La ghinea di settembre
Benvenut* al sesto numero di Ghinea, la newsletter che da ormai sei mesi è il diario pubblico delle nostre letture e l’agenda dei nostri sogni femministi più stravaganti.
Questo mese parliamo del ddl Pillon e del caso Kavanaugh, ma anche di cose belle come l'arte della tessitura e un saggio appena uscito che parla di canzoni d'amore. E in chiusura, una maniera virtuale per fare la conta in vista dell'incontro di Halloween. Buona lettura!
La più antica tessitrice è Atena, dea della ragione: nata dalla testa di Zeus e non dal suo seme, protettrice dell’intelletto, degli eroi combattenti, e delle donne che filano. Questa triplice celebrazione di logos, eroismo, e operosità nel ricamo viene spesso ridotta alle sole due declinazioni codificate al maschile: il pensiero e l’azione. Il pensiero, l'azione, e l’ordito si fanno spesso un tutt’uno nella storia delle donne, che si verifica Nonostante Platone. Come nella tragedia di Sofocle che prende il nome dal suo personaggio maschile ad esempio (!), Tereo, ma più che la storia della violenza di Tereo è una storia di comunicazione oltre-linguistica tra due donne. Procne, sposa di Tereo, viene convinta dal re della morte di sua sorella, Filomela, che era stata invece brutalmente violentata (per amore!) dal re, che le aveva poi ragliato la lingua perché non denunciasse la violenza subita. Lo racconta bene Ovidio ne Le Metamorfosi l’ingegno di Filomela che, al fine di rendere giustizia alla sua condizione, tesse la trama della sua storia di vittima in un arazzo che fa recapitare alla sorella. Procne comprende immediatamente il significato dell’arazzo, decifrando quel linguaggio declinato al femminile che è la tessitura. La critica femminista ha ricontestualizzato anche la storia e la figura di Penelope, sempre ridotta a moglie in attesa – senza una vera e propria esistenza che non dipendesse dall’abbandono e dal ritorno di Ulisse –, la cui pazienza risiede proprio in quel tessere e poi sfilare in segreto, un'azione interpretabile in prospettiva comunicativa come di un desiderio di narrazione che non raggiunge però compimento. L’inganno che permise a Penelope per circa quattro anni di non scegliere alcun pretendente, ovvero dover completare la tessitura del sudario di Laerte, fu reso possibile dalla poca dimestichezza del genere maschile con l’elemento della tessitura (e il segreto, scoperto solo per via del tradimento di un'ancella, una donna come lei).
La ripetizione gestuale della tessitura accompagna i processi creativi, il corpo e la mente lavorano nella stessa direzione e danno forma al detto: “la tessitura è una forma di codificazione”. Hanno interrogato questo principio due studentesse della Central Saint Martin, che hanno scelto di annullare il binarismo categorico tra attività maschili e femminili producendo un manifesto di 25 metri tessuto attraverso input computeristici. Le due “knitting hackers” criticano tematicamente il binarismo nel manifesto, un manifesto prodotto mentre di quel binarismo dissolvono i confini nell’attività di questa pratica mista. Il linguaggio pre-concettualmente maschile e quello femminile trovano convergenza nella materialità stessa della produzione del linguaggio.
La storia del lavoro tessile è una storia declinata al femminile anche economicamente, con i suoi vantaggi e svantaggi sociale. Già nell’era di esplorazione vichinga, le donne gestivano la lavorazione dei diversi filamenti. Se è vero infatti che alcune donne – ben rappresentate in tv al momento! – prendevano parte alle spedizioni e combattevano al fianco degli uomini, fatta eccezione per queste guerriere la società vichinga si avvaleva del lavoro di numerose donne per la produzione tessile. In questo articolo si spiegano alcune delle cose che si devono alle donne, tra le quali la stessa navigazione, un’unità di misura comune , l’esportazione di beni commerciali, una valuta interna.
