Benvenutx a Ghinea, la newsletter in disarmo. Questo mese ospitiamo per la prima volta un articolo di Nicoletta Vallorani e ne siamo molto felici. Inoltre, Martina Neglia ha intervistato la femminista boliviana Maria Galindo e Valentina Greco e Adil Mauro recensiscono per noi due saggi usciti da poco: Hacking del sé del collettivo Ippolita e Decolonizzare lo sguardo di Grace Fainelli. Buona lettura!
1+1= ∞
di Nicoletta Vallorani
Le risposte a ogni equazione sono nella letteratura. Lo sapeva Lord Byron, per esempio, che già nel 1813, in una lettera a quella che sarebbe diventata la sua prima moglie, confessa di non capire perché mai 2 + 2 debba fare 4. Non troppo tempo dopo, Dostoevskij (Memorie del sottosuolo, 1864) crea un personaggio impegnato a dimostrare l’inanità di ogni protesta politica finché la somma di 2+2 continuerà a essere 4, al di fuori di ogni ragione apparente. Orwell arriva a una conclusione analoga, passando attraverso l’epoca di Stalin e quella di Hitler e forse tenendo presente che, nelle parole di frequente ripetute da Göring, se il Führer avesse affermato che 2+2=5, la matematica avrebbe assunto quella come una sua nuova regola. L’incontrovertibilità di un processo sommatorio e la sua sovversione, dunque, possono farsi traghetto di un regime dittatoriale, finzionale (quello descritto da Orwell) o reale (quello hitleriano). Quindi dovremmo stare attenti alle occasioni in cui i capi di stato giocano con i numeri per affermare un principio.
Il neoeletto Donald Trump, per esempio, nel suo discorso al Congresso, ha adottato un comportamento che ricorda molto l’idea orwelliana di ricorrere alle regole della matematica per sostenere un arbitrio. Nello specifico, le parole del presidente degli Stati Uniti, in riferimento ai generi, ribadiscono con forza che “da qui in avanti la politica ufficiale del governo degli Stati Uniti si baserà sulla convinzione che ci siano DUE generi: maschile e femminile”. Questo sarà il viatico della nuova America libera, quella che si ritiene di dover far di nuovo brillare. Poi che cosa debba brillare esattamente non si sa ancora, soprattutto nelle scienze umanistiche, nell’ambito della formazione tanto quanto in quello delle iniziative editoriali e culturali di questo strano paese dove Il racconto dell’ancella (1985) non è più un romanzo, ma il manuale di istruzioni per un governo nuovo di zecca.
[Alt Text: cartello appoggiato a un muro e riportante la frase “The handmaid’s tale is not an instruction manual!!” (Il racconto dell’ancella non è un manuale di istruzioni!!). Fonte.]
Il fatto è che può risultare difficile andare contro la storia e proporre un modello di articolazione dei generi che non combacia minimamente con le caratteristiche della comunità. Secondo Stuart Hall (Representation, 1997), rappresentiamo il mondo per capirlo, e il processo funziona se si plasma sulla configurazione effettiva della comunità. In caso diverso, la rappresentazione diventa uno strumento oppressivo: per quanto rassicurante, essa non risponde alle caratteristiche della comunità. Posti di fronte a questa convinta asserzione di binarietà – peraltro estesa nei saperi occidentali e dunque percepita come una rassicurazione – occorre guardarsi intorno: in quel mondo reale, cioè, dove è del tutto evidente che i generi non sono più due da molto tempo. La loro moltiplicazione, oltre a essere il segno di una società sana dove la vita e le scelte personali vanno rispettate, è un dato e non lo si può negare a forza di provvedimenti normativi tanto quanto non si possono censurare le opere che ne raccontano le possibili articolazioni. D’altro canto, la paura di dover rivedere un intero sistema di vita se si rimuove la binarietà dei generi è, se non giustificabile, quanto meno collocabile in una prospettiva storica occidentale nella quale i generi sono SEMPRE (sempre?) stati due e non infiniti, e su questa binarietà si è edificato il castello di carta dei diritti e doveri di ciascuno, a partire dal momento della nascita fino al definitivo congedo dal mondo. Tuttavia già nel 1969, Ursula K. Le Guin suggerisce un tarlo che poi sarà difficile eliminare. La mano sinistra del buio nasce proprio dalla curiosità di capire che cosa sarebbe la società se si eliminasse magicamente la distinzione tra maschile e femminile: come sarebbero divisi i compiti? Chi farebbe carriera? Chi no? Chi sarebbe più portato per le strategie di potere? Insomma in quali, innumerevoli modi potrebbe declinarsi l’azione umana se fossimo capaci, come i getheniani, di essere uomini o donne a seconda del periodo dell’anno e della persona di cui ci innamoriamo? L’esperimento, considerato il momento precoce in cui viene concepito, è straordinario, quanto meno come idea. Esso contiene aporie e ingenuità, sulle quali Le Guin stessa torna anni dopo, in un acceso e protratto dibattito con Joanna Russ. Ben più radicale e dichiaratamente lesbica, quest’ultima le rimprovera a più riprese di non aver affrontato alcuni nodi: la ripartizione del lavoro domestico, a chi spetti la cura dei figli concepiti dal/la partner, come ci si regoli con gli impegni di lavoro quando c’è la prole, e via dicendo. È tutto vero: Le Guin sfiora questi argomenti, ma non li approfondisce. Le interessa di più, in tutta evidenza (e a mio parere giustamente) capire come si sviluppa la profonda amicizia tra Estraven, il getheniano “androgino” (e non è il termino giusto, si dirà poi perché), e Genli Ai, l’inviato maschio dell’Ecumene. Nel lunghissimo e solitario viaggio tra i ghiacci, nell’intimità coatta degli spostamenti in slitta e delle notti in tenda, i generi che entrano in contatto non sono due, ma tre. Genli Ai non è potenzialmente maschio e femmina – e per questo non pare adatta alcuna definizione esistente, se non, forse, quella di gender fluid – ma alterna la sua appartenenza e in questa alternanza anche il suo corpo cambia per adattarsi a quello della persona