Benvenut@ a Ghinea, la newsletter senza agnelli sul piatto. Questo mese parliamo di libri: Sofia Racco legge Girlhood di Melissa Febos e Car G. Lepori Bi. Storia, scienza e cultura della bisessualità di Julia Shaw (tradotto da Marzia!). Buona lettura!
Hell is a teenage girl: stereotipi, corpo e sguardo in Girlhood
di Sofia Racco
Daisy Miller muore di febbre romana. Nana Coupeau di vaiolo. Ofelia si annega. Tess dei d’Urberville viene giustiziata. Emma Bovary si suicida con l’arsenico. Anna Karenina si getta sotto un treno. Io non sono morta.
Melissa Febos con Girlhood, tradotto da Federica Principi per nottetempo, traccia nitidamente un percorso che parte dalla forma classica del memoir, dal recupero e il riassemblamento di tasselli della sua vita attraverso la memoria: lo strumento di cui si serve la memoria di Febos per raccontarsi è il corpo. Corpo come agente sociale, strumento narrativo, ossessione, realtà da cancellare; ma anche portale sacro, mappa di relazioni e di confini attraverso cui ritrovarsi, ricostruirsi, ricompattarsi. Le esperienze e i temi che ne derivano sono numerosi: l’adolescenza, il sex work, il concetto di consenso e di limiti, il rapporto con la madre, la verginità, lo slut-shaming, l’esplorazione di una sessualità non conforme, la rappresentazione della donna nei media. Ma tutto parte dal corpo: da quello che subisce, da ciò che si infligge e da ciò che crea. E approda allo sdoppiamento del corpo, al conflitto tra sé stesso e la sua immagine: da un lato il riflesso allo specchio del corpo e di tutti i suoi mutamenti esteriori e interiori, dall’altro l’immagine fabbricata dal capitalismo e dal patriarcato e i precetti su come debba apparire il corpo di una ragazza. A guidare il percorso è lo sguardo: quello di una ragazza di undici anni che vede il suo riflesso cambiare e fa esperienza della dissociazione dalla realtà del suo corpo. Ma anche lo sguardo dell’autrice da adulta, che rimette insieme i pezzi e, in una scrittura che si fa atto di guarigione, si riavvicina a sé stessa.
[Alt text: Copertina dell’edizione italiana di Girlhood di Melissa Febos, edita da nottetempo. Nell’immagine, una ragazza stesa su un tappeto di foglie.]
Per Febos, la storia della gioventù e della presa di coscienza dell’essere una donna e di tutto quello che comporta è il resoconto di un viaggio infernale, tra violenze, consensi vuoti e bullismo. L’esperienza adolescenziale femminile, nell’ottica dell’autrice, non può essere sradicata dal progressivo e catastrofico allontanamento dal nostro corpo. Il femminile non è una qualità innata, ma il primo inganno in cui trasciniamo il nostro corpo nei tentativi di modellarlo a sua immagine e somiglianza. Un’astrazione estranea alla realtà corporea, la costruzione di un immaginario in cui avviene la prima separazione tra il corpo e la sua verità.
Il sé diventa unificato e al contempo oggettivizzato, e così inizia la spiacevole ricerca di un soggetto fisso. La bambina non sa distinguere il sé riflesso nello specchio da quello reale. Ecco la prima storia che racconta su sé stessa: quella sono io. È l’inizio dell’autoalienazione.
La crescita dell’autrice, raccontata attraverso una serie di racconti che con la loro struttura saggistica evidenziano l’intreccio inestricabile tra personale e politico, coincide con un estraniamento sempre maggiore: il suo corpo appartiene agli sguardi e ai desideri altrui, e l’unico rapporto che le è concesso è quello con il corpo che dovrebbe avere, con un’immagine fabbricata da forze sociali esterne, nella cui costruzione non le è consentito avere nessun ruolo attivo e creativo. Lo specchio diventa l’altro elemento cardine nella costruzione del sé: il riflesso prende il sopravvento sulla materia viva, sulla carne. Il senso di sé si forma all’incrocio tra lo sguardo del riflesso e lo sguardo degli altri: nello scollarsi dalla realtà corporea, si frammenta in una tensione irrisolvibile e insostenibile verso ciò che dovrebbe essere. Un soggetto determinato dallo sguardo altrui non può essere altro se non oggetto: il corpo perde la connessione con sé stesso, perde la sua capacità di conoscersi e di ascoltarsi.