Un simile processo di riconoscimento del lavoro manuale delle tessitrici si osserva anche nella Cina medievale, dove l’indipendenza economica raggiunta dalle donne tramite l’impiego delle energie e delle risorse nella produzione tessile ha portato a significativi cambiamenti negli stereotipi di genere. "The image of highly productive women positively shapes cultural beliefs about women’s ability, and then translates into a more positive view about women in general". Si tratta però di un’affermazione del genere femminile attraverso la struttura patriarcale-capitalistica del lavoro manuale, una struttura che premia la produzione più che valorizzare il lavoro. Basti pensare a come l’abilità secolare delle donne nel campo della tessitura viene messa a frutto in termini di alto tasso di impiego come forza lavoro durante la rivoluzione industriale ma non viene certo adeguatamente ricompensata in termini economici o di rispetto sociale; un impiego di fabbrica che, tra l'altro, non le esonerava certo dai compiti domestici.
L’emancipazione economica delle donne e la rispettabilità raggiunta attraverso la stessa non indicano una via percorribile per l’emancipazione effettiva dallo stereotipo di genere, e viene voglia di sottrarsi del tutto a questi meccanismi di compravendita e impiego non tutelativo delle proprie risorse, delle proprie energie, delle proprie capacità. È il caso di Chiara Vigo, l’ultima filatrice di bisso, la cui arte di raccolta e lavorazione della seta del mare proviene da una tradizione matrilineare. Addirittura la BBC ha raggiunto Sant’Antioco per intervistarla e osservare da vicino le tecniche di tessitura e tintura di Vigo, non (solo) artigiana e non (solo) artista ma su maistu, che rispetta la tradizione e produce bellezza a partire da un dono della natura vivendo di offerte: non si vende e non si compra, infatti, il bisso perché “è sacro e si trasferisce per giuramento dell’acqua”. E al compratore avido di possedere un suo lavoro, uno in particolare tessuto per celebrare tutte le donne del mondo, Vigo ha risposto semplicemente: le donne del mondo non sono in vendita.
Nell'immagine: Chiara Vigo davanti alla sua opera Il leone delle donne.
Il podcast La Poudre (condotto dalla giornalista Lauren Bastide, di cui abbiamo parlato nella Ghinea di luglio) ha iniziato a diffondere puntate delle stagioni passate doppiate in inglese. Per ora si possono ascoltare l’intervista a Amandine Gay, volto di spicco dell’afrofemminismo francese, regista di documentari, saggista e attivista, Sophie Fontanel, scrittrice e giornalista, e Leïla Slimani, autrice del romanzo Ninna nanna. Le puntate originali in francese si possono ascoltare qui, qui e qui.
MATANGI / MAYA / M.I.A. il documentario di Steven Loveridge su M.I.A.
Alice Speri intervista, per The Intercept, Alex Perry, autore di The Good Mothers: The True Story of the Women Who Took on the World’s Most Powerful Mafia, “storia di una battaglia parzialmente vinta, ad un costo enorme, dalle donne che si sono ribellate ad un brutale culto criminale fondato sulla famiglia”: le testimonianze contro la ‘ndrangheta di Lea Garofalo, Giuseppina Pesce e Maria Concetta Cacciola. In questo lungo articolo per il New Yorker (da leggere o da ascoltare) Perry riassume la sua indagine in Calabria e approfondisce la figura e il ruolo della magistrata Alessandra Cerreti.
Stories Not Standards è una nuova, bellissima newsletter.
Period Poverty: il costo di essere donna, un’intera puntata di Radio3 Mondo dedicata alle mestruazioni e al problema della “povertà mestruale”, ovvero come il mancato accesso ai prodotti sanitari femminili si declina in giro per il mondo.
Chi ha paura delle mense popolari in Argentina?
Nell'immagine: Sheila Hicks.
