La ghinea di maggio
Benvenutx a Ghinea, la newsletter che tira il fiato dopo lo specialone uscito due settimane fa (eccolo!). Questo mese torna Chiara Muzzicato, che mette in dialogo Génie la matta di Inès Cagnati e Le voci della sera di Natalia Ginzburg. Troverai anche il nostro saluto a Biancamaria Frabotta, e un appuntamento da scrivere in agenda. Buona lettura!
La scrittura ricorsiva della memoria
di Chiara Muzzicato
Nel suo poemetto Un posto di vacanza, Vittorio Sereni attribuisce alla memoria una capacità specifica: la memoria si fa spirito fabbricatore che aggrega e dissipa, crea per poi dissolvere, lasciando le immagini evocate a confrontarsi con il loro riflesso.
Fabbrica desideri la memoria,
poi è lasciata sola a dissanguarsi
su questi specchi multipli.
Attraverso questi pochi versi Sereni è in grado di mettere a fuoco le mistificazioni e le consolazioni con cui la memoria blandisce chi a essa ricorre per continuare a vivere, facendo al contempo emergere quei meccanismi autopunitivi del ricordare, trappole della memoria da cui a volte pare impossibile svincolarsi. Come se la nostra immagine, noi assenti, continuasse a rimbalzare di specchio in specchio in un discorso di rifrazione che non solo non ci riguarda più, ma non risponde a nessun tentativo di controllo.
[Alt Text: la copertina di Génie la matta raffigura l’opera Alberello nel tardo autunno di Egon Schiele (1911). Fonte.]
È una dinamica di rifrazione apparente quella che governa il romanzo di Inès Cagnati, Génie la matta, scritto nel 1976 e portato in Italia da Adelphi quest’anno. Nel romanzo, costruito a quadri narrativi giustapposti, la scrittrice segue la vita di Marie nella Francia rurale, esplorando il suo status di outsider in quanto figlia di una outsider, la madre del titolo: Génie la matta. La narrazione in prima persona, dal privilegiato punto di vista della bambina, si comporta come una lente deformante e nostalgica e ci permette di avere accesso a quella fase dell’infanzia in cui il tempo – evocato dai ricordi – non sembra mai procedere in una linea dritta o coerente. Di conseguenza il tempo di Marie bambina che vive e racconta/ricorda si comporta come olio su acqua, aggregandosi e disgregandosi in forme di dimensioni diseguali che si riflettono nella struttura dei capitoli, non numerati e sempre brevi, di lunghezza variabile fino a un minimo di poche righe.
Analizzare questo testo dal punto di vista della ricorsività permette dunque di mettere in luce non solo il meccanismo della memoria che a esso soggiace, e che condiziona di conseguenza la struttura stessa del romanzo e la formularità del suo lessico, ma ci consente di illuminare il possibile significato dell’esperienza di vita di Marie e Génie, intrappolate nel sistema infrangibile di rifrazione della colpa degli oppressi.
Se i primi capitoli sono dedicati da Marie alla figura della madre, con la sua quotidianità fatta di durezze e silenzi, con il procedere del racconto la narrazione di Marie lentamente inizia a discostarsi dal suo centro indiscusso – la madre, Génie la matta – per includere nei suoi resoconti un'altra figura. Pierre, un uomo conosciuto alla stazione, costituirà l’unico altro io, dialogante e silenzioso al contempo: Pierre è l’unica deroga narrativa che Marie si concede quando distrae lo sguardo dalla madre, regina silente e solo punto di approdo del suo amore di bambina.
Il capitolo che presenta il personaggio di Pierre è un buon esempio di quella formularità narrativa e ricorsività sistemica che Inès Cagnati adotta nel presentare personaggi e situazioni, come se queste tecniche di ripetizione funzionassero anche da strumenti di misurazione del tempo, emotivo e reale al contempo, due dimensioni queste che nella Marie che racconta sembrano coincidere non senza conflitto. Brevissima, la porzione narrativa si apre con un breve dialogo tra i due:
Ho incontrato Pierre una notte, alla stazione. Mi è venuto incontro e ha detto:
<<Sono Pierre>>.
E io:
<<Sono Marie>>.