da cui è attrattə. Forse è vero, come sosteneva Russ e come spesso rilevano critic3 e lettor3 contemporae3, che Le Guin liquida alcune questioni con troppa rapidità, ma è anche vero che solleva pubblicamente e in modo chiaro, direi per prima, l’impossibilità di ridurre i generi al numero 2. E da questa strada, nella speculative fiction, entra il sano dubbio che forse raccontare il futuro significa raccontarlo tenendo in conto che le varietà di genere possano essere, appunto, infinite. La fantascienza queer è, oggi, una realtà perlustrata persino, avventurosamente, anche da editori italiani. Future Fiction, per esempio, pubblica nel 2021 la raccolta Il mio genere è topsecret. Fantascienza Queer e Trans. Nell’eccellente traduzione di Martina del Romano e con la prefazione (preziosa) di Antonia Caruso, il volumetto raccoglie scritti di autor3 non ancora molto conosciut3 ed estremamente interessanti. Alcuni di essi, come Calvin Gimpelvitch (“Affitta sempre, vendi mai”) sono primariamente attivisti e connettono molto strettamente il loro impegno alla produzione artistica. Altri si relazionano in modo esplicito o implicito a opere diverse, costruendo una forma di dialogo che fa circolare una sorta di aria di famiglia (del tipo “make kin not babies”). S. Qiouyi Lu (“Il mio genere è top secret”) introduce il suo racconto scrivendo di averlo pensato come una sorta di risposta a Isabel Fall (Il racconto dell’elicottero, 2021), per sostenere la legittimità di identità di genere molteplici, che hanno solo da essere riconosciute. Qiouyi Lu evita di esprimersi sulla vicenda specifica: un triste linciaggio dell’autorə la cui identità trans era stata rivelata solo dopo la pubblicazione del racconto che intendeva essere una condivisione simbolica della sua personale transition ed era invece diventato la miccia di aggressioni generalizzate, da parte di omofobi e TERF, con conseguenze devastanti per Isabel Fall.
Anche così, le dichiarazioni di appartenenza diventano sempre più frequenti, nella comunità allargata della speculative fiction e fuori di essa, e spesso la lotta per la parità e molteplicità di genere è intersezionale. Per molte scrittor3 africane e afroamericane la rivendicazione del diritto di superare la rigida binarietà dei generi si coniuga con altre battaglie importanti. Questo accade per esempio in Rivers Solomon, che nel suo stesso profilo si definisce “in parte donna, in parte ragazzo, in parte animale, e una sopravvissuta alla tratta atlantica degli schiavi”. Il suo The Deep (2019) raccoglie le tracce di un mito originario secondo cui le donne rese schiave e gettate in mare durante il Middle Passage potrebbero aver partorito in acqua bambini anfibi, destinati a sopravvivere nell’oceano e a diventare migliori degli umani. Il romanzo riprende questo filo narrativo, già sviluppato in ambito musicale prima dal duo di musica elettronica The Drexcyia (James Stinson e Gerald Donald) e poi dal gruppo hip hop clipping., e sviluppa una vicenda che ha per protagonista Yetu, una Storica particolarmente dotata incaricata di salvare la memoria della specie acquatica edella sua origine dalla specie umana. Ma gli acquatici sono diversi, pacifici e indifferenti al genere sessuale di appartenenza. Quando Yetu si innamora, l’oggetto del suo amore non sarà soltanto femmina, ma addirittura umana. Ayodele Olofintuade, nigeriana non binary e femminsta nera, dal canto suo usa il termine yoruba “Lákíríboto” come titolo di un suo romanzo (Lákíríboto Chronicles. A Brief History of Badly Behaved Women, 2019) con un atto che somiglia a una presa di posizione politica. Il termine infatti indica una “donna che non può essere montata/controllata”.
[Alt Text: copertina colorata dell’antologia Stasera faremo cadere il cielo.]
E donne e queer molto combattiv3 affollano l’antologia appena pubblicata da Zona 42 e curata da Giuliana Misserville: autor3 tutt3 italian3, in qualche caso esordienti o semiesordienti, che danno forma a un panorama inedito nel contesto di un genere narrativo che ancora si pensa come maschile o quanto meno collocato in un rassicurante schema binario. Stasera faremo cadere il cielo dimostra almeno due cose: si può scrivere fantascienza italiana queer e, inaspettatamente per molti, ma non per noi che ci crediamo, questo tipo di fantascienza in cui 1+1=∞ riesce persino a vendere bene e a sollecitare buone critiche. Così, dal woolfiano Orlando (1928) – il romanzo che la stessa autrice definiva come un “freak” – a oggi molto è cambiato. Intatta resta la convinzione di Virginia Woolf che il cambiamento, lo stesso descritto nella lunghissima vita di Orlando, sia un’eccitante realtà, che riguarda anche il genere e che va abbracciata, perché è vitale e salvifica.
Insomma, non è possibile fermare la storia con un editto, a meno che non si voglia scegliere di vivere in un mondo immaginario e tristemente binario e ordinato, nel quale sia la legge a fornire la norma per la vita. 1+1, riferito ai generi, non vi è proprio modo che faccia 2, comunque la pensino il presidente Trump e la sua corte di figurine di carta, ciascuna perfettamente osservante di un binarismo che è storia passata, e non una storia felice.
Bibliografia di riferimento
AAVV. 2021. Il Mio Genere è Top Secret. Fantascienza Queer e Trans. Roma: Future Fiction.
Butler, Judith. 2015. Bodies That Matter. TAYLOR & FRANCIS.
Hall, Stuart. 1997. Representation: Cultural Representations and Signifying Practices. Culture, Media, and Identities. London ; Thousand Oaks, Calif: Sage in association with the Open University.
Hollinger, Veronica. 1999. ‘(Re)Reading Queerly: Science Fiction, Feminism, and the Defimiliarization of Gender Author(s)’. Science Fiction Studies 26 (1): 23–40.
Le Guin, Ursula K. 2004. The Wave in the Mind: Talks and Essays on the Writer, the Reader, and the Imagination. 1st ed. Boston : New York: Shambhala ; Distributed in the United States by Random House.
Le Guin, Ursula K [1969]. 2018. The Left Hand of Darkness. London: Gollancz.
Misserville, Giuliana, ed. 2024. Stasera Faremo Cadere Il Cielo. Modena: Zona42.
Olofintuade, Ayodele. 2019. Lakiriboto Chronicles. A Brief History of Badly Behaved Women. Lagos, Nigeria: Independently published.
Russ, Joanna, and Jessa Crispin. [1983] 2018. How to Suppress Women’s Writing. New edition. Austin: University of Texas Press.
Solomon, Rivers, Daveed Diggs, William Hutson, and Jonathan Snipes. 2019. The Deep. First Saga Press hardcover edition. London ; New York: Saga Press.
Woolf, Virginia. 1928. Orlando: Penguin Classics Deluxe Edition. 1st ed. Penguin Classics Deluxe Edition Series. New York: Penguin Publishing Group.
Nicoletta Vallorani insegna Letteratura Inglese e di Studi Culturali presso l'Università degli Studi di Milano. Scrive di e sulla fantascienza. Sua è la postfazione alla nuova traduzione di U.K. Le Guin, La mano sinistra del buio (2021) e l’introduzione ai due Draghi dedicati a Theodore Sturgeon e H.G. Wells. Con A. Pasolini, ha scritto anche Corpi magici. Scritture incarnate nel fantastico e nella fantascienza (2020). I suoi romanzi di fantascienza più recenti sono Avrai i miei occhi (selezione Premio Campiello 2020 e premio Italia 2020) e Noi siamo campo di battaglia (2022), entrambi pubblicati da Zona 42.
Intervista a Maria Galindo
di Martina Neglia
[Alt Text: fotografia a colori di Maria Galindo all’interno di un’aula. Galindo porta trucco pesante e rossetto nero, indossa un foulard rosso acceso e dei grossi orecchini. I capelli scuri sono rasati sul lato sinistro del cranio, in cui rimane una ciocca mossa, e di lunghezza irregolare sul resto della testa, su cui sono acconciate alcune lunghe piume bianche. Fonte.]
Si legge sul retro di copertina, come estratto del prologo che apre le danze a Femminismo Bastardo: “Scrivo per incendiare. Scrivo come chi grida, come chi blocca la strada con le pietre. […] Scrivo senza dio, senza padrone, senza signore”. È così che si presenta María Galindo alle persone che si ritrovano tra le mani questo suo libro vivo e infuocato, arrivato in Italia nella collana Selene curata dal Gruppo Ippolita per Mimesis, nella traduzione di Roberta Granelli. Il testo racchiude anni di interventi, articoli, discorsi, riflessioni e pratiche politiche e artistiche. Non manca nemmeno un comparto iconografico a raffigurare anche parte del lavoro, individuale e collettivo, che Galindo ha prodotto come impostora dell’arte.
Galindo è nata nel 1964 in Bolivia, ma ha passato parte della sua vita in giro per il mondo, per poi tornare a La Paz dove ha fondato il gruppo anarchico e femminista Mujeres Creando. Non si definisce un’artista, ma piuttosto un’impostora, dal pensiero non imbrigliabile né alla ricerca di riconoscimento istituzionale. Femminismo Bastardo è un libro molteplice e plurale, di quei testi che ti rinfrancano e ti ricordano la potenza trasformatrice della lotta, ma che allo stesso tempo – dal mio punto di vista bianco ed europeo – mettono anche in difficoltà, ti spostano la sedia di quel tanto da dover trovare nuovi equilibri. È un saggio che raccoglie molte delle esperienze di Galindo, ma che riesce comunque a trovare una sua omogeneità.
Il femminismo a cui aspira è un femminismo che richiama le complessità, che non si lascia catturare e frammentare in “ghetti identitari” e relative battaglie, spesso banalizzanti, volte all’inclusione all’interno delle leggi di uno stato patriarcale. Lo definisce bastardo perché
Ciò che è bastardo è come uno spazio per gli interstizi, i luoghi ambigui e ambivalenti che scappano alla definizione; come rivendicazione dei luoghi mutanti e di frontiera.
È quindi un femminismo dei corpi, che rifiutano il ruolo di vittima; un femminismo di soggettività che accolgono anche il dissenso e in cui ognun* può portare il suo tassellino di utopia.
María Galindo è stata in Italia nelle settimane passate per un tour del suo libro, organizzato da vari centri sociali coordinati dal Forte Prenestino di Roma. Ho avuto il piacere e l’onore di farle qualche domanda in occasione della sua tappa milanese, di seguito trovi il nostro dialogo.
Nella prefazione a Femminismo Bastardo, la tua raccolta di saggi a articoli recentemente pubblicata in Italia, Paul Preciado cita la scrittrice di fantascienza Octavia Butler per descrivere l’unicità del tuo stile e del tuo pensiero. Leggendo i tuoi articoli mi è tornata in mente più volte un’altra esponente della letteratura di fantascienza, Ursula K. Le Guin, per i tuoi frequenti riferimenti al concetto di utopia. Scrivi infatti che dobbiamo:
Smettere di parlare di diritti e cominciare a parlare di utopie.
Smettere di parlare di inclusione e passare a parlare di risoluzione. Smettere di parlare di femminilizzazione e passare a parlare di depatriarcalizzazione.
Come si allena, in questo senso, l’immaginazione per uno stato diverso delle cose?
Innanzitutto volevo ringraziare ancora Paul. Paul non è una persona qualunque, non è un semplice amico per me.
Paul è un complice, un amore… Non so come dirti, qui in Europa mi sento meno sola perché c'è lui.
Rispetto alla tua domanda, quello che posso dirti è che io non so come si fa, ma so come non si fa. Non è qualcosa che può fare una persona da sola. Non è un fatto individuale o geniale, ma collettivo. Collettivo però in un senso diverso: non una collettività che si mette d’accordo e decide "il futuro sarà questo", no. È una collettività fatta di pezzettini, di frammenti, dove tu hai una chiave che io non ho e io ho una chiave che tu non hai.
Un’altra persona ancora ha una chiave che né tu né io abbiamo, e poi un’altra, e un’altra ancora, e un altro… Allora sì, si può immaginare collettivamente, mettendo insieme i pezzettini.
Le due autrici citate prima sono due scrittrici e non due teoriche. Nel tuo libro si legge una dura critica a un femminismo accademico, distante dalla “strada”, che si sente forte del riconoscimento di un’istituzione che prima lo ha escluso e poi incluso perché “di moda”. A questo contrapponi un “femminismo intuitivo”, concreto, con una bibliografia fatta dei corpi, nostri e delle donne che ci circondano. Me ne parli un po’ meglio?
Guarda, la mia non è una reazione contro la teoria.
Non è una reazione neanche contro la grande storia che ormai abbiamo e che conosciamo. È una reazione contro l’idea dell’élite, dell’esclusione e del monopolio della conoscenza che esiste nel concetto di università.
L’università è il meno universale dei luoghi. Devo dire a Foucault che non può pensare il mondo. Devo dire a Hegel che non può pensare il mondo. A Nietzsche, a Sartre… e, se vuoi, anche a Gramsci, per restare in Italia.
Non possono pensare il mondo, eppure ci hanno detto, falsamente, di averlo pensato per noi, per tutt*. noi.
Ci sono forme di conoscenza profondamente politiche e fondamentali che nascono al di fuori dell’accademia.
Per esempio, parlo spesso della conoscenza delle lavoratrici sessuali. Loro hanno costruito un sapere, anche una genealogia, non scritta nei libri, ma orale. Ognuna impara dall’altra: come sopravvivere, come guadagnare, come evitare determinati rischi. Tutto questo è un sapere prezioso sul corpo e sulla sessualità, molto più profondo di quello che si può apprendere al di fuori di questo universo.
E allora, oggi più che mai, abbiamo bisogno di queste altre forme di conoscenza. Conoscenze che non appartengono alla tradizione accademica, illustrata, eurocentrica, occidentale, patriarcale, coloniale.
E poi, di quale femminismo parliamo? Dentro i femminismi esistono molte correnti ideologiche: l’ecofemminismo, il transfemminismo, il femminismo nero, il femminismo indigeno, il femminismo decoloniale… ce ne sono tante.
Ma tutte queste correnti, tutte queste posizioni ideologiche, hanno in comune il legame con la tradizione accademica. Non si rendono conto di un altro femminismo, quello che nasce dal quotidiano.
Un femminismo popolare, radicato nella società che conosco bene, nella quale agisco e dove il mio lavoro ha un grande valore storico.
Un femminismo intuitivo, massivo, popolare, che viene dal basso. Che non appartiene a nessun*. Che è plurale perché è infinito, una pluralità senza limiti.
E che ci dà una forza politica immensa per agire.
In un articolo chiamato Femminismo Sismico; Terremoto Femminista; Femminismo inviti alla complessità e alla pluralità. Rifuggi da un’idea monolitica di femminismo, utilizzando sempre il plurale femminismi, e dall’idea di avere sempre la verità in tasca. Scrivi:
Non ci metteremo mai d’accordo, nemmeno dobbiamo farlo e non dobbiamo nemmeno arrivare a discussioni altamente distruttive che ciclicamente si ripetono.
Cosa pensi ci abbia rese così rigide, preferendo lo scontro alla costruzione di una “convergenza”?
Io credo che ci siano molte cose. La prima è che stiamo attraversando la fine di un paradigma sociale globale. E questa fine ha messo in crisi tutto ciò che sapevamo.
Questo è un fattore. Poi, credo che si sia lavorato attivamente per costruire una frammentazione molto profonda tra di noi, all’interno di un pensiero patriarcale. Un pensiero in cui A è A perché non è B, e B è B perché non è A. Questo è Aristotele. Dobbiamo prendere Aristotele e buttarlo nel basurero. Sai cos’è il basurero? La pattumiera, sì. Aristotele, per favore, A non è A solo perché non è B. E B non è B solo perché non è A. A può essere B, e B può essere A.
Ti faccio un esempio. Qui in Europa, sul lavoro sessuale, o sei abolizionista o sei per la regolamentazione. Se sei una cosa, non puoi essere l’altra. E allora diventi nemica dell’altra.
Ma questo succede in tutto. Senza che esistano spazi per pensare le cose in un altro modo, senza la logica aristotelica.
Io non sono né abolizionista né per la regolamentazione. Perché il mio punto di partenza per capire il lavoro sessuale non è l’Europa, e non è la legge. E questa divisione, per esempio, tra le lavoratrici sessuali in Bolivia non esiste. Non esiste perché loro non stanno a combattersi tra loro per questo.
Loro sanno che hanno bisogno l’una dell’altra, per qualunque cosa. Per sopravvivere, per non essere uccise domani.
Questa opposizione manichea, questo sì/no rigido, è parte di un pensiero eurocentrico, occidentale, patriarcale. È quello che vi hanno insegnato a scuola.
Ti faccio un altro esempio. Io non parlo spagnolo, io parlo boliviano. In Bolivia, l’influenza della lingua aymara è enorme. E tra dire sì e dire no, esistono cinque possibilità. Cinque parole diverse.
Non è solo questo o quello. Il manicheismo è parte di un certo modo di pensare, di un’epistemologia occidentale, e dobbiamo andare oltre.
Dobbiamo inventare altre metodologie, che ci diano spazio per la molteplicità dei pensieri. Perché ogni pensiero è un punto di vista diverso, e non possiamo permetterci di perderlo.
Qualche argomento qui è valido. Qualche argomento lì è valido. E poi qui mancano argomenti. E anche lì. Allora andiamo a cercarne altri, altrove.
Uno dei temi di cui si è chiacchierato molto negli ultimi anni è quello delle identity politics. Nei tuoi testi critichi più volte le frammentazioni identitarie che escludono la complessità dell* individu* e fanno il gioco degli Stati e dei loro governi. Come ti immagini quindi una politica dove riusciamo a definirci senza allontanarci?
Uno spazio di incontro, ma anche qualcosa che va oltre il semplice incontrarsi, tra di noi che siamo divers*.
Dobbiamo comprendere che dentro di noi esistono contraddizioni identitarie. Il problema non è solo che tu sei diversa da me e io sono diversa da te, e che dobbiamo trovare uno spazio per incontrarci. Piuttosto, ognuno di noi è molteplice dentro di sé: tu lo sei, così come lo sono io.
Tu non sei semplicemente una donna dal punto di vista biologico. Sei molte cose: giornalista, filosofa, scrittrice. Questi non sono solo ruoli, ma fanno parte della tua identità, perché rappresentano aspetti fondamentali del tuo essere.
Nei passaggi sull’arte, ti svincoli dalla definizione di artista, e di artvismo per i tuoi lavori con il collettivo di Mujeres Creando, e ti definisci piuttosto un’impostora. Ritorni, anche nell’ambiente artistico, alla possibilità di esistenza di spazi di creatività anche al di fuori dei riconoscimenti e della legittimazione istituzionale. Con i tuoi/vostri lavori hai comunque partecipato a eventi culturali di grande importanza, come la Biennale di Venezia e Documenta a Kassel. Ci parli un po’ della tua esperienza artistica con questo collettivo? Come si trova un equilibrio tra la critica di certi spazi e la necessità di avere a volte piattaforme più ampie?
Guarda, riguardo a Mujeres Creando, voglio dire che siamo un movimento piccolo. Ma questo movimento è il più grande amore della mia vita. Non siamo un movimento piccolo perché non riusciamo a diventare grandi, ma perché vogliamo esserlo. Non abbiamo la vocazione della grandezza, ma della fragilità.
E voglio dire che non ci consideriamo un’avanguardia, né ci riteniamo migliori. Spesso, quando vengo in Italia, dico che non sono qui come i nuovi zapatisti per vendervi un modello di femminismo. Noi non siamo un modello di niente.
Questo libro è il risultato di riflessioni, ma anche di fratture, di errori, di fallimenti che abbiamo vissuto. Perché per noi niente è stato facile. Neanche avere un bicchiere di latte. Niente.
Il mondo dell’arte, e l’arte in generale, è lo spazio della creazione simbolica. E io lavoro 24 ore al giorno in questo senso. Lavoro costruendo linguaggi di lotta, ma allo stesso tempo ho bisogno di mangiare.
In Bolivia, tutto quello che faccio è senza compenso. Non guadagno nulla, zero.
E allora devo cercare qualche spazio retribuito. Magari con i libri – anche con questo libro –, nelle conferenze, in venticinquemila modi diversi. Ho cercato di sopravvivere con qualsiasi cosa. E quando il mondo dell’arte mi ha offerto uno spazio, piccolo, l’ho preso.
All’inizio per sopravvivenza. Ma poi anche per vendetta. Per poter dire: “Voi non siete niente per me, ma io sono qui”.
Ieri, per esempio, ero all’Università di Torino, ma il mio discorso è anti-accademico. E ho passato tutto il tempo a giocare.
Anche nel mondo dell’arte, io mi prendo gioco di quel sistema, non lo prendo sul serio. Però lì dentro ho trovato incontri che hanno significato molto per me. Uno di questi è stato Paul. Ho conosciuto Paul proprio al MACBA e poi a Documenta.
L’Accademia, il potere politico, il mondo dell’arte… Non è che bisogna stare sempre fuori da ogni accademismo. Io, per esempio, in Bolivia vado dappertutto. Mi invitano dappertutto. È un paese piccolo. Un piccolo sindacato? Io ci vado. Una scuola? Ci vado. Anche in Parlamento, ci vado.
Perché credo che sia un errore chiudersi. Bisogna andare dappertutto.
E ora, qui in Italia, sono felice. Perché per questo viaggio sono stata invitata da una rete di centri sociali. E questa è una grande opportunità.
Martina Neglia è nata a Palermo nel 1993, ma vive a Milano ormai da qualche anno. Si interessa soprattutto di femminismi e di letteratura delle donne. La sua vita è un pendolo che oscilla tra una partita dell’Inter e l’altra. Anche lei ha aperto un Substack: si chiama Due.
La persecuzione delle dissidenti iraniane che si sono rifugiate all’estero prosegue online.
Come operano Airbnb e Booking in Cisgiordania? Un recente articolo interattivo del Guardian ci fa capire come mai entrambe sono finite nella lista del boicottaggio del BDS.
Il caro prezzo a cui la popolazione indigena Mapuche, e le donne Mapuche in particolare, paga in Cile la tenacia nella difesa dei propri storici territori dall’estrattivismo e dallo sfruttamento dei capitalisti della zona.
Influencer (e amministrazioni) che odiano le donne: breve storia dei fratelli Tate.
Le ragioni per cui lx lavoratorx Feltrinelli stanno scioperando.
Quasi contemporaneamente alla pubblicazione italiana di Surrogata universale. Rovesciamo la famiglia esce per il mercato anglofono il nuovo saggio di Sophie Lewis, Enemy feminisms: l’autrice ne parla nel podcast Ordinary Unhappiness.
La grande truffa della cancel culture.
Sull’abitudine dei soldati dell’esercito “più femminista del mondo” di posare sghignazzanti sui social media sfoggiando indumenti intimi di donne palestinesi sfollate o uccise.
Vogliamo davvero pene più dure per chi commette femminicidio?
Una lettura di Lauren Berlant a cura di Irene Frau:
FATTO DA NOI
È già in prevendita online, e in libreria dal 3 aprile, il nuovo libro di poesie di Marzia: Ragazz* Laser (Zona). Si possono ascoltare due estratti dal poemetto in questa puntata di Vocale a partire dal minuto 36 circa.
FATTO DA VOI
Marta Corato ha visto e recensito Babygirl.
Come stanno le librerie indipendenti? Un’intervista alla Libreria delle Donne di Bologna.
Un articolo sul romanzo vincitore del Booker Prize 2024, Orbital di Samatha Harvey, firmato da Alessia Ragno.
Mettiti comodu per questo nuovo numero di Interstizi.
Martina Neglia ha intervistato la scrittrice svedese Elisabeth Åsbrink.
Due amic3 di Ghinea in conversazione: Adil Mauro e Giusi Palomba dialogano di giustizia trasformativa nel podcast di Adil.
Martina Lodi ha intervistato Luisa Morgantini, voce fondamentale della solidarietà italiana alla Palestina.
UN LIBRO
Staying with the digital trouble. Una lettura di Hacking del sé. Disertare il capitalismo del controllo di Ippolita (Agenzia X, 2024)
di Valentina Greco
Etica, estetica, pathos
Un libro può essere molte cose, e vale sempre la pena di chiedersi, oggi soprattutto, il senso del venire al mondo di un manufatto di carta in questa epoca inquinata (anche) dalla sovrapproduzione tanto di oggetti quanto di concetti spesso inutili.
Così voglio dichiararlo in premessa: Hacking del sé di Ippolita è un libro bello e prezioso, per quello che dice, ma anche per come lo dice.
Non sono misura di niente, ma questo è uno di quei libri che innestano pensieri, come quando si lancia un sassolino levigato sulla superficie del mare. Un libro che sottolinei con la matita rossa e blu, poi ci ritorni e metti degli asterischi ai margini delle frasi, poi usi le linguette adesive, arrivi persino a fare le orecchie alle pagine.
Scrivo di Hacking del sé di Ippolita con il corpo carico di sollecitazioni, riflessioni come scariche elettriche, spero vi raggiungano e vi facciano venire voglia di leggerlo.
Per un’estensione del concetto di cura
Hacking del sé è composto da 14 interventi di varia natura scritti da Ippolita negli ultimi cinque anni: introduzioni, postfazioni, interventi a conferenze, inediti.
Dare un senso di organicità a una mole così variegata di contributi non è scontato, ma in questo libro accade, grazie a un pensiero radicale che si tiene nel suo continuo divenire metamorfico sin dal 2004, anno di nascita del gruppo.
I testi si legano in un discorso che ha al suo centro l’atto della cura, individuale e collettiva, di un sé, anch’esso individuale e collettivo, non esclusivamente corporeo, ma anche digitale.
L’estensione di una prassi intesa in senso transfemminista e antispecista - non familista, forse è il caso di sottolinearlo - considerata intrinsecamente materiale a ciò che, sbagliando, consideriamo immateriale, è un potente gesto politico.
Hacking del sé è una locuzione che abbiamo inventato per contrapporci alle tecniche di produzione industriale dell’identità del self branding e del quantified self, vere manipolazioni dell’unità mentre-corpo a opera delle società di controllo in cui viviamo. (p. 139)
Per hacking del sé intendiamo un esercizio di cura del sé che inizia con il comprendere quale tipo di norma le megamacchine sono capaci di farci assumere, per capire come disinnescarla prima che la sua forza ci renda conformi e oppressi. Avere riguardo per il proprio corpo digitale, proteggerlo perché si emancipi dall’informatica commerciale, riconoscere l’importanza che ha nella nostra vita, significa fare un passo di consapevolezza tecnica e nel contempo di responsabilità etica verso noi stessi e la comunità. (p. 63)
Una forma di sconfinamento felice, di diserzione come dice il sottotitolo del libro, che parte dalla consapevolezza che tutti i confini, non solo quelli geografici, sono fittizi, creati per separare, instaurare gerarchie, legittimare violenza.
Compreso il confine tra l’io incarnato e quello digitale.
Non è un semplice dato di fatto, ma qualcosa di cui dobbiamo renderci conto ogni giorno, una pratica quotidiana nella consapevolezza che “nelle società del controllo di oggi, il comando all’obbedienza, al consenso verso il potere, alla logica dello sfruttamento come dimensione unica nella relazione e della legalità è ormai completamente interiorizzato” (p. 141).
Tu piaci alla norma, anche se la norma non piace a te
Che la norma agisca su tutt* noi, indipendentemente dal nostro posizionamento, è stato svelato dalle teorie femministe queer e trans ormai da decenni. Comprendere questa interiorizzazione è già di per sé una forma di resistenza, esercitarsi quotidianamente nella decostruzione è un passaggio radicale e potente “è la chiave per trasformare il mondo, immaginarne uno, inventarlo, dagli la forma che vogliamo partendo dai nostri valori e desideri. Dargli spazio e farlo” (p. 70).
Il sistema economico/culturale/sociale in cui viviamo riesce a trarre profitto da chiunque, da chi la norma la difende, da chi la norma la agisce, da chi ne è agito e anche, sì, da chi la norma la combatte, “ciò avviene perché il capitale recepisce il conflitto come una delle possibili forme della singolarità legate all’elemento della trasgressione. Come tale è sempre compatibile con il sistema” (p. 42).
Siamo in grado di identificare, anche con grande chiarezza, i processi di sussunzione alla base dei vari pink, rainbow, green, social -washing e da lì siamo capaci di decidere il nostro agire politico (o di decidere di non deciderlo).
Molto più difficile è comprendere questo nostro essere manodopera e proprietà allo stesso tempo nello spazio delle tecnologie digitali ovvero comprendere che niente è immateriale.
La mercificazione del vivente non passa solo attraverso le tecnologie riproduttive, lo sfruttamento animale, la manipolazione delle sementi e lo sfruttamento più o meno schiavile della manodopera, ma passa anche attraverso dispositivi tecnologici progettati per acquisire una delega sull’organizzazione sociale e cognitiva. (pp. 52-53)
Nella versione di te che racconti all’infinito diventi narrazione.
Nell’azione che compi all’infinito diventi prassi.
Nello scroll che ti in-trattiene all’infinito diventi merce.
Il cyborg inaspettato
Siamo state abituat* a pensare al cyborg in senso protesico, come forma di compenetrazione di organico e inorganico nel corpo umano, ci risulta quasi inconcepibile che avvenga, come in effetti avviene, il contrario, ossia che parti di noi vengano cedute alla macchina per farla funzionare meglio. Allo stesso modo è quasi impossibile per noi fare realmente i conti con la concretezza del nostro essere digitale.
Il profilo digitale sarebbe una sorta di seconda anima inorganica, ma com’è possibile fare un’esperienza così complessa lasciando a casa il proprio corpo? Non è possibile. L’esperienza digitale, che sia individuale o di massa, è tanto fisica quanto psichica, e coinvolge concretamente l’intero apparato psicosomatico. Quando interagiamo collettivamente nei media sociali non lasciamo a casa nulla anche se nel frattempo stiamo cucinando o prendendo la metro. Le due cose avvengono simultaneamente. (p. 38)
La stessa necessità di distinguere la vita reale dalla vita che conduciamo sui social network, per esempio, è la spia dell’impossibilità di tale separazione netta.
Questa impossibile separazione ha delle conseguenze concretissime su di noi anche se non ce ne rendiamo conto.
Non solo perché tutto quello che accade al/sul/con il nostro profilo ha un impatto sulla nostra psiche e sul nostro corpo (in un continuo accarezzare e schiaffeggiare l’ego in base alle interazioni), ma anche perché ci cediamo volontariamente al capitalismo del controllo.
Stiamo nella norma per la sua comodità d’uso e usandola la alimentiamo.
“Praticare la metamorfosi”
La risposta a queste criticità non sta nella creazione di alternative mimetiche di quelle esistenti che, di fatto, ne riproducono il funzionamento gerarchico e la pulsione al self branding.
Bisogna, come ci insegna il transfemminismo, stare scomod*, rifiutare le categorie identitarie e con esse la norma che si portano iscritta dentro.
Occorre disertare, anche se all’inizio può sembrarci una fatica inaffrontabile.
Rinunciare a utilizzare gli strumenti del padrone non significa rinunciare allo strumento in sé, ma alla cultura che ha prodotto e significato quello strumento.
È un processo di disidentificazione con le strutture sociali e sessuali, con il modo medio di azione e interazione con l’alterità, che naturalizzano le nostre vite sotto il capitale, lo stato, i regimi di oppressione razziale e di genocidio, il lavoro salariato, l’istituzione familiare. […] È il movimento di presa in carico del nostro rapporto con la tecnica, con il nostro sapere, con la propria interiorità. (pp. 143-144)
È hacking del sé.
Valentina Greco, transfemminista terrona, ha un dottorato in Storia delle donne e delle identità di genere. Dopo quindici anni di precariato accademico ha lasciato l’università, ma non la ricerca, e attualmente lavora come freelance nell’editoria. Ama l’arte, e non l’ha messa da parte.
Tra le ultime pubblicazioni: con Angela Balzano, Il noi politico dell’IVG in Pauline Harmange, Aborto. Il personale è politico, Mimesis, 2023; Rammemorare è il gesto di costruire il nostro futuro ovvero La memoria dei movimenti LGBTQI+ è rivoluzionaria in Clamorosə. Cassero: 40 anni di rumore, La Falla, 2022.
Puoi seguirla su Instagram.
UN ALTRO LIBRO
Decolonizzare lo sguardo. Riflessioni di una donna nera, spunti per sfidare gli stereotipi razzisti di Grace Fainelli (Eris Edizioni, 2025)
di Adil Mauro
[Alt Text: fotografia professionale di Grace Fainelli, attivista e formatrice afrodiscendente. L’autrice è ritratta in primo piano e sorride. Fonte.]
“Italiana afrodiscendente”. Queste sono le parole scelte da Grace Fainelli per descriversi in Decolonizzare lo sguardo. Riflessioni di una donna nera, spunti per sfidare gli stereotipi razzisti. Come spiega l'autrice i due termini rappresentano “una sfida a chi non mi riconosce come italiana, perché la mia pelle è nera, e a chi cerca di confinare la mia identità afrodiscendente a stereotipi che non mi rappresentano”. Un tema, quello delle parole, cruciale per Fainelli, esperta di comunicazione e linguaggio inclusivo, copywriter, creativa e formatrice nata a Torino nel 1991.
Partendo da un episodio vissuto – sulla sua pelle, è il caso di dire – quando aveva solo sette anni, Fainelli mette un'esperienza personale dolorosa al servizio di una visione collettiva, consapevole che le identità delle persone italiane afrodiscendenti “sfuggono a una caratterizzazione singola, piuttosto si definiscono attraverso un legame con molteplici luoghi e persone nel mondo”.
Nel caso di Fainelli il semplice fatto di essere figlia di una donna italiana e di un uomo senegalese l'ha esposta fin da piccola a uno sguardo coloniale che, senza sapere nulla della sua vita, non si fa problemi ad assegnare a lei il ruolo della “povera bambina africana” e alla madre quello della “salvatrice bianca”.
Ma il lavoro di decolonizzazione non riguarda solo lo sguardo degli altri. Un gesto apparentemente trascurabile come mangiare con le mani può avere una valenza politica in una società come la nostra che considera “da incivili” questo tipo di contatto col cibo. “Rivendicare un altro modo di vivere il pasto è uno degli atti di decolonizzazione che mi è stato fondamentale nella ricerca e affermazione della mia identità”, ricorda infatti l'autrice.
Nell'arco di questo breve saggio Fainelli ricostruisce il percorso intrapreso per spogliarsi dallo sguardo coloniale, razzista e patriarcale che ancora oggi condiziona le nostre vite. Uno sguardo che inferiorizza le persone non bianche, perpetuando stereotipi che in molti casi hanno delle finalità disumanizzanti. Si tratta di una “narrazione univoca”, come la chiama Fainelli, che ci viene insegnata a scuola e raccontata dai media.
Nelle prime pagine del saggio emerge subito con forza uno degli elementi cruciali del saggio, e cioè la necessità di smantellare un immaginario collettivo tuttora intriso di dinamiche razziste. Ma per farlo, per comprendere il presente che le persone razzializzate abitano e attraversano con i loro corpi, bisogna ripercorrere alcuni momenti del nostro passato coloniale. Un passato fatto di silenzi e omissioni che continuano a plasmare, spesso deformandolo, il nostro rapporto con ciò che consideriamo altro da noi.
“Sai che il colonialismo italiano inizia ufficialmente nel 1882 quando il Regno d'Italia acquista la Baia di Assab?”, domanda a un certo punto Fainelli. La risposta che si dà è un laconico “probabilmente no”. Tuttavia non stiamo parlando di una breve parentesi visto che il colonialismo italiano è durato ottant’anni, concludendosi formalmente nel 1960 quando la Somalia ottenne l'indipendenza dall'amministrazione fiduciaria assegnata dalle Nazioni Unite all'Italia.
Il colonialismo italiano può ancora contare su giudizi perfino positivi presso larghi settori dell'opinione pubblica grazie anche al mito autoassolutorio e duro a morire degli “italiani brava gente” che hanno fatto le strade e portato la civiltà in Africa. Secondo Fainelli “le narrazioni create durante l'epoca coloniale per sostenere la superiorità razziale e il dominio europeo non sono mai state completamente smantellate”. E per dimostrare quanto sia attuale il problema segnala il modo in cui i media occidentali hanno deciso di raccontare il conflitto in Ucraina, contrapponendo in più di un'occasione la popolazione ucraina in fuga a quelle di altri Paesi dell'Africa e del Sudest asiatico. Da una parte persone bianche “come noi” (ma “noi” chi?) e dall'altra orde di persone non bianche poco civilizzate e fondamentalmente incompatibili con i nostri valori.
Discorsi che toccano le corde più intime delle società occidentali e in particolare di quella italiana che con il concetto di bianchezza ha sempre avuto un rapporto molto complicato. Come ricorda la scrittrice Igiaba Scego
il bianco è un insieme di privilegi, non un colore. Bianco è una costruzione sociale. Un club esclusivo dove si può essere accettati se si hanno le 'giuste' credenziali o dove si può correre il rischio di essere cacciati.
Mentre le persone bianche lottano per rimanere in questo club esclusivo tutte le altre portano avanti un lungo e faticoso lavoro di decostruzione che, come intuisce la stessa Fainelli, a un certo punto pone le persone razzializzate davanti a un quesito ineludibile: “E poi?”. “Come ricostruirmi utilizzando gli strumenti culturali che sono alla base della mia stessa oppressione?”, si chiede l'autrice. Per Fainelli la risposta non si trova all'interno di confini solidi e definiti, ma nel ripensarsi da prospettive diverse senza l'ossessione di definire, categorizzare e delimitare tipica del pensiero bianco, occidentale e coloniale.
La consapevolezza di vivere sulla propria pelle una doppia oppressione, di razza e di genere, ha portato Fainelli a confrontarsi con le riflessioni di alcune pensatrici e attiviste afrodiscendenti: da bell hooks a Grada Kilomba, passando per Djamila Ribeiro e Audre Lorde. Donne nere ipersessualizzate, disumanizzate e trasformate in un territorio di conquista. Il colonialismo è anche una questione di genere.
Le terre da colonizzare venivano dipinte come misteriose e selvagge, proprio come le donne che vi abitavano, descritte con un temperamento disinibito e libidinoso. Racconti intrisi di sessualità esotica che richiamavano i colonizzatori […] L'associazione tra terra e corpo femminile ha reso la colonizzazione un atto di dominio, anche sessuale.
A tal proposito è impossibile non citare una delle pagine più vergognose della televisione italiana quando, nel 1969, il giornalista Indro Montanelli raccontò durante il programma “L'Ora della Verità” l'acquisto di una bambina eritrea di dodici anni. “In Africa è un'altra cosa” fu la sua giustificazione. Fainelli menziona l'episodio e il botta e risposta del giornalista con l'attivista femminista Elvira Banotti.
L'aspetto più impressionante dell'intera vicenda è che Montanelli difese praticamente fino alla morte il suo sprezzante sguardo coloniale, razzista e sessista. “Faticai molto a superare il suo odore dovuto al sego di capra di cui erano intrisi i suoi capelli, e ancor di più a stabilire con lei un rapporto sessuale perché era fin dalla nascita infibulata: il che, oltre a opporre ai miei desideri una barriera pressoché insormontabile (ci volle, per demolirla, il brutale intervento della madre), la rendeva del tutto insensibile”. Parole scritte dal giornalista nel 2000, un anno prima di morire, e pubblicate senza alcun problema sulle pagine del Corriere della Sera.
[Alt Text: immagine dal ritaglio di giornale della rubrica La stanza di Montanelli pubblicata il 12 febbraio 2020. Il titolo è “Quando andai a nozze con Destà” e Montanelli risponde a una lettrice raccontando le circostanze dell’acquisto e dello stupro di una quattordicenne eritrea.]
Il ruolo dei media è determinante e quando si parla di persone razzializzate – specialmente afrodiscendenti – sembra che le opzioni a disposizione siano soltanto due: abbracciare il discorso securitario che trasforma la persona migrante e il giovane con background migratorio nato o cresciuto qui in una minaccia o quello umanitario che non vede persone, ma solo vittime bisognose di aiuto.
“La mancanza di varietà rappresentativa non solo riflette l'immaginario dominante, ma lo rinforza”, dice Fainelli. “Ammettere che l'immaginario condiziona la vita delle persone è un primo passo […], si deve partire da qui: da una consapevolezza onesta che chiama in causa chi lavora nei media, chiedendo una riflessione seria sulle immagini, le parole e le narrazioni scelte”.
Un lavoro che Fainelli porta avanti anche con Narrazioni Contaminate, progetto avviato nel 2023 insieme alla scrittrice Espérance Hakuzwimana. L'idea delle due comunicatrici è quella di fornire a qualsiasi realtà interessata – dalle scuole alle aziende – parole e pratiche che servano a costruire mondi aperti e plurali, contemporanei e consapevoli, capaci di includere tutte le persone con le loro diversità.
Adil Mauro è un giornalista professionista nato a Roma da padre italiano e madre somala. Attualmente scrive per Il Manifesto e Vogue Italia. È @unoscribacchino sui social.
Ha un podcast: La stanza di Adil.
Ringraziamo Nicoletta, Valentina e Adil per i loro contributi, e Martina per la sua intervista. Ci leggiamo ad aprile per il numero del nostro settimo compleanno.
Un abbraccio!
Francesca, Gloria e Marzia
Ho gli occhi a cuore per questo numero, bellissimo!
Bellissimo numero, grazie sempre!