Nella Ghinea di luglio ti abbiamo dato brevemente conto di quello che stava succedendo a Verona: un attacco al diritto all'aborto camuffato da sostegno alla maternità, con tanto di saluto romano rivolto alle manifestanti in protesta. Due mesi dopo la mozione, che doveva essere discussa a settembre, è stata ritirata. Inoltre, grazie alle attiviste di NUDM è volato un esposto per violazione della legge Scelba. Due buone notizie che però non ci fanno stare tranquille. Dai banchi del Senato sta infatti emergendo un sinistro personaggio: è Simone Pillon, ovviamente leghista e autore di un assai discusso disegno di legge sull'affido condiviso. Il ddl prevede tra le altre cose che chi denuncia una violenza domestica che poi venga archiviata perda la potestà genitoriale e sia condannato, ma diciamo pure condannata, a un risarcimento. Un ottimo modo per scoraggiare le richieste di aiuto, già rare (ma sta andando meglio) e molto difficili da provare. Ultracattolico, figura di spicco del Family Day e predicatore pro-life, Pillon parla apertamente di introdurre una forma di matrimonio indissolubile nonché di prendere esempio dall'Argentina (abbiamo seguito la vicenda qui e qui) e intervenire sulla legge 194 con l'obiettivo di azzerare gli aborti. Una posizione in linea con quelle del ministro Fontana e irricevibile, contro cui dobbiamo essere pronte (e pronti, si spera) a scendere in piazza e farci sentire il più possibile, perché rendere l'aborto fuorilegge non significa affatto che si smetterebbe di abortire: significa piuttosto che si ricomincerebbe a farlo nella clandestinità, come ben spiega Silvana Agatone in questa intervista alla Stampa, e si rischierebbe grosso, e si morirebbe (qualche numero qui). Non ti stiamo allarmando per il gusto di farlo: quelle parole vanno prese per quello che sono, e cioè una dichiarazione di guerra e un attacco frontale alla nostra autodeterminazione. Non possiamo né vogliamo permettere a un manipolo di fanatici religiosi di dettare legge sui nostri corpi e di mettere a repentaglio la nostra salute e la nostra vita. Loro si stanno già muovendo.
Nell'immagine: Lenore Tawney.
Il problema della libertà individuale in relazione alle circostanze è uno dei problemi da risolvere quando si parla di punizione o più largamente di giustizia. Qui una riflessione sulla postura della nostra adorata Simone de Beauvoir sull'argomento.
Perché il nostro femminismo ha il dovere di essere antirazzista.
In una scena di Normal People, il secondo romanzo di Sally Rooney uscito a fine agosto, la protagonista Marianne si scotta le spalle ad una marcia contro l’occupazione di Gaza. In mezzo alla marea di persone in marcia lungo il fiume Liffey si sente piccola e impotente, la frenesia di fermare le violenze dei forti contro i deboli si è ridimensionata in un ricordo dell’adolescenza, e la sera quando in macchina il suo amore di scuola Connell le dice che la ama, Marianne annuisce, così stanca che risponde solo “anch’io”. Normal People è una stringa di episodi senza trama, scene unite da contingenze più o meno avverse e sentimenti altalenanti. Connell e Marianne si conoscono a scuola e non riescono più a staccarsi, nonostante lui sia il bello (ma dal cuore buono) e lei la secchiona isolata (ma con un certo fascino). Quando entrambi iniziano a frequentare un’università prestigiosa presso la quale si invitano esponenti neo-nazisti a parlare in nome della libertà d’espressione, i ruoli si invertono, l’attaccamento tra i due si modifica, ma resiste. L’estate prima di iniziare l’università Marianne l’aveva passata leggendo articoli sulla Siria e grafici sulla crisi del debito sovrano europeo, facendo pausa per bere caffè o masturbarsi. Connell legge in biblioteca fino a chiusura, ma ai reading di poesia ha pensieri del tipo "cultura come esibizione di classe, letteratura feticizzata per la sua abilità di condurre gente con un'educazione verso falsi viaggi emozionali, così che poi possa sentirsi superiore alle persone che non hanno studiato e dei cui viaggi emozionali ama leggere". Poco prima di chiudere il suo account Twitter, quest’estate, Rooney ha pubblicato un pensiero sulla linea di “i romanzieri godono di troppo credito sociale”, ora impossibile da verificare, ma evidentemente un’idea ricorrente, che pare Rooney abbia riproposto, parafrasata, durante un’intervista ("novelists are over-glamorized"). Il radicalismo