Il racconto della notte in cui si sono conosciuti procede in una sospensione temporale voluta e ambigua che non ci permette – perché non vuole – di individuare l’esatto momento in cui si collochi questo incontro. Quello che sembrava procedere in maniera lineare viene invece deviato e riproposto in altra forma dall’autrice, come un ricordo che non si esaurisce e torna inedito, di poco cambiato o semplicemente interrotto, uno schermo che si spegne a metà di una scena. La fine del capitolo suona infatti così:
Alla fine il capostazione ci ha chiusi dentro la stazione. Dopo un bel po’ di silenzio, io che guardavo i tigli brulli della piazzetta, Pierre che guardava i binari vuoti, lui è venuto da me e ha detto:
<<Sono Pierre>>.
E io:
<<Sono Marie>>.
Il capitolo finisce dunque esattamente come si è aperto, con l’inizio di una storia che ci appare anche come sua fine, senza che l’io di Marie ci permetta di sapere altro o conoscere la vera fine. Racconterà la fine di questa storia, sì, ma non in questo momento. Inès Cagnati ci intrappola una ricorsività da cui non vi è uscita né vera salvezza, e se a volte è possibile una latente consolazione nostalgica questa viene negata dalla consapevolezza che la vita, la vita e l’amore, per alcunə non possono esistere al di fuori della confortante ricorsività della memoria.
Questa uso della ricorsività non sembra configurarsi dunque solo come tecnica narrativa neutra, ma si costituisce come una modalità sistematica di rappresentazione di quel destino di oppressə, come Marie e Génie e Pierre, che non solo non consente un riscatto o una possibilità di fuga, ma condanna chi cerca di cambiarlo. La formularità come la circolarità delle strutture narrative diventano così in mano a Inés Cagnati degli strumenti di analisi di quelle vite vissute al margine condannate a sembrare tutte uguali perché tutte oppresse allo stesso modo, uno specchio che riflette sempre la stessa immagine, poi lasciata sola a dissanguarsi.
Nell’intervista fattale dalla scrittrice Laurence Paton – posta in calce all’edizione Adelphi – Inès Cagnati inquadra il ruolo dell’outsider come stabilizzatore della società, garante di quella linea di confine tra sé e la presunta “normalità” a cui appartiene il resto della comunità, finalmente rassicurata.
Sotto questo profilo, il matto ha un suo posto nella società e viene rispettato, [...] almeno sino a quando non rappresenta una minaccia per gli interessi di qualcuno. Non a caso, finché Génie (che non è matta) accetta il suo ruolo di matta sfruttata, la comunità ne assicura la vita, o quanto meno la sopravvivenza. Ma non appena aspirerà a un’esistenza normale, con un marito e un figlio, quella stessa comunità cercherà di farla rinchiudere e si vendicherà del tradimento rivalendosi sul bambino.
Se da un lato dunque la formularità inquadra e condanna le vite di Marie e Génie, da un altro punto di vista le frasi quotidiane che la madre rivolge alla figlia – spesso non prive di parole dure o brusche – e che nel testo vengono ripetute sempre uguali possono essere viste anche come una modalità della presenza, un linguaggio materno privato le cui regole grammaticali e affettive non sono condivise con chi legge. È anche questo linguaggio che contribuisce a isolare madre e figlia in uno spazio condiviso e al contempo separato da tutto il resto, un luogo disgiunto in cui le gerarchie che vigono al di fuori non hanno senso.
L’amore che Marie prova per la sua vaccherella cieca Rose e l’anatroccolo Benoît non ha meno valore dell’amore per il nonno o la voce dei salici nel vento: dalla sua condizione di outsider Marie è in grado di generare parentele inedite funzionanti e dunque dirompenti per una comunità che non le capisce, e anche per questo sarà condannata e punita da quella stessa comunità che comprende solo relazioni gerarchizzate e di sopruso.
Alla fine ho sentito i suoi passi, mi sono alzata in piedi sul sentiero con Benoît che non la smetteva più di gridare. Quando mi è stata accanto, ho detto:
<<Ho portato un anatroccolo per fare compagnia a Rose>>.
Ma lei l’aveva già visto. Ha continuato a camminare e mi sono accorta di quanto era stanca perché anche lei aveva lavorato senza fermarsi un attimo nei campi di granturco. Mentre arrivavamo a casa, Benoît pigolava ancora. Lei ha detto:
<<Ha fame>>.
E gli ha preparato qualche foglia di insalata sminuzzata e delle uova sode schiacciate. Benoît ha mangiato tutto.
La formularità del linguaggio materno affettivo di Génie la matta trova una corrispondenza, sebbene con modi e funzionalità narrative diverse, nel linguaggio ricorsivo dei personaggi nel romanzo breve Le voci della sera di Natalia Ginzburg. Scritto nel 1961, il romanzo mette in scena – orchestrandole in un movimento di disgregazione e aggregazione continuo – le voci degli abitanti di un paese e le loro storie, che sembrano impregnare lo spazio fino a cambiarne la fisionomia memoriale e fisica.
Ne Le voci della sera è possibile assistere a una sorta di movimento circolare e quasi spiralico che riporta continuamente le voci e le organizza in precise simmetrie fatte di rimandi e riprese, citazioni interne che si parlano a pagine di distanze. Diventa quasi possibile visualizzare queste voci come i tanti fili della fabbrica di stoffe attorno a cui gira il paese, voci che viaggiando nello spazio si intrecciano e comunicano, si annodano, saltano un punto e quando lo saltano possono rompersi matrimoni, incomunicabilità che spezzano legami, amori che non mai stati amori ma solo richieste di vicinanza. Sono queste voci a strutturare la trama e a costituire la spina dorsale del romanzo, testo che si regge su una voce narrante principale che ci racconta le vite dellə altrə e quasi nulla della propria. La storia dell’amore tra Elsa e il Tommasino svanisce tra il vociare del paese e nel suo scomparire si unisce a quell’insieme di fili di stoffa, prima aggregati e ora sciolti, divisi dal silenzio di chi, persə nelle voci di altrə, perde la propria.
Quella composizione ad anello che abbiamo già trovato in Génie la matta viene estesa da Natalia Ginzburg a tutta la struttura del romanzo, creando così una circolarità che intrappola il paese e le sue voci in un continuum spaziale che continua a rigenerarsi e a trovare energia in se stesso. La scena che apre il romanzo, un lungo dialogo tra la protagonista – ancora senza voce – e sua madre, si ripete infatti seguendo lo stesso pattern di costruzione del dialogo. La sezione incipitaria del romanzo presenta infatti un dialogo portato avanti unicamente dalla voce della madre, che solo in ultima battuta, come il primo respiro dopo un’apnea lunga due pagine, si risolve nella voce della protagonista che si rivela.
Disse: – Non avrò mica l’arteriosclerosi?
Disse: – Ci sarà da fidarsi di questo nuovo dottore? Il vecchio era vecchio, si capisce, non si interessava piú. Se gli si diceva un disturbo, diceva subito che l’aveva anche lui. Questo scrive tutto, hai visto come scrive tutto? Hai visto com’è brutta la moglie?
Disse: – Ma possibile che non si possa avere da te, qualche volta, il miracolo d’una parola?
– Che moglie? – dissi.
Adoperando una modalità che sarà poi protagonista del successivo e più famoso Lessico Famigliare, anche qui Natalia Ginzburg affida alla protagonista Elsa quell’io nascosto e reticente che riserverà alla se stessa narratrice del Lessico. Come la pronuncia e lo svelamento del nome di Natalia in Lessico Famigliare viene affidato alla figura della madre – personaggio centrale del testo – anche ne Le voci della sera la rivelazione del nome della narratrice ci viene tenuto nascosto fino a metà del romanzo, e sarà il Tommasino – personaggio rilevante per la protagonista, l’unico grande altro – a pronunciare il suo nome, con un atto di nominazione che è quasi creazione.
E c’è il fiume, davanti a noi, silenzioso, con le sue acque verdi, con le barche legate alla riva, col casotto dell’imbarcatoio piantato su palafitte, la scaletta di legno dove batton le onde.
Lui mi fa una carezza sul viso. Mi dice:
– Povera Elsa!
La studiosa Elisa Gambaro, oltre a riconoscere questo “ricorso estremo alla reticenza” ne Le voci della sera, nel suo lungo e articolato saggio “L’io nascosto di Lessico Famigliare” descrive le qualità di questa voce – comune ai due romanzi – come una voce che sa essere insieme ironica e patetica, in grado di creare distanza e vicinanza al contempo rispetto al pubblico cui si rivolge. Dall’estratto di una lettera a Italo Calvino in cui Natalia Ginzburg affronta Le voci della sera, e che Gambaro riporta nel suo testo, troviamo invece la traccia del legame tra la qualità di questa voce e le caratteristiche di una scrittura che scaturisce direttamente dalla memoria.
E dai luoghi della mia infanzia scaturivano le figure della mia infanzia, e dialogavano, fra loro e con me. Ne provai grande gioia. [...]
C’era ben poco da inventare, e non inventai. O meglio inventai ma l’inventare scaturiva dalla memoria, e la memoria era così risoluta e felice che si liberava senza sforzo di quello che non le rassomigliava.
A sigillare questo legame tra memoria e scrittura – che ha come conseguenza la narrativizzazione delle tecniche del ricordo – e a conferma di questo coinvolgimento emotivo e memoriale, contribuisce il disclaimer iniziale, quel “Ogni riferimento a fatti o persone…” che Natalia Ginzburg riscrive e adatta alle sue personali necessità:
In questo racconto i luoghi, e i personaggi, sono immaginari. Gli uni non si trovano sulla carta geografica, gli altri non vivono, né sono mai vissuti, in nessuna parte del mondo.
E mi dispiace dirlo, avendoli amati come fossero veri.
Bibliografia
Inès Cagnati, Génie la matta [Génie la folle], Adelphi, Milano, 2022 [1976], traduzione dal francese di Ena Marchi;
Elisa Gambaro, “L’io nascosto di Lessico Famigliare”, in Diventare autrice, Unicopli, Milano, 2018.
Natalia Ginzburg, Le voci della sera, Einaudi, Torino, 1961.
Vittorio Sereni, “Un posto di vacanza”, in Stella variabile, il Saggiatore, Milano, 2017 [1979].
Chiara Muzzicato nasce nel 1996 sull’unica isola del fiume Tevere e da tre anni vive a Milano. Adora fare liste, della spesa, soprattutto, ma anche di libri e film che non leggerà e non guarderà mai. Le piacciono le piante, quando non le uccide, e ha sempre desiderato avere un animale domestico (uno qualunque). Su Instagram disegna, fotografa e parla di libri sotto il nome di @chiasmatica. Fa inutile (e ogni tanto lo è) dal 2019.
“E naturalmente, cred(ev)o nella diffusione della scrittura femminista, per quanto estenuante e poco apprezzato potesse essere quel tipo di lavoro”: sul suo spazio Medium, Nicole Froio riflette sull’eterno nodo del lavoro culturale svolto per passione e per urgenza etica, che però sempre lavoro rimane, specialmente (ma non solo) se inserito all’interno di pubblicazioni e progetti che non possono che sottostare a logiche di costi e benefici, profitti, e mercato.
La perenne emergenza dei femminicidi in Messico.
La detenzione amministrativa degli stranieri nei CPR: Adil Mauro ne parla con Federica Borlizzi, co-curatrice del rapporto "Buchi neri. La detenzione senza reato nei CPR". Se vuoi rimanere aggiornatx su questo argomento, Federica Borlizzi cura una newsletter dedicata.
In seguito all’acquisizione di Twitter da parte di Elon Musk, si è tornato a parlare con insistenza di Mastodon. Nel 2019, la redazione di Malamente ha intervistato il collettivo bolognese Bida su un'idea differente di presenza virtuale, sul rapporto tra social media e movimenti, e sulle particolarità che rendono Mastodon uno strumento utile.
