Benvenut_ a Ghinea, la newsletter che i biscotti se li prepara da sola. Questo mese ci sono ben quattro contributi: Amy Appiani sul manga Nana, Diletta Crudeli che come sempre unisce puntini e trova connessioni fra due romanzi di recente pubblicazione, Luigi Narni Mancinelli con la sua lettura di Ace di Angela Chen, e si chiude in bellezza con un ricchissimo commento di Bernadette Piccolo sul film di Jane Campion Bright Star. Buona lettura!
I turbamenti della giovane Hachi
di Amy Appiani
A maggio 2000, la mangaka Ai Yazawa iniziò la serializzazione di quello che sarebbe diventato uno dei fumetti più iconici degli ultimi trent’anni: NANA, uno shojo che racconta la storia di due ragazze con lo stesso nome – Nana Osaki e Nana Komatsu, soprannominata Hachi – che finiscono per vivere nello stesso appartamento a Tokio. Mentre Nana O è un’aspirante cantante, Nana K/Hachi si trasferisce a Tokio per stare vicina al fidanzato Shoji, senza grandi prospettive lavorative se non diventare una promessa mogliettina perfetta fino a che Shoji non la tradisce. Da quel punto in poi le due ragazze si avvicinano sempre di più e diventano migliori amiche – qualsiasi lettorə del manga direbbe che è un eufemismo – e i personaggi attorno a loro si muovono in una galassia di confusione, sentimenti contrastanti, paura e voglia di crescere e, occasionalmente, musica. NANA è un manga sulla musica tanto quanto One Piece è un manga su un tesoro: c’è un fine chiaro e ultimo a cui aspirare, ma è tutto quello che succede di contorno che dà sostanza al tutto.
Nana O è probabilmente il personaggio più iconico del fumetto: abbigliata Vivienne Westwood nonostante non abbia soldi per pagarsi un affitto da sola, la cantante dei Blast travolge lə lettorə con il suo carisma e, nell’anime, con la sua incredibile voce prestatale dall’artista nipponica Anna Tsuchiya. La sua relazione con il bassista Ren Honjo li ha consacrati a essere i Sid&Nancy della fumettistica giapponese, mentre le turbolente avventure amorose di Hachi, fulcro della seconda parte dell’opera – che rimane tuttora incompiuta – sono spesso oggetto di discussione accesa da parte del fandom.
[Alt text: in un tavola del manga, Nana Osaki e Nana Komatsu sono coricate assieme a letto: la prima ha capelli corti neri e un top nero e sorride leggermente, mentre la seconda è nascosta sotto le coperte e dorme profondamente.]
Il personaggio di Hachi viene inizialmente introdotto, a occhio attento, come bistrattato contemporaneamente dall’ex fidanzato Shoji e dalla migliore amica Junko. Junko riveste la parte di “Grillo parlante di Nana Komatsu”: è la sua voce della ragione, saggia e matura, e viene presentata come una donna che sembra più grande, artista di successo e con una relazione monogama collaudata, ma di fatto è estremamente moralista e incarna tutta una serie di valori della società giapponese che reputano le persone come Hachi – donne piene di desideri e voglie, che amano fare shopping, senza prospettive future chiare e con lavoretti saltuari – come vuote e inutili. Junko e Shoji trattano Hachi come una bambina per tutto l’anime, non riconoscendole alcun tipo di agency.
Questa è una sorta di profezia che si autoavvera, portando la ragazza a operare scelte discutibili, che dipendono anche dal fatto che Hachi stessa si considera volubile, sciocca, ingenua e indecisa. Se lo ripete per tutta l’opera, continuamente. Ma non lo è, anzi, ha una sincerità di analisi dei suoi sentimenti che risulta quasi impressionante rispetto ad altri personaggi, molto più ingarbugliati emotivamente di lei.
La sua storyline principale inizia quando incontra finalmente Takumi Ichinose, bassista di successo della band Trapnest e suo idol preferito, collega di Ren Honjo. Quando va a letto con Takumi per la prima volta, mentre lo aspetta nella lobby del motel, Hachi ha un dialogo con sé stessa estremamente sincero: sa che Takumi è un rinomato donnaiolo e lei è solo l’ennesima fan e una parte di lei – la parte della donna educata come tutte le altre donne, che vede nel desiderio una colpa ingorda da tenere a bada e da non soddisfare – si dice “ma voglio proprio? Io sono una ragazza romantica e se vado a letto con lui non potrò mai costruirci una relazione…inoltre lui mi ha portata fin qua e sta pagando la stanza e quindi ora pretenderà qualcosa”. Sfido una donna a dire che non ha mai fatto lo stesso ragionamento tra sé e sé. La cosa ancora più verosimile però è che lei si dica anche “non sei una scema, sai benissimo cosa vuole da te. E lui è il tuo idolo, il tuo musicista preferito e sogno erotico, perché ti dovresti negare questa possibilità? Capita una sola volta nella vita” e che quindi scelga coscientemente di andarci a letto, sincera e leale verso i suoi desideri.
Di fatto, poi, Takumi la illude, dandole il suo numero di telefono e indirizzo mail e dicendole di aspettarlo, di cucinarle una cena per la fine del suo tour nazionale: non è Hachi che si illude e sogna a occhi aperti come la ragazza sciocca che gli amici dicono che sia, ma è letteralmente Takumi a illuderla con gesti e dichiarazioni esplicite. Lui poi si dimentica di lei e, se Nobu e Shin – musicisti amici delle due Nana – non gli avessero fatto una scenata venendo a sapere della tresca, lui si sarebbe dimenticato di lei. Takumi torna sui suoi passi solo e unicamente perché è stato sfidato da Nobu e Shin e si è sentito ferito nella sua mascolinità: per Takumi non è mai stata questione di romanticismo e nemmeno di sesso, ma sempre e solo di prendersi quello che altri uomini – e Nana Osaki, con il suo ambiguo rapporto con Hachi – vogliono.
Una parte di Takumi in seguito si lega genuinamente a Hachi, ma sempre superficialmente e con lo spettro problematico di Reira alle spalle – la cantante del gruppo di Takumi, una donna sola e fragile che non desidera altro che diventare una “macchina del canto”, svuotata da tutto il dolore che prova e con capacità di canto infinite, in grado di compiacere l’uomo per tutta la vita. Non potendo essere amata da Takumi, vorrebbe almeno dargli la soddisfazione economica del successo agognato – le possibilità di discutere di agentività femminile in questo fumetto sono praticamente infinite.
A questo punto, entra in gioco la snodo principale della vicenda di Hachi: la ragazza all’inizio non è innamorata né di Nobu né di Takumi, almeno non quanto la speculare Nana Osaki è innamorata di Ren. Hachi dice chiaramente di non sopportare Takumi, ma non riesce a scinderlo dall’artista – una questione fondamentale alla base di ogni fandom e di sempiterno interesse per la celebrity culture in cui siamo immersə quotidianamente. Lei ammette che lui è un uomo arido ed egoista, un donnaiolo bastardo, ma è il suo artista preferito, ne ammira la musica e le capacità di scrittura, e fisicamente la attrae molto. Non c’è nulla di male in questo, peccato che tutti gli altri personaggi diano per scontato che lei ne sia innamorata perché è sempre e solo una povera romantica ingenua….e lei si vergogna troppo per ammettere che non sia così. Hachi desidera, Hachi vuole tremendamente dare un senso a sé stessa tra le braccia del suo idolo ricco e famoso e nessunə prende sul serio il suo desiderio.