discreto di Rooney è cosa nota - l’aperto sostegno della campagna per il Repealal referendum irlandese di giugno, l’inclinazione marxista verso progetti di ridistribuzione della ricchezza - sempre ben articolato in profili e interviste, e ormai ritenuto cifra stilistica dei suoi romanzi. Nel saggio The Prevention of Literature (1946) George Orwell riflette sui libri scritti in tempi politici incerti e meschini, chiedendosi "ma com’è che si arriva a scrivere un libro? Ad un livello piuttosto basso, la letteratura è un tentativo di influenzare la visione dei propri contemporanei documentando l’esperienza". Il mondo ultra politicizzato di Rooney è tutto costruito su accenni a passaggi in auto trascorsi ascoltando i Vampire Weekend e disquisendo di strategia reaganiana, e i battibecchi sul valore morale del lavoro e su che cosa sia più reale, se il tempo o il denaro, avvengono al telefono, mentre si comparano snack alla frutta secca lungo una corsia di supermercato. Sempre si tratta, però, di un impegno politico nominale, affermato sparpagliando trending topics senza mai descriverli o svilupparli, selezionando dettagli culturali che abbelliscono, suggeriscono profondità senza però intaccare l’intrattenimento della storia romantica. Un po' come succede al catalogo di vestiti menzionati in Normal People - uniformi scolastiche generiche, gonne “grigie” o “di velluto” abbinate a “una blusa leggera” o “un maglione”, camicie e vestiti “bianchi”, un “indumento lungo e sformato come un vestito premaman” - l’attivismo, la ricerca, il dibattito sono nominati, denotati pure, ma mai staccati dallo sfondo, caratterizzano senza entrare nella trama. Rooney tratta la politica un po’ come fa funzionare la bellezza di Marianne, facendoci presumere che esista, seppure la neghi di continuo: Marianne non è "mai stata brutta" la rassicura Connell, che però non le risponde quando gli chiede "mi trovi ancora bella?", e guardandola in fotografia pensa "non sembra solo insignificante, ma è di una bruttezza clamorosa quando scopre quei denti storti davanti all’obiettivo come un ratto". In un altro saggio del 1946, Some Thoughts on the Common Toad, George Orwell si chiede: "c’è malizia nel trarre piacere dalla primavera e dagli altri cambi di stagione? Per essere più precisi, è politicamente riprovevole, mentre tutti gemiamo, o per lo meno, dovremmo gemere, sotto i ceppi del sistema capitalista, dimostrare quanto la vita di solito diventi più meritevole di essere vissuta grazie al merlo che canta, all’albero di tasso che ingiallisce a ottobre, o qualche altro fenomeno naturale che non costa denaro e non possiede quello che i redattori dei giornali di sinistra chiamano prospettiva di classe?". C’è un diletto, nelle descrizioni minimali di Rooney, che raccoglie in egual misura la pressione di stare al passo con l’attualità politica - covando un’opinione, misurando teorie contrarie, dimostrando un occhio fino per le fake news - e l’estetica della rassicurazione, che celebra il corpo troppo stanco per manifestare, la mente bisognosa di tranquillità e di un tipo di amore fisico e intimo, non sociale. Pensando in termini di letteratura, è lecito appigliarsi a storie di persone normali per cercare conforto e divertimento mentre tutto va a rotoli, ma quando il privilegio è confuso con la normalità, e i riflessi di una cultura condivisa servono a ravvivare trame inflazionate, forse è eccessivo aspettarsi lucidi diorama del tempo presente.
Prendere coraggio ed entrare a testa alta in una scuola di soli bianchi a quindici anni, dover constatare che la segregazione scolastica non è mai davvero sparitaa settantacinque.
Nell'immagine: Erin M. Riley.
Abbiamo scoperto un sito che monitora costantemente la rappresentazione dell'aborto al cinema e nelle serie tv. Se ti sembra un esercizio ozioso, prova ad ascoltare Gretchen Sisson in dialogo con Nima Shirazi e Adam Johnson del podcast Citations needed e ti accorgerai che il frame è servito: nella fiction su piccolo e grande schermo, all'interruzione di gravidanza sono quasi sempre associati dolore e colpa, e la tensione drammatica più frequente è il tentativo di salvare il bambino prima del nero. Come mai esiste un modo prevalente di raccontare l'aborto? A te viene in mente qualche esempio? E se sì, ti sembra che confermi o che smentisca lo stereotipo? Raccontacelo, se ti va, e magari la prossima volta ne riparliamo.