Il sé diviene una collaborazione fra più persone, una serie di fantasie che conducono all’armatura di un’identità alienante. L’avete mai vista un’armatura? È fatta di innumerevoli parti. Ecco quando uno strano uomo mi ha dato un nomignolo. Ecco quando le altre ragazze mi fissavano. Ecco la pagella scolastica. Le piastre d’acciaio tintinnano e si muovono assieme come fossero una cosa sola. Il sé che giace al di sotto è invisibile agli altri. Siamo completamente soli dentro noi stessi. “Una volta che viene afferrato dallo sguardo dell’altro” scrive Fuchs, “il corpo-vissuto è drasticamente cambiato: da quel momento in poi reca l’impronta dell’altro; è ormai diventato corpo-per-gli altri, cioè un oggetto, una cosa, un corpo nudo”.
Lo sguardo nella sua impercettibilità diventa un atto violento, capace di lacerare e di sanzionare, di afferrare traiettorie esistenziali e deragliarle: quella che viene definita come reputazione diventa il prodotto sociale di uno sguardo tiranno, un’emanazione diretta del patriarcato sempre pronto a punire e a contenere ogni espressione autodeterminata della sessualità femminile.
Ogni donna deve coltivare una doppia identità: quella pubblica e quella reale. In un modo o nell’altro dobbiamo mantenere quell’identità frammentaria, poco importa se Lacan ci dice che non è possibile. La nostra vita dipende dalla nostra capacità di gestire questa dinamica. Possiamo sognare e pensare e sputare e scopare purché teniamo in ordine la casa. Purché non lasciamo impronte in giro o pepite nella mollica del pane. Se ci riusciamo, il gioco è fatto. Possono fare di noi ciò che vogliono...
La reputazione diventa la merce più preziosa per una donna, il tesoro da proteggere ad ogni costo: saper sfuggire e ingannare lo sguardo altrui diventa una questione di sopravvivenza. Ma l’acquisizione di quest’abilità ha un prezzo: nella dinamica della doppia identità, quella considerata reale è la parte sconfitta. Il costo diventa la perdita del contatto con il sé più autentico, l’ostilità verso un corpo impossibile da nascondere allo sguardo e da cui non ci si può allontanare.
Le conseguenze di quest’incapacità appresa e interiorizzata sono devastanti e si riverberano in ogni rapporto interpersonale, soprattutto quando si tratta di interfacciarsi con gli uomini: le dinamiche sono sbilanciate, la tendenza a sovrapporre l’agio e il benessere dell’uomo sulla vita stessa della donna innervano ogni interazione.
Nell’esporre le numerose esperienze negative avute con gli uomini, segnate da un’oggettificazione e svalutazione sistemica, Febos rivendica il suo diritto a riprendere il controllo anche attraverso la definizione di queste esperienze: la scrittrice mette in discussione le categorie di trauma e vittima e le sottrae alla strumentalizzazione patriarcale. Quello stesso patriarcato che fabbrica uno stereotipo di vittima ideale a cui aderire immolando la propria persona, solo per avere una possibilità di essere credute. Quelle categorie di trauma e vittima funzionali alla rappresentazione della violenza patriarcale non come fenomeno sistemico ma come mostruoso corpo estraneo, caso estremo, un’inspiegabile anomalia genetica del sistema. La conseguenza è la normalizzazione di tutte le varie forme di violenza e di soprusi che non rispettano questo copione: così normalizzate da non essere considerate nemmeno tali. Una sfumatura che Febos coglie nel tentativo di riappropriarsi della definizione di ciò che ha vissuto: “erano eventi – non aggressioni, né vittimizzazioni, ma neanche qualcosa che definirei una sana sperimentazione sessuale. E cioè un’esperienza che mi ha scisso piuttosto che completarmi. Vorrei dire che non erano esperienze “normali”, ma sfortunatamente credo che uno dei motivi per cui mancano le parole per distinguerle è che sono esperienze del tutto normali”.
[Alt text: nell’immagine una foto di Melissa Febos che indossa una maglietta grigia con su scritto “Protect me from what I want”.]
Queste esperienze e considerazioni di Febos, tratte dal racconto della sua vita, si dispiegano in un disegno corale: l’autobiografia di Febos si sottrae al rischio del soliloquio confrontandosi con le voci delle donne che intervista. Le parole delle donne si riflettono tra di loro: il gioco di specchi non è più sede di frammentazione ma di riconoscimento, di accoglienza, di accudimento. Nell’ascoltare le altre donne si riconoscono le nostre stesse ferite, gli stessi soprusi, la stessa disconnessione; nel rivedersi tutte ugualmente frammentate, si scopre una nuova unità, si apre la strada per una riconciliazione interiore, per una possibilità di rivendicazione. Ma soprattutto nel vedersi più di una con le stesse esperienze e le stesse parole, si riconosce il pattern sistemico dell’oppressione, la natura esterna di un male che sembrava innato.