Poi arriva la dichiarazione d’amore del trepidante Nobu e Hachi dice esplicitamente che se non ci fosse stato Takumi di mezzo, con cui lei continuerebbe a capitare a letto se si presentasse a casa sua, si sarebbe messa con il giovane ragazzo al cento per cento. Perché? Perché anche se Hachi non è palesemente innamorata di Nobu, le piace essere desiderata e Nobu rientra in ogni criterio del ragazzo carino e sensibile che può prendersi cura di lei. Non per niente spesso, nelle interviste poste a ragazze dell’Est asiatico sulle questioni di coppia, emerge la questione sociale che è meglio essere amatə e viziatə dall’altrə piuttosto che amare se si sta in una relazione fissa. Le consuetudini di coppia tra le persone eterosessuali sono codificate in maniera estremamente rigida e hanno significati impliciti chiari, che si basano principalmente sul dimostrare attenzioni continue e fare gesti plateali per lə partner.
[Alt text: tavola del manga che ritrae una Hachi piangente abbracciata a Takumi; la ragazza nasconde il viso nel petto dell'uomo e si aggrappa alla sua schiena, mentre lui, di spalle, la stringe forte a sé.]
Hachi non è innamorata di Nobu, ma non gli dice di no per questo, per onestà intellettuale o rispetto: gli dice di no perché le sembra disonorevole e vergognoso che ventiquattro ore prima fosse nel letto di un altro, anche se con l’altro lei non ha alcun legame fisso. Si fa slut-shaming da sola e pensa contemporaneamente a quello a cui sta rinunciando: una coppia basata sul non voler rimanere solə, il che, invece che farle storcere il naso, le sembra una cosa bellissima e da rivendicare, un sogno a cui le hanno insegnato bisogna aspirare.
Per cui Hachi si ritrova tra il suo sogno erotico e il ragazzo per bene: Takumi che se la porta a letto e le dice frasi altisonanti come “vorrei averti tutta per me” a cui lei non crede – non è ingenua come l’amica Junko la crede, quando Takumi le dice che non ha altre donne perché troppo occupato col lavoro lei ha dei monologhi interiori lucidissimi e cinici – e Nobu che continua a ripeterle che la proteggerà da lontano, offrendole quello a cui lei ha sempre aspirato in astratto, cioè una relazione stabile, senza sorprese. Hachi si ritrova schiacciata tra il suo essere un soggetto pienamente desiderante, egoista quanto il desiderio può esserlo, e l’immagine della perfetta mogliettina romantica che tutti le ricamano addosso. Persino Nana Osaki, che nel mare di personaggi che trattano Hachi come pezza da piedi rivendicando di essere le voci della sua coscienza è sempre stata un barlume di speranza, dà per scontato che Hachi abbia rifiutato Nobu perché ama Takumi – soprattutto dopo aver scoperto che ci ha fatto sesso. Nana ha sempre riconosciuto a Hachi un’agentività, una capacità di scegliere per sé stessa, che nemmeno altre donne le riconoscono, eppure non riconosce i dilemmi della migliore amica – e la possibilità che faccia sesso per piacere o per solitudine. Hachi, ritrovandosi senza il supporto di lei che è la sua roccia e la sua ispirazione, la sua garanzia, cade nell’incertezza. Finisce per essere abusata da Takumi, in un rapporto sessuale le cui dinamiche di consenso non sono chiare, per poi mettersi con Nobu, dicendo di essersi accorta di essere innamorata di lui con un po’ di ritardo.
La fine di questo bizzarro e sofferto triangolo amoroso, sconquassato dai fraintendimenti, è la perfetta conclusione morale del giudizio a Hachi in quanto donna che si permette di desiderare: la ragazza rimane incinta di Takumi perché hanno fatto sesso non protetto – d’altronde lui è un donnaiolo e lei è stata colta dalla tentazione più lussuriosa ed egoista – e deve lasciare Nobu, che ha sempre usato il preservativo perché “la ama e la rispetta troppo”. Come se rimanere incinta fosse la punizione del Grande Demone Celeste – come Hachi chiama dio nell’opera – per una ragazzina poco sveglia che ha seguito i suoi desideri invece che ponderare con chiarezza che cosa fosse meglio per lei socialmente ed emotivamente in quanto donna tra i venti e trent’anni senza un lavoro fisso.
[Alt Text: ritratto sorridente e gioviale di Hachi, con capelli castano-ramato lunghi fino alle spalle, guance arrossate e piccoli orecchini.]
Il personaggio di Hachi riscuote molte antipatie nel fandom perché ci mette di fronte alla debolezza di una donna che non è in grado di rivendicare il suo desiderio con orgoglio, pronta alle conseguenze che ne potrebbero derivare, ma che, nonostante tutto, continua a seguire i suoi impulsi e istinti: non è un’eroina tragica come al tempo fu Nana Osaki, che decise di troncare con Ren per suo orgoglio personale, per essere una musicista e non solo la “donna di” – ruolo confermato dal fatto che Nana rimane poi vedova – ma nemmeno un personaggio irriverente che rivendica il suo essere sessualmente libero. Hachi è sospesa a metà tra la perfetta mogliettina che cucina dieci portate in un giorno solo e pulisce casa e la tigre in camera da letto e non può mai vincere, non può mai essere autenticamente sé stessa senza il rimprovero e il biasimo altrui – senza che anche il Caso ci si metta di mezzo per punirla. Forse Hachi ci sta antipatica perché ci ricorda quanto il nostro posto di donne accettabili sia precario e quanto cambiare idea non sia concesso a una giovane donna – quanto caro si paghino queste incertezze e volubilità, che sono però caratteristiche naturali dell’animo umano, soprattutto in un’età come i vent’anni.
Amy Appiani è insegnante di materie linguistiche e letterarie dove capita e una delle fondatrici dell’Altrosessuale, collettivo che esplora il tema di identità, sessualità e corporeità in arte, letteratura e pensiero. Ama il k-pop, il femminismo, la moda e la lotta – non necessariamente in quest’ordine di priorità. La trovi su Instagram come @amy_thing o come @fiocchetti_e_lame, quest’ultimo uno spazio personale di condivisione delle sue fissazioni, letterarie e non.
Senza mappe, oltre i ruoli
di Diletta Crudeli
In L’Immortale di Catherynne Valente, opera fantasy uscita durante l’estate e tradotta da Tiffany Vecchietti per Fazi Editore, c’è una domanda molto bella che racchiude quello che sono i sistemi magici esistenti in molti romanzi fantastici usciti di recente, scritti per lo più da autrici, anche se esiste qualche eccezione.
Tutto ciò che era magico aveva i denti?
Valente è un’autrice americana pluripremiata e assai prolifica benché in Italia siano stati tradotti soltanto due dei suoi romanzi: Space Opera (pubblicato da 21lettere nel 2020) e appunto L’Immortale, originariamente uscito con il titolo Deathless nel 2011. La storia si snoda specchiando la narrazione tra il mito di Marja e Koščej l’immortale e gli eventi della rivoluzione russa. Nel mito, i denti della magia sono quelli che riescono a intaccare sia il mondo magico che il mondo reale in cui Maria, una giovane donna umana, è nata e cresciuta. Eppure, fin da bambina Marja è in grado di cogliere quello che sta dietro la realtà quotidiana, così da ragazza è l’unica a scoprire che tutte le sue sorelle hanno sposato creature mutaforma che da uccelli si tramutano in uomini. Il marito atteso alla finestra per lei si presenterà nelle fattezze di Koščej, l’immortale del titolo. Marja e Koščej sono ben noti protagonisti e figure di mitologie e fiabe della cultura slava. Koščej è un uomo ricco e incapace di morire la cui occupazione principale è rapire giovani donne, e la sua preziosa e inviolabile anima è nascosta in un uovo. Marja in particolare è poi protagonista di una fiaba insieme a Koščej e Ivan, dove il primo deve essere sconfitto dal secondo, un giovane uomo che vuole sottrarre la principessa guerriera alle grinfie di questo semidio a cui lui stesso, contravvenendo alle regole dettate dalla donna, ha per sbaglio riconsegnato i poteri.