Dal momento che stiamo parlando di diritti riproduttivi, ci sono degli aggiornamenti anche dagli Stati Uniti e purtroppo non sembrano felici. Tutto è cominciato lo scorso giugno, quando il giudice della Corte Suprema Anthony Kennedy ha annunciato il proprio ritiro a partire dal 31 luglio 2018. La Corte Suprema è la più alta corte federale degli Stati Uniti ed è composta da nove membri nominati dal Presidente e confermati dal Senato, con carica a vita. Per quanto Kennedy non sia mai stato un progressista e abbia spesso votato in sfavore dei lavoratori (ma tendenzialmente a favore dei diritti civili), la notizia del suo ritiro è stata accolta con gioia a destra e con preoccupazione a sinistra. Con buone ragioni: già in campagna elettorale Donald Trump, interrogato sulla storica sentenza sul diritto di aborto Roe contro Wade, rispose che avrebbe fatto in modo di piazzare alla Corte Suprema le persone giuste per rovesciarla in quello che sembra davvero uno scenario da romanzo di Margaret Atwood. E non ha certo cambiato idea, anzi all'indomani delle dimissioni di Kennedy ha svicolato alla domanda diretta ma ha comunque ribadito di avere in mente un conservatore per la nomina. Conservatore che ha presto assunto le fattezze di Brett Kavanaugh, un candidato relativamente giovane che potrebbe sedere alla Corte per alcuni decenni e il cui orientamento non lascia dubbi. Già da prima che iniziassero le audizioni in Senato, l'affaire Kavanaugh presentava diversi lati oscuri (come il suo ruolo nell'amministrazione Bush) e motivi di sospetto, certamente non alleviati dalla decisione dei repubblicani di non concedereall'esame dei senatori democratici molti dei documenti riguardanti il passato di questo candidato. La partita che si sta giocando in Senato è anche contro il tempo: a breve si terranno le elezioni di midterm e il Partito Repubblicano vorrebbe sbrigarsi con la conferma fintanto che hanno i numeri per farlo, e cioè prima che la composizione dell'aula possa cambiare. A settembre però è scoppiata una bomba che nessuno si aspettava: è trapelata la testimonianza di una donna che accusa Kavanaugh di aver tentato di violentarla quando lei aveva quindici anni e lui diciassette. Tale informazione è stata dapprima svelata tramite lettera soltanto alla senatrice Dianne Feinstein con raccomandazione di segretezza e comunicata al Washington Post in forma anonima, ma come spesso accade in questi casi è infine giunta all'opinione pubblica, finché la donna in questione non ha deciso di uscire allo scoperto. Si tratta di Christine Blasey Ford, docente universitaria. La sua testimonianza presente alcuni buchi di memoria ma nel complesso sembra molto solida, soprattutto perché ha già parlato dell'episodio nel 2012 sia in terapia di coppia che in terapia individuale facendo proprio il nome di Kavanaugh (ci sono sia la conferma del marito che una traccia scritta della seduta). Ford si è inoltre sottoposta alla macchina della verità, superando il test, e chiunque voglia accusarla di essersi mossa per scopi politici (cioè per colpire il Partito Repubblicano) deve fare i conti con il fatto (documentato) che la donna ha cercato di rendere nota la sua storia in via confidenziale e soprattutto non dopo la nomina di Kavanaugh, bensì quando questo nome è comparso nella rosa di possibili candidati, quasi a voler avvertire i Repubblicani di non spingere la persona sbagliata. Esistono inoltre testimonianze poco favorevoli circa i party frequentati dagli allievi della Georgetown Prep, la scuola che Kavanaugh frequentava ai tempi dell'aggressione che gli viene addebitata, e che la scuola stessa ritenne opportuno informare i genitori dell'alto rischio di violenza, sessuale e non, in cui era possibile incorrere alle feste. Dopo questa prima accusa, infine, altre due donne sono uscite allo scoperto con storie simili. Kavanaugh le rigetta tutte. Non provano nulla, ma ci raccontano comunque qualcosa, i criteri con cui Kavanaugh seleziona le sue praticanti.
Come mai questa faccenda è così importante e perché Ford ha deciso di renderla pubblica? Scrivendo a una senatrice, Ford sperava che si aprisse un'indagine dell'FBI su Kavanaugh e che queste accuse, se confermate, costituissero parte dei precedenti dell'uomo. Precedenti che sarebbero difficili da ignorare e da giustificare agli occhi dell'opinione pubblica, visto che tutti sanno perfettamente che la nomina di Kavanaugh condurrebbe allo sbriciolamento della Roe contro Wade in tempi brevissimi (ecco come). Secondo un sondaggio reso noto dall'emittente NPR la maggioranza degli statunitensi è già a favore dell'aborto legale, ma la vera domanda è: se lo lascerebbero portare via grazie al decisivo contributo di un predatore sessuale?