L’amore per noi stessi è un istinto, animale quanto qualunque altra nostra funzione. La ferocia del mio affetto era incancellabile, poteva solo sopprimerla con una vigilanza totale. L’odio per me stessa non era autoprodotto. Era un’espressione dell’ambiente attorno al mio corpo che, scoprii più avanti, potevo cambiare. Il mio desiderio non era così. Come una poesia, una canzone o un fascio di luce azzeccati era un portale che affacciava direttamente su quella parte di me che capiva le iene meglio che gli esseri umani.
Un ruolo significativo nel processo di riconciliazione del corpo con la sua interiorità e con l’esterno è esercitato dall’erotismo. Febos comprende come la sessualità per le donne sia un campo complesso, spesso vittima di semplificazioni e schematismi: “Il sesso e l’amore sono stati debiti che dovevamo scontare con la società molto, molto più a lungo di quanto non siano stati percorsi volontari verso la nostra realizzazione”.
Nel regolare gli impulsi e gli stimoli provenienti dall’esterno e dalle relazioni e il modo in cui si riverberano nel rapporto con il proprio stesso corpo, l’erotismo diventa il portale che ha il potere di ricucire la lacerazione tra il corpo stesso e la sua interiorità. La dimensione erotica reca con sé un che di sacrale e allo stesso tempo di ferino: viene identificato con la parte animalesca dell’identità, quella più vicina alla natura, la stessa porzione identitaria che nel corpo femminile viene costantemente repressa e sanzionata dai meccanismi patriarcali interiorizzati. Ma questa ferinità quando viene liberata dalle strette maglie della paura e del disgusto, diventa redenzione: nel percorso di guarigione e di ristabilimento di un contatto sano e autentico con il proprio corpo, l’erotismo è il filo conduttore attraverso il quale viene ristabilito un legame emotivo profondo e gioioso con gli altri corpi. Il contatto libera dalla dittatura dello sguardo: lo sfiorarsi delle mani squarcia il mito dell’apparenza.
Volevo solo cambiare il modo che avevo di amare ed essere amata. Non sapevo che farlo mi avrebbe restituita a me stessa. Se l’erotico “si colloca tra l’inizio del nostro senso di sé e il caos del nostro sentire più profondo”, allora le mie mani sono e son sempre state, strumenti erotici. Erano i primi conduttori, i primi attori di quel caos del sentire più profondo, legato inestricabilmente al mio senso di sé di quando ero bambina. Dopo anni di lontananza, mi indicarono la via del ritorno.
L’erotismo di Febos si pone in contrasto con la sessualità capitalista e patriarcale. Una sessualità dissociata e spersonalizzante, caratterizzata dalla logica del dominio e dallo svuotamento della passione erotica autentica che il patriarcato, come spiega bell hooks, “ha cercato di reprimere e domare proprio per il potere che ha di attirarci in una comunione sempre maggiore con noi stessi, con le persone che conosciamo più intimamente e con gli estranei”.
[Alt text: un primo piano in bianco e nero di bell hooks durante un discorso.]
L’erotismo come luogo sia di connessione e di riconciliazione che di rivolta e di contestazione di una sfera superiore a quella individuale riecheggia proprio nelle parole di bell hooks ne La volontà di cambiare:
“L’ossessione per il sesso può essere curata riappropriandoci di tutti gli aspetti essenziali dell’esperienza umana dei quali abbiamo imparato a fare a meno: le nostre affinità, i rapporti affettuosi con persone di ogni età, estrazione e genere, il godimento sensuale del nostro corpo, l’appassionata espressione di sé, l’esaltazione del desiderio, il tenero amore per noi stessi e per l’altro, la vulnerabilità, l’aiuto nelle difficoltà, il dolce riposo, l’avvicinarsi e restare vicini a molte persone in molti tipi di relazioni”.
Seguendo questa traccia Febos chiude Girlhood, un libro che trascende il memoir e si mescola con la saggistica con l’obiettivo di costruire un mosaico di esistenze femminili in tumulto, alle prese con eredità complesse e futuri incerti.
Daisy Miller, Nana Coupeau, Ofelia, Tess dei d’Urberville, Anna Karenina, Emma Bovary: hanno tutte subito una punizione durissima per il loro trasgredire. Per diventare eroine della letteratura, farsi romanzo, hanno pagato con la morte. Melissa Febos si inserisce alla fine di questa sfilza di nomi, ma non ha intenzione di diventare l’ennesima eroina tragica raccontata da qualcun altro: è decisa a raccontarsi e a non morire. Senza lasciare indietro le Daisy, le Nana, le Ofelie.