Nonostante sia cominciato ormai in aprile, non è facile informarsi in merito al processo Heard-Depp da un punto di vista legale. Varie testate riportano continui aggiornamenti in maniera sensazionalistica al solo scopo di aumentare la visibilità dell’evento senza condividere notizie, soddisfacendo piuttosto il carattere voyeuristico e alimentando una tendenza alla condanna popolare esplicitata sui profili delle più disparate persone. La riproduzione continua di frammenti di video del processo condivisi e commentati nella forma di meme, TikTok, e altre forme di riduzione e semplificazione che possa raggiungere un carattere virale nel web.
Il processo è una causa civile per diffamazione, un’accusa per 50 milioni di dollari da parte di Depp nei confronti della ex-moglie Amber Heard presso il tribunale della contea di Fairfax (Virginia) per aver firmato un articolo del 2018 sul Washington Post in cui si descriveva come “una figura pubblica che rappresenta l'abuso domestico”. Nonostante il nome di Depp non venga mai menzionato direttamente, i legali di Depp sostengono che a causa dell’insinuazione indiretta (Heard aveva di fatto denunciato Depp nel 2016, due anni prima dell’uscita dell’articolo) l’attore avrebbe avuto un sostanziale calo nel proprio reddito.
Già nel 2020 Depp si era premurato di avviare azioni legali nei confronti dei giornali che ponevano attenzione ai suoi comportamenti violenti. Fu il tabloid britannico (The Sun) a definire Depp un wife-beater, e nel corso delle tre settimane di processo sono state presentate abbastanza prove di violenza perpetrata su Heard in almeno 14 differenti occasioni, spesso come risultato di un abuso di alcol e sostanze, tra il 2013 e il 2016. Nell’articolo, Heard dichiarava che aveva avuto modo di osservare “da un punto di vista privilegiato, e in tempo reale, come le istituzioni proteggono gli uomini accusati di abusi”: questo è particolarmente vero nel caso di donne che, come Heard, non rappresentano la ‘vittima perfetta’.
L’ossessione generale per questo nuovo processo si è trasformata in una vera e propria presa di posizione a priori da parte de@ fans. La violenza mediatica riservata ad Amber Heard è direttamente proporzionale alla calorosa difesa di Johnny Depp, come si può notare anche dai video di persone che popolano le strade oltre i cancelli della corte di giustizia per celebrare e supportare Depp.
L’atteggiamento dei civili che seguono il processo è responsabilità personale, e molto ci sarebbe da dire su quanto alla leggera questo venga preso:
Depp e Heard rappresentano i rischi legati ai legami emotivi che i fan sviluppano con le celebrità e come queste relazioni possano avere implicazioni materiali sul modo in cui comprendiamo la violenza e su come dovrebbe essere affrontata.
A livello comunitario dobbiamo domandarci cosa voglia dire permettere che le informazioni rilevanti di un caso giuridico, oltre e prima che mediatico, vengano condivise da varix reporter senza una preparazione ad affrontare vicende legate ai traumi. L’incapacità di scriverne da parte delle piattaforme di informazione e da soggetti che dovrebbero per mestiere saper gestire i toni con cui offrire al pubblico le informazioni ha sicuramente un ruolo predominante nell’alimentare la cultura delle fazioni, legittimandola ed esacerbandola. Non solo il processo, ma l’intera vicenda di abusi e violenze subite sono descritti e trattati come una barzelletta. La presa in giro della testimonianza di Amber Heard si è presto trasformata nell’ultima ed ennesima cosa inquietante a diventare virale sui social (anche per via del contributo di star quali Lance Bass), aggravata da insulti di ogni tipo – non sorprendentemente, soprattutto misogini –, minacce di morte, e dalla ripetuta accusa di essere una bugiarda e aver mentito sulle violenze subite. Come ha eloquentemente riassunto Lucia Osborne-Crowley, “Johnny Depp non vedrà i vostri post che trasformano le accuse di stupro di Amber Heard in un meme umiliante, ma le persone vostre amiche sopravvissute alla violenza sessuale sì.” Proprio a partire dal concetto di cura e rispetto nei confronti delle persone che fruiscono delle informazioni condivise, Lucia sta portando avanti una campagna di informazione sui suoi profili twitter e instagram, con un’analisi della vicenda e una raccolta di informazioni attendibili.
[Alt Text: ritratto in bianco e nero di Biancamaria Frabotta. Sorride appena, indossa una maglia a righe e una collana con un largo pendente ovale. Foto di Dino Ignani.]
È scomparsa a Roma il 2 maggio Biancamaria Frabotta: poeta, femminista, docente universitaria, critica militante (così in un ordine suggerito dall’appunto in agenda che prese Amelia Rosselli).
Nata a Roma nel giugno del 1946 (“insieme alla Repubblica”, come lei stessa recitava), Biancamaria Frabotta è stata una voce ferma e decisa nel panorama letterario e civile italiano. A soli 30 anni pubblica due tra i più importanti lavori di poesia: Affeminata, plaquette d’esordio, e Donne in poesia, studio sull’assenza delle poete dalle antologie.
Nel 1976 infatti esce per le edizioni Geiger, con una nota critica di Antonio Porta che si concentra sulla riflessione in versi su maschile e femminile, Affeminata, neologismo posto a titolo di una ricerca in versi sul costituirsi di un femminile culturale ,un libro di poesia in cui si staglia un(a) io-donna che «è sola, in piedi, e parla con l’alfabeto muto».
L’alfabeto muto pare l’unico appartenente alle donne, silenziate e relegate ai margini della discussione (letteraria e politica): in quello stesso anno, infatti, per Savelli esce l’inchiesta poetica sulla scrittura femminile (o per meglio dire, ‘di donne’) che coinvolgeva direttamente le undici autrici antologizzare in una sezione fatta di interviste utili a problematizzare quanto già annunciato nell’introduzione dalla curatrice sulla «scomoda posizione delle donne, che sono “dentro” e “fuori” nello stesso tempo, metastoriche, in quanto oggetto di colonizzazione culturale e di falsa sedimentazione della natura in rivolta, e storiche in quanto soggetto in rivolta. Ed è proprio questa ambivalenza che bisogna rivendicare per non oscillare tra la negazione dispettosa di tutta la cultura che ci precede, ennesima tentazione alla tabula rasa, e il sospettoso candore culturale».
Negli anni degli studi universitari si infuoca il 68 e così pur senza alcuna esperienza politica, decide di trovare la propria voce e farla sentire nella lotta comune coniugando anticapitalismo e giustizia di genere. Così, assieme ad alcune compagne (soprattutto l’amica Giuseppina Ciuffreda, della quale scrisse qui un ricordo) fondò il Collettivo Femminista Comunista di via Pomponazzi, continuando a militare nel manifesto-PdUP come nel Movimento delle Donne e curandone la memoria storia (come per la pubblicazione di Femminismo e lotta di classe in Italia: 1970-1973 (Savelli, 1973) e tre anni dopo: La politica del femminismo: 1973-76).
L’impegno in poesia e per la poesia intanto prosegue con Il rumore bianco (1982), una messa in crisi tanto della tradizione quanto dell’avanguardia presentata «con un linguaggio politico e un linguaggio anti-ideologico», mentre continua a insegnare presso l’Università La Sapienza di Roma come docente di Letteratura Moderna e Contemporanea, avvicinando alla poesia generazioni che si susseguono e che si innamorano del Novecento italiano e della sua maniera di insegnare (come dimostra anche la varietà di contributi in dedica alla sua carriera raccolti ne Il libro degli allievi), rivendicando fino all’ultimo una scelta fatta in principio: quella di farsi assegnare sempre il primo anno del ciclo di studi.
[Alt Text: Frabotta ritratta da giovane guarda in camera mentre si tiene il capo con la mano sinistra, le braccia appoggiate al tavolo di scrittura. Foto di Dino Ignani].
Gli anni Novanta sono sempre all’insegna della riflessione politico poetica, una cifra distintissima ed elegante che si fa sempre più chiara. Nasce così La viandanza, «termine coniato da Manuela Fraire, nella postfazione al romanzo Velocità di fuga (1989) [che] sta a indicare proprio l’animo femminile sospeso tra trasformazione e perdita nella rivisitazione del primario rapporto materno. Si tratta, infatti, di un poemetto nato in viaggio in treno con la madre dopo la morte del padre.»
“Sin dalla prima infanzia impariamo, senza discutere, a dare un sesso a tutto: persone, animali, cose e concetti.(…). Quasi serbassimo la remota memoria di quello che imparammo immersi nel liquido amniotico (…). Le parole cominciarono a fluire alle labbra più rapide dei concetti che si formavano nella mente e talvolta per qualche misteriosa ragione femminile fanno ressa nella gola occludendola con un ostinato silenzio. Divenni femmina, nel linguaggio, prima che nel corpo. Affeminata, appunto, sfrontata distorsione di senso, provocazione, proterva venuta alla luce.”
(La viandanza)
Come osserva Elio Grasso:
Quanti squilibri (maschio-femmina, natura-artificiale, politica-privato) si sono depositati e amalgamati nel corso del tempo? Da La Viandanza a La pianta del pane, passando nel capolavoro di concretezza e affabilità che è Gli eterni lavori, pubblicato a Genova da Giorgio Devoto con le sue edizioni San Marco dei Giustiniani. Una ricerca dei rimedi al male congenito, pure alla morte, anche se è un azzardo destinato a essere sconfitto, e una sorta di compendio al tempo storico.
Terra Contigua (1999), scritto in ascolto della natura e in particolare quella della Maremma, La pianta del pane (2003), un omaggio all’amore coniugale e alla vita affettiva, I nuovi climi (2009), che registra il tempo e il clima del mondo attraverso i suoi rovesciamenti naturali a partire dalla siccità che spacca la terra, e Da mani mortali (2012) in cui «lo sguardo è quello di chi vede il mondo già postumo, il seme è la malinconia. Poi, all’improvviso, fedeli alla viandanza, ritornano, a sorpresa, i poeti, come fantasmi.» La sua opera poetica era stata recentemente raccolta nel volume Mondadori Tutte le poesie 1971-2017 ma il regalo più grande ce lo farà proprio la conclusione di questo mese di maggio che si è aperto sottraendoci la possibilità di ascoltare di nuovo la sua voce umana ma che ci consegnerà : Nessuno veda nessuno, per sentire ancora la sua voce di poeta. Ma mai solo poeta, ma questa volta con rivendicazione.
“Ero considerata troppo donna, troppo femminista, troppo intelligente, troppo viscerale, troppo accademica, troppo poco accademica, troppo bella, perfino troppo alta. Insomma ero «troppo» tutto, per essere «solo» poeta”. (Quartetto per masse e voce sola, 2009)
FATTO DA NOI
Marzia ha recensito la mostra su Giulia Niccolai, aperta a Bologna fino al 5 giugno.
FATTO DA VOI
Su L'indiependente, Alessia Ragno scrive di Louisa May Alcott e Jo March.
Giorgia Maurovich ha intervistato la fotografa ucraina Polina Polikarpova.
Giuliana Misserville curerà una rassegna dedicata al fantastico femminista su Machina, rivista online curata dalla casa editrice Deriveapprodi: il primo intervento, “Decolonializzare la fantascienza”, è qui. Puoi leggere un contributo di Giuliana, dedicato al ricordo di Liana Borghi, nel numero di Ghinea dello scorso novembre.
CALENDARIO
Siamo molto felici di aver ricevuto l’invito a partecipare a uno degli incontri di Contatto, il primo festival organizzato dalla Brigata Basaglia a Milano. Proprio un anno fa il collettivo, che si occupa di salute mentale in ottica comunitaria, descriveva su Ghinea il proprio lavoro e i propri valori. Tra pochi giorni allargherà ulteriormente il proprio campo d’azione, mettendo appunto in contatto persone e progetti che lavorano dal basso in un ciclo di incontri dedicati alle pratiche di resistenza e liberazione. Il programma completo è qui. Speriamo di vederti!
[Alt Text: flyer del festival Contatto in nero e fucsia, con indicazione dei luoghi e delle date in cui si sta svolgendo. Al centro del flyer c’è il famoso dettaglio dell’incontro delle dita di Dio e di Adamo nell’affresco La creazione di Adamo realizzato da MIchelangelo Buonarroti all’interno della Cappella Sistina.]
Grazie a Chiara per il suo contributo! Ci leggiamo a fine giugno o ci vediamo a Milano!
Un abbraccio!
Francesca, Gloria e Marzia
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