Il 27 settembre il Senato (e l'America tutta) hanno ascoltato le testimonianze di Ford e Kavanaugh, nel tentativo di stabilire con un ragionevole grado di certezza se le accuse della donna siano fondate e credibili. In questa circostanza è tornata alla ribalta la possibilità di un'intervento dell'FBI, e le pressioni sono state tali da costringere i Repubblicani ad acconsentire alla richiesta. La Casa Bianca ha così ordinato un'indagine che si concluda nel giro di una settimana, e intanto il voto è congelato. Intanto che aspettiamo (con le nostre opinioni, certamente, ma col giudizio sospeso) gli sviluppi della storia, vale la pena osservare la differenza nell'atteggiamento dei due protagonisti. Mentre Ford si è subito dichiarata terrorizzata ma consapevole del suo dovere di cittadina, ha risposto a tutte le domande e chiesto più volte come essere d'aiuto alla commissione, Kavanaugh si è presentato con molta aggressività, ha esposto la sua dichiarazione iniziale sbraitando e piangendo e ha spesso interrotto i membri della commissione, talvolta finendo per non rispondere alle loro domande. Uno show di puro trumpismo, commenta il Foglio.
Nessun bambino dovrebbe entrare in carcere. E invece molti ci entrano, al seguito delle madri detenute: intervista allo psicologo Roberto Sbrana.
Un reportage sugli atelier di artisti tessili contemporanei.
FATTO DA NOI
Un microracconto di Marzia su Tuffi.
Sul blog di inutile, Gloria legge e riflette su Fame di Roxane Gay.
UNA CANZONE
La cover di Cornflake Girl rilasciata questo mese dai Florence + The Machine ci ha ricordato quanto amiamo Tori Amos. Tratto dall’album Under the Pink del 1994, Cornflake Girl è forse il suo singolo più celebre (insieme al remix di Professional Widow): una denuncia delle dinamiche tossiche che si sviluppano nelle relazioni tra donne, è posto al centro di un album interamente dedicato alla costruzione del femminile, segue e completa un altro brano fondamentale, The Waitress ("I believe in peace, bitch"). Vanta addirittura due videoclip: una versione inglese in cui il Mago di Oz è reimmaginato in bianco e nero, e una americana, in cui Amos, aiutata dalle amiche, fa bollire in un calderone un cowboy incontrato nel deserto (immagine che ci piace pensare anticipi la rabbia anti-patriarcale del successivo, monumentale, album del 1996, Boys for Pele).Amos sintetizza la rivalità tra donne distinguendo tra le “cornflake”, le traditrici che pugnalano alle spalle le amiche, e le “raisin girls”, la frutta che è più raro trovare nelle scatole di cereali. Tra le ispirazioni dietro la canzone ci sono il romanzo di Alice Walker Possessing the Secret of Joy (1992), e conversazionisulla mutilazione genitale femminile che hanno portato Amos di riflettere sul trauma delle ragazze costrette dalle proprie madri e sorelle - le donne di cui si fidano di più - a sottoporsi alla pratica dell’infibulazione. Mai confermata, ma comunque interessante, l'influenza della pubblicità dei cereali in cui la giovane Tori Amos canta Just right! accompagnandosi ad un pianoforte marcato Kellogg’s, con il cui generoso compenso pare fu in grado di lasciare un fidanzato con cui non voleva più convivere e trovarsi un appartamento indipendente a Los Angeles. Una chicca: Jessa Crispin colleziona i bootleg dei concerti di Tori Amos.
UN LIBRO
Giulia Cavaliere, Romantic Italia. Di cosa parliamo quando cantiamo d’amore.