[Alt Text: Koščej l’immortale, dipinto di Viktor Vasnestov. Nell’immagina, Marja e Koščej condividono un trono all’interno di una sala riccamente dipinta. Marja sembra però ritrarsi spaventata da Koščej, vecchio e ghignante, che si protende verso di lei cingendole la spalla. Con la mano sinistra Koščej impugna una spada insanguinata.]
La storia di Marja e Koščej narrata da Valente sembra seguire i rispettivi ruoli originali e le sequenze narrative che il mito ha scandito per secoli, quando in realtà finisce per creare due personaggi nuovi, ben scritti e capaci di sovvertire le regole stesse che il folklore aveva stilato per loro. Il romanzo attraverso questa riscrittura e riformulazione diviene lungo ed estenuante, e si percepisce il modo in cui l’immortalità colpisce Koščej, Marja, il mondo. Koščej del resto simboleggia la vita e questo vuole dimostrare Valente: non è questo un ruolo del tutto positivo. Koščej è meschino, crudele, affamato di vita. Ma a differenza della sua tipica caratterizzazione all’interno del mito, in cui riveste i panni dell’antagonista, in questo caso la sua figura è più ambigua. Koščej vuole sopravvivere a ogni costo e i suoi desideri, quelli di una creatura pur sempre soprannaturale, assumono proporzioni fuori scala, con un effetto domino devastante. Ed è questo punto di vista che si interseca con la storia della rivoluzione russa, dimostrando che qualsiasi battaglia e guerra non siano altro che altri desideri, bisogni piccoli o grandi che sfuggono di mano e che diventano catastrofi. La storia, ogni storia, se non può morire, si ripete, compiendo infiniti errori. Come Baba Yaga, altra figura ricorrente della mitologia slava, dice a Marja, le storie camminano in cerchio:
Giriamo su un binario, in tondo. Marciamo al passo. Recitiamo le stesse storie, ancora e ancora, le stesse serie di movimenti, mentre il tempo si accumula come il filo intorno a un arcolaio. Ci piacciono gli schemi. Sono confortanti. A volte cambiano delle piccole cose: un'auto invece di una casa, una ragazza che non si chiama Elena. Ma non è diverso, non proprio. Mai.
Come dimostra il romanzo stesso, piccoli dettagli possono essere cambiati e le storie ripartire e mutare. Marja durante le sue avventure nel mondo di Koščej incontrerà diverse creature fantastiche e sarà addirittura obbligata a sfidarne altre dato che Baba Yaga, sorella di Koščej, le lancia una sfida. Quando Marja incontra un drago e lo prega di consegnarle il suo oro da portare alla vecchia strega, questo le chiede se davvero capisce cosa significhi essere un drago. Gli umani, si lamenta la creatura, stanno spolpando all’osso il cuore delle cose, e adesso vogliono pure il suo oro?
È l’impianto magico del mondo di Koščej, del drago, di Baba Yaga, che permette di riscrivere il mondo. I ruoli creati dalla fiaba e dal folklore mutano, e finiscono per poter raccontare il tempo che scorre, fino alla nostra epoca.
Di archetipi distrutti si occupa in modo simile, ma con uno stile e una narrazione del tutto diversa, Il mio vulcano di John Elizabeth Stintzi, uscito sempre in estate ma per Tlon Edizioni, tradotto da Clara Nubile. Stinzti è un’autorə americanə trans non-binary e Il mio vulcano è il suo secondo titolo a essere pubblicato.
I punti in contatto con il romanzo di Valente sono la volontà di mostrare come il mito, e l’incursione del fantastico nella vita umana, siano capaci di distruggere qualsiasi narrazione stagnante o semplice riduzione del mito stesso a un insegnamento il cui effetto è relegare la storia a una dimensione geografica, localizzandola in un solo punto.
Stintzi immagina come, nel 2016, nel cuore di Central Park un vulcano cresca nel giro di un mese circa. Ovviamente all’inizio si cerca di far fruttare l’anomalia, rendendola spettacolo, affiggendo pubblicità. Tuttavia il bizzarro e l’incomprensibile cominciano a irradiarsi nel mondo. Un bambino in Messico viene trasportato indietro nel tempo fino alla caduta dell’Impero azteco, un autore trans di science-fiction comincia a interrogarsi sulla vera natura dei personaggi che scrive, un professore di folklore in Giappone assiste all’apparizione di una strana figura sulla cima del Monte Fuji e un pastore nomade in Mongolia viene infettato da una forza che trasformerà lui e le creature che gli stanno attorno in una marea verde, una specie di Area X di VanderMeer itinerante.
Questi sono alcuni dei personaggi di cui Stintzi inserisce il punto di vista nel romanzo, un’opera che calza l’etichetta di new weird molto bene (qui e qui due articoli molto interessanti sull’argomento). Bizzarro e incomprensibile è il vulcano di Central Park, qualcosa che davvero si trova in un luogo dove non dovrebbe essere. E in mezzo alle strane narrazioni Stintzi inserisce episodi di cronaca avvenuti realmente nel 2016: dall’omicidio di Alton Stearling (ucciso da due poliziotti a Baton Rouge), la sparatoria nel nightclub in Florida, l’omicidio di Dee Whigham accoltellata in quanto persona trans.
Arrivarono i regni, i barbari offuscarono le epoche, le città cominciarono a prendere forma. La nuvola si aggirava furtiva per il diorama come un miasma, cresceva e si rimpiccioliva e si disperdeva, provocava matrimoni e faide e disastri naturali, sussurrava alle orecchie di pittori e poeti, rovinava e salvava la gente dalla Persia a Tenochtitlán.
Era un fantasma negli ingranaggi della Storia, il sospiro di un dio, la musa del tempo, il poltergeist della fortuna che trascinava la ruota in avanti.
Le storie, impareranno lo studioso giapponese, l’autore trans e molti altri ancora, hanno bisogno di essere dimenticate e ripartire da capo per poter di nuovo circolare liberamente. Le storie vivranno a nostro discapito. Come nel romanzo di Valente la magia è un mezzo per cambiarsi la pelle e nel farlo cambia anche la struttura del romanzo, le sue etichette e il modo in cui questo si presenta al pubblico.
Sotto la non-etichetta di storia ibrida e poco classificabile può collocarsi un terzo romanzo, sempre uscito in estate, scritto però da un autore. Mat Osman è un musicista e autore di romanzi, due dei quali, Rovine e Il teatro fantasma sono stati pubblicati in Italia da Atlantide Edizioni. Proprio questo secondo romanzo, tradotto da Mirko Zilahy e Paola Olivetto, ben si inserisce in questo percorso di sistemi magici ribelli e mitologie scardinate dai ripiani giusti della libreria in cui si sono sempre trovate.
Shay e Nonesuch sono due outsider nell’Inghilterra Elisabettiana. Lei è un addestratrice di falconi per la nobiltà, ma in realtà appartiene all’antico culto degli Aviscultan, che vivono in capanne ai margini della città londinese, in un luogo chiamato Birdland. Lui è un attore per i Blackfriars Boy. Shay prenderà posto nella compagnia teatrale prendendosi cura degli effetti speciali fino a che i due, insieme all’amico e collega Trussell, non fonderanno il teatro fantasma,elisabettiana uno spettacolo itinerante, magnetico, che mette a nudo il vero volto della città e dei suoi abitanti.
La narrazione include ovviamente una storia d’amore e un triangolo amoroso, che si discosta però sia dalla tipica narrazione romance sia dal romanzo young adult. Le accuratezze riguardo l’epoca che Osman inserisce nell’opera potrebbero avvicinarla all’etichetta di romanzo storico, ma ciò sarebbe inutile dato che allo stesso tempo la storia non può reggersi senza le sue fondamenta magiche: il culto degli uccelli, la lettura dei tarocchi, la presenza del mago John Dee.
La magia, sembra volerci indicare Osman, non serve a dare una forma nuova al mondo ma a interpretarlo correttamente. A Shay, così come a Nonesuch e al resto degli attori, manca un punto di vista sicuro, manca una chiave per capire cosa sta succedendo nella loro epoca. Shay è una maga, una sacerdotessa, perché riesce a leggere la realtà e riesce a reinterpretarla, di nuovo, attraverso il volo degli stormi, attraverso le carte e infine ridisponendo la realtà come gioco creando sempre nuovi effetti scenici.
Il mondo, crudele o bellissimo che sia, non ha regole. L’alchimia e il sortilegio di John Dee non sono che un trucco da principiante in confronto agli occhi di Shay che si affannano a ricostruire in modo sensato ogni cosa che le accade intorno.
Fece un respiro e mise tre carte in linea tra sé ed Evans.
«Con queste puoi predire il destino?».
Sembrava dubbioso, Shay azzardò uno sguardo di gratitudine a Trussell; i disegni rappresentavano gli uccelli della sua infanzia, di Birdland, e non aveva idea di come potesse conoscerla tanto a fondo.
Leggendo i tre romanzi si può sperimentare una sorta di esasperazione: di questi sistemi magici dobbiamo e vogliamo saperne di più. Dagli inganni di Koščej, al funzionamento del vulcano fino alle letture di Shay, ci sembra che ci manchi qualcosa.
Ed è così. Nessunə degli autorə qui presenti si sbilancerà mai a offrire risposte certe, perché non è questo il loro ruolo. Del resto, malgrado siano questi tre romanzi fantastici che attraversano luoghi e zone molto lontane tra di loro, in nessuno di questi troverete neppure la più classica delle mappe presenti di solito in volumi di questo tipo.
Il fantastico che queste storie presentano non ne ha bisogno perché è un fantastico che, come la magia di Shay, non vuole aiutarci a dare una nuova forma al mondo, ma vuole offrire un punto d’appoggio, una compagnia, una formula magica, per interpretare quello che già abbiamo.
L’immaginario non deve necessariamente ricalcare le nostre aspettative, geografiche o culturali che siano. Immensi romanzi fantastici sono privi di mappe: i mondi di Le Guin, Pullmann o VanderMeer per esempio.
I confini tra mondi diventano un estenuante attraversamento allora, e l’esperienza che si ha dello spazio attraversato ha a che fare non con localizzazioni puntuali ma riflette piuttosto l’emotività dei protagonisti. Si tratta di personaggi che non hanno bisogno di diventare eroi o eroine, ma viventi che compiendo un percorso reclamano le proprie identità. L’esempio più cruciale dai tre romanzi viene da L’Immortale in cui, prima di poter entrare nel mondo di Koščej, Maria viene sottoposta a faticosi spostamenti, rigide e inflessibili regole di viaggio. Tutto ciò potrebbe ricordare un rito sciamanico ma, per Valente, è anche il modo di raccontarci la maniera delicata e frammentaria in cui Marja si innamora.
La mitologia e la mappatura del fantastico si liberano in questo modo da qualsiasi volontà di insegnamento. Si tratta di uno slittamento mentale molto semplice, un trucco che ci dimostra quanto le storie possano eliminare binarismi, rigide meccaniche mantenute da sempre, rivendicare ruoli nuovi.
Una citazione da un ultimo libro uscito questa volta ai margini dell’estate, e in realtà in questo caso un saggio, esemplifica bene cosa abbiamo bisogno di fare. In Astri Amari. Per un’astrologia transfemminista, pubblicato da effequ, Astri Amari scrive, riguardo l’astrologia e il modo in cui interpretiamo il mondo:
L’astrologia ha una storia millenaria, è relativista, non è morale e non sottrae le persone alla responsabilità delle proprie azioni ma anzi aiuta a immaginare un mondo di relazioni significative.
Nel corso di una laboratoria tenuta con Astri proprio sugli archetipi è emerso esattamente questo: immaginare è rivoluzionare. Arriva un punto in cui le mitologie, le mappe, i ruoli e le aspettative non possono più essere utili. Persino i draghi rivendicano il proprio posto nel mondo e hanno ben ragione nel farlo. C’è posto per tutti e tutte, solo se ammettiamo che lo spazio non sta in nessuna cartografia e che i modi per raccontare una storia esulano da qualsiasi etichetta siamo sempre statə prontə ad affibbiarle.
Diletta Crudeli è nata nel 1991 e le piacciono le storie strane. Redattrice ed editrix per Moscabianca Edizioni, cura la collana di narrativa breve illustrata Cuspidi e la collana per ragazzx La fine del mondo. Per Eris Edizioni è uscita la novella Lady Lava e un suo saggio è presente nella raccolta Genere e Giappone. Femminismi e queerness negli anime e nei manga, pubblicato da Asterisco Edizioni. Redattrice per l’Eco del Nulla, talvolta scrive di libri su Ghinea ed è fondatrice di Spore Rivista. I suoi racconti sono usciti su diverse riviste letterarie.
Un’analisi della trilogia fantasy La dorsale, esordio della giovane autrice italiana Maria Gaia Belli.
Adania Shibli scrive, finalmente, della sua estromissione dalla Buchmesse di Francoforte.
La comunità queer palestinese firma una lettera durissima contro il rainbow washing israeliano.
Il genocidio palestinese è anche una questione climatica: un toolkit ecofemminista per capirne di più.
È sempre la stessa storia. Non sono più le stesse donne.
[Alt Text: immagine dalla partecipatissima manifestazione nazionale contro la violenza di genere organizzata da Non Una Di Meno e tenutasi a Roma lo scorso 25 novembre. Alla testa del corteo, uno striscione fucsia che ricevuta TRANSFEMMINISTƎ INGOVERNABILI CONTRO LA VIOLENZA PATRIARCALE. Fonte.]
Questa la lettera di Elena Cecchettin, sorella di Giulia, pubblicata pochi giorni fa sul Corriere del Veneto. Ancor prima del ritrovamento del corpo di Giulia, ennesima vittima di femminicidio, e a maggior ragione dopo, Elena Cecchettin ha avuto la forza e la lucidità di irrompere nei sonnolenti programmi televisivi del pomeriggio per parlare di patriarcato, consenso ed educazione affettiva. Elena si è sottratta al ruolo di sorella piangente, muta perché paralizzata dal dolore, e piuttosto che offrire lo sterile spettacolo della sua sofferenza ha parlato con rabbia, accusando non solo l'uomo che uccide ma anche la cultura che gli permette di farlo. Il fastidio generato dalle sue parole, definite ideologiche e poco opportune per una ragazza che dovrebbe occuparsi di piangere sua sorella anziché di diffondere messaggi politici, svela il cortocircuito di una cultura che si dispera e si indigna per le donne morte, dimenticate nel momento in cui il femminicida viene catturato e rinchiuso, ma esige silenzio e proprietà di linguaggio e atteggiamenti da quelle vive, che non devono permettersi di chiamare al banco degli imputati i condizionamenti culturali e sociali che femminicida lo creano e di cui tuttx noi siamo, in misure e portate diverse, vittime ma anche strumenti di diffusione.
CALENDARIO
Il 4 dicembre, Gloria dialogherà con Veronica Raimo a proposito della sua ultima raccolta di racconti, La vita è breve, eccetera. L’appuntamento è alla libreria Modo Infoshop di Bologna alle 20.30.
Marzia performerà un poemetto inedito al festival underground Poesia Carnosa a Roma il 6 dicembre, all’Angelo Mai.
FATTO DA NOI
Marzia ha pubblicato un estratto dal suo poemetto inedito Ragazzə Laser su Nuovi Argomenti.
FATTO DA VOI
Elena e Valentina di superpunto parlano di linguaggio inclusivo nell’ultima puntata del loro podcast: la trovate su Spotify, Apple Podcasts e Spreaker.
Vera Sibilio scrive sul sito di Tamu della Maison des Babayagas, struttura sorta nella città francese di Montreuil per volontà di un gruppo di femministe radicali allo scopo di permettere alle donne sole e anziane di vivere insieme, secondo i “principi di autogestione, solidarietà, cittadinanza ed ecologia".
Il 17 dicembre a Bologna c'è il secondo workshop di #Altrefigure organizzato da String Figures (Lo Spazio Letterario) e L'altrosessuale e sarà sulla scrittura speculativa e fantascientifica con Angela Bernardoni. Scadenza per l'invio dei testi: 13 dicembre. Tutte le informazioni si trovano qui.
UN LIBRO
Ace. Cosa ci rivela l’asessualità sul desiderio, la società e il significato del sesso di Angela Chen (trad. Giorgia Sallusti)
di Luigi Narni Mancinelli
Ho atteso l’uscita dell’edizione italiana del libro di Angela Chen con grande emozione, perché sapevo che questo saggio avrebbe parlato anche di me, della mia esperienza personale e di sentimenti che mi toccano molto nel profondo. La lettura del testo è stata progressivamente liberatoria: conoscere altre storie di tante persone sparse in ogni posto del mondo, tutte accomunate da una identità così difficile da afferrare e comprendere, mi ha dato un grande sollievo. A questo sollievo si è poi aggiunto un senso di orgoglio, quello di sentirmi parte di una comunità, quella asexual o ace, che ha pieno diritto di esistere all’interno di quella più vasta LGBTQ+. Le nostre storie, sottolinea bene Angela Chen, partono da una domanda paradossale: come è possibile accorgersi di avere o meno attrazione sessuale verso altre persone se non la si è mai sperimentata? E di conseguenza: come è possibile capire la differenza tra attrazione sessuale e pulsioni fisiche se le due cose ci sembrano così dannatamente unite e indistinguibili?
Provare repulsione per il sesso è certamente il primo chiaro segnale di assenza dell’attrazione sessuale, ma questa assenza può essere comunque nascosta dalla performatività sociale o dall’attività sessuale nata da ragioni sentimentali, e, poiché tipi diversi di desiderio sono legati così strettamente, è molto difficile districarne i nodi. “Le persone che non hanno mai provato l’attrazione sessuale non sanno cosa si prova, e così diventa difficile riconoscere se l’hanno mai provata o meno”, scrive il ricercatore dell’asessualità Andrew C. Hinderliter in una lettera del 2009 alla redazione della rivista Archive of Sexual Behavior. Proprio così. (p.29)
La comunità asessuale è stata chiamata anche la comunità di internet, perché il riconoscimento di questo orientamento nasce proprio attraverso i primi forum e blog online dagli inizi degli anni 2000. Migliaia di persone si sono conosciute, confrontate e riconosciute attraverso questi strumenti e hanno creato una serie di termini che potessero definire la loro condizione e costruire meglio la loro identità. Poiché l’asessualità varia su uno spettro, ci sono diverse gradazioni e orientamenti affini, da ace a gray-ace (quando si prova solo raramente attrazione sessuale), demisexual (quando c’è attrazione sessuale solo con un coinvolgimento emotivo), aromantic (orientamento affettivo che non persegue relazioni romantiche e amorose). Dal lato opposto di ace c’è l’orientamento allosexual (o semplicemente allo), quello di chi sperimenta l’attrazione sessuale.
Non è mai facile arrivare alla consapevolezza ace, forse rispetto alle altre identità queer è quella meno afferrabile e meno indagata, perché il movimento è ancora giovane e le altre comunità hanno attraversato lotte per il riconoscimento di cui si parla molto di più. Il saggio di Chen è molto chiaro a riguardo: la sessualità è un fenomeno politico ed è al centro della nostra società e il condizionamento sociale che le persone vivono per aderire agli standard di genere è fortissimo.
Partendo da questa idea, la sessualità obbligatoria - un’idea centrale nel discorso ace – non è la convinzione che la maggior parte delle persone desideri il sesso, e che voglia fare sesso e che il sesso possa essere piacevole. La sessualità obbligatoria è un insieme di presupposti e comportamenti che sostengono l’idea che ogni persona normale sia sessuale, che non desiderare il sesso (socialmente accettato) sia innaturale e sbagliato, e che le persone a cui non interessa la sessualità si perdono un’esperienza estremamente necessaria” (p.54)
Parlando di me, l’ho vissuto per anni sulla mia pelle, riuscendo soltanto molto tardi a capire il mio orientamento. Per quanto mi riguarda, ci sono state nella mia vita due spinte convergenti, che mi chiedevano entrambe di performare il ruolo di genere grossomodo alla stessa maniera. Poiché sono cresciuto in una famiglia cattolica, mi veniva chiesto di inserirmi nella norma eterosessuale creando un nuovo nucleo familiare, per cui sono sempre stato visto con grande sospetto e delusione dai miei familiari: Luigi non ha relazioni con le donne, forse è troppo timido, forse è gay. C’è qualcosa che non va. Aspettiamo e speriamo, prima o poi troverà una brava ragazza. Uscito con grande sforzo e sofferenza da questo contesto culturale familiare, cominciando a fare attività politica nei movimenti (riassumo così tutta la stagione “no global” e le tante cose che ho fatto) mi stavo ritagliando mio malgrado un ruolo di leadership in quel contesto. Ma anche qui qualcosa non quadrava. Come mai Gigino non scopa, come mai non è interessato manco ai ragazzi? C’è qualcosa che non va. Forse beve troppo, forse fuma troppo, è troppo introverso. Ha problemi.
Scrive Chen:
Per la società, in effetti, la sessualità è centrale. Oggi in Occidente la sessualità è considerata una parte essenziale dell’identità. La sessualità non è semplicemente cosa fai, è parte di quello che sei, parte della tua innata verità. Come sostiene il filosofo Michel Foucault nel suo Storia della sessualità, l’enfasi sociale sul sesso è il risultato di forze storiche e politiche. Io non penso che debba essere così per sempre” (p.65)
Frequentavo una casa di compagn* con cui facevo politica e tutt* usavano questa casa anche per avere rapporti sessuali, si formavano e disfacevano coppie. Un giorno venni chiamato a rapporto e mi dissero: c’è qualcosa che non va bene, tu vieni qui, ti prendi il caffè, fumi… ma vuoi finalmente scopare un po’ pure tu? Avere una ragazza? Addirittura mi fu negata una vecchia amicizia, il mio atteggiamento turbava troppo questa persona e in generale causavo continue domande e perplessità. Speriamo che Gigino si trova una ragazza: praticamente, anche nel mondo “sovversivo”, risuonavano le stesse parole di mia zia suora. E io nel frattempo ci stavo male e pure pensavo che fosse una mia inadeguatezza di fondo nel non riuscire a raggiungere gli standard sociali del mio gruppo di riferimento, come non ero riuscito a farlo nel mio nucleo familiare di origine. Forse veramente bevevo troppo, forse veramente fumavo troppo, davvero non riuscivo a mettere su una relazione di coppia per troppa timidezza, per problemi di carattere. Ho sperimentato anche io quello che Angela Chen chiama la sessualità obbligatoria. E quindi le cose sono andate avanti per un po’, fino a che ho deciso di fuggire pure da quell’ambiente, perché a quei tempi l’idea di essere il classico leader di movimento mi faceva orrore. E poi, parliamoci chiaro, che leader è uno che non scopa? Ho cercato quindi di mettermi in discussione, cercando di capire in primis quali fossero i miei privilegi. Così ho incrociato il movimento femminista e soprattutto le femministe in carne e ossa, che mi hanno insegnato come fosse sbagliato, in una società patriarcale, aderire alla performatività di genere richiesta. Una volta compreso, grazie alle compagne, come il corpo sia contemporaneamente oggetto di oppressione e soggetto di liberazione, alcune parole lette distrattamente online hanno cominciato a dirmi qualcosa. Così anche io, decisamente con qualche anno di ritardo (ma esiste forse un momento prestabilito per capirsi?), mi sono iscritto al forum online di AVEN (Asexual Visibilty and Education Network), per affermare: ci sono anche io! Sono parte di questa comunità. Non ho bisogno di forzarmi e aderire a nessun ruolo che mi vogliono imporre. Ho dato così la mia risposta a quella paradossale domanda su cosa sia l’attrazione sessuale, se sia possibile avere lo stesso, senza di essa, un amore, un desiderio, anche una pulsione erotica. Piano piano ho unito quella serie di puntini e ho trovato la soluzione a tanti dubbi. Mi sembra ancora strano parlarne oggi ed è difficile anche fare coming out perché è difficile parlare di un orientamento come quello ace in una società nella quale il sesso è al centro della costruzione delle identità di genere. Ringrazio chi ha avuto l’intuizione e il coraggio di parlarne per prim*, perché ha aperto la strada a tutt* noi. Dobbiamo essere riconoscenti nei confronti di chi ha iniziato questo movimento e dato un nome a questa comunità, che viene raccontata in maniera dettagliata e chiara nel libro di Angela Chen. Finito di leggere, mi sento emozionato e commosso, perché penso alle mie ferite e a quelle di tutte le persone ace, tutte le sofferenze che abbiamo dovuto affrontare fino a poter dire questa parola: noi.
Luigi Narni Mancinelli, editor e scrittore, ha pubblicato Una partita lunga un secolo. Cent’anni della Salernitana (e di Salerno) (Albatros, 2019) e Una disperata felicità. Storie di uomini e donne in fuga (Plectica, 2014). Su Mastodon è barliario@mastodon.world.
UN FILM
Bright Star: un biopic sull’incontro
di Bernadette Piccolo
Illuminare personagge che sono state in ombra e nello stesso tempo illuminarsi, chiedersi: che figura di donna può illuminare me adesso?
Intervento di Viola Lo Moro, in dialogo con Nadia Terranova e Federico Colombo - Il Circolo dei Lettori di Milano, ed. 2022.
Il 27 maggio 1821, a 25 anni, il poeta inglese John Keats muore a Roma di tubercolosi, circondato da pochi amici: il corpo magro e cagionevole, dilaniato dalle tossi violente e dalle emorragie sempre più frequenti, viene sepolto nel cimitero acattolico della capitale.
Riposano nella bara alcune lettere d’amore composte per lui da Fanny Brawne, una modista che aveva amato, ricambiato, gli ultimi tre anni di vita e alla quale era stata negata la possibilità di accompagnarlo in Italia.
Le missive che circondano il giovane non sono mai state aperte - su sua richiesta - e rimangono così sigillate, destinate a consumarsi insieme alla sua carne: a suggellare forse un’unione che non ha mai potuto essere ufficializzata dal matrimonio.
Così, la voce della giovane amante viene fatta tacere e spirare insieme a quella del ragazzo: destinata a rimanere inascoltata e a essere sovrastata dalle narrazioni che, da quel momento in poi, cominceranno a (ri)costruire la figura e il mito dell’autore romantico Keats.
188 anni dopo la voce contenuta in quelle missive torna a fendere l’aria, incarnata nel movimento di ago e filo che squarcia il fotogramma di apertura di Bright Star: un lungometraggio realizzato da Jane Campion nel 2009 per narrare l’intensa quanto breve storia d’amore tra il poeta John Keats e la modista Fanny Brawne, nell'Inghilterra del XIX secolo. Per restituire l’intreccio di queste giovani esistenze, la regista neozelandese consegna a Fanny il punto di vista a partire dal quale raccontare la vicenda, donandole una centralità inedita e rendendola protagonista di un film che interroga e riscrive il classico biopic.
[Alt Text: fotogramma dalla scena di apertura di Bright Star, dettaglio di un ago che perfora un tessuto durante la realizzazione di una cucitura.]
Le conseguenze di questa scelta si ripercuotono sull’intero testo filmico, imponendosi alla vista già nella sequenza iniziale: il titolo, che riprende un componimento scritto da Keats per Fanny, non si erge solitario sullo schermo, ma emerge dall’oscurità dell’immagine cinematografica insieme agli strumenti da lavoro della ragazza, ripresi mentre sono all’opera. Fin da subito, la scrittura poetica di John è chiamata a condividere lo spazio della diegesi con il cucito di Fanny, fino a cederle totalmente il passo, nel momento in cui l’inquadratura si apre per concentrarsi su una porzione di tessuto attraversata dal filo e, subito dopo, sulla silhouette della ragazza, colta in un momento di raccoglimento mentre è ripiegata sulle proprie stoffe.
Da questo momento in poi il classico film biografico e celebrativo si incrina, pronto a essere rimodulato nei codici formali e stilistici che lo caratterizzano: Campion riposiziona le pedine della storia, fa arretrare verso i margini il poeta inglese e spinge al centro una giovane donna fino ad allora ampiamente obliterata dalla storia della letteratura, ridotta a musa passiva o identificata come distrazione nociva per il talento letterario dello scrittore.
Approfittando dell’involucro di silenzio che a un tempo soffoca e preserva questa figura femminile, la regista neozelandese imbastisce da zero il ritratto inedito di una ragazza estremamente vitale e frizzante, che si impone scena dopo scena sfoderando un carattere volitivo e un’indole appassionata e combattiva. Lo spostamento di Fanny verso un centro mai occupato ha molteplici implicazioni ed esprime anzitutto il desiderio - e la necessità - di adottare un diverso approccio nei confronti della Storia, che metta in discussione “l’idea di verità ufficiale [...] attraverso un capovolgimento del rapporto tradizionale tra l’artista e la sua Musa”, come sottolinea la studiosa Valentina Domenici nel libro All women want love. Il desiderio femminile e la decostruzione del romance nel cinema di Jane Campion (2014).
L’adozione di un punto di vista altro - incarnato in una prospettiva politica e femminista - complica la tradizionale trasmissione della storia e pretende che questa venga interrogata nuovamente nelle molteplici sfaccettature che la compongono.
Una simile concezione è ribadita anche da Estella Tincknell, autrice del libro Jane Campion & Adaptation. Angels, Demons and Unsettling Voices (2013): uno studio estremamente accurato che legge la filmografia di Campion alla luce degli inesauribili innesti artistici e letterari che innervano le sue pellicole. Nel discorso elaborato da Tincknell sull’operazione “sovversiva” e creativa che la regista neozelandese conduce su molti generi letterari e cinematografici, appare calzante l’analisi condotta proprio su Bright Star:
Most importantly, the positioning of Fanny as the main protagonist rather than Keats, not only makes a hitherto marginal historical figure central [...] but also shows how the past may be re-imagined and thus presents ‘history’ as a set of competing textual constructs rather than a form of absolute truth.
(Soprattutto, il posizionamento di Fanny come personaggio principale al posto di Keats, non solo rende centrale una figura storica fino ad allora marginale [...] ma mostra anche come il passato possa essere reinventato e così presenta la ‘storia’ come un insieme di costrutti testuali in competizione reciproca, piuttosto che una forma di verità assoluta.)
La Storia è suscettibile di numerose riletture e riscritture, a seconda della voce adottata per narrare i fatti: la regista neozelandese, sin dalle produzioni giovanili, sceglie di restituire la parola a donne complesse, irrisolte e irrequiete; personagge costantemente in lotta con se stesse e con una realtà irrigidita da canoni e convenzioni incapaci di accogliere il mistero del femminile.
Con Bright Star Campion sviluppa ulteriormente questa medesima linea d’azione e restituisce a Fanny Brawne un’agency in grado di riabilitare il suo ruolo nella storia.
Dare vita a questa personaggia non è semplice, perché i materiali di partenza sono costituiti prevalentemente dalla biografia dell’autore Andrew Motion dedicata al poeta inglese, dalle lettere composte da Keats e conservate da Fanny e da pochi altri documenti d’archivio: tutte fonti che significativamente si concentrano sulla vita di John e riportano un punto di vista maschile sulla vicenda, poiché le lettere composte da Fanny sono state quasi tutte distrutte dal poeta e i diari della ragazza accennano di rado alla storia d’amore con lo scrittore.
Convertire la scarsità di informazioni in una possibilità generativa è la direzione che Jane Campion intraprende nel modellare il corpo e la soggettività di questa giovane modista che, dalla sua, vanta la discendenza da una famiglia particolarmente progressista per l’epoca: il nonno Brawne era favorevole all'indipendenza delle donne, i prozii le consegnano in eredità una certa inclinazione per il teatro e per il ballo, mentre lo zio - il celebre dandy George Bryan Brummel - le lascia in dote la passione (e il talento) per la moda e l’estetica.
Unendo punto a punto le informazioni presenti e colmando i vuoti attraverso un sapiente lavoro di “ricamo”, che rende centrali i pochi dettagli disponibili, Fanny Brawne acquista una consistenza straordinaria e torna in vita grazie all’attrice australiana Abbie Cornish, che le dona una vitalità e una presenza scenica notevoli.
Il trattamento riservato alla protagonista di questa pellicola influisce naturalmente anche sul personaggio di John Keats che, nella narrazione filmica, smette di essere il grande poeta inglese per diventare un “caro folle ragazzo”, come lo definisce la madre di lei.
Inquadrato dallo sguardo innamorato e curioso di una semplice diciottenne, Keats viene ora ritratto in tutta la sua umanità: una condizione che lo libera dalla mitizzazione e lo espone a ogni tipo di sentimento, all’amore e alla morte, all’ambizione letteraria e all’amicizia.
[Alt Text: fotogramma di Bright Star che mostra John Keats a lavoro nel suo studio, dopo la prima manifestazione della tubercolosi. Keats, inquadrato dallo sguardo di Fanny, tiene tra le mani un libro e guarda rapito la ragazza. Dietro di lui ci sono la scrivania piena di volumi e l’amico Charles Brown che dà le spalle alla camera.]
È un Keats diverso quello in cui ci imbattiamo nella pellicola campioniana - lontano dalla figura ricostruita da molti storici della letteratura - e inevitabilmente provoca l’indignazione di un certo pubblico accademico, formato da critici letterari che accusano la cineasta di aver danneggiato la figura del poeta a favore della sua musa, spogliandolo del ruolo di protagonista assoluto. Effettivamente è quello che succede: come sottolineato sopra, Keats si fa da parte per far avanzare Fanny e questo passaggio non può che destabilizzare chi ha sempre visto nella ragazza semplicemente una musa, ovvero un ideale femminile incorporeo frutto di un pensiero maschile. Tuttavia:
This stark way of posing ‘the’ question leaves Bright Star high and dry [...] Critics like [Christopher] Ricks who center their attention on Keats tend to treat his “life and times” in a proprietary manner, as though these really were Keats’s and Keats’s alone.
(Questa modalità estrema di porre ‘la’ questione inaridisce Bright Star [...] Critici come [Christopher] Ricks che si focalizzano unicamente su Keats, tendono a trattare la sua ‘vita e il suo tempo’ come una questione di proprietà, come se questi fossero davvero di Keats e di Keats soltanto.)
Trattare Keats in termini di proprietà, sottolinea Paul Thomas nell’articolo Brown vs. Brawne: Bright Star (2010), irrigidisce ogni possibile lettura di un’opera non ascrivibile al classico genere biografico celebrativo: è un approccio limitante capace solo di intrappolare il testo filmico in una visione che dimostra di non conoscere affatto la poetica e l’intento della sua autrice.
Lo sguardo adottato da Campion, invece, mira a restituire una versione aggiornata di Keats che assume una forma credibile grazie all’interpretazione vibrante di Ben Whishaw, attore britannico la cui fisicità - osserva Estella Tincknell - “articulates a kind of post-feminist masculinity” (“articola una mascolinità post-femminista”) che rifiuta una postura macista e abbraccia una fragilità tanto destabilizzante quanto autentica.
Di fronte a un personaggio maschile la cui statura viene puntualmente ridimensionata, a emergere luminosa è la signorina Brawne, diciottenne di “umore gioioso” cha ama ballare e divertirsi e che viene inquadrata fin da subito intenta a dedicarsi alla sua passione principale: il cucito. Attività creativa che la modista difende sempre, rivendicandone la dignità artistica anche di fronte alla cerchia di poeti inglesi di cui fa parte Keats. Sottolinea Valentina Domenici:
Il tema del cucire è centrale nel film e trasforma Fanny da semplice donna di casa ad artista [...] Quasi ogni scena importante del film è segnata dal lavoro di cucito di Fanny, che da normale e consueto hobby casalingo diventa l’espressione della sua creatività, della sua energia vitale, sessuale e amorosa.
L’artista al lavoro non è Keats ma Fanny, ripresa numerose volte mentre si piega sulle proprie stoffe per plasmarle in abiti splendidamente eccentrici, espressione di una personalità estroversa che ama distinguersi e risaltare.
L’ago e il filo sono gli strumenti coi quali Brawne disegna un luogo di azione e di pensiero esclusivo: la camera si concentra instancabilmente su superfici garzate, lini, tulle e taffetà mentre vengono percorse dall’andirivieni dell’ago; segue da vicino il gioco di nastri intenti a rincorrersi e incrociarsi; non perde mai di vista le dita precise di una personaggia che disegna, ricama, addolcisce le pieghe, ma anche taglia e strappa. Tutto con la medesima intensità e devozione.
Il cucito è la personalissima scrittura di questa protagonista e i manufatti che nascono dalla sua instancabile attività entrano a pieno titolo nel rapporto epistolare che intratterrà con l’amato: accanto a missive, biglietti, valentine, i piccoli doni fatti di stoffa anziché di carta, incisi con l’ago anziché col pennino, contribuiranno in maniera determinante ad alimentare un rapporto amoroso destinato a consumarsi nell’assenza più che nella presenza.
A tal proposito, è interessante evidenziare come la sfera della moda costituisca lo strumento d’espressione primario per Fanny, in un duplice senso: non solo le permette di dare forma alla propria soggettività, ma costituisce anche un linguaggio - un bacino lessicale - cui ella attinge per descrivere, nominare e, quindi, conoscere il mondo in cui si muove.
Sono diverse le scene in cui ciò accade, a titolo esemplificativo riporto un frammento relativo al primo incontro tra i due giovani: in tale occasione Keats chiede a Fanny di descriverlo e inizialmente la ragazza appare confusa e impreparata, non conoscendo chi ha di fronte, sembra non avere nulla da dire. Allora John le chiede di descrivere la sua giacca e così, entrando in un territorio di cui ha piena padronanza, la modista riesce con precisione a dire esattamente ciò che vede e ciò di cui avrebbe bisogno il poeta, usando semplicemente un’ “altra” lingua.
La vivacità della signorina Brawne getta una nuova luce sull’ intera narrazione e costituisce la cifra di una personaggia dotata di intraprendenza e coraggio: qualità che la spingono a prendere la parola, a imporre la propria voce e il proprio pensiero, a mettersi in movimento per conoscere - prima ancora di inseguire - l’oggetto del suo desiderio.
Ragazza attiva e propositiva, sensibile e intelligente, Fanny intuisce presto quanto John sia votato alla propria attività letteraria e gli chiede di ricevere lezioni di poesia: una proposta che non solo le permette di avvicinarsi al ragazzo, ma dimostra anche un interessamento sincero nei confronti di un’arte ancora fortemente preclusa al mondo femminile.
L’anelito a esporsi, a fare domande, a cercare di comprendere sono indice di un’apertura che contrasta nettamente con la chiusura e la rigidità del gruppo di letterati da cui John è circondato. Brawne insiste e resiste, contraddice e si oppone a chi vorrebbe sfumarne i contorni e opacizzarne la presenza nella vita del poeta. È lei che si attiva per dare inizio a questa frequentazione, seguendo Keats anche nei quartieri più insalubri di Londra, trascinandosi dietro fratelli e sorelle se necessario, presentandosi alle portefinestre che chiudono ermeticamente il luogo adibito alla creazione letteraria, dove Keats è (sor)vegliato dall’amico Brown.
Lo spirito d’iniziativa e la fierezza di questa personaggia sono travolgenti e destabilizzanti, la sua figura altera e il suo aspetto curato tingono lo spazio diegetico di sfumature inedite. Keats cede presto alla freschezza di un amore che ha in sé la promessa di una felicità a lui estranea e si lascia trascinare dalla serenità che Fanny e la sua famiglia incarnano. “Invitatemi ancora” chiederà il grande poeta inglese alla ragazza, dopo aver trascorso insieme il Natale, avvinto alle attenzioni sincere di lei e al calore di un nucleo familiare cui sarà dolce e umano arrendersi.
La famiglia Brawne, infatti, si rivela sin da subito accogliente nei confronti di questo giovane, pronta a ricevere e metabolizzare i suoi successi e insuccessi letterari, le gioie e l’angoscia per l’incertezza del futuro. Disponibile anche a ridisegnare gli spazi e le soglie della propria sfera domestica, nel momento in cui Fanny si imporrà per ospitare John nella fase terminale della malattia, prima della partenza in Italia.
Legata a una partitura “rituale” di gestualità, la famiglia Brawne non teme di accogliere nei propri ritmi quotidiani la presenza di un poeta e, in questa pronta disponibilità, ripropone la duttilità della stessa Fanny che, senza pensarci due volte, si piega ripetutamente sul corpo dell’amato per raccoglierlo, mimando l’atteggiamento di cura prima riservato unicamente ai tessuti.
[Alt Text: fotogramma di Bright Star che mostra il corpo di John Keats, privo di forze per la malattia, soccorso da Fanny insieme al fratello Tom e alla madre, mentre la sorella minore Toots li precede verso l’ingresso della casa. Il corpo del poeta taglia in orizzontale l’inquadratura e sembra “consegnarsi” totalmente nelle mani della famiglia Brawne.]
Il pensiero elaborato dalla filosofa Adriana Cavarero nel saggio Inclinazioni. Critica della rettitudine (2013) risulta essere una lente particolarmente adatta per leggere la modulazione cui va incontro la postura della signorina Brawne.
L’inclinazione che la modista asseconda non sembra esprimere sottomissione o arrendevolezza quanto piuttosto una incrollabile devozione, capace di tradursi in gesti anche molto pratici il cui scopo è semplice e chiaro: prendersi cura dell’altro.
Fanny sembra avere una vera e propria predisposizione a flettersi, poiché l’inclinazione adottata per tenere in vita il proprio amore riprende la vocazione artistica capace di piegare sotto la propria spinta il soggetto prescelto.
Osserva Adriana Cavarero: “La tipica saldezza della postura verticale non fa parte dell’esperienza di chi si inclina sotto la spinta dell’arte.” E a proposito dell’inclinazione amorosa e dell’atteggiamento di cura, dice: “Innamorarsi, uscire da sé [...] pendere in fuori verso l’altro e dipenderne, piuttosto che conservare la propria autonomia. [...] Estroflessa, piegata, responsiva, essa [l‘inclinazione] è tipica della postura di un sé che si sporge sull’altro, squilibrandosi vistosamente.”
In entrambi i casi, si tratta di uno sbilanciamento considerevole ma inevitabile, che pone in crisi una concezione verticalista incapace di generare alcunché: Cavarero insiste a tal proposito ricordando quanto, proprio nell’immaginario delle cosmogonie filosofiche, la creazione del mondo sia frutto di una deviazione obliqua del moto rettilineo di caduta degli atomi.
Abbracciare fino in fondo la flessione del proprio corpo - destino che tocca tanto il poeta quanto la modista - sembra essere infatti la conditio sine qua non perché si verifichi l’incontro-scontro tra due individui disposti a uscire dal proprio asse, per “pendere” l’uno sull’altra.
E alla luce di queste considerazioni, sorge un sospetto riguardo alla vera natura di questa pellicola e ci si chiede se Bright Star, prima ancora di essere un film biografico, non sia anzitutto un film sull’incontro. Un’opera che mette in scena l’incrocio di due destini, il contatto tra epidermidi, l’intreccio di sguardi.
Tutte le traduzioni sono a cura di Bernadette.
Bibliografia:
- Cavarero, A., Inclinazioni. Critica della rettitudine, Raffaello Cortina Editore, Milano 2014.
- Domenici, V., Buonauro, A., All women want love. Il desiderio femminile e la decostruzione del romance nel cinema di Jane Campion, Armando Editore, Roma 2014.
- Thomas, P., Brown vs. Brawne: Bright Star, “Film Quarterly”, 63:3, 2010.
- Tincknell, E., Jane Campion & Adaptation. Angels, demons and unsettling voices, Palgrave Macmillan, Great Britain 2013.
Bernadette Piccolo ha studiato Arti Visive a Venezia e Scienze dello Spettacolo a Padova. Da quando ha 14 anni è abbonata a una vita di pendolarismo che le regala un tempo dilatato per ascoltare in loop album indie-folk, masticare i suoi stessi pensieri e guardare scorrere la propria vita dal finestrino. Sarà forse per questo che ama così tanto il cinema.
Ha pubblicato su «Fata Morgana», ha quasi finito un podcast ed è tornata da poco dalla Sardegna, dove ha parlato – ancora una volta – di Jane Campion.
Su Instagram si nasconde dietro a @wheredoyougob: sì, proprio come quel film con Cate Blanchett che nessuno conosce.
Grazie ad Amy, Diletta, Luigi e Bernadette per questo numero. Ci leggiamo a dicembre, per l’ultima Ghinea dell’anno.
Un abbraccio!
Francesca, Gloria e Marzia