Benvenut@ a Ghinea, la newsletter pronta a tenerti compagnia per il Ponte dei Morti. Questo mese ti proponiamo infatti ben tre contributi esterni: Valentina Greco recensisce lo spettacolo teatrale Frankenstein (a love story). Maria Alessandra Panzera riflette, partendo da sé, su cosa significa invecchiare da persona queer. Infine, torna il consueto appuntamento horror di ottobre con Cristina Resa. Buona lettura!
“Ma è vero che sono un mostro”. Poetica e politica della mostruosità in Frankenstein (a love story) dei Motus
di Valentina Greco
[Alt Text: immagine dallo spettacolo. Una figura nuda e avvolta nella plastica giace sul fianco destro, con le ginocchia al petto. Poiché volge la schiena al pubblico, è possibile vedere il disegno di una grossa ferita da lacerazione suturata lungo tutta la spina dorsale. Fonte.]
“Iniziai quel giorno con le parole ‘Era una cupa notte di novembre’, limitandomi a trascrivere i sinistri terrori del mio sogno a occhi aperti” scrive Mary Shelley nell’introduzione del 1831 al suo Frankenstein o il moderno Prometeo, non posso sapere se la ricerca dei Motus per il loro nuovo spettacolo sia iniziata nella cupezza di una fredda notte al confine tra l’autunno e l’inverno, certo è che ha la magica sostanza del sogno a occhi aperti, quello stato liminale nel quale si confondono i nostri più splendenti desideri e le nostre più oscure paure, nel quale si fondono i tempi e si smantellano le cronologie, rivelandoci la violenza che sta dietro al tentativo di racchiudere le nostre esistenze in scatole senz’aria solo per la paura di perdere il nostro posto nel mondo.
Delle tante letture di Frankenstein o il moderno Prometeo fatte nel corso dei secoli (è questo un libro che non cesserà mai di parlare, di dire, di suggestionare) le più dirompenti, le più interessanti, sono quelle transfemministe, femministe e antispeciste. Ed è questo il punto di vista scelto dai Motus nella messa in scena di Frankenstein (a love story), grazie alla drammaturgia di Ilenia Caleo, che in un felice intreccio di anima e sapienza, ha tessuto il libro di Mary Shelley con le teorie, la poetica, le parole e il pensiero di Octavia Butler, Sara De Simone, Jack Halberstam, Donna Haraway, Ursula Le Guin, Lynn Margulis, Sylvia Plath, Eve Kosofky Sedwick, Susan Stryker, Laura Tripaldi, Marina Vitale, Jeanette Winterson, Monique Wittig e il Manifesto Xenofemminista di Laboria Cuboniks. Nella drammaturgia queste prospettive poeticopolitiche si fondono senza stonature, espressione della potenza rivoluzionaria dell’immaginazione, del suo potenziale trasformativo che non è astratto ma incarnato: “L’utopia è l’immaginazione applicata al politico,” – ci dice Caleo – “e sta vicina alla fantascienza come genere letterario. Immaginare altri mondi, perché quello che viviamo non è un destino immutabile”.
I Motus non portano in scena la storia narrata da Shelley, danno vita a una creatura altra, fatta di frammenti ma non frammentaria, “questi pezzi” - come scrivono Nicolò e Casagrande nelle Note di regia – “sono tenuti assieme da un lavoro di cuciture sceniche che fanno funzionare lo spettacolo come ‘corpo senza organi’ popolato di molteplicità’ di deleuziana memoria, un assemblaggio aperto di evocazioni e rievocazioni (ed anche assai pop citazioni!) – che fluisce nel tempo – senza tempo – da quell’estate senza sole del 1816 a un futuro che è già passato”.
Mary Wollstonecraft Shelley (la creatrice), Viktor Frankenstein (il creatore) e la Creatura (senza nome, fusione di organico e inorganico) non esistono come singolarità ovvero non possono esistere le une senza le altre, non solo perché è Shelley che dà vita a Frankenstein che dà vita alla creatura, ma soprattutto perché i loro pensieri e le loro esistenze con-vivono e con-muoiono, come scrive Haraway in Staying with the trouble, sono creature ctonie, “mostri nel senso migliore del termine: dimostrano e performano l’importanza materiale dei processi terrestri e di tutte le creature. E poi dimostrano e performano le conseguenze”.
Alexia Sarantopoulou, Silvia Calderoni ed Enrico Casagrande – di un’intensità a tratti struggente – interpretano sul palco i tre personaggi e diventano quelle vite, facendo a pezzi gli inutili e violenti confini imposti tra noi e loro, tra vero e falso, tra buono e cattivo, tra azione e recitazione.
Creatrice, creatore e creatura sono tre declinazioni della mostruosità, un mostruosità rivendicata contro la norma/lità imposta, sembra di sentire risuonare in loro le parole scritte da Susan Stryker in Ciò che dissi a Viktor Frankenstein sopra il villaggio di Chamonix:
Ascoltatemi, creature compagne […] vi faccio dono di questo avvertimento: la Natura con la quale mi tormentate non è che una menzogna. Non illudetevi che essa possa proteggervi da quello che rappresento, non è che un’invenzione che nasconde l’infondatezza del privilegio che, a mie spese, cercate di tenervi stretto. Siete costruite quanto me […] Vi sfido a rischiare l’abiezione e a fiorire, come è successo a me. Ascoltate le mie parole, e potrete facilmente individuare le vostre cicatrici e suture.
È questo quello che fanno la creatrice, il creatore e la creatura in scena, ci invitano a guardare le nostre cicatrici e suture, a riconoscerci nel disagio, nella marginalità, nell’esclusione.
Questo sguardo d’amore si esprime anche in una regia controllata, contenuta, in sottrazione, i corpi si muovono nella scena come appena venuti al mondo, la recitazione è misurata. Il risultato è ipnotico e commovente, ha la potenza e l’intelligenza dell’acqua (elemento non a caso molto presente in scena).
Se i corpi in scena sono quelli della creatrice, del creatore e della creatura, lo spazio scenico è allora il creato, il luogo infinito eppure claustrofobico del movimento, dell’espressione, del pensiero ossia della loro possibilità.
Come scrivono nelle loro Note di regia, Nicolò e Casagrande hanno pensato “alla rinascita della creatura in uno spazio bianco, asettico, vuoto… una immagine fantasmatica che compare in trasparenza: queste le prime visioni dello spazio scenico popolato da tre figure che, simbioticamente, sono una sola: la creatrice, il creatore e la creatura. Sono presenze confuse con lo spazio in continuo movimento, solcato da vento, nebbia e scintillii di temporali perenni”.
All’apparenza essenziale, quasi semplicemente funzionale, è in realtà la rappresentazione plastica (in senso metaforico e letterale) di una prospettiva marginale ovvero di un punto di vista dal margine. Lo spazio stesso è sutura, cicatrice, non vuole diventare centro – gli strumenti del padrone non smantelleranno mai la casa del padrone, ci ricorda sempre Audre Lorde – , la ferita è abitata e parla parole d’amore e d’inquietudine.
Nella sua apparenza friabile crea di volta in volta confini o spazi aperti attraverso muri trasparenti che si alzano o si abbassano sul palco, invalicabili pareti di ghiaccio che si sciolgono in acqua, eterei lampi che diventano concretissimi muri, una placenta protettiva che all’improvviso si lacera con violenza.
Puoi guardarci attraverso, ma segna una separazione. È da quella separazione, da quel posizionamento rivoluzionario, che le creature mostre parlano e creano il mondo.
In un’epoca nella quale la costruzione di un* Altr* Abiett* è sempre di più il violento strumento politico dei fascismi, Frankenstein (a love story) ci parla della possibilissima utopia di un mondo nel quale ci riconosciamo come creature fallate, ferite, eppure bellissime, capaci di distruggere il potere per costruire relazioni d’amore con la materia tutta.
Non la mostruosità dovrebbe farci paura, ma la nostra paura della mostruosità.
Per le prossime date dello spettacolo, puoi consultare il sito dei Motus.
Valentina Greco, transfemminista terrona, ha un dottorato in Storia delle donne e delle identità di genere. Dopo quindici anni di precariato accademico ha lasciato l’università, ma non la ricerca, e attualmente lavora come freelance nell’editoria. Ama l’arte, e non l’ha messa da parte.
Tra le ultime pubblicazioni: con Angela Balzano, Il noi politico dell’IVG in Pauline Harmange, Aborto. Il personale è politico, Mimesis, 2023; Rammemorare è il gesto di costruire il nostro futuro ovvero La memoria dei movimenti LGBTQI+ è rivoluzionaria in Clamorosə. Cassero: 40 anni di rumore, La Falla, 2022.
Puoi seguirla su Instagram.
L’unico limite è la vostra immaginazione: invisibilità, anzianità e futuro nell’esperienza queer
di Maria Alessandra Panzera
Hai mai pensato a come sarà invecchiare come persona LGBTQIA+? È un argomento importante, ma che spesso viene trascurato. Mentre scrivevo questo testo, mi sono resa conto di quanto sia urgente riflettere sulla mancanza di rappresentazione delle persone anziane queer. Troppe volte sono rese invisibili, e questo ha effetti negativi sulla capacità di immaginarsi un futuro per la nostra comunità.
Utilizzo il termine “Queer”, in questo caso, come “termine ombrello” per fare riferimento all’ampio spettro di persone facenti parte della comunità LGBTQIA+, ma può anche essere usato per fare riferimento a coloro che non si identificano come eterosessuali e/o cisgender, senza specificare la propria identità di genere e/o orientamento sessuale.
Questa riflessione mi ha portato indietro nel tempo. Era il 2011 quando ebbi il mio primo contatto con la rappresentazione queer in televisione, all’età di circa dodici anni.
Stavo guardando Glee, una serie televisiva americana proiettata inizialmente su Sky. All’epoca, non sapevo ancora il motivo per il quale rimasi colpita dai personaggi di Santana Lopez - devo ammettere, in particolar modo - e di Brittany Pierce.
Ad oggi, credo che una ragione fosse proprio perchè avessero una relazione omosessuale, un fenomeno che, fino ad allora, non avevo mai riscontrato in alcun’altra serie TV, film o libro. Un altro motivo, per cui credo di esserne rimasta così affascinata, è che io stessa sono una persona queer, per quanto all’epoca non ne avessi ancora la consapevolezza.
[Alt Text: due ragazze in primo piano. La bionda a sinistra sorride, la mora ha il volto dolcemente posato sulla spalla dell’altra. Entrambe indossano l’uniforme da cheerleader rossa e bianca. L’immagine è un frame dal telefilm Glee.]
Non ho mai guardato Glee con frequenza o con speciale attenzione, se non per via di questa specifica dinamica. Credo però di poter dire, senza esagerare, che la raffigurazione della relazione tra Santana e Brittany mi abbia permesso di normalizzare, tra me e me, il sentimento che ho provato pochi anni dopo per una ragazza della quale mi ero infatuata. Nonostante fosse proprio una ragazza come me e il mondo che avevo attorno, in quanto eteronormativo, riteneva l'eterosessualità l’unico orientamento sessuale e l’unico dettame per la sessualità e mi faceva notare quanto questo tanto nella norma non venisse ritenuto. Avendo già visto qualcosa di simile a ciò che stavo provando, seppur solo in una serie TV, seppur un po’ per caso, accendendo la televisione tornata da scuola in un pomeriggio qualunque, mi sono sentita meno strana anche io. Permettendomi così di esplorare i miei sentimenti, invece di reprimerli.
Dopo qualche anno vidi, in sequenza cronologica, Orange is the New Black e The L Word. Quest’ultima, tra l’altro, proprio su consiglio di quella stessa ragazza una volta esserci lasciate (ebbene sì). Nel frattempo, sono andata al cinema a vedere Blue is the Warmest Colour e Carol. Così come, quando mi capitavano davanti, guardavo su Youtube storie di coming out e di vita quotidiana lesbica (in realtà, di quest’ultimo genere seguivo un canale: Rose and Rosie). Tutti questi esempi di contatto con la rappresentazione Queer (in particolare, con la rappresentazione delle relazioni omosessuali tra donne cisgender), seppur molto limitati - considerando che li posso contare sulle dita di una mano sola - hanno avuto un impatto importante sulla mia adolescenza. Questo tipo di rappresentazione mi ha permesso di avere una familiarità più intima con queste storie e di riflettere sulla mia.
Forse, a questo punto, starai pensando che non sai bene di cosa io stia parlando nè il perchè, oppure, più probabilmente, che sono una lesbica bianca basica. Tutti questi contatti con delle forme di rappresentazione Queer - così come quelle successive che ho più recentemente esplorato in età adulta - non sono bastate perché io riuscissi a immaginarmi come sarà invecchiare, come donna queer, insieme a un’altra persona.
Hai mai pensato a come sarebbe invecchiare come persona LGBTQIA+? È un argomento importante, ma che spesso viene trascurato. Per questo motivo, ho deciso di dare spazio alla mia voce ed esprimere i miei pensieri sulla rappresentazione, o, meglio, l’invisibilità, delle persone LGBTQIA+ anziane e della loro sfera sentimentale. Troppe volte sono rese invisibili, e questo ha effetti negativi sulla capacità di immaginarsi un futuro per la nostra comunità.
“Come ti vedi tra 10 anni?”. Qui, riprendo un’importante domanda posta da Mara Pieri in “Italia, 2030: Immaginare un futuro queer-crip”, da cui ho preso spunto durante la ricerca per questo intervento, perché suscita in me anche le domande seguenti:
“E poi, come mi vedo da vecchia? Dove? Con unx partner?” Successivamente, la paura.
L’Italia è il paese in cui sono nata, in parte cresciuta e in cui mi piacerebbe ritornare a vivere. Però, in Italia… Mi potrei unire civilmente con una persona del mio stesso sesso, ora, sì. Ma potrei creare una famiglia con unx partner e dei figli? Non sarei una persona che gode degli stessi diritti degli altri. Per lo Stato, non ne sono meritevole. In più, il clima non è favorevole alla possibilità che io viva, in maniera libera e autentica, in linea con il mio orientamento sessuale. Nel farmi sentire come se fossi a casa, in un ambiente sicuro, invece che ostile, non aiutano le continue e incessanti discussioni che infiammano il dibattito pubblico. Allora, forse, dovrei emigrare.
Poi, se mi immagino anziana, non riesco a vedermi al fianco di un’altra persona. Ciascuno sulla propria poltrona, che ci teniamo per mano ascoltando la radio, come i miei nonni. Riprodurre questo scenario, anche solo per finta, mi è praticamente impossibile.
È più facile immaginarmi in compagnia dei miei fratelli o dei miei amici (che però resterebbero in Italia, a quel punto). Per coloro che, tra familiari e amici, si identificano eterosessuali, credo sia diverso. Sognano, o per lo meno riescono ad immaginarsi, di invecchiare con ə propriə partner, e i loro figli, che si prendono cura di loro. Sebbene anch’essi, così come un’alta percentuale dei membri della mia generazione, abbiano sperimentato gli effetti delle famiglie che si spezzano, i genitori che si separano, provando una certa difficoltà in questo sforzo di immaginazione.
Quindi, si presenta di nuovo un ulteriore problema dovuto agli effetti dell’eteronormatività. Non tanto perchè si dà per scontato che tutto il mondo sia eterosessuale, ma perchè ci dice, con la pressione e il premio, che la norma sia una forma precisa di eterosessualità, caratterizzata “da monogamia, convivenza tesa al matrimonio, riproduzione come finalità del legame, struttura familiare nucleare, perfetta sovrapposizione tra le componenti dell’identità sessuale”.
Ti sto raccontando la mia esperienza non perché sia esemplificativa dell’intera comunità LGBTQIA+. Questo argomento è piuttosto ampio e complesso e si intreccia strettamente con quello dell’intersezionalità e con la sovrapposizione dell’identità LGBTQIA+ con anche altre identità sociali. Ad esempio, l’immaginario sull’anzianità di una persona queer, non-binaria, razzializzata, e/o diversamente abile, può fornire ulteriori spunti rilevanti sul tema. Non discuterò di ciascuna di queste intersezionalità, ma credo che sia importante che il lettore le tenga a mente. Sarebbe interessante se il discorso si sviluppasse ulteriormente anche in questo senso e, per chi fosse interessato, suggerisco di leggere il testo di Mara Peri sopracitato, in riferimento all’esperienza delle persone LGBTQAI+ con malattie croniche in connessione al tema dell’anzianità.
La mia storia potrebbe essere, semplicemente, simile a quella di anche altre persone queer in maniera più ampia, piuttosto che nei suoi particolari, seppur rilevanti. Il motivo per cui la racconto è il seguente: mi piacerebbe che venissero documentate le storie delle generazioni più anziane della nostra comunità.
In molte persone non riusciamo a immaginarci la nostra vita dopo i trent'anni, perché non sappiamo che cosa immaginare. Invece, i media, la cultura, l’intrattenimento, hanno un ruolo significativo nel riflettere, riprodurre e/o nello sfidare le norme sociali e le ideologie dominanti, tra cui l'omofobia e il pregiudizio basato sull'età. L’immaginazione, in questo caso, non è però l’unico vero limite.
Queer Ageism: Invecchiare può essere un privilegio?
I modelli di invecchiamento eteronormativi non sono adatti alle specifiche esigenze delle persone anziane LGBTQIA+ e sono segnati da una doppia lente di stigmatizzazione (fobia LGBTQIA+ e discriminazione legata all'età). Il risultato è un'ingiustificata invisibilità, che è incompatibile con la creazione di ambienti formali e informali che promuovano un invecchiamento positivo e la lotta contro la solitudine e l'isolamento sociale.
Durante la scrittura di questo testo e le ricerche che questa ha richiesto, ho consolidato la mia personale percezione di una mancanza di rappresentazione delle persone anziane queer, di come queste siano rese in gran parte invisibili, e degli effetti negativi di questa assenza. Tale lacuna può essere dovuta a diverse ragioni.
Una di queste ragioni è la doppia discriminazione che le persone LGBTQIA+ anziane subiscono a causa della loro identità e della loro età. Quest’ultima lente di discriminazione può essere considerata come la manifestazione dell’ageismo, noto in inglese come ageism: un termine che si riferisce a un insieme di atteggiamenti negativi, stereotipi, pregiudizi e discriminazioni dirette verso le persone in base alla loro età, in particolare verso gli individui più anziani. L’ageismo può assumere diverse forme, tra cui l’esclusione sociale, l’isolamento, la discriminazione nell’ambito lavorativo e l’accesso limitato ai servizi sanitari e sociali.
Di seguito, riporterò alcune delle scoperte e considerazioni emerse in una ricerca di Henrique Pereira e Debanhan Banerjee, del 2021, riguardanti lo stato di discriminazione della comunità LGBTQAI+ anziana e le sfide tangibili che la riguardano.
Tuttavia, è importante notare che le esperienze delle persone anziane LGBTQIA+ possono variare ampiamente in base alle loro circostanze individuali e al luogo in cui vivono.
Da una prospettiva del ciclo di vita, l'invecchiamento delle persone LGBTQIA+ è spesso accompagnato dall'esistenza di ostacoli legati alla loro identità sessuale e/o di genere. Questi, ad esempio, possono fare sì che spesso le persone anziane LGBTQIA+ tornino nel closet (“nascoste”) in questa fase della vita. Ciò rappresenta un regresso esistenziale ed è di solito accompagnato da sensazioni di anticipazione del rifiuto (soprattutto in un contesto residenziale). Questo è anche associato all'impossibilità di esprimere liberamente la propria identità sessuale e/o di genere, perdendo così opportunità per ricevere o provvedere con cure e supporto adeguati alle proprie esigenze. Ciò può avere conseguenze importanti sulla salute, così come anche i fattori di stress a cui le persone LGBTQIA+ possono essere soggette a causa della discriminazione (es. isolamento sociale, esperienze traumatiche passate), i quali possono portare ad affrontare nella vecchiaia disparità di salute rispetto alle controparti eterosessuali e cisgender. A questo spesso si aggiunge la mancanza di supporto e di cura duranti gli anni avanzati a causa della solitudine - invecchiando senza figli o per l’assenza di altri rapporti familiari, avendo, ad esempio, relazioni tese con le proprie famiglie.
Vediamo così gli effetti dei i modelli di invecchiamento eteronormativi e come questi non siano adatti alle specifiche esigenze delle persone anziane LGBTQIA+ e siano, anzi, segnati da una doppia lente di stigmatizzazione (fobia LGBTQIA+ e discriminazione legata all'età). Il risultato è un'ingiustificata invisibilità, che è incompatibile con la creazione di ambienti formali e informali che promuovano un invecchiamento positivo e la lotta contro la solitudine e l'isolamento sociale
Per contrastare i modelli di invecchiamento eteronormativi, dunque, è importante rispondere con politiche sociali mirate - ed informate da indagini sulle reali esigenze delle persone LGBTQAI+ anziane - che possano offrire un’alternativa. Ad esempio, si potrebbe sfidare discriminazione e invisibilità tramite servizi di cura e organizzazioni comunitarie che lavorino per promuovere i diritti delle persone LGBTQIA+, basandosi sui principi della partecipazione attiva e del cambiamento sociale. Inoltre, occorrerebbe offrire alla popolazione LGBTQIA+ anziana sempre più protezione dalla discriminazione verso l'accesso alle cure sanitarie fisiche e mentali.
Attraverso queste reti di sostegno, possono essere resi sempre più frequenti anche esiti di salute positivi nella tarda età. In particolare, i percorsi di resilienza in cui risorse psicologiche (ad esempio, una valutazione positiva dell'identità) e risorse sociali (ad esempio, il senso di appartenenza sociale) svolgono un ruolo chiave. Infatti, lo sviluppo della resilienza proprio nei confronti dei fattori di stress causati da marginalizzazione dovuta dall’eteronormatività, può servire in età avanzata con riscontrati benefici. Questi includono: elevati livelli di autostima e di speranza, associati a una migliore qualità dell'esperienza di vita e una migliore salute mentale.
Come scrisse in A Burst of Light Audre Lorde - donna nera queer che dedicò gran parte della sua vita e di sé all'attivismo per i diritti civili:
Caring for myself is not self-indulgence, it is self-preservation, and that is an act of political warfare.
Prendermi cura di me stessa non è autoindulgenza, è autoconservazione, e questo è un atto di guerra politica.
D’altronde, per molte persone anziane LGBTQIA+, mantenere la capacità di affrontare situazioni difficili e adattarsi a contesti ostili, con l'obiettivo di migliorare la loro resilienza nelle fasi più avanzate della vita, può comportantare l'opportunità di creare legami con famiglie scelte e di partecipare a gruppi comunitari o sottoculturali.
È tempo di dare voce e spazio a queste realtà già esistenti e vissute dalle persone anziane LGBTQIA+. Le loro storie possono essere fonte di ispirazione per le generazioni più giovani. Dunque, parallelamente all'elaborazione di politiche sociali, è fondamentale che queste alternative possano diventare parte dell'immaginario collettivo, in modo tale che la stessa società possa contribuire a generarle.
Rappresentazione, la Miccia dell’Immaginazione:
Non vediamo persone della nostra comunità che hanno raggiunto la prosperità in età avanzata. Oltre alla rappresentazione, le connessioni, la comunità e le relazioni sono essenziali. Le loro vite sono storie di icone straordinarie e modelli grazie ai quali si sono aperte le porte per tante persone queer delle generazioni più giovani. Ma è altrettanto straordinario come queste siano interdipendenti al successo altrui.
I modelli di invecchiamento tradizionali spesso non tengono conto delle esigenze uniche delle persone anziane LGBTQIA+. Questo significa che non ricevono il sostegno di cui hanno bisogno per invecchiare positivamente. È raro vedere persone anziane nella nostra comunità LGBTQIA+ che hanno raggiunto il successo nella vita. Questo può farci sentire come se non ci fosse un futuro per noi dopo una certa età.
Rappresentare le vite di persone anziane LGBTQIA+ è importante perché queste storie possono essere fonte d'ispirazione per le generazioni più giovani. Perché, spesso, sono storie di coraggio, resilienza e amore che hanno aperto le porte per molte persone queer più giovani. Queste storie ci mostrano che è possibile invecchiare con dignità. Nonché provare orgoglio - appunto, “pride” - per la conduzione della vita in maniera autentica, nonostante le difficoltà di ciò che questo possa comportare, perchè ne vale la pena.
Tuttavia, la mancanza di rappresentazione è spesso il risultato della discriminazione che le persone anziane LGBTQIA+ affrontano, e che ha contribuito a renderli invisibili e emarginati. La nostra comunità ha bisogno di più di una semplice rappresentazione nelle storie di successo; abbiamo bisogno di connessione, comunità e relazioni significative.
Le due cose possono andare di pari passo, facendo sì che ci si riesca ad immaginare un futuro in cui tutte le persone LGBTQIA+ possano invecchiare con dignità e felicità, senza paura di essere discriminate, marginalizzate o isolate.
Qui, può entrare in gioco il concetto di "queer family", che ha recentemente preso spazio nell’immaginario comune. Un termine reso noto a livello mainstream nel contesto italiano dalla scrittrice e attivista italiana Michela Murgia e che riconosce che le famiglie LGBTQIA+ spesso si definiscono attraverso legami affettivi e di supporto che possono essere diversi da quelli tradizionali. Nelle famiglie queer, l'importanza non è solo data dai legami biologici, ma anche dalle relazioni e dalle connessioni che creiamo con coloro che ci sono vicini. Queste famiglie possono includere amici stretti, partner, ex partner, mentori, e altre persone che sono diventate parte integrante delle nostre vite. Rappresenta, quindi, un esempio di uno sforzo d'immaginazione verso le alternative possibili di una vita che vada oltre il modello eteronormativo, andando ad includere le speranze di chi da questo modello rimane estromesso.
Non vediamo persone della nostra comunità che hanno raggiunto la prosperità in età avanzata. Oltre alla rappresentazione, le connessioni, la comunità e le relazioni sono essenziali. Le loro vite sono storie di icone straordinarie e modelli grazie ai quali si sono aperte le porte per tante persone queer delle generazioni più giovani. Ma è altrettanto straordinario come queste siano interdipendenti al successo altrui.
Quando parliamo di rappresentazione per le persone anziane LGBTQIA+, non stiamo cercando solo storie di successo individuali, ma anche la rappresentazione di queste alternative, nonché storie di resilienza, di amore e di comunità. Sono storie che ci insegnano che il sostegno reciproco, l'amore non convenzionale e le connessioni autentiche possono essere le vere chiavi per invecchiare con felicità nella comunità LGBTQIA+.
Maria Alessandra Panzera nasce a Milano e vive a Londra. Ottiene una laurea triennale in “Law and Social Anthropology” presso la SOAS, University of London e, attualmente, svolge un Master in “International Social and Public Policy” alla London School of Economics and Political Science. È ricercatrice presso Milano Invisibile, un progetto di divulgazione sociale che si occupa di portare alla luce argomenti legati alla marginalizzazione. È anche un’artista emergente di poetica e narrativa e condivide i suoi testi come lettrice per eventi Open mic e di Spoken word, spesso anche in luoghi promotori di tematiche che coinvolgono la comunità Queer.
Puoi scriverle una mail e seguirla su Instagram.
FATTO DA NOI
È in uscita per Nero TechGnosis. Mito, magia e misticismo nell’era dell’informazione, classico di Erik Davis tradotto dalla nostra Francesca. Si preordina qui.
Marzia ha pubblicato il suo lavoro di tesi dottorale su Amelia Rosselli e Patrizia Vicinelli trasformandolo in un libro di cui si può leggere un estratto su Neutopia; nel frattempo è uscito anche il suo lavoro di traduzione di Bi di Julia Shaw per Oscar Vault. Sulla rivista rumena Echinoz hanno anche pubblicato un’intervista sul suo lavoro come poeta translingue.
FATTO DA VOI
Sofia Racco ha visto l’ultimo film di Hayao Miyazaki e ne scrive su Cinefilia Ritrovata.
Oggi è Halloween: quale migliore occasione per leggere, nella newsletter Femminile, Singolare di FilmTV, un pezzo sulla figura della strega nel folk horror scritto da Cristina Resa?
Esce per Electa Dolce o violenta che sia. Elena Gianini Belotti, scritto dalla nostra amica Carlotta Cossutta.
Giorgia Maurovich ha scritto sulla letteratura di Annie Ernaux come campo di battaglia tra classi sociali per Il Tascabile.
UN LIBRO
Un dettaglio minore, di Adania Shibli (La nave di Teseo, 2021, traduzione di Monica Ruocco)
Riproponiamo il nostro commento a questo romanzo, apparso nel numero di maggio 2021, a seguito del rinvio a data da destinarsi del premio che l’autrice, palestinese, avrebbe dovuto ricevere in occasione della Fiera del Libro di Francoforte appena conclusasi. Non ci sfugge l’ironia involontaria della cancellazione di fatto della presenza di Shibli – un atto che, proprio come avviene nel romanzo, occulta il soggetto palestinese parlante. Questa meschinità travestita da senso di opportunità ci indigna, e la recente recrudescenza della lunga, insopportabile violenza coloniale a danno della popolazione palestinese non ha ai nostri occhi alcuna giustificazione.
A questo link puoi trovare alcuni libri sulla questione palestinese che la casa editrice inglese Verso Books ha messo a disposizione gratuitamente in formato digitale. Qui puoi scaricare, sempre gratis, Dieci miti su Israele dello storico Ilan Pappé.
Inoltre, la libreria indipendente di Milano Alaska ha organizzato una maratona di lettura da Un dettaglio minore per il prossimo 2 novembre. Tutti i dettagli qui.
[Alt Text: la copertina in monocromia verde acido di Un dettaglio minore raffigura le tracce di un veicolo che attraversano un territorio desertico fino a scomparire all’orizzonte.]
Il fatto al centro del terzo romanzo della scrittrice palestinese Adania Shibli, Un dettaglio minore, si riassume in poche parole: nel 1949 una giovane beduina viene rapita da una piccola truppa israeliana impegnata in operazioni di sorveglianza del confine tra Israele ed Egitto, nel deserto del Negev. Dopo una breve e umiliante prigionia i militari violentano e uccidono la ragazza, per poi gettarne il cadavere in un pozzo. La domanda che il romanzo pone è invece: in quanti modi può essere raccontata questa vicenda? La testata israeliana Haaretz la racconta con un titolo a effetto e molti particolari, spiegando che la rimozione anche violenta dei beduini dall'area interessata era prassi comune per impedire l'arrivo di possibili infiltrati dall'Egitto e rafforzare il controllo sul confine. All'interno del pezzo viene anche citato il resoconto dell'ufficiale che ordinò l'esecuzione della ragazza, quattro righe sbrigative che liquidano la faccenda così:
Durante la mia pattuglia, ho incontrato degli arabi nel territorio sotto il mio controllo, uno dei quali armato. Ho ucciso subito l'arabo armato e ho preso possesso della sua arma. Ho imprigionato la donna araba. La prima notte i soldati l'hanno violentata e il giorno successivo ho ritenuto opportuno farla sparire.
Alla maniera giornalistica, Haaretz riporta gli eventi con sufficiente oggettività e restituisce una narrazione unitaria, supportata da testimonianze e senza crepe. Non è così per Shibli, che invece frattura la storia e ne dà due versioni. La prima parte del romanzo segue il capitano della truppa dall'installazione dell'accampamento all'esecuzione dell'omicidio, con una scrittura che imita la brevità metodica del rapporto originale citato da Haaretz. La seconda parte si concentra su un'anonima ragazza di Ramallah che molti anni dopo legge l'articolo pubblicato sul quotidiano e intraprende un viaggio in auto verso il deserto del Negev e l'insediamento di Nirim, alla ricerca della "verità assoluta sulla storia di questa ragazza, che l'articolo non rivela". Questa divisione ricalca quella tra israeliani e palestinesi, tra sopraffazione e paura, tra la supremazia dei militari armati e le possibilità di resistenza dei civili, e ne rispetta l'asimmetria. I due tronconi del romanzo differiscono enormemente, soprattutto per sforzo introspettivo e andamento della narrazione, perché non può esserci paragone tra l'esperienza di un ufficiale israeliano, incaricato di mantenere il controllo di un territorio a qualunque costo, e quella di una giovane ricercatrice palestinese, costretta a usare i documenti di una collega per spostarsi all'interno del paese e sempre ansiosa di essere scoperta e punita. Allo stesso tempo, però, queste due esperienze avvengono negli stessi luoghi, in una terra che sia palestinesi che israeliani hanno abitato e continuano ad abitare, e dunque il romanzo è attraversato da alcuni elementi che ricorrono in entrambe le parti (un cane che ulula, l'odore della benzina, le alture sabbiose), mantenendo visibile il legame fra le due storie e agendo, nella ripetizione, da moltiplicatori di orrore ma anche da sinistri presagi.
Spingersi verso il Negev per investigare un episodio avvenuto settant'anni prima significa interrogare lo stesso atto fondativo di Israele. L'area desertica del Negev fa parte del territorio dello stato sin dalla sua creazione, avvenuta appena un anno prima dell'uccisione della beduina e caratterizzata da altrettanta brutalità: la ricorrenza della Nakba ("catastrofe") ricorda ogni 15 maggio proprio la violenta espulsione di settecentomila palestinesi dalle loro città e dai loro villaggi, nei quali a tutt'oggi non hanno il permesso di fare ritorno. La singola sparizione di una ragazza, scaraventata dai soldati in un pozzo che la terrà per sempre nascosta, contiene in sé la sparizione della maggioranza della popolazione nativa, che quegli stessi soldati hanno sospinto fuori dai confini di uno stato in cui non è mai più stata desiderata né accolta, ma neppure ricordata (nel 2011 il parlamento israeliano ha approvato una legge che prevede tagli dei finanziamenti pubblici a gruppi e associazioni che organizzino o prendano parte a eventi e attività tesi a negare la legittimità dello stato di Israele, e tra queste attività figura anche la commemorazione della Nakba).
[Alt Text: cartina dei territori palestinesi suddivisi nelle zone determinate dagli accordi di Oslo. La ragazza parte da Ramallah, che si trova nella zona A, e deve arrivare a sud, al confine con l'Egitto. Fonte.]
Lo sdoppiamento del punto di vista non riguarda l'inconoscibilità, se non l'inesistenza, del vero. Se proprio, dimostra che il vero che si afferma, diventa narrabile e nell'iterazione del racconto continua a consolidarsi è prima di tutto una questione di rapporti di forza. Per la Palestina come per tutte le terre colonizzate, sono la relazione verticale tra oppressore e oppresso e quella orizzontale tra Israele e i suoi alleati a modellare una realtà in cui la verità sionista schiaccia e annulla quella palestinese, riducendola a bugia, minuzia, per l'appunto dettaglio. La continua predazione ai danni del popolo palestinese viaggia su due binari: quello materiale della terra, occupata e nel tempo disgregata in bantustan che mai potranno essere stato unitario, e quello discorsivo della possibilità di narrarsi che Edward Said descrive ne La questione palestinese (1992). Servendosi delle tesi già elaborate nel suo Orientalismo (1978), secondo cui uno dei fattori chiave della legittimazione di pratiche coloniali e imperialiste è la narrazione prodotta dalle potenze occidentali attorno ai paesi e ai popoli sfruttati, Said osserva come la prospettiva sionista sia diventata maggioritaria, e per questo sia finita per coincidere con quella adottata dall'Occidente liberale. Col passare del tempo il sionista è infatti riuscito a diventare "l'unica persona in Palestina", e lo ha fatto grazie alla riproposizione di vecchi stereotipi negativi sull'arabo/palestinese ("orientale, decadente, inferiore") e alla continua repressione interna. Non è un caso che il controllo sul dibattito pubblico in Israele e nei suoi più prossimi alleati sia ancora oggi ferreo, come dimostrano l'intransigenza verso i maggiori movimenti per i diritti del popolo palestinese o le numerose restrizioni in fatto di libertà accademica (in questo senso è esemplare la vicenda dello storico israeliano Ilan Pappé, allontanato dalla sua università per aver inquadrato la Nakba come atto di pulizia etnica).
L'impronta gramsciana nel pensiero di Said gli permette di intuire che l'egemonia sionista ha anche a che vedere con queste "manovre di ostruzione" tra i palestinesi e il mondo, e che "la questione della rappresentazione", tutt'altro che astratta, ha delle gravi ricadute politiche. La mancata rappresentazione è per esempio la ragione per cui l'Occidente tende a considerare i palestinesi come vittime inermi a cui mandare aiuti umanitari, anziché un popolo oppresso da affiancare nella sua lotta per la liberazione. O per cui i rappresentanti palestinesi sono spesso esclusi dai tavoli delle trattative, come Said stesso nota ancora in Who would speak for the Palestinians?, un breve testo del 1985 (poi incluso nel volume The Politics of Dispossession: The Struggle for Palestinian Self-Determination: 1969-1994) in cui commenta dei tentativi di negoziazione tra Giordania, Israele e Palestina, trovandoli assai sbilanciati a sfavore di quest'ultima.
C'è una costante nel racconto della questione palestinese: lo elabora Israele, lo accoglie un Occidente ignaro o indifferente alla sua parzialità, ed entrambi tentano di imporlo ai palestinesi. La ragazza di Ramallah si dirige verso il Negev proprio perché rifiuta la storia ufficiale dell'omicidio della beduina, che immagina inattendibile proprio come tutte le altre storie ufficiali sugli omicidi perpetrati ai danni del suo popolo, e per questo avverte la responsabilità di scoprire quella autentica. Ma il suo viaggio si rivela erratico e difficile non soltanto per la divisione militarizzata del territorio, che dilata il tempo necessario per gli spostamenti e punteggia il tragitto di tappe e checkpoint che non è affatto scontato riuscire ad attraversare, ma anche per la dissonanza cognitiva ormai integrata nell'esperienza del palestinese, continuamente definito da parole che non riconosce come proprie. Mentre il resoconto fornito adottando il punto di vista dell'ufficiale israeliano è distaccato e non si attiene che ai fatti, la quest della ragazza di Ramallah ha a che vedere con l'urgenza di cercare una verità a oggi ignota, che di certo un quotidiano israeliano non saprà mai raccontare. Pertanto, non ha alcun fatto accertato da registrare: solo dubbi, ricerche che conducono a luoghi ormai scomparsi, vicoli ciechi e buchi nell'acqua. Tra la morte della ragazza beduina e la pubblicazione dell'articolo sono trascorsi decenni di distruzioni: di territori, di palazzi, di famiglie – e dell'indigeno. La ragazza di Ramallah attraversa il paese e attraversa la storia, districandosi tra omissioni e riscritture, proprio per ritrovare nella beduina l'indigeno ancora integro, ancora soggetto, non ancora argomento di cui parlare o ingombro di cui disporre. Ma quell'indigeno non esiste più.
La costruzione di una storia ufficiale in grado di supportare rivendicazioni nazionalistiche e coloniali prevede anche un intervento mirato sul territorio, perché è lì che si trovano le prove della legittimità delle pretese sioniste. Questo è il motivo per cui, per esempio, la ricerca archeologica ha rivestito un ruolo essenziale nella moderna mitopoiesi della terra promessa, ed è stata a lungo finanziata dall'IDF e promossa dai mezzi di informazione. Inoltre, mentre sin dalla fine del XIX secolo gli scavi portavano alla luce manufatti, necropoli e luoghi di culto che sempre di più ancoravano il popolo alla terra, già a partire dai primi insediamenti e in modo definitivo dopo la creazione dello stato di Israele nel 1948 quella stessa terra subiva una trasformazione topografica, che sostituiva i nomi di villaggi, città, fiumi, montagne – e di fatto annientava la storia della presenza della popolazione indigena. Se vuole arrivare a Nirim, la ragazza di Ramallah deve portare con sé più cartine geografiche, per orientarsi nelle quattro zone del territorio palestinese e per poter confrontare la Palestina di allora con quella di oggi. Ma tra le cartine non c'è alcuna corrispondenza, a conferma della violenza dell'occupazione che tutto distrugge.
Apro di nuovo la carta della Palestina del 1948 e faccio scorrere lo sguardo sui nomi dei numerosi villaggi palestinesi distrutti quello stesso anno dopo l’espulsione dei loro abitanti. Ne riconosco molti, alcuni dei miei colleghi e conoscenti sono originari di lì [...]. Guardo di nuovo la carta israeliana. Una grandissima zona verde, il Canada Park, copre l’area dove si trovavano tutti quei villaggi palestinesi.
In più occasioni la ragazza consulta le cartine per cercare centri abitati o determinare la propria posizione, ma le mappe israeliane, così come il quotidiano Haaretz, non sono state scritte per lei e dunque non possono esserle di alcun aiuto. Ciò che tutti sanno del Negev – ciò che è sopravvissuto nel ricordo collettivo e non è rimasto sullo sfondo come dettaglio minore – non è che nel 1949 alcuni militari israeliani stuprarono e uccisero una ragazza del posto, bensì che tre anni prima vi erano sorti undici insediamenti che avrebbero permesso di includere l'area nel futuro stato di Israele. Allo stesso modo, ciò che occorre sapere del territorio palestinese – i confini, la divisione in zone, la nuova topografia – è ora riportato solo sulle cartine israeliane che però nulla raccontano del prima, che nemmeno riconoscono l'esistenza di un prima.
[Alt Text: mappa del villaggio palestinese di Jimzu, che fu distrutto come molti altri nel 1948, disegnata a mano e seguendo i propri ricordi da Ahmed Issa Ibrahim, uno dei suoi abitanti. Poco dopo la demolizione del villaggio, nella stessa area fu creato un insediamento, per cui questa mappa, che naturalmente mantiene i nomi arabi, non ha più una corrispondenza reale. Fonte.]
C'è allora un'ineluttabilità tragica nel destino della ragazza, ed è lampante nel momento in cui, attirata da un dettaglio minore (la giovane beduina è morta esattamente venticinque anni prima della sua nascita), si mette alla ricerca di una donna che decenni di caparbia storiografia ufficiale si sono impegnati per far scomparire, in un luogo che altrettanti decenni di occupazione hanno trasfigurato e reso irriconoscibile. Con simili premesse, la sua missione non può che fallire ancor prima di avere inizio. Come si può trovare qualcosa che è svanito da tempo? Se una "verità assoluta" sulla tragedia della beduina assassinata esiste, se ne esiste una sulla catastrofe del 1948, è che ogni tentativo di risalirvi non può che condurre alla presa di coscienza dell'impossibilità di farlo. La creazione di una storia egemone è un processo sempre in corso, un'opera che non può permettersi di arrivare a una conclusione ma deve continuamente occuparsi di riaffermare, mistificare ed escludere ogni elemento eversivo. E proprio tra questi ingranaggi così ben oliati la vicenda della ragazza, così come quella della beduina, dovrà scomparire.
Let's Scare Jessica to Death: sulla soggettività nel cinema dell’orrore
di Cristina Resa
[Alt Text: Foto dal set di Let’s Scare Jessica to Death. Zohra Lampert è appoggiata a una parete in legno, con lo sguardo rivolto verso l’alto. Indossa un costume da bagno, tiene la bocca socchiusa come per prendere fiato, i suoi capelli sono bagnati, è sporca di terra e ha una piccola ferita al collo che sanguina. Fonte.]
“Come la maggior parte delle donne appassionate di horror, le persone amano chiedermi cosa mi dà il genere. Io rispondo sempre in modo convenzionale: catarsi, emancipazione, evasione e così via. Meno facile da spiegare è il fatto che preferisco i film che mi devastano e mi stravolgono completamente: un buon film horror mi fa più spesso piangere che rabbrividire” scrive Kier-La Janisse nell’introduzione del suo libro House of Psychotic Women, uscito nel 2012 e ripubblicato nel 2022, a dieci anni di distanza, in un’edizione rivista ed estesa. Critica cinematografica, produttrice, selezionatrice per importanti festival, fondatrice del Miskatonic Institute of Horror Studies, autrice del colossale documentario sul folk horror Woodlands Dark and Days Bewitched (2021), Janisse è un nome di spicco della critica britannica, soprattutto quando si parla di cinema di genere. Il suo lavoro più noto, appunto House of Psychotic Women, è esattamente quello che recita il suo sottotitolo: An Autobiographical Topography of Female Neurosis in Horror and Exploitation Films, “una topografia autobiografica della nevrosi femminile nei film horror e d'exploitation".
Si tratta di una sorta di ibrido tra un saggio di critica cinematografica e un memoir, in cui Kier-La Janisse riflette, in modo audace, appassionato e lucido, sul tema della salute mentale e sulla sua esperienza personale in diversi momenti della vita attraverso l’analisi di un corpus di film che hanno avuto un forte impatto su di lei. Allo stesso tempo, l’analisi funziona anche nella direzione opposta e House of Psychotic Women prende la forma di uno studio sulle protagoniste di questi film, osservate attraverso una lente autobiografica.
Questo approccio - oggi comune nel contesto critico anglosassone, ma inusuale nel periodo in cui Janisse pubblicava il libro - ci mette di fronte a una serie di questioni: considerando che la critica teorica non può fermarsi a mere considerazioni su forma e linguaggio, ma è necessario che tenga conto del contesto storico, sociale, antropologico e psicologico, in che modo l’esperienza personale e le diverse risposte emotive hanno un impatto sull’analisi di un film? Quando la persona che si occupa di critica deve mettere distanza tra sé e l’opera? Come il modo in cui percepiamo i film li rende quello che sono oggi? Le storie, d’altronde, sono vive e nel momento che escono dalla mente di chi le ha create, cambiano forma, si trasformano, moltiplicano i loro significati a seconda degli sguardi che ci si posano sopra.
È un po’ quello che facciamo quando utilizziamo gli strumenti della critica cinematografica femminista, quelli elaborati da studiose come Laura Mulvey, che non a caso traggono origine da un contesto psicoanalitico: tracciamo percorsi tra quello che vediamo sullo schermo e quello che ci accade intorno, ma anche dentro di noi. Ci interroghiamo sui meccanismi della rappresentazione e leggiamo le storie attraverso una lente che mette in evidenza alcuni elementi, permettendoci di unire i significanti ai significati, creare connessioni e capire il contesto che ha prodotto quelle storie, ma anche come le stesse storie siano in grado di creare nuovo contesto. Queste opere, le opere in generale, sia narrative che figurative, non hanno mai valore in sé, hanno valore all’interno di un sistema codificato. Il codice, come sempre, lo definiamo noi. Così, in un mondo ossessionato dal mito dell’oggettività, la soggettività non solo può essere veicolo del discorso critico, ma può aprire prospettive inedite. La cosa vale in particolare per il cinema dell’orrore, forma espressiva che si costruisce per definizione intorno a sentimenti viscerali quali paura, terrore, disgusto, che si traducono anche in reazioni corporee da cui è difficile prendere le distanze. E perché farlo, poi, considerando che rappresentano tratti distintivi del genere?
[Alt Text: la copertina della nuova edizione di House of Psychotic Women (Expanded, 2022) di Kier-La Janisse. Marina Pierro in una foto tratta da Docteur Jekyll et les femmes di Walerian Borowczyk si tiene le mani sul volto. Al dito medio della mano sinista indossa un grosso anello. Fonte].
Scrive Julie Tharp in When the Body Is Your Own: Feminist Film Criticism and the Horror Genre, capitolo sul cinema di un saggio collettivo che tratta della scrittura autobiografica applicata a diverse discipline:
In realtà i film horror educano lo spirito critico, perché prendono le nostre emozioni grezze e le portano a un’intensità tale da costringerci a una distanza critica o a dover affrontare una sorta di morte simbolica. [...] Se i film horror ci insegnano effettivamente a trasformare l'emozione cruda in distacco critico, insegnano anche altre forme di analisi critica. [...] Se molte donne vittime di violenza dispongono di una capacità di analisi e di una sensibilità più sviluppate nei confronti della violenza mediatica, ciò suggerisce che queste donne possono instaurare un rapporto molto più profondo con i corpi rappresentati sullo schermo, sia comprendere meglio le dinamiche di dominio che vi sono messe in atto. L'identificazione, in altre parole, non è in contrasto con il pensiero critico.
Guardare horror e identificarsi con il genere femminile o appartenere a categorie marginalizzate significa spesso scendere a patti con la possibilità di riconoscere il proprio corpo in quello martoriato delle vittime designate, scelte seguendo logiche commerciali che si sono trasformate via via in convenzioni formali. I personaggi femminili sono spesso prigionieri di quelle convenzioni, rinchiusi in modelli fissi che tengono a reiterare i rapporti di potere del patriarcato. Naturalmente, questo accade in modo particolare nel cinema d’exploitation, che è oggetto della trattazione di Janisse. Con il termine “exploitation”, traducibile con “sfruttamento”, si definisce un modello di produzione a basso budget emerso molto presto nella storia del cinema ma diventato popolare soprattutto tra gli anni ‘60 e gli anni ‘70, orientato a offrire al pubblico emozioni forti, che “non potevano ottenere altrove: sesso, violenza e argomenti tabù”. Il pubblico destinatario, inteso come consumatore ideale di cui intercettare i desideri, sguardo agente della narrazione, era chiaramente maschile, come evidenziato da Laura Mulvey nel seminale saggio Visual Pleasure and Narrative Cinema, mentre i personaggi femminili costituivano un oggetto passivo. Questa posizione, utile a far emergere come lo sguardo maschile sia da sempre dominante nell’industria dell'intrattenimento, venne riconsiderata parzialmente da Mulvey nei saggi successivi perché, di fatto, non teneva conto di una verità incontrovertibile: le spettatrici esistono, sono sempre esistite, così come le autrici horror, e ognuna di esse sviluppa un rapporto stretto e personale con il mezzo e la materia narrativa.
Come scrive Julie Tharp:
Il baluardo ideologico del cinema horror è, tuttavia, viziato da un desiderio storicamente fondato. Il pubblico reale genera contraddizioni nei film che chi approccia criticamente un testo, vincolato ad alcuni principi ideologici, non può percepire. [...] I film horror offrono anche alle donne la possibilità di generare contraddizioni e di sperimentare direttamente qualcosa di diverso dai “modelli conformi’.
Questa è un po’ la strada percorsa da Kier-La Janisse in House of Psychotic Women, dove la critica da una parte si concentra sull’analisi dei film horror d’exploitation, perché si tratta del suo campo di studi, dall’altra sceglie di dedicarsi all’analisi della rappresentazione della nevrosi in tali film perché, ancora una volta, “è quello che sa”. Ma c’è un terzo motivo che rende questo lavoro critico interessante a più livelli.
Scrive Kier-La Janisse:
Abbiamo più pazienza, o forse empatia, per i personaggi di fantasia rispetto alle loro controparti della vita reale. Di fronte alla nevrosi nel cinema o nella letteratura, vogliamo indagare piuttosto che evitare.
“Empatia”, qui, sembra una parola chiave. La capacità di comprendere e partecipare all'esperienza altrui, pur non vivendola in prima persona, rappresenta un aspetto importante del modo in cui il pubblico si relazione a una qualsiasi forma d’arte. È un discorso complesso, perché, come scrive Jane Stadler nel capitolo dedicato al cinema in The Routledge Handbook of Philosophy of Empathy:
La critica cinematografica contemporanea non è molto d’accordo sul modo di differenziare il concetto di empatia da termini correlati come la simpatia, l’esperienza vicaria e la simulazione incarnata e immaginativa che le narrazioni cinematografiche permettono, la condivisione involontaria di stati emozionali attraverso il contagio emotivo, la deliberazione etica spesso coinvolta nell’assumere una determinata prospettiva o le emozioni morali come la compassione.
Tuttavia, in questo contesto, ci è utile la definizione che in Self and Other: Exploring Subjectivity Empathy and Shame ne dà il filosofo Dan Zahavi, secondo cui l’empatia ci permette di fare “l’esperienza dell’incarnazione della mente altrui, un’esperienza che, anziché eliminare la differenza tra la propria e quella di altre persone, considera l’asimmetria un elemento esistenziale necessario e costante”. È proprio questo che succede quando ci troviamo di fronte al racconto di un vissuto che non è il nostro, al di là della possibilità di riuscire a identificarci o meno. Indagare sia attraverso la letteratura che il cinema, la psicologia di personaggi immaginari alla cui esistenza, in fondo, compartecipiamo, ha implicazione di tipo sociale, ci aiuta non solo nella comprensione di altre esperienze, ma anche nella lettura dei diversi strati di significato dell'opera e del suo contesto.
[Alt Text: la locandina di Let's Scare Jessica to Death. L’illustrazione ritrae una donna che siede su una barca e solleva con due mani un arpione, pronta a colpire, mentre dal lago due mani scheletriche afferrano l’imbarcazione. Fonte]
La posizione di confine tra compartecipazione emotiva, compassione ed esperienza vicaria diventa fondamentale nella lettura critica, ma per certi versi anche semplicemente per la visione di opere come Let's Scare Jessica to Death, adattato in italiano con il titolo La morte corre incontro a Jessica, horror del 1971 diretto da John Hancock, regista teatrale al suo debutto al cinema, co-scritto insieme a Lee Kalcheim.
Relativamente poco noto persino al pubblico che ha una certa dimestichezza con il genere, Let's Scare Jessica to Death è stato derubricato a B-movie poco riuscito nella maggior parte delle recensioni dell’epoca. In effetti, molte opere hanno bisogno di uscire dal proprio contesto culturale per essere, realmente, “viste”, e già le modalità di promozione del film, il suo essere una produzione a basso budget, l’illustrazione macabra della locandina coerente con le consuetudini promozionali dell’epoca, il titolo ironico con chiari riferimenti alla morte, richiamano subito alla mente un tipo di cinema dai toni espliciti, ma anche di puro intrattenimento. Al contrario, il lungometraggio di Hancock, sembra avere, sia a livello tematico che formale, molto più in comune con film come Rebecca (1940) di Alfred Hitchcock e The Innocents (1961) di Jack Clayton, che con quelli che ci aspetteremmo di vedere nelle Grindhouse degli anni ‘70. Questa osservazione, ci tengo a precisarlo, non ha a che fare con giudizi qualitativi su una modalità di mettere in scena l’orrore rispetto a un’altra, ma al contrario sottolinea l’incredibile varietà che caratterizza il cinema d'exploitation.
Let's Scare Jessica to Death, in ogni caso, ha subito, come spesso accade, una rivalutazione a posteriori: ha goduto di una certa fortuna nella TV statunitense alla fine degli anni ‘70 e all’inizio degli ‘80, dove veniva trasmesso con una certa regolarità, guadagnandosi la reputazione di cult movie, mentre in anni recenti è stato oggetto di una riscoperta da parte della critica specializzata, in parte grazie ad alcune recensioni retrospettive. Ne scrive in modo estremamente positivo, per esempio, il critico John Kenneth Muir nella suo volume enciclopedico Horror Films of the 1970s (2007), soffermandosi sulle strategie che Hancock mette in atto per spaventare: non suscitando nel pubblico reazioni forti, utilizzando l’elemento grottesco, attraverso il trucco, gli effetti speciali e le svolte narrative scioccanti, ma coinvolgendolo emotivamente attraverso un uso sapiente di strumenti e meccanismi propri del linguaggio audiovisivo, come il suono, il montaggio, la scelta del punto di vista dal quale narrare una storia.
Scrive, a questo proposito, Muir:
Esiste un altro modo per spaventare. È più difficile e, in ultima analisi, più soggettivo, poiché coinvolge gli elementi di matericità, sentimento e stato d'animo. Let's Scare Jessica to Death è forse uno dei migliori esempi di questo approccio complesso. La storia del film ha poco senso se presa nel suo insieme; ci sono poche scene "d'azione" drammatiche (a parte una raffinata "sferzata" iniziale) e ancora meno effetti speciali. Eppure il film è, nel senso migliore del termine, inquietante. È un'opera piccola e spaventosa, che si insinua sotto pelle e mette a disagio quasi all'istante.
Torna, ancora una volta, il concetto di soggettività in un discorso critico. Torna, in questo caso, soprattutto in relazione allo sguardo. La cosa che stupisce di Let's Scare Jessica to Death, appunto, è che la scelta di un preciso punto di vista non rappresenta un mero espediente narrativo, ma l’elemento attraverso cui il film assume senso.
[Alt Text: Foto dal set di Let’s Scare Jessica to Death. Al tramonto, Zohra Lampert siede su una barca in mezzo al lago, a pochi metri dalla riva. Fonte.]
“Siedo qui e non posso credere che sia successo. Eppure ci devo credere. Sogni o incubi? Follia o sanità mentale. Non so cosa sia cosa” dice la voce fuori campo di Jessica, interpretata da Zohra Lampert, mentre giace su una piccola barca a remi nel bel mezzo della baia, da sola, al tramonto. La prima inquadratura ci proietta in avanti nel tempo e ci anticipa l’epilogo, mostrandoci sia la fragilità - non posso credere - sia la determinazione - ci devo credere - della protagonista che dà il titolo al film. Allo stesso tempo, ci dà subito alcune informazioni fondamentali: sarà Jessica a raccontarci la sua storia. Anzi, in realtà, saremo noi a viverla da una prospettiva interna, ancora una volta, soggettiva.
Hancock costruisce il mondo interiore di Jessica e lo rende visibile, percepibile, ascoltabile, grazie all’uso della voce fuori campo della protagonista, che esprime i suoi pensieri e le paure, in particolare quella di non essere creduta. Dopo la morte del padre, a causa di quello che forse oggi potremmo considerare un disturbo post-traumatico, Jessica ha passato sei mesi in una clinica psichiatrica e all’inizio della narrazione è stata appena dimessa. Nel tentativo di cercare stabilità per Jessica, suo marito Duncan (Barton Heyman) violoncellista della Filarmonica di New York, decide di lasciare tutto e comprare un terreno su un isolotto nel Connecticut, facendosi accompagnare dall’amico Woody (Kevin O’Connor) per avviare un’azienda agricola. Non sappiamo quale sia la diagnosi di Jessica. Sappiamo solo che vede e sente delle cose fuori dall’ordinario, perché le vediamo e sentiamo anche noi. Allora dubita di se stessa, reprime costantemente le manifestazioni esteriori dei suoi pensieri e le sue paure, continua a ripetersi nella testa: "Non dirglielo, non ti crederanno".
Una delle sequenze iniziali, in questo senso, colpisce particolarmente per la sua semplicità e la capacità di rendere tangibile questo disagio. Jessica è appena arrivata alla fattoria con Duncan e Woody. Mentre si avvicina alla casa vittoriana al centro della vicenda, vede una donna seduta su una sedia a dondolo sotto il portico. Jessica cerca con lo sguardo suo marito, alle prese con le valigie, e quando lo rivolge nuovamente verso la casa, la figura misteriosa è sparita. Quando i tre entrano in casa, scorgono una persona correre per le scale. Duncan si volta verso Jessica e dice: “Va tutto bene. L'ho visto anch'io". Jessica, nonostante la preoccupazione di avere una persona estranea che si aggira per la casa, sorride, sollevata. E il suo sorriso, così sincero e solare, ma allo stesso tempo profondamente triste, è disarmante per il pubblico che già da subito compartecipa all’esperienza di Jessica. Questa condizione, è chiaro, ha origini che oltrepassano i limiti temporali dell’intreccio, nasce dal quotidiano della donna, ma via via si esacerba, quando Jessica inizia a vedere una strana ragazza che le appare di tanto in tanto, per poi scappare via; comincia a sentire delle voci che chiamano continuamente il suo nome; si accorge che gli abitanti del villaggio, tutti maschi e di età avanzata, hanno un atteggiamento ostile, presentano strane bende e sembrano nascondere qualcosa. Inoltre, Emily (Mariclare Costello), l’intrusa sconosciuta che Jessica invita a restare per alcuni giorni, assomiglia in modo preoccupante alla figlia dei precedenti proprietari del terreno, Abigail Bishop, annegata nel suo abito da sposa nella caletta dietro la casa. Il suo corpo non è mai stato ritrovato ed è ritenuto, stando al folklore locale, una sorta di vampira.
Zohra Lampert, con il linguaggio del corpo, l’espressione, i gesti, è formidabile nel restituire la complessità di questo personaggio in costante conflitto con se stesso. Un conflitto, tuttavia, che se non creato, è sicuramente alimentato dal modo in cui le persone intorno si rivolgono a lei.
Jessica è costantemente infantilizzata dal marito Duncan e dall’amico Woody, che hanno con lei un atteggiamento paternalistico, iperprotettivo: nel tentativo di prendersi cura di lei, le negano l’occasione di elaborare la propria condizione esistenziale. In sostanza, le impediscono, attraverso un rapporto di totale dipendenza, di autodeterminarsi in qualsiasi modo. Si tratta di un atteggiamento stigmatizzante rivolto spesso alle persone con disturbi psichici. In un certo senso, in Let's Scare Jessica to Death viene messa in scena con intelligenza la differenza che sussiste tra l’avere cura di una persona e il proteggerla: nell’ultimo caso, anche davanti alle migliori delle intenzioni, si instaura un rapporto gerarchico che toglie l'indipendenza a chi è oggetto del tentativo di protezione. Conseguenza di questa infantilizzazione sembra essere anche la desessualizzazione di Jessica agli occhi del marito, così come lo sviluppo del senso di colpa e la conseguente repressione delle emozioni, che Jessica mette in atto quasi per non “deludere” le persone che ama. Noi, come detto, percepiamo tutto questo, attraverso lo sguardo di Jessica, che tuttavia si vede a sua volta come la vedono le persone a lei vicine.
Scrive Kier-La Janisse:
La sua credibilità viene ripetutamente messa in discussione, non solo dagli altri membri della sua famiglia allargata, ma anche da Jessica stessa. Vede delle cose, ma si trattiene dal rivelarle alle altre persone per paura di essere giudicata. [...]. Anche per chi guarda c'è confusione tra le voci fuori campo che appartengono a Jessica e quelle delle forze soprannaturali con cui è apparentemente in sintonia.
Così, via via che la narrazione procede, più che vedere Jessica, la “sentiamo”, avvertiamo cosa prova mentre la sua voce interiore si confonde con altre, quelle che forse immagina o forse no. Perché, ancora non l’ho detto, quella di Jessica è una storia di fantasmi e vampiri. Lo è sia letteralmente, perché la sua stessa premessa include la possibilità che tutti i fatti strani a cui assistiamo siano reali, ma anche allegoricamente, perché nelle nostre vite ci portiamo sempre dietro un carico di fantasmi e mostri dal passato che hanno un impatto sul presente e sulla nostra salute mentale.
[Alt Text: illustrazione di di D.H. Friston tratta dalla prima pubblicazione di Carmilla di Sheridan Le Fanu sulla rivista The Dark Blue (1872). Una donna giace in stato di incoscienza a letto, un’altra donna che indossa un mantello si protende verso di lei con la mano, mentre un uomo entra dalla porta armato. Fonte.]
In tal senso, è indicativo che Let’s Jessica to Death sia ambientato proprio in Connecticut, nella regione del New England, luogo di sviluppo del gotico statunitense, almeno nel Nord del paese. Come racconta Nick Groom in The Gothic: A Very Short Introduction, il gotico negli Stati Uniti, non potendo attingere come in Gran Bretagna da un’eredità medievale, affonda le proprie radici nella “teologia puritana derivata dalla Riforma, in un'identità politica basata sulle teorie del XVII secolo delle libertà costituzionali e in una cultura migrante del folklore e della letteratura europea fortemente basata sul commercio librario britannico e tedesco contemporaneo”. In qualche modo, il gotico è un genere che scaturisce da una tensione. La storia di intolleranza religiosa e discriminazioni della regione in cui si sono insediate le prime colonie puritane nel XVII secolo, luogo in cui sono avvenuti i processi di Salem, ha in qualche modo influito sullo sviluppo di un certo immaginario non privo di problematicità, e sull’emergere di un contro immaginario. D’altronde, proprio in New England, a Providence nello stato di Rhode Island, nasce Howard Phillips Lovecraft; Shirley Jackson ambienta in questa regione il suo brutale e lucido racconto La lotteria; Stephen King plasma il suo Maine letterario, in cui il male ribolle sotto la facciata della provincia sonnolenta, proprio a partire da un immaginario gotico e folklorico.
In Let’s Jessica to Death, a ben guardare, emergono motivi narrativi caratterizzanti del gotico: conflitti interiori, la minaccia di eventi soprannaturali, l’intrusione del passato nel presente. Inoltre, apparentemente, ripropone la dicotomia tipica del filone tra eroina innocente e famme fatale: Jessica è, come detto, desessualizzata, assume quasi i connotati di una Final Girl ante litteram, mentre Emily via via diventa sempre di più un’antagonista dalla forte carica erotica e intenti predatori e manipolatori. Inizialmente Jessica ne è affascinata, poi la guarda con diffidenza, infine ne è spaventata. Da questa opposizione stereotipata, emerge forse una rappresentazione datata e problematica dei rapporti femminili, rappresentati sempre in opposizione, mai in una posizione di complicità. È interessante però leggere questa rivalità alla luce, ancora una volta, della prospettiva scelta: il punto di vista di Jessica, con il suo senso di colpa e la paura di deludere Duncan, rispecchia una visione paternalista e patriarcale del mondo, in cui Jessica è sia agente sia imprigionata.
Emily, caratterizzata da una spiccata libertà non solo sessuale ma anche di movimento, rappresenta il personaggio specchio di Jessica. La caratterizzazione di Emily richiama certamente alla figura di Carmilla, vampira protagonista del racconto omonimo di Sheridan Le Fanu del 1872. Carmilla costituisce una figura complessa e di grande fascino, che ha in qualche modo anticipato persino il Dracula di Bram Stoker. In un saggio intitolato On Celluloid Carmillas, Nancy M. West evidenzia come diversi film degli anni ‘70 abbiamo rivisitato il personaggio di Carmilla in relazione a “fantasie femminili di rivolta o vendetta”.
Tra questi, West cita proprio Let’s Scare Jessica to Death e si chiede:
Emily è una proiezione immaginaria dei sentimenti omicidi di Jessica nei confronti del marito, oppure della frustrazione di Jessica per una condizione mentale che l'ha resa tristemente dipendente dagli uomini? Il film non lo chiarisce mai.
[Alt Text: foto di scena di Let's Scare Jessica to Death. Mariclare Costello indossa un vestito da sposa bianco mentre scende le scale. Il muro è tappezzato con una carta da parati giallognola con grandi fiori azzurri. Fonte]
L'ambivalenza, dunque, rappresenta uno degli elementi più interessanti del film di Hancock: noi non sappiamo se quello che vediamo sullo schermo stia succedendo davvero, oppure si tratti di una fantasia allucinatoria. Non ci interessa nemmeno, perché non è la chiara definizione dei fatti a interessarci, ma la comprensione dell’esperienza di Jessica. La narrazione è così affidata “ai vuoti”, a quello che Hancock sceglie di non mostrare, di non farci sentire. In modo simile a come fa Henry James nel suo più noto romanzo breve, Giro di vite, e Jack Clayton nello straordinario adattamento cinematografico del 1961 dal titolo The Innocents, anche Hancock utilizza l'ambiguità, raccontando una storia che non è univocamente interpretabile. Se i fantasmi visti dall'istitutrice della storia di Henry James siano frutto della suggestione legata alla sua educazione religiosa e moralista, oppure i vampiri che teme Jessica siano solo una manifestazione del disturbo psicotico o un’elaborazione della sua condizione esistenziale, non possiamo dirlo.
Kat Ellinger, Editor-in-Chief di Diabolique Magazine, in una puntata del podcast The Final Girls, sostiene:
Penso che Let’s Scare Jessica to Death abbia forse un debito molto più grande con La carta da parati gialla che con Giro di vite. Ha sicuramente l'ambiguità di Giro di Vite, ha quella strana energia [...] ma usa l'idea della protagonista principale, come in La carta da parati gialla, che sta sviluppando delle ossessioni verso alcune cose.
La carta da parati gialla è racconto del 1892 di Charlotte Perkins Gilman, scrittrice femminista e socialista, ed è considerata un’opera pioneristica. Ispirandosi all’esperienza della propria depressione post partum, Perkins Gilman scrive un racconto straniante e terrificante di come l’oppressione patriarcale - sociale ed economica - influenzi la percezione della salute mentale femminile. Una donna è infatti confinata in una stanza a causa di quella che il marito medico definisce una “depressione nervosa temporanea”. Man mano che il tempo passa, la donna sviluppa un’ossessione per la carta da parati gialla della camera da letto e comincia a intravedere la figura di una donna intrappolata tra i suoi disegni. Il marito, naturalmente, non le crede, ma si fa sempre più impellente la necessità di liberare la donna intrappolata nella carta da parati, fino a una completa identificazione con essa. Sia la protagonista di La carta da parati gialla sia Jessica sono prigioniere, infantilizzate e dipendenti da figure che si impongono sulla loro capacità di autodeterminarsi. Entrambe le donne esprimono il loro disagio attraverso il linguaggio, le parole: Jessica con la voce fuori campo, la protagonista di Perkins Gilman attraverso un racconto in prima persona. Infine, tutte e due sanno che, per sopravvivere, devono fuggire, a qualunque costo, da una condizione di isolamento.
[Alt Text: foto dal set di Let’s Scare Jessica to Death. Zohra Lampert è appoggiata al muro che presenta una carta da parati azzurra e bianca a motivi florareali. Stringe un cuscino con una federa a fiori viola, blu e gialli con il braccio destro e ha quello sinistro alzato. Fonte.]
Da questa prospettiva, in Let’s Scare Jessica to Death si possono rintracciare alcuni elementi distintivi del folk horror, nonostante non costruisca un folklore filmico solido o coerente. Adam Scovell, nel suo saggio Folk Horror: Hours Dreadful and Things Strange (2017) identifica una serie di “tratti narrativi che hanno conseguenze causali e interconnesse”. Tra questi, annovera il ruolo fondamentale dell’ambientazione, inteso anche come paesaggio, il tema dell’isolamento, l’alterazione della percezione del mondo e, infine, l’avvenimento in cui culmina la narrazione. In Let’s Jessica to Death possiamo rintracciare tutti questi momenti: Jessica, Duncan e Woody si spostano dalla città in un luogo rurale, isolato, che ha un impatto diretto sull’indipendenza della donna. Jessica viene dunque isolata fisicamente, perché bloccata su un’isola; isolata psicologicamente, perché non viene creduta e non le viene fornito supporto medico adeguato per superare il trauma della morte del padre; isolata socialmente, perché tutte le persone che incontra sembrano cospirare contro di lei o tentare di manipolarla. Il gaslighting, tra l’altro, è un altro dei temi del film.
Scrive la scrittrice, filmmaker e attrice Jamie Alvey in un articolo dal titolo Finding Myself in Let’s Scare Jessica to Death:
La storia di Jessica mi è rimasta impressa durante il mio percorso di salute mentale perché è stata una delle prime volte in cui mi sono sentita rappresentata nelle mie lotte. Mi ci sono voluti anni per capire che ero stata manipolata da chi mi circondava e, di conseguenza, ho ancora problemi a fidarmi di me stessa e della mia percezione degli eventi. [...] Il cinema delle donne che hanno subito gaslighting, di quelle che si sentono come se la loro sanità mentale fosse appesa a un filo, in cui il trauma le porta a mettere in discussione la loro stessa mente, continua a darmi conforto. Tuttavia, il mio rapporto con Jessica continua a evolversi e trovo maggiore spessore nel suo personaggio.
Anche questo è un esempio di quanto l’esperienza personale permetta di ampliare le prospettive delle opere e trovare nuovi chiavi di lettura. Ma non solo, punta l’attenzione sul ruolo che spesso hanno le opere di fantasia di riflettere su di noi e il mondo che ci circonda. Non si tratta di trovare codifiche univoche. Il codice, come dicevo prima, lo decidiamo noi.
Janisse, per esempio, sul personaggio di Jessica nel finale del film di Hancock afferma:
Il senso di colpa per non essere in grado di "comportarsi normalmente" non faceva altro che acuire la sua situazione di disagio e fomentare il tipo di odio verso se stessa che l'avrebbe portata a crollare. Lo stesso accadeva a casa mia: mia madre voleva una vita perfetta, per cancellare i ricordi dolorosi del suo passato, e quando questo non si concretizzò con il semplice atto di risposarsi, sentì che, ancora una volta, aveva in qualche modo fallito. Ma il fallimento generava fallimento e mia madre si sottraeva alle situazioni scomode cercando di convincersi che non esistessero.
La conclusione a cui arriva la critica inglese rimanda nitidamente al finale di uno dei film che forse ha meglio rappresentato su schermo il disagio psichico femminile in relazione al contesto culturale e sociale: A Woman Under the Influence, film del 1974 di John Cassavetes con Gena Rowlands nell'indimenticabile ruolo di Mabel Longhetti e Peter Falk in quello di Nick Longhetti. Anche in questo caso la storia ruota intorno al tema della salute mentale, della repressione emotiva e del senso di colpa di una donna non conforme ai canoni imposti dai ruoli di genere, che vive una condizione di disagio psicologico. Il contesto, qui è naturalmente drammatico e non fantastico, le velleità artistiche sono differenti e i personaggi di Cassavetes, rispetto a quelli di Hancock, hanno una tridimensionalità che li rende reali, tangibili, anche in situazioni parossistiche.
[Alt Text: foto di scena di A Woman under the Influence. Gena Rowlands sgrana gli occhi guardando fisso Eddie Shaw, mentre con i due indici forma una croce in un gesto apotropaico. Peter Falk è alle sue spalle con lo sguardo rivolto verso di lei. Fonte]
Scrive Victoria Hesford in un saggio dal titolo Gesture, Revolt, and 1970s Feminism in John Cassavetes’s A Woman under the Influence:
[...] Sebbene Cassavetes si sia rifiutato di identificare A Woman under the Influence come un film politico, ha riconosciuto che "dietro" la sua "storia individuale" si possano "trovare temi politici" [...] Ovvero, è nell'incoerenza formale e nella singolarità performativa della rappresentazione di Mabel Longhetti che il film invoca la presenza - dietro le quinte - di un femminismo degli anni Settanta caratterizzato da una pluralità di donne che operano su scala transnazionale di contestazione politica che include le lotte di liberazione antirazziste e anticoloniali e il femminismo egemonico del mainstream statunitense.
I personaggi di Jessica e Mabel, in un certo senso, nascono dallo stesso clima culturale, sono espressione di concezioni sulla femminilità e sui ruoli di genere che stanno cambiando. Hesford sostiene che questo allontanamento dalla norma, nella rappresentazione di Mabel, sia da rilevarsi nella particolarità della gestualità scomposta di Rowlands, che diverge dai canoni tradizionali. Una gestualità che “sottolinea ciò che è impossibile da rappresentare nella scena e nel film: non solo il fallimento di Mabel nell'essere la moglie e la madre che ci si aspetta da lei, ma anche i fallimenti di un mondo che non sa cosa fare con una donna che agisce e risponde alle altre persone senza prestare attenzione alle convenzioni sociali”. Mabel mostra, dunque, il suo “sentire” platealmente, in modo impetuoso, laddove Jessica reprime le sue risposte emotive costantemente. È interessante perché A Woman Under a Influence si conclude con un ritorno a una situazione quotidiana di relativa calma, in Don’t Scare Jessica to Death assistiamo alla totale rottura con la visione del mondo precedente.
Quale sia il vero epilogo conta poco, quel che importa è quel che scrive Jamie Alvey:
La salute mentale di Jessica non viene mai presentata come un fallimento morale. È lei il fulcro del film, la persona in cui il pubblico ripone la propria fiducia. La responsabilità morale è di coloro che la circondano e che non le credono. È mentalmente instabile, ma la narrazione non permette alla malattia mentale di definire Jessica, anche quando il marito e gli altri la definiscono per questo. È davvero miracoloso e confortante che una eroina venga rappresentata in questo modo. Jessica è la lente che il film usa per raccontare la sua storia.
Let's Scare Jessica to Death è disponibile in Blu-ray nell’edizione region free di Imprint Films, nell’edizione region-1 di Shout Factory e in DVD nell’edizione italiana di Sinister Film in uscita a novembre, con il titolo La morte corre incontro a Jessica.
Tutte le traduzioni sono a cura di Cristina Resa.
Per approfondire:
Alvey, Jamie. 2021. “Finding Myself in Let’s Scare Jessica to Death”, in Certified Forgotten https://certifiedforgotten.com/lets-scare-jessica-to-death/
Brundson, Charlotte. 1982. “A Subject for the Seventies.” Screen 23 (3–4):20–29
Clover, Carol J. 1992. Men, Women, and Chain Saws. Princeton: Princeton University Press.
Frey, Olivia (Editor), Freedman, Diane P. 2004. Autobiographical Writing Across the Disciplines: A Reader. Durham. Duke University Press
Janisse, Kier-La. 2022. House of Psychotic Women: An Autobiographical Topography of Female Neurosis in Horror and Exploitation Films. Expanded ed. Godalming England U.K: FAB Press.
Groom, Nick. 2012. The Gothic: A Very Short Introduction. OUP Oxford.
Hesford, Victoria. “Gesture, Revolt, and 1970s Feminism in John Cassavetes’s A Woman under the Influence.” Signs: Journal of Women in Culture and Society 45 (2019): 227 - 247.
Muir, John Kenneth. 2007. Horror Films of the 1970s. Vol. 1. Jefferson, North Carolina: McFarland
Mulvey, Laura 1975. “Visual Pleasure and Narrative Cinema”, in Mulvey, Laura. 1989. Visual and Other Pleasures, Indiana University Press.
Scovell, Adam. 2017. Folk Horror: Hours Dreadful and Things Strange, Auteur Pub
Stadler, Jane. 2017. “Empathy in film”. In Maibom, Heidi Lene. The Routledge Handbook of Philosophy of Empathy. London: Routledge Taylor & Francis Group.
Roche, David, «Exploiting Exploitation Cinema: an Introduction» in Transatlantica, 2016
Zahavi Dan. 2016. Self and Other: Exploring Subjectivity Empathy and Shame. Oxford: Oxford University Press.
West, Nancy M. 2013. “On Celluloid Carmillas.” In Carmilla: A Critical Edition, edited by Kathleen Costello-Sullivan, 138–48. Syracuse University Press.
Nella sua vita precedente, Cristina Resa si è dedicata allo studio delle mitologie antiche, oggi è ossessionata da quelle contemporanee. Lavora in campo editoriale, scrive di film, serie tv e videogiochi su IGN Italia ed è una delle voci di Incompetenti Podcast. A volte la trovi in giro per la rete a parlare di rappresentazione, horror e a inseguire i miti. Puoi seguirla su Twitter, Instagram, Letterboxd e Medium.
Grazie di cuore a Valentina, Maria Alessandra e Cristina per i loro bellissimi contributi. Ci leggiamo a fine novembre.
Un abbraccio!
Francesca, Gloria e Marzia