Un libro come Romantic Italia è la prova che la critica musicale scritta da donne è importante tanto quanto la musica che sceglie di descrivere. Il primo (atteso) libro di Giulia Cavaliere è un’antologia di ottanta titoli della musica leggera italiana degli ultimi sessant’anni, una playlist sentimentale sia nei temi che nel carattere della selezione. Ogni breve ritratto musicale contiene elementi di ricerca storica e genealogica che conferma eredità sonore (per esempio, la parentela tra Antonello Venditti e i Thegiornalisti, la spinetta omaggio a Bach in L’amore è tutto qui di Pietro Ciampi), sebbene al centro restino sempre i testi. L’esegesi è accompagnata da tanti riferimenti a opere poetiche del canone, proposti con la stessa dignità critica: Liberato “ginestra” della musica italiana, la mente che si sofferma sulla malinconia per l’altrove ne “I limoni” di Eugenio Montale e in Sapore di sale di Gino Paoli, lo stesso cuore innamorato come interlocutore sia per Guido Cavalcanti che per Rita Pavone,la struttura dell’Odissea a fondamento di DIE di Iosonouncane.
Con la guida di Cavaliere capiamo quanto il racconto del femminile sia variegato nella canzone italiana: dal femminicidio cantato da Sergio Endrigo in Via Broletto 34 fino alla "rivendicazione totale della libertà del sesso per il sesso e, specialmente, del sesso finalizzato al piacere della donna” di Loredana Berté in Parlate di moralità. Cavaliere sottolinea i complessi equilibri di potere e genere in azione ogni volta che si ascolta una canzone pop interpretata da una cantante donna, ma scritta e prodotta da uomini. Come, per esempio, accade in Un’emozione da poco, storia di un rapporto impari raccontata secondo “una struttura labirintica, [che] vuole restituire il senso di smarrimento della ragione proprio dell’innamoramento”, scritta da Ivano Fossati e cantata da Anna Oxa, diciassettenne in completo da uomo e brillantina sui capelli. Oppure Vasco Rossi che scrive E dimmi che non vuoi morire per "far cantare a Patty Pravo le esatte parole che aveva sempre desiderato che lei dicesse. […] frasi come: 'Bevi qualcosa? Cosa volevi? Vuoi far l’amore con me?'". C’è una grande sensibilità per le sporadiche variazioni del focus nella canzone d’amore, casi in cui l’amore non è eterosessuale: come in Claudio e Francesco di Mauro Pelosi, che canta della vita quotidiana di una coppia gay negli anni ’70, oppure in Giulia, appello alla ragazza “intelligente, non bella e con gli occhiali” per cui la fidanzata di Antonello Venditti si è presa una cotta. Cavaliere, poi, è attenta a chiamare per nome le mogli, compagne e fidanzate che hanno ispirato e sostenuto gli uomini della tradizione cantautorale italiana: Roberta, moglie di Francesco Guccini e probabile destinataria di Vedi cara; Stefania Sandrelli, amante di Gino Paoli, che si tuffa in mare in Sapore di sale; Gabriella, la ex-compagna tornata a Roma da Milano, per cui Pietro Ciampi scrive Sobborghi.
È molto preziosa, infine, la scelta di Cavaliere di mescolare frammenti della sua biografia e personale educazione musicale alle sue originale interpretazioni, a partire dalla deliziosa dedica ai genitori in apertura al saggio e il ricordo della sua infanzia passata insieme alla babysitter nelle balere della bassa padanaabbozzato nell'introduzione. Con molta generosità Cavaliere ci lascia sbirciare nel processo creativo dietro le sue tante e belle idee: l’illuminazione fulminea durante un tragitto in autobus, quando Il mondo di Jimmy Fontana si rivela d’un colpo come una canzone sulla riscoperta della vita dopo la fine di una relazione; la descrizione di un passato scetticismo nei confronti del verso “per un’ora d’amore venderei anche il cuore” ascoltato da adolescente ancora inesperta e purista dei sentimenti, fino a confermare una delle più classiche scenette familiari italiane, la visione condivisa di Sanremo sul divano insieme alla mamma che, ascoltate appena poche note, decreta “questa vince”.
UNA POESIA
Ingeborg Bachmann (1926 – 1973) si è sempre interessata del conflitto tra il personale e il politico come luogo di creazione, come forse inevitabile per un'autrice donna con un certo grado di consapevolezza. Nonostante l’interesse critico di stampo femminista si sia concentrato soprattutto sulle sue altre scritture, i suoi versi non mancano di fronteggiare le tematiche della pressione sociale del dopoguerra sugli individui e sulle donne in particolare. Il tema centrale della sua poetica è il fallimento: il fallimento storico, cui assiste a soli 12 anni con l’ingresso delle truppe naziste nella sua città natale per forzare l’annessione austriaca; il fallimento della lingua, incapace di caricarsi del colore tragico del suo tempo (e però, proprio attraverso la sua ricerca, dimostrare al sodale, Adorno, che fosse sì ancora possibile fare poesia dopo Auschwitz); il fallimento delle relazioni interpersonali, in cui a suo avviso le donne si consumano per via delle strutture patriarcali che non permettono loro di concentrarsi sul sé.
Ich trete aus mir
hervor, aus meinen Augen
Händen, Mund, ich
trete hervor aus
mir, eine Schar
von Güte und Göttlichem
die diese Teufeleien
gut machen muß,
die geschehen sind
I step outside
myself, out of my eyes,
hands, mouth, outside
of myself I
step, a bundle
of goodness and godliness
that must make good
this devilry
that has happened
(Se sei un'anima appassionata di Bachmann e possiedi o hai accesso alla traduzione italiana di questa poesia, facci appassionare tutt* ancora di più: inviacela così da poterla condividere il prossimo mese!)
UN FILM
Die Geträumten di Ruth Beckermann (2016)
Per ritrarre la storia condivisa dei poeti Ingeborg Bachmann e Paul Celan, la documentarista austriaca Ruth Beckermann ha creato un biopic senza usare costumi o scenografie, e condensato venticinque anni di lettere in una giornata. Il presupposto è semplice: due giovani attori lavorano all’audiolibro (si presume) del carteggio Bachmann-Celan dentro uno studio di registrazione viennese, uscendo all'aperto solo per fumare e parlare tra di loro. Le loro chiacchiere leggere durante le pause si alternano, e stemperano, la prosa nitida (ma strappalacrime) dei poeti al cui innamoramento e disinnamoramento prestano la voce.
UNA DONNA
Questo mese ricordiamo Helen Keller, una donna miracolosa. Nata nel 1880 in Alabama, Keller contrasse da piccolissima una malattia (forse meningite) che la lasciò cieca e sorda, dunque potenzialmente isolata dal mondo. Non fu così: aiutata in modo decisivo dall'educatrice Anne Sullivan, imparò a comunicare e ad apprendere e intraprese un percorso di studi che culminò nella laurea. Circondata dall'ammirazione di alcune delle più grandi menti della sua epoca, Keller si dedicò attivamente al lavoro culturale e all'impegno politico. Raccolse fondi per i disabili, partecipò alle agitazioni per i diritti sociali e per il suffragio universale, sostenne il pacifismo (famoso il suo appello ai lavoratori dell'industria bellica: "Strike against manufacturing shrapnel and gas bombs and all other tools of murder! Strike against preparedness that means death and misery to millions of human beings! Be not dumb, obedient slaves in an army of destruction! Be heroes in an army of construction!"), levò la propria voce contro la segregazione e i linciaggi ai danni della popolazione afroamericana, scoprì che la cecità e le malattie in generale avevano incidenza più altra tra le fasce meno abbienti della popolazione e accolse la prospettiva di classe nelle sue battaglie. In pieno maccartismo, non ebbe paura di sostenere pubblicamente la prominente attivista comunista Elizabeth Gurley Flynn. Il suo coraggio le attirò le attenzioni dell'FBI, che la tenne sotto sorveglianza finché non morì (il file che la riguarda è disponibile). Qui puoi leggere gratis alcuni dei suoi scritti e qui guardare un film sulla sua vita, ma se se vuoi saperne ancora di più puoi tuffarti nella sua autobiografia. E siccome stai leggendo una newsletter femminista non possiamo non segnalarti un suo pezzo umoristico intitolato “Put your husband in the kitchen”.
Nella scorsa Ghinea ti abbiamo presentato un invito a passare la serata di Halloween insieme a noi a Bologna. Non abbiamo mica cambiato idea! Qualche adesione è arrivata, ma se anche tu capiti da quelle parti e ti andrebbe di unirti scrivici pure per i dettagli e poi iscriviti qua (piccolo pro forma che serve a noi per fare i conti e scegliere il locale giusto). Abbiamo sempre detto, sin dal primo numero, che per noi Ghinea è un desiderio di condivisione piuttosto che un bollettino da diramare, perciò speriamo tanto che ci sarai.
Francesca, Gloria e Marzia