Sofia Racco è nata a Reggio Calabria nel 1999. A un certo punto si è spostata a Torino, dove si è laureata in Lettere moderne. Adesso studia Cinema, arti della scena, musica e media e scrive di cinema su NPC Magazine, ODG Magazine, Cinefilia Ritrovata e Screenworld.it. Potete trovarla anche su Medium e Nido Magazine. Nel tempo libero continua a guardare film, leggere libri, scarabocchiare sugli angoli dei quaderni.
Bi: un resoconto dei saperi bisessuali odierni, e la speranza di contaminare ancora
di Car G. Lepori
[Alt Text: ritratto fotografico dell’autrice Julia Shaw, seduta a terra e circondata da bandiere arcobaleno. Fonte.]
Bi. Storia, scienza e cultura della bisessualità, scritto dalla ricercatrice di psicologia Julia Shaw e tradotto in italiano per Oscar Vault Mondadori da Marzia D’Amico, è un saggio che propone un’indagine sulla bisessualità attraverso una lente prettamente scientifica e storico-culturale. La tesi di Shaw si presenta da subito accompagnata da numerosi riferimenti e citazioni a studi che dall’inizio del XX secolo hanno caratterizzato la ricerca su vari aspetti della bisessualità, sia dal punto di vista dell’orientamento inteso come identità personale, che come comportamento all’interno di un quadro più generale sugli studi relativi alla sessualità umana e alla sua evoluzione biologica e sociale.
Dopo una breve introduzione volta a sfatare il mito della bisessualità come binaria, la prima parte del saggio si apre infatti con un’analisi degli studi sulla sessualità di diverse personalità che dalla fine del XIX secolo al secondo dopoguerra sono state pioniere della sessuologia, seppur con le loro contraddizioni e posizionamenti controversi, e che hanno contribuito ad offrire strumenti per interpretare successivamente la bisessualità come orientamento ad ampio spettro così come la conosciamo oggi. Successivamente, l’autrice sceglie di portare alla luce anche numerosi studi effettuati nel mondo animale che sembrerebbero evidenziare quanto sia più alta la possibilità che il comportamento bisessuale sia intrinseco e vantaggioso rispetto ai comportamenti monosessuali, criticando però il posizionamento bioessenzialista e l’insistenza sulla ricerca volta a trovare un’origine biologica dell’omosessualità.
Seppur non discostandosi mai troppo da una visione principalmente scientifica, la proposta di Shaw incontra il pensiero bisessuale radicale secondo il quale si potrebbe provare a immaginare un mondo dove la non-monosessualità sia la norma, o restando nei termini di una società come quella eteronormativa attuale, dove la maggiore normalizzazione di identità e comportamento bisessuale possa portare gli individui a mettere maggiormente in discussione il proprio sistema di valori sperimentando e abbracciando un comportamento bisessuale senza il timore di perdere l’attaccamento nei confronti della propria mascolinità ed eterosessualità. (Un discorso che Shaw individua come preponderante negli uomini cis).
Nell’analizzare le fonti storiche e scientifiche, più volte nel testo Shaw ribadisce la mancanza di fonti storiche accessibili sulla bisessualità come conseguenza della bifobia e della bi-cancellazione sistemica da sempre messa in atto fuori e dentro la comunità LGBTQIA+, pur insistendo sul valore dell’enfasi positiva sulle narrazioni bisessuali e tentando di invitare la comunità bisessuale a contrastare l’atteggiamento a volte diffuso di negatività e auto-commiserazione.
Shaw enfatizza spesso nel testo l’importanza e il valore degli spazi esclusivamente bisessuali come mezzo di contrasto alla bifobia e alla bicancellazione, luoghi che soprattutto dagli anni 70 agli anni 90 del secolo scorso, principalmente nel mondo occidentale, hanno contribuito alla creazione di una rete di diffusione di saperi, cultura ed esperienze bisessuali in opposizione all’allontanamento messo in atto dall’egemonia monosessuale dei movimenti LG di quegli anni, compresi i femminismi lesbici.
Il lavoro di Shaw ha valore per la sua capacità di rispondere in modo conciso e diretto attraverso i dati non appena al lettore sorga il dubbio sull’effettiva gravità della bifobia e i conseguenti danni sulla popolazione. Il testo presenta statistiche chiare e accessibili sui tassi di violenza sessuale, salute mentale compromessa e inaccessibilità dei servizi sanitari quando si tratta di pazienti bisessuali, specie se donne. Viene esplorato inoltre il tema delle molestie sul lavoro e le correlazioni con gli stereotipi negativi associati alla bisessualità come la feticizzazione e la promiscuità delle donne bisessuali, nonché la difficoltà dell’accesso ai servizi per la tutela delle persone LGBTQIA+ rifugiate quando la bisessualità dell’utente non viene creduta.
Sempre parlando di stereotipi negativi riguardanti la promiscuità, è interessante l’excursus storico sul ruolo delle persone bisessuali durante l’epidemia di HIV/AIDS negli anni 80, prima considerate come vettori colpevoli di trasmettere il virus dal mondo “sporco” (quello omosessuale) al mondo “pulito” (quello eterosessuale) e poi dimenticate dalle narrazioni gay mainstream come parti attive dei movimenti contro l’AIDS. A questo proposito, sarebbe stato interessante un maggiore approfondimento di figure bisessuali di riferimento in quegli anni. La presenza di poche testimonianze e contributi di militant* bisessuali ancora in vita o di loro memorie e la predilezione di contributi quasi esclusivamente da parte di figure accademiche toglie molto del potere politico della lotta dal basso e anti istituzionale che questo testo avrebbe potuto portare alla luce.
Resta comunque importante la visibilità data dall’autrice ad altre sfaccettature della lotta bisessuale che spesso vengono ignorate, come la centralità delle voci di persone bianche all’interno del movimento e l’inaccessibilità riscontrata dalle persone razzializzate in termini di accessibilità degli spazi, mancata intersezionalità delle lotte ed esperienze relative alle problematiche che le persone non bianche bisessuali possono riscontrare. Shaw critica inoltre le politiche omonazionaliste volte a dividere il mondo tra “noi” e “loro”, e le incoerenze di tali narrazioni nel voler creare un immaginario di occidente come unica realtà accogliente dimenticando le politiche coloniali sulle popolazioni considerate nel mainstream come retrograde e intrinsecamente oppressive nei confronti delle persone LGBTQIA+.
A questo proposito, particolare attenzione viene data alle politiche esplicite o implicite volte ad attuare terapie di conversione ed è presente nel testo una panoramica sulle leggi e le politiche dichiaratamente anti-LGBT in vari stati del mondo, dall’Uganda agli Stati Uniti.
Il testo riprende in molti passaggi i termini relativi alla discriminazione nei confronti delle persone bisessuali, come bifobia, bicancellazione, invisibilizzazione, stigmatizzazione e feticizzazione anche nelle rappresentazioni mediatiche, evidenziando come le donne bisessuali siano spesso state rappresentate come predatrici e femme fatale e generalmente vittime del male gaze, mentre risulta quasi del tutto assente la rappresentazione maschile e sembra esserci un timore comune nel pronunciare in modo esplicito la parola bisessuale, senza lasciarla intendere dal pubblico e senza che questa sia associata a soli stereotipi negativi. Anche in questo caso, sarebbe stato interessante un maggiore approfondimento sulla forza politica della parola bisessuale e su come questa parola nel tempo sia stata sempre rigettata o sostituita con altri termini più edulcorati, oltre a una maggiore enfasi sul monosessismo, termine caratteristico della lotta bisessuale che Shaw cita una sola volta nel testo.
Negli ultimi capitoli si apre il tema relativo all’intersezione tra bisessualità e non-monogamie, con una narrazione interessante e affermativa che si discosta da una paura generalizzata di trattare i due temi nel loro insieme onde evitare l’associazione della bisessualità con la promiscuità. L’analisi di Shaw è puntuale, provocatoria e condivisibile: seppur parlando dell’ovvia possibilità di coesistenza di persone bisessuali e monogame, la non-monogamia consensuale è narrata come un prezioso strumento di affermazione bisessuale e non come una minaccia alla stabilità dell’orientamento. L’autrice si sbilancia e mette su carta il fatto che alcune persone bisessuali vivano la monogamia come un sacrificio maggiore rispetto alle persone etero, gay o lesbiche, anche a causa della bi-cancellazione che subiscono se in relazione con un* partner di genere opposto di lunga data. A tal proposito, è interessante e non scontato l’approfondimento che l’autrice fa rispetto all’apparenza queer e ai segnali di riconoscimento di appartenenza a una comunità specifica, spesso espliciti per persone gay e lesbiche ma quasi del tutto assenti al fine di essere “letti” come persone bisessuali.
Seppur il testo si apra smontando lo stereotipo delle persone bisessuali come unicamente attratte da due generi binari e citando diverse definizioni più odierne e coerenti della bisessualità tra cui “attrazione a prescindere dal genere”, Shaw non approfondisce particolarmente il prezioso legame che la comunità bisessuale e transgender condividono, in termini di contrasto ai binarismi di genere e si percepisce una mancanza di approfondimento sulle alleanze che hanno portato le persone B e T ad essere nominate all’interno della comunità LGBTQIA+. L’autrice parla di uomini e donne bisessuali, raramente cita le persone non binarie e poca attenzione viene data al potenziale rivoluzionario di destabilizzazione dei binarismi di genere da chi decide di abbandonarli sia in termini di identità che di orientamento.
Una maggiore valorizzazione dell’esperienza trans* all’interno delle politiche di movimento bisessuali avrebbe reso ancora più completo e apprezzabile questo testo, oltre che contribuire ancora di più al contrasto delle narrazioni binarie e a tratti transfobiche che ancora oggi si sentono quelle poche volte in cui la bisessualità viene citata.
Nonostante ciò, Bi resta un testo fondamentale e molto ricco di fonti sull’argomento che raramente vengono diffuse al grande pubblico, scritto con un linguaggio che dà poco per scontato risultando abbastanza accessibile e scorrevole anche ai “non addetti ai lavori”.
Fondamentale è stata anche la possibilità di vedere tradotto il testo in lingua italiana. In un contesto dove la saggistica bisessuale rimane ai margini delle pubblicazioni che trattano di teoria queer, Bi di Julia Shaw rappresenta una piccola rivoluzione per il panorama editoriale bisessuale italiano, con la speranza che l’editoria non si fermi qui e possa dare spazio a tutti quei saperi bisessuali rimasti nascosti, o direttamente invisibilizzati.
Car G. Lepori (pronomi neutri) attraversa i collettivi transfemministi queer di Torino, con un focus sulle lotte e rivendicazioni delle persone poliamorose e bisessuali. Ha prodotto Poly-tecnico, Poly-tico e Poly-roid (2021), serie di zines sulle non-monogamie. È coautorə del saggio Poliamore. Riflessioni transfemministe queer per una critica al sistema monogamo (Eris Edizioni, 2023).
Di fronte alla tragedia che si sta consumando a Gaza, ci domandiamo cosa possiamo fare da qui. Una piccola cosa alla nostra portata può essere un aiuto economico alle persone che si trovano nel mezzo di una crisi umanitaria indescrivibile: molte raccolte fondi sono presenti su questo profilo Instagram, sempre aggiornato.
Cristina ci segnala il podcast DiClassica, scritto da Margherita Macrì e dedicato a otto musiciste e compositrici degli ultimi due secoli. Si tratta di un lavoro di scoperta e valorizzazione della presenza femminile in un ambito, quello della musica colta, tradizionalmente associato al genio maschile.
Pochi giorni fa a Ilaria Salis, antifascista italiana detenuta in Ungheria da mesi e mesi, sono stati negati i domiciliari. All’udienza era presente una delegazione di compagnx di Ilaria: una di loro racconta cos’è successo in aula a Radio Onda Rossa.
La storia del diritto all’aborto.
La newsletter SCUM book club si occupa di tradurre in italiano e rendere così fruibili a più persone brevi testi di teoria femminista. Negli ultimi mesi, hanno pubblicato diversi contributi sulla questione palestinese: puoi leggere le parole di Andrea Dworkin, Noura Erakat, Nada Elia e molte altre.
Claire Simon introduce il suo ultimo documentario, Notre Corps.
[Alt Text: frame da Notre Corps. Una persona è allettata e un’altra la sta accudendo: vediamo il particolare delle loro mani, posate l’una sull’altra sul lenzuolo. ]
Dinamopress pubblica un’intervista a Sofia Orr, giovane obiettrice di coscienza israeliana. Il rifiuto all’arruolamento di Sofia è una scelta nonviolenta maturata anni fa e consolidata in questi mesi in seguito all’attacco di Hamas del 7 ottobre e alla durissima risposta militare israeliana, che sta causando decine di migliaia di perdite civili e una grave crisi umanitaria.
La rappresentazione della violenza sessuale in alcune pellicole recenti (e una un po’ meno recente): ne parla El salto.
Su Jacobin, Ilaria Marducco racconta il dissesto del lavoro di cura: precarietà, esperienze sottopagate, orari insostenibili che fiaccano chi opera nel terzo settore:
Il numero di working poors nel nostro settore è tale da portare a situazioni paradossali come quella di confrontarti con persone beneficiarie in situazioni di fragilità che ricevono sussidi a cui tu non hai diritto, perché sulla carta hai un salario ma magari la tua cooperativa è in ritardo con gli stipendi o quel che ricevi è appena sopra la soglia Isee che ti esclude da benefici come i bonus sociali per i consumi, mentre il telelavoro e la flessibilità scaricano su di te anche le spese di una buona connessione internet o del piano telefonico che usi per lavorare. In una situazione che ha «cinquanta sfumature di perversione» tra le tipologie di contratti, cooperative, imprese sociali, bandi, affidamenti diretti o meno, gare, accreditamenti ecc., a cui si aggiunge la confusa fluidità tra l’associazione e l’impresa: da un lato, sulla carta, ci sono rapporti personali, valori, modelli e progetti, anche economici, che hanno potenziale per mostrare un modo diverso di intendere le relazioni professionali, dando grande spazio all’espressione individuale, alla creatività e alla partecipazione ai processi; dall’altro ci si muove in un equilibrio molto precario «in un meccanismo autoreferenziale, autoalimentante, autoriproduttivo, che in nome del bene chiede ai giovani di rinunciare a certi diritti. Un meccanismo che ha bisogno di personalità narcisistiche e di contiguità con il potere, e che sfocia in dinamiche da setta», scriveva Luca Rastello.
Da settimane, Ilaria e alcune sue colleghe dell’associazione Eufemia di Torino portano avanti una campagna di informazione e mobilitazione su questi temi e sulla propria esperienza lavorativa.
In these times sta seguendo la vicenda di Lationna Halbert, la prima donna a cui lo stato del Mississippi ha negato l’accesso all’aborto dopo la sentenza Dobbs emessa dalla Corte Suprema statunitense, e fa il punto sulle politiche di sostegno alle famiglie e alle madri adottate dagli stati e dal governo federale.
FATTO DA NOI
Marzia ha tradotto in inglese delle poesie di June Scialpi per lay0ut.
FATTO DA VOI
Martina Neglia ha recensito Il periodo del silenzio di Francesca Manfredi.
Giorgia Maurovich ha scritto di Olga Tokarczuk sul Tascabile.
Sulla newsletter Singolare, Femminile, trovi una rassegna dal BFI Flare, festival di cinema queer, scritta da Marta Corato.
Un ritratto di Olivia Manning, a cura di Alessia Ragno.
Plutocratica Sicumera è una newsletter dedicata ai fumetti: la scrive Lavinia M. Caradonna, che nell’ultimo numero ha intervistato il collettivo Moleste.
A proposito di newsletter, le cinefile di La smarginatura hanno scritto di May, December.
CALENDARIO
Marzia porta in giro il suo libro di poesia Liricologismo. Il 5 aprile a Pisa presso la libreria Tra le righe, il 6 aprile invece a Bologna da Baak.
UNA POESIA
La pioggia di Gelsomini di Shad Wadi
Il mio testo è un popolo.
Non dirò.
Solo il mai rimuoverà la mia rabbia dopo rabbia dalla sua fossa cava estremamente vuota.
Non dirò quanti sono. Non formulerò un numero che, nel frattempo, è cambiato, che, nel frattempo, è cambiato, che, nel frattempo, è cambiato, di persone eternamente rimaste. Per esser palestinesi, scomparvero per sempre dal luogo verso il quale fuggirono. Sono morte senza cena. Nella loro gola, neanche uno sputo d’acqua. Non le trasformerò, ancora una volta, in un numero esiliato, adatto a una notizia da piè di pagina.
Macché poesia! Non condividerò storie d’amore, di coraggio e di resilienza. Che si fotta la resilienza. Il mio essere è già stato interrotto dinnanzi a un confine, ma finanche le mie parole sono già state sterminate.
Il mio testo è già stato eliminato.
Il nodo alla mia gola è ora una fossa comune: “Da tanto trasportare le bare dei miei amici, la mia spalla s’è fatta cimitero.” Quale verso reggerebbe di fianco alla domanda: “papà, i morti vanno in cielo, lo stesso luogo da dove ci cadono le bombe addosso?”.
Il canto non è più un’arma.
Nulla disintaserà il mio tanto parlare che in me si tace. Mai riuscirò a reclamare indietro, alle orecchie deliberatamente sorde, le grida che echeggiano nel mio corpo stupidamente distante: “Questa cenere una volta era mio figlio.”
Pausa. Il mio testo è silenzio.
Fino a dove può estendersi il fondo di questo abisso? Non mi pronuncerò sulle schegge di notizie che perforano solo certuni occhi. Non spingerò i cadaveri della mia gente cucchiaio a cucchiaio nelle bocche immonde, provando a dimostrare che non ci siamo soffocati da soli.
Oh, mondo, sei lì?
Il giornalista sta finalmente annunciando l’arrivo dell’unica sopravvissuta: “nessuno sa chi sia, neanche lei stessa.”
Il mio testo è un’incognita.
Non chiamerò più nessuno per mostrare le tante, tante, tante vite cadute sulle mie dita incollate a un cellulare. Non dimostrerò che erano realmente vite, né che erano umane.
Non sarò più figlia di un rifugiato palestinese, solo una figlia di puttana.
Non descriverò la foto di Eline, con un nome in sé biondo, morta con il suo piccolo chapeau, neppure permetterò che la vedano solo per i suoi occhi azzurri: era proprio una bambina. Non tradurrò il testamento di Haya, la giusta distribuzione dei suoi giocattoli, né i risparmi del suo salvadanaio che disobbedisce a qualunque interpretazione. Il mio testo è un salvadanaio. Zein ha ritrovato il suo fra i relitti della sua casa, ma ora a nulla serve comprare il letto per il quale risparmiava. E il bimbo senza nome, starà scavando fra le macerie per trovare la sua famiglia?
Il mio testo sono macerie senza nome.
No. Neppure svuoterò qui i sacchi letteralmente pieni di resti di figli, sono solo sacchi e di plastica, pieni di spazzatura umana: noi.
Il mio testo siamo noi in sacchi di plastica.
La mia voce è rimasta roca dall’utilizzare le maiuscole nei termini detti giusti: Diritto Internazionale, Risoluzione delle Nazioni Unite, Autodeterminazione, ma a me chi mi determina?
L’amico di Nour ha perduto tutti i suoi amici, “un quartiere è andato distrutto”. Il mio testo è un quartiere.
Accosto il mio schermo alla spalla di Mariam mentre piange “neanche per l’orrore che si è abbattuto su di noi, ma per la negazione che ciò ci stia accadendo.” Samaher non ha pianto come aveva promesso, “lasciandosi scappare appena due piccole lacrime inesistenti, affinché la diga non si rompa per i suoi gemiti.” Senza piangere ha evitato la morte, abdicando del diritto d’autrice, lasciando da scaricare il suo romanzo, che arriva al mio schermo direttamente da Gaza.
Il mio testo è caricato e scaricato da Gaza.
Due lati? No, il coro della mia anima non ripeterà più: prigione a cielo aperto, apartheid, occupato – occupante, oppresso – oppressore, Nakba, Naksa, 1948, 1967, 2023, ma perché diamine questo terremoto non scuote nessuno?
Il mio testo è un terremoto.
Perché parlare dei sogni di Farah se adesso si riassumono a un momento giornaliero in cui riceve il messaggio: “Sono ancora viva”. Qualunque chiamata è un potenziale addio, qualunque momento è un potenziale momento, comunque, in una telefonata miracolosamente possibile, tra un bombardamento e l’altro, la madre di Kawther non si dimentica d’esser madre: “che ne è stato della tua menta, figlia mia?”.
“Fida Falastin. Per te, Palestina,” disse l’uomo che risparmiò 40 anni per costruire la casa ridotta ormai in polvere. Luce.
La mia lingua è già rimasta paralizzata, immaginando lo stendibiancheria di Hiba. Un quartiere intero s’è esiliato lasciando la solitudine su uno stendibiancheria lontano sulla finestra di una vicina di casa. Hiba risponde, stendendo asciugamani, ai quali cambia colore e posizione tutti i giorni. La donna della finestra distante, fa la stessa cosa. Un asciugamano, sono viva. Un altro, sono verde. Sono con te. Siamo insieme. Resistiamo.
Ma quale prosa!
Sì, ho sentito bene, egli ha detto: “Sulle rovine della mia casa, dormirò. Qui rimarrò”. Ma quel mio popolo palestinese non ha ancora abbandonato la malattia incurabile chiamata speranza?
Il mio testo è incurabile.
Mentre le piovevano rockets sulla testa, Eman diceva: “prego che piovano gelsomini”.
Con lei, scuoterò i miei corpi morti, innalzerò la mia bandiera e la mia danza. Un giorno ci sarà pioggia di gelsomini.
Il mio testo è pioggia di gelsomini.
[Alt Text: ritratto fotografico all’aperto e in primo piano di Shahd Wadi, che ha lunghi capelli ricci e indossa una kefiah. Dietro di lei, una strada e alcuni passanti. Fonte.]
Shahd Wadi è poeta, studiosa, e attivista palestinese, cittadina portoghese, e autrice plurilingue. Ha pubblicato Corpos na trouxa: histórias-artísticas-de-vida de mulheres palestinianas no exílio (CES, 2017). La versione originale in lingua portoghese di questa poesia è stata pubblicata sul website Gerador, mentre la traduzione della poesia in lingua italiana qui riportata è a firma di Fabrizio Boscaglia per Occaso.
Grazie a Sofia e Car per aver contribuito a questo numero. Ci leggiamo tra un mese!
Un abbraccio!
Francesca, Gloria e Marzia