La ghinea di maggio
Sciopero transfemminista, Judith Butler e Adriana Cavarero, Canti della nazione gorilla
Benvenut_ a Ghinea, la newsletter che ha fatto scorta di magnesio e potassio. Ecco cosa puoi leggere durante il ponte del 2 giugno: grazie a Ester Micalizzi torniamo a ragionare di 8 marzo e sciopero femminista, Lou Pinelli commenta l’incontro tra Judith Butler e Adriana Cavarero dello scorso 30 aprile, e con l’aiuto di Carmen Pellegrinelli scopriamo la ricerca accademica e personale dell’antropologa statunitense Dawn Prince-Hughes. Buona lettura!
Da quali lavori si può scioperare? Appunti sparsi su disabilità, sciopero e lavoro riproduttivo
di Ester Micalizzi
Chiamare lo sciopero femminista per l’8 marzo quest’anno, di sabato, ci pone davanti ad una sfida ulteriore: sappiamo che convocare uno sciopero generale di sabato non è usuale, ma per noi è fondamentale all’interno del processo di risignificazione e riappropriazione della pratica dello sciopero per tutte quelle persone che ne sono sempre state escluse. Con lo sciopero transfemminista vogliamo rendere visibili e dare riconoscimento a tutti quei lavori essenziali, sfruttati, precari, non riconosciuti come tali, e trovare insieme pratiche di lotta che consentano l’astensione dal lavoro – da ogni forma di lavoro, a cominciare da quello di cura nei contesti famigliari, dato per scontato.
(Appello di NUDM, 2025)
[Alt Test: banner dell’appello di NUDM per lo sciopero dell’8 marzo 2025, che riporta lo slogan LOTTO BOICOTTO SCIOPERO.]
Negli ultimi anni, grazie ai movimenti transfemministi come Non Una di Meno, e alle riflessioni di studiose e militanti femministe come Verónica Gago (2022) lo sciopero è stato risignificato: non più solo strumento sindacale legato al lavoro salariato, ma pratica politica collettiva femminista in grado di rendere visibile l’intreccio profondo tra capitale e riproduzione della vita (Gago, 2022). Scioperare, in questa prospettiva, non significa solo interrompere la produzione capitalista, ma anche sottrarsi all’obbligo della cura, dell’assistenza e della disponibilità emotiva.
In questa ridefinizione dello sciopero, diventa allora centrale comprendere cosa si intenda per lavoro riproduttivo e quale sia il suo ruolo nel sistema capitalistico. È in questo contesto che le analisi di Silvia Federici, Mariarosa Dalla Costa e altre femministe marxiste offrono strumenti cruciali (Federici, 2020a; Dalla Costa, 2021). Il lavoro riproduttivo, storicamente femminile, invisibile e non pagato, non è esterno al capitale: ne è il motore nascosto ed è la sua condizione strutturale. Il capitalismo, in questa lettura, non si regge solo sull’estrazione di plusvalore nei luoghi della produzione, ma anche sulla riproduzione quotidiana della forza-lavoro (Federici, 2020a; Dalla Costa, 2021). Il capitalismo non vive solo di fabbriche e uffici: vive anche di cucine, relazioni affettive, assistenza, educazione, maternità e si accumula attraverso i corpi, la loro energia, la loro capacità di cura, la loro riproduzione (Federici, 2020b)
Tuttavia, se il lavoro riproduttivo è una condizione strutturale del capitale, non tutti i corpi vi partecipano allo stesso modo. Esistono soggettività che, si trovano a occupare una posizione ambivalente: da un lato come destinatarie della cura, dall’altro come lavoratrici del prendersi cura. Nel primo caso, vengono rappresentate come “dipendenti”, “inattive”, soggette a misure di assistenza e controllo. Nel secondo, quando assumono ruoli di caregiver — come accade, ad esempio, tra donne disabilitate che si prendono cura di bambini e di altre persone disabilitate, anziane, e malate — il loro lavoro viene invisibilizzato, sottovalutato o escluso dalle narrazioni dominanti sul lavoro produttivo
È a questo punto che diventa necessario interrogare le categorie stesse di abilità e disabilità: se il lavoro riproduttivo è essenziale al funzionamento del capitale, chi è riconosciuto come soggetto riproduttivo? Cosa significa scioperare dal lavoro riproduttivo per chi è considerata “incapace” di riprodurre la vita secondo i codici normativi del capitalismo? Da quali lavori possono scioperare quei corpi disabilitati che non rientrano facilmente nei ritmi e nei modelli della produzione di valore?
E se, come sostengono Marta Russell (2019) e Nirmala Erevelles (2011), la disabilità non fosse semplicemente una condizione individuale, ma una costruzione sistemica del capitalismo stesso?
L’abilità come proprietà: accumulare valore attraverso il corpo
[Alt Text: ritratto fotografico a colori della saggista e attivista Marta Russell, catturata durante una conversazione. Russell porta capelli corti, occhiali da vista e grandi orecchini. Fonte.]
In Capitalism and Disability (2019), Marta Russell propone una lettura radicale della disabilità all’interno del capitalismo. Per Russell, la disabilità non è una condizione di esclusione, ma una conseguenza necessaria della logica capitalista. Il capitale, per funzionare, ha bisogno di tracciare una linea tra corpi “produttivi” e “improduttivi”, tra chi genera profitto e chi viene considerato un “peso” o uno “scarto”.
La disabilità è una categoria creata socialmente, che deriva dai rapporti di lavoro, un prodotto della struttura economica di sfruttamento della società capitalista.
Marta Russell, Capitalism and Disability, 2019, p.2
Nella prospettiva marxista proposta da Marta Russell, non ha senso parlare genericamente di “persone disabili”, perché questo linguaggio nasconde il ruolo attivo del sistema economico nel produrre disabilità. È più corretto parlare di persone disabilitate, cioè rese tali da rapporti sociali ed economici che escludono chi non si conforma agli standard imposti dal mercato. La disabilità, in questa visione, è un prodotto del modo di produzione capitalista e diventa un criterio di segregazione della forza lavoro: serve a organizzare, escludere e gestire i corpi improduttivi, cioè quelli che non riescono ad adattarsi agli standard di produttività imposti dal mercato (Russell, 2019).
Anche Nirmala Erevelles, nel suo lavoro su disabilità e globalizzazione, insiste su questo punto: la disabilità è un effetto materiale delle diseguaglianze economiche, e non un’identità culturale da celebrare in modo astratto (Erevelles, 2011). Critica, infatti, l’approccio liberale che riduce la disabilità a una “diversità” da rappresentare positivamente, o a una questione di “inclusione” senza mettere in discussione le strutture che generano e riproducono l’oppressione.
Nel suo libro Disability and Difference in Global Contexts (2011), Erevelles mostra come la disabilità sia costituita all’incrocio tra povertà, razzializzazione, genere e collocazione geografica. Le condizioni materiali — guerre, colonialismo, sfruttamento del lavoro minorile, carenza di accesso ai servizi sanitari, disastri ambientali — non solo producono disabilità, ma determinano anche quali disabilità vengono riconosciute e quali vengono invisibilizzate, quali corpi meritano assistenza e quali vengono abbandonati.
Ad esempio, nei paesi del Sud globale, molte forme di disabilità emergono da contesti di violenza economica e politica: bambini resi disabili dal lavoro forzato, donne che vivono le conseguenze di una maternità forzata o negata, popolazioni esposte a contaminazioni ambientali. Tuttavia, queste soggettività spesso non entrano nei discorsi mainstream sulla disabilità, che privilegiano modelli occidentali, bianchi, e middle class, focalizzati sull’autonomia individuale e sul diritto all’accessibilità (Erevelles, 2011).
Nel capitalismo, il valore non risiede soltanto nei beni, ma anche nei corpi stessi, e nella loro capacità di lavorare, adattarsi, essere efficienti (Russell, 2019). Un corpo che lavora, che si adatta, che performa, che si autodisciplina, non è solo funzionale alla produzione: è esso stesso capitale (Russell, 2019). In questo senso, si parla di abilitazione (Campell, 2019), un meccanismo attraverso cui i corpi vengono continuamente modellati, adattati, corretti e spinti a rispondere agli standard normativi del capitale. L’abilità diventa una proprietà funzionale alla valorizzazione del capitale (Erevelles, 2011): chi la possiede viene valorizzato; chi non rientra in questi standard viene escluso, riabilitato, o relegato alla dipendenza attraverso istituzioni di controllo: medicina, welfare, dispositivi assistenziali. Non è solo una questione di capacità fisica o cognitiva, ma un criterio ideologico costruito per misurare quanto un corpo possa essere messo al lavoro.
In questa logica, l’abilità (Erevelles, 2011) è anche una forma di accumulazione primitiva: serve a separare i corpi abilitabili da quelli da scartare, riproducendo costantemente le disuguaglianze necessarie al mantenimento dell’ordine capitalistico.
È possibile, allora, pensare l’abilità come il feticcio corporeo della riproduzione sociale (Erevelles, 2011)?
Perché il lavoro riproduttivo non richiede solo tempo, energia e fatica: richiede corpi performanti. Corpi abili.
Ed è lo sciopero femminista, in questo scenario, a offrire un’interruzione possibile a questo ciclo di abilitazione forzata. Scioperare da questa prospettiva significa anche denunciare il mito dell’autonomia, così centrale nelle narrazioni capitaliste e abiliste. Significa rifiutare l’obbligo di funzionare, di mascherare la fatica, di adattarsi, di essere “positive”, “efficienti”, “resilienti”.
È qui che la lotta femminista e la critica marxista alla disabilità si incontrano radicalmente: entrambe rifiutano di dare il proprio corpo al capitale, alle sue esigenze, ai suoi ritmi.
Nessuna conclusione, solo domande
Le riflessioni che precedono non vogliono offrire risposte definitive, ma aprire uno spazio di interrogazione politica. Il lavoro riproduttivo, in questo quadro, non è solo “cura” ma è produzione di forza-lavoro abile. Le donne disabilitate, nella loro esperienza di alienazione e continua abilitazione, ci obbligano a ridefinire le categorie stesse di lavoro, valore e sciopero. Quest’ultimo può diventare una rottura dei processi che riproducono la soggettività abile. Interrogare lo sciopero da questa posizione significa allora rimettere in discussione non solo la gerarchia dei lavori, le forme attraverso cui il capitale stabilisce cosa ha valore e cosa no, chi lavora e chi è lavorato, ma anche interrogarsi radicalmente sul fatto che il lavoro abbia di per sé valore. In una prospettiva marxista, il lavoro non possiede un valore intrinseco: è il modo di produzione capitalistico a conferirgli centralità in quanto strumento di estrazione di valore. Pensare quindi il lavoro come dotato di valore in sé significa ignorare che il valore non è nel lavoro, ma nella relazione sociale in cui il lavoro è inserito. E che tale relazione, nel capitalismo, è una relazione di sfruttamento, alienazione ed espropriazione L’interrogativo, allora, non può più essere se o come riconoscere “più” lavoro — ma se il lavoro debba ancora essere la misura della nostra esistenza politica e sociale. È in questa prospettiva che la disabilità non va più pensata come un’anomalia da correggere o un’esclusione da riparare, ma come una posizione politica capace di destabilizzare l’intero impianto produttivista. Scioperare significa liberarsi dal lavoro, non solo liberare il lavoro.
Abilità e disabilità non sono categorie stabili. Sono campi di conflitto.
Allora c’è da chiedersi:
Da quali lavori le soggettività disabili scioperano?
Da quali dispositivi ci si sottrae?
Da quali aspettative ci si disidentifica?
Alcuni riferimenti chiave:
Campbell, F. K. (2019). Precision ableism: a studies in ableism approach to developing histories of disability and abledment. Rethinking History, 23(2), 138–156. https://doi.org/10.1080/13642529.2019.1607475
Dalla Costa, M. (2021), Donne e sovversione sociale. Un metodo per il futuro, Verona, Ombre Corte, Bologna.
Erevelles, N. (2011), Disability and Difference in Global Contexts: Enabling a Transformative Body Politic, Palgrave Macmillan, New York.
Federici, S. (2020a), Il punto zero della rivoluzione. Lavoro domestico, riproduzione e lotta femminista, Ombre Corte, Bologna.
Federici, S. (2020b), Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, Mimesis, Milano.
Gago, v. (2022), La potenza femminista. O il desiderio di cambiare tutto, Tamu Edizioni, Alessandria.
Russell, M. (2019), Capitalism and Disability: Selected Writings by Marta Russell, Haymarket Books, Chicago.
Ester Micalizzi è ricercatrice precaria post-doc in sociologia. Siciliana di origine, vive a Torino e si occupa di disabilità e critica dell’abilismo da un posizionamento femminista-marxista, intrecciando saperi accademici e pratiche politiche. Si interessa di disabilità come prospettiva politica da cui interrogare le norme della produttività, dell’autonomia e del valore.
Riflessioni a margine dell’incontro Butler–Cavarero
di Luca Lou Pinelli
Verona, mercoledì 30 aprile 2025: “Per un’etica della vulnerabilità: Judith Butler e Adriana Cavarero in dialogo”.
[Alt Text: fotografia scattata nell’aula in cui si è svolto l’incontro tra Butler e Cavarero. Fonte.]
Per chi segue e studia i femminismi e le teorie queer, e specialmente per chi lo fa in Italia, questi due nomi rappresentano rispettivamente l’apertura a riflessioni transfemministe queer e la tradizione tutta italiana del pensiero della differenza sessuale. Due scuole che si trovano ormai a scontrarsi su una parte fondante del progetto femminista (almeno per come lo intendono le generazioni più giovani): l’inclusione di soggettività marginalizzate secondo una prospettiva intersezionale. Da una parte, l’apertura di Butler alle teorie queer e all’intersezionalità come criterio fondamentale per ricordarci di corpi e voci diverse dalle nostre; dall’altra, la continuità di Cavarero dagli anni Ottanta a oggi nell’andare contro a una metafisica di stampo platonico per favorire la materialità dei corpi e delle voci contro l’omogenizzazione del logos e del contratto sociale. Che lo scontro si svolga soprattutto sul piano dell’inclusione politica o dell’esclusione radicale delle soggettività trans e queer è cosa nota; che il pensiero di Cavarero sia così resistente all’integrazione di corpi intersessuali e trans* non va invece da sé – su questo tengo a rimandare al bel numero speciale sulla filosofia di Cavarero del Journal of Italian Philosophy del 2024, a cura di Federica Castelli, Marco Piasentier e Sara Raimondi.
Questo incontro prometteva di essere non solo un semplice scontro tra due scuole di pensiero non allineate, ma anche e anzi soprattutto un’occasione di dialogo che ultimamente, complici le bolle social e il deficit d’attenzione e la stanchezza che regnano sovrane, fatichiamo sempre più a creare: davanti a una polarizzazione del dibattito pubblico e politico, davanti al silenziamento del dissenso in favore di un quieto vivere che è in realtà un riflesso del decoro tutto borghese, il 30 aprile si prospettava essere una giornata di dibattito acceso, contestazioni, ma, in fin dei conti, dialoghi produttivi. Quale luogo migliore, mi dicevo, dell’università, quell’istituzione democratica preposta alla preparazione di cittadini e cittadine alla vita pubblica, peccando, come spesso accade, di superba illusione.
Forte della presenza di altre compagne transfemministe queer, mi reco nell’aula magna dove si terrà l’evento, pienə di aspettative su come si articolerà questo dialogo. Non è certamente il dialogo la forma prediletta degli eventi accademici, dove a regnare sovrano è spesso l’individuo legato solo flebilmente ad altri corpi e altre voci tramite “panel” e “domande e risposte” sempre misurate. Una volta iniziato l’evento, ci rendiamo presto conto che, nonostante la locandina insista evidentemente su Butler–Cavarero, in realtà è presente una tavola rotonda di studiosə internazionali che faranno domande (ovviamente pre-concordate) a cui poi Butler–Cavarero risponderanno. Elemento inaspettato questo, per chi si fidava della comunicazione; aspetto invece più che prevedibile per chi conosce l’università in questa era neoliberale di restrizioni dettate dal buonsenso e dal savoir-faire manageriale. Erano previste tre ore di evento, ma l’inizio è stato ritardato di mezz’ora e la fine è stata anticipata di qualche minuto, tagliando lo spazio dedicato alle domande dal pubblico nonostante fosse stato anticipato fin dall’inizio che questo momento ci sarebbe stato. Che si tratti di cattiva organizzazione (errore umano e comprensibile) è da escludere; quel che pare assai più probabile è che questo spazio sia stato tolto per via delle varie contestazioni che sono state fatte a Cavarero nei momenti in cui enfatizzava come le persone trans e queer non dovessero trovare posto nel femminismo, spesso ricorrendo a quell’argomentazione ormai tipica dei femminismi critici del genere per cui le donne trans avrebbero un sesso e un corpo maschile, a prescindere quindi dalla grande varietà di declinazioni del soggetto “donna trans” nel panorama attuale. (Su quest’argomentazione torneremo più avanti.)
Questa decisione, plausibilmente già anticipata negli accordi tra l’organizzazione e Cavarero, appare, a essere gentile, democristiana e, a essere sincere, noiosa, triste, condannabile. Come tante altre precarie del mondo della ricerca, sono stanco del fatto che l'università non abbia (più) il coraggio di assumersi la responsabilità di un dibattito pubblico anche acceso, che la calma piatta sia diventata un sinonimo di cultura e intelletto mentre le passioni forti vengano respinte come “fasciste” o frutto della gioventù di chi parla. Nel passeggiare a Verona dopo l’incontro abbiamo incrociato un gruppo di persone che parlavano dell’evento e uno di loro (direi sui 35-45 anni) ha esplicitamente detto: “è stato molto bello, non si vedevano queste cose in università dagli anni Novanta almeno”. Io negli anni Novanta ero ancora un bambino, ma ogni volta che recupero materiali dal Sessantotto in poi mi chiedo come siamo arrivate a pensare che un dialogo e confronto critico debba sempre rispettare i canoni borghesi di pacatezza e decoro.
Ma volendo essere empatica, immagino che questa decisione derivi da una preoccupazione di Cavarero relativa al non voler essere aggredita in pubblico (a un certo punto si è pure alzata e se ne stava per andare, poi per fortuna è intervenutə Butler); insomma l'accordo con l’organizzazione era forse che se ci fossero state contestazioni troppo forti, lo spazio per le domande sarebbe stato tolto. Empatizzo con Cavarero perché, come ha poi specificato anche Butler, venire aggredita in pubblico non può mai essere piacevole (e Butler ha parlato proprio dei momenti in cui ha temuto per la propria incolumità nel Regno Unito per via di donne gender-critical con la bava alla bocca). D’altra parte, mi chiedo perché ancora oggi in università il concetto di autorevolezza si confonda con quello di autorità, come se l’unica forza dell’intelletto fosse ormai quella poliziesca di decretare chi può parlare e quanto. Vero, le contestazioni non erano sempre ragionevoli o pacate; vero, anch’io per prima mi sono sentita a disagio per via di certe parole urlate in malo modo come se avessero un valore intrinseco; vero, i dialoghi si costruiscono in altro modo. Al tempo stesso, non lasciare spazio di argomentazione e dibattito per paura di quel che può succedere se le persone infuriate prendono la parola non mi pare un ragionamento sensato nemmeno nella più blanda prospettiva democratica che possiamo immaginare. L’università dovrebbe rimanere (o tornare a essere) uno spazio di dialogo, confronto e critica, il conflitto non è abuso se sappiamo arginarlo con regole di condotta umana per farlo arrivare a un vero e proprio dialogo (penso ai contesti assembleari, che sempre più mi sembrano i veri spazi in cui crescere, e da cui l’università avrebbe tantissimo da imparare).
L'incontro si apre con una relazione di Cavarero prima e di Butler poi, se non fosse che a Butler non era stato anticipato che avrebbe dovuto fare una relazione e quindi si è limitatə a rispondere a quanto sollevato da Cavarero (come sempre, Butler si riconferma unə ottimə oratorə). Fin da subito Cavarero cita il fatto che le donne trans non mestruino e non diano la vita e fin da subito il pubblico reagisce con rabbia (e giustamente). Poi verso la fine dell’incontro Cavarero tornerà su questa asserzione, spiegando che il suo non è un discorso gerarchico o biologista, perché stava semplicemente constatando un dato senza volergli dare un valore positivo o negativo. Devo dire che alcune risposte di Cavarero mi hanno permesso di capire meglio cosa voglia dire, e mi pare che non si tratti di pura e semplice transfobia à la Rowling: mi pare infatti che Cavarero faccia un errore diverso, ossia il ricentrare tutte queste questioni politiche e sociali su cosa costituisca un concetto filosoficamente interessante (il sesso che genera) e cosa invece non lo sia (il fatto che non tutte le donne mestruino, possano o vogliano portare a termine una gravidanza, abbiano un utero funzionante, etc etc). Se anche non si tratta di concetti filosoficamente interessanti (per te, Aristotele, Arendt e altrə), andrebbe riconosciuto che si tratta di rivendicazioