Più niente.
Questa è la tinta del racconto, e nonostante i precipizi di disperazione che tocca è più spesso avviluppante che non respingente, d'altronde, la narratrice ci avvisa subito di dove vuole andare a parare, quando rievoca una conversazione che la protagonista ha avuto con il padre all'età di quindici anni:
“Sono sola papà. Non c’è altro. Mi sono accorta all’improvviso che ero sola e mi è sembrato… Che stupidaggine no? Sono sola. E tu allora?”
Cercai di coprire il mio imbarazzo con una risata, pentita di quella franchezza, ma lui si rifiutò di venirmi incontro e questo rifiuto lo salvò dal rancore che gli avrei serbato il mattino dopo. Non rise e la sua voce, quando parlò, era molto affabile, quasi triste.
“Te ne sei accorta anche tu” disse con dolcezza. “Te ne sei accorta anche tu. C'è gente che vive settanta o ottant’anni senza mai rendersene conto. Tu a quindici...Tutti siamo soli, Mariana. Soli e con tanta gente intorno. Tanta gente, Mariana! [...]”
Così anche de Carvalho ci vuole parlare di un sentimento esistenziale e universale come quello della solitudine, è presto detto quindi cosa la accomuna a Taylor. Ma se una ce ne fornisce diverse sfaccettature a diversi stadi di vita, l'altra ci fa sprofondare in una sola esistenza.
Le domande che sorgono spontanee e per cui posso solo ipotizzare delle risposte sono: perché entrambe scelgono protagoniste femminili, certo perché sono più vicine alla loro esperienza di vita, ma non sarà anche perché forse la solitudine femminile è diversa da quella maschile? La solitudine di un gruppo di persone volontariamente tenute ai margini del potere decisionale, dell'autodeterminazione, del mondo del lavoro e dell'arte è diversa da quella del gruppo di persone che è in grado di prevaricare? Non so argomentare con cognizione di causa, elaborare una teoria precisa, ma mi viene in mente la definizione che ne dà Clarice Lispector in Acqua viva, “Nessuno è me. Nessuno è te. Questa è la solitudine” e forse basta questa come risposta.
Paola Moretti è scrittrice e traduttrice. Ha esordito nel 2021 con il romanzo Bravissima, edito per 66thand2nd. Ha curato insieme a Giulia Caminito l'antologia Donne d’America edito per Bompiani. È autrice dei podcast Phenomena - audiobiografie impossibili (Nero) e Terzo Incomodo (Emons). Nel 2024 è uscito il suo ultimo libro, Incorreggibili, un saggio narrativo edito per 66thand2nd.
La violenza contro le donne: una prospettiva storica
di Alberto Rizzelli
La storia millenaria della violenza maschile contro le donne, e la sua trasversalità alle epoche, ai luoghi, alla classe e alle etnie, ha indotto a lungo a ritenerla un fenomeno inalienabile rispetto alla natura maschile, facendo leva sul noto dispositivo di essenzializzazione. Si è così sempre creduto che la violenza agita dagli uomini nei confronti delle rispettive madri, figlie, sorelle e soprattutto mogli, compagne, fidanzate (anche ex) fosse un comportamento ineliminabile nel migliore dei casi, tollerabile nei peggiori. In altre parole, un’azione (o reazione) eventualmente anche da condannare, ma in qualche modo appartenente al reame della normalità – perché presente da una presunta notte dei tempi – e quindi a quello della naturalità – perché considerato esito di quelle emozioni irrefrenabili associate ai corpi maschili. In parallelo e di contro, negli ultimi decenni ha preso piede una narrazione emergenziale che vedrebbe i frequenti femminicidi che si consumano in Italia e in Occidente, sempre più spesso denunciati dai movimenti femministi, non come le secolari scaturigini di una società ancora patriarcale bensì come un’esplosione improvvisa e apparentemente assurda.
Entrambe queste percezioni, peraltro in contraddizione tra loro, hanno avuto (e hanno tuttora) l’effetto di scoraggiare interventi sistematici e davvero radicali, ma la ricerca storica, a partire seriamente dai primissimi anni Dieci e in collaborazione con altre scienze umane e sociali, ha contribuito a mostrare i bias su cui si fondano. Le storiche Simona Feci e Laura Schettini, nell’introduzione a una curatela del 2017 che ha fatto il punto sulle prime ricerche in questo ambito, mostrano come la storia della violenza maschile contro le donne abbia in sé i tratti della durata e allo stesso tempo del mutamento: essa è spaventosamente lunga perché lunga è la storia del patriarcato, che peraltro risulta una forma di organizzazione sociale malleabile, soggetta al mutamento, e quindi anche scalfibile e magari abbattibile. Come tale, la violenza di genere è di certo sempre esistita, ma senz’altro sono cambiate le forme con cui si è espressa, è stata legittimata, è stata respinta. Ecco che un’attenzione mirata a contesti specifici è in grado di restituire tanto la pervasività dei maltrattamenti e dei femminicidi quanto le strategie di autodifesa e di resistenza messe in atto da donne e da reti di donne in condizioni di oppressione.
Come ha dettagliatamente descritto Marco Cavina in un volume del 2011, sin dall’antichità nelle relazioni di coppia pesa per esempio una tradizione giuridica che pone uomini e donne in condizioni di forte disuguaglianza, e che è resistita fino agli ultimi decenni del Novecento (mentre prospera nelle pratiche sociali che si ispirano ai presupposti morali di quelle leggi). Si pensi allo ius corrigendi (“diritto di correggere”), l’istituto che in tutta Europa ha sempre garantito al pater familias il diritto di correggere la moglie anche con la forza e abolito in Italia solo nel 1956, strettamente connesso allo ius vitae ac necis (“diritto di vita e di morte”) del capofamiglia che nell’Italia unita (ma non solo) trovava una sua sopravvivenza nell’attenuante d’onore concessa al marito che uccideva la moglie – ma anche la figlia e la sorella – sorpresa in flagrante adulterio, secondo l’art. 377 del Codice penale del 1889, poi riconfermato (e anzi specificato) con l’art. 587 del Codice penale del 1930, e abrogato soltanto con la legge n. 442 del 5 agosto 1981, che mise fine anche al matrimonio riparatore previsto dall’art. 544 dello stesso Codice. Non era strano che la violenza sessuale si sovrapponesse a quella coniugale: oltre agli abusi nei confronti di figlie, figli e altre parenti prossime, diffuso a lungo è stato il cosiddetto stupro coniugale, giustificato dal principio dello ius in corpus (“diritto nel corpo”). Tutte queste norme di legge, di cui si scorgono tracce nelle pratiche giudiziarie contemporanee, affondavano le proprie radici in una concezione proprietaria del corpo femminile, la cui declinazione sessuata ha avuto nei secoli la funzione di custode dell’onore proprio e innanzitutto familiare. In altri termini, l’integrità sessuale, cioè la verginità, non condizionava soltanto lo status sociale di chi la conservava o la incrinava, ma aveva effetti sul nucleo familiare intero, ed in modo particolare sulla rispettabilità del marito, del padre e del fratello. Sul piano socio-culturale, gli atti di violenza che per copione ne seguivano (anche nei confronti dello stupratore o dell’amante, in verità) erano compresi e accettati anche in virtù delle emozioni di ira, vendetta e gelosia che, considerate incontenibili, ponevano in essere quello iustus dolor (“giusto dolore”) teorizzato dai giuristi anche di età contemporanea. Passioni virili e pregnanza simbolica dei corpi femminili, dunque, che si sono di frequente tradotte in violenze di gruppo ai danni di singole donne, oppure in veri e propri stupri di massa ai danni di donne civili in modo particolare in contesti bellici. Si tratta di eventi che hanno interessato praticamente ogni guerra – non ultima quella coloniale condotta dall’Italia fascista tra il 1922 e il 1932 in Libia – ma solo molto di recente riconosciuti come crimini contro l’umanità (anche perché esercitati pure su uomini). Inoltre, è grazie al lungo lavoro della ricerca storica, sociologica e antropologica che sono stati svelati i nessi tra territorio nazionale e corpi femminili passando per un presunto imbastardimento della “razza” dovuto alla violazione delle donne da parte dei soldati del nemico. Per dirla con le parole della filosofa Gayatri Chakravorty Spivak, “the group rape perpetrated by the conquerors is a metonymic celebration of territorial acquisition” (“lo stupro di gruppo perpetrato dai conquistatori è una celebrazione metonimica di acquisizioni territoriali”).
Si noti, a questo proposito, come la matrice della costruzione retorica di legittimazione della violenza che abbiamo visto finora sia laica; non che la tradizione cristiano-cattolica non abbia avuto una sua influenza sui rapporti di genere nel contesto occidentale (e italiano specialmente), ma ricondurre il fenomeno della violenza a una dimensione di barbarica superstizione è un’operazione fallace, che non tiene conto ad esempio del ruolo giocato dagli Stati e dagli apparati di controllo e organizzazione sociale di cui si sono dotati a partire dall’età moderna. È un dato importante da sottolineare se pensiamo alla fortuna di cui gode il binomio violenza contro le donne e religione nei media occidentali. Nel 2011, Maria Clara Donato e Lucia Ferrante, nell’introduzione al numero di “Genesis”, la rivista scientifica della Società Italiana delle Storiche, dedicato alla storia della violenza, hanno messo bene a fuoco la questione:
La religione in sé è, per così dire, “innocente”: contrariamente ad una vulgata piuttosto diffusa, non c’è connessione diretta tra islam e sopraffazione e violenza sulle donne, come da tempo sostengono, dal Marocco alla Malesia, le femministe islamiche. Studiose e teologhe ormai più che note – da Riffat Hassan di origini pakistane alla marocchina Fatima Mernissi, dall’afroamerica Amina Wadud alla malese Zainah Anwar − hanno mostrato attraverso un approfondito lavoro esegetico e di ricerca sulle fonti religiose (Corano, Sunna e Hadith) che la discriminazione e la violenza contro le donne non sono parte del messaggio islamico, ma il prodotto di interpretazioni unilaterali e oscurantiste condotte, nel corso dei secoli, da élite maschili che, alterandone il messaggio, hanno legiferato a tutela della propria supremazia di genere.
Occorre pertanto adottare una lente intersezionale per evitare di scadere in sillogismi errati e affinare gli strumenti di lotta alla violenza di genere. Diversamente non si potrebbero cogliere i meccanismi più sottili – eppure solidissimi – su cui si regge il castello di discorsi e pratiche che legittimano le violenze sessuali, i maltrattamenti e i femminicidi. Mettere al centro gli autori delle violenze è sicuramente uno di questi: spostare l’oggetto dei discorsi dalla vittima e dalla sua condotta agli uomini consente di riattribuire le responsabilità in modo più corretto e di comprendere le dinamiche storiche e socio-culturali da cui scaturisce, a livello individuale e collettivo, il gesto violento e più a fondo il senso del possesso nei confronti dei corpi e delle vite delle donne.
Bibliografia
Joanna Bourke, Stupro. Storia della violenza sessuale dal 1860 a oggi, Laterza, Bari-Roma, 2009 [ed. or. 2007].
Marco Cavina, Nozze di sangue. Storia della violenza coniugale, Laterza, Bari-Roma, 2011.
Maria Clara Donato, Lucia Ferrante (a cura di), Violenza, «Genesis», IX/2 (2010).
Simona Feci, Laura Schettini (a cura di), La violenza contro le donne nella storia. Contesti, linguaggi, politiche del diritto (secoli XV-XXI), Viella, Roma, 2017.
Domenico Rizzo, Laura Schettini (a cura di), Maschilità e violenza di genere, «Genesis», XVIII/2 (2019).
Laura Schettini, La violenza maschile contro le donne, in Silvia Salvatici (a cura di), Storia delle donne nell’Italia contemporanea, Carocci, Roma, 2022.
Gayatri Chakravorty Spivak, Critica della ragione postcoloniale, a cura di Patrizia Calefato, Meltemi, Roma, 2004 [ed. or. 1999].
Alberto Rizzelli è dottorando in Studi storici presso le Università di Padova e di Venezia Ca’ Foscari.
L’associazione SWIPE ha da poco reso disponibile la guida SW+S: Sex Work Più Sicuro. Lo scopo del progetto, che è stato curato da sex worker, è aiutare chi lavora nel settore del sex work a conoscere i propri diritti e fronteggiare gli abusi, offrendo strumenti e consigli pratici. La guida può essere richiesta gratuitamente a questo link.
Chiara Ferretti e Milena Grigolo raccolgono fondi per la realizzazione di Ancora troppo giovani per un cuore così pesante, il documentario su Pippa Bacca che stanno realizzando. Per approfondire, qui un vecchio pezzo di Francesca su L’abito bianco di Nathalie Léger, reportage narrativo che ripercorre la storia di Pippa Bacca.
[Alt Text: fotografia di Pippa Bacca sorridente di fronte a una stazione di servizio e completamente vestita di bianco. Sorregge un bicchiere di Coca Cola nella mano sinistra e con la destra fa il gesto dell’autostop, accentuato da un pollice prostetico con una finta unghia smaltata. Fonte.]
Jessa Crispin scrive, come spesso, quello che probabilmente non ci fa piacere leggere, questa volta su quel tic tutto contemporaneo di fronte alla morte di una celebrità: affrettarci a mettere in chiaro che non si trattava una bella persona.
Una storia intellettuale del genocidio palestinese.
FATTO DA VOI
Alessia Ragno ha letto l’autobiografia in tre volumi di Deborah Levy, pubblicata negli ultimi mesi da NN Editore.
Marta Corato recensisce Blink Twice, primo lungometraggio di Zoё Kravitz.
In uno degli ultimi numeri di Singolare, Femminile puoi leggere un omaggio a Sigourney Weaver scritto da Marzia Gandolfi.
Cristina resa firma un pezzo meraviglioso sul classico del cinema horror Non aprite quella porta.
Un nuovo spazio di scrittura e riflessione del nostro amico Enrico Gullo.
Ringraziamo Paola e Alberto per questo numero. Ci leggiamo a fine ottobre!
Un abbraccio!
Francesca, Gloria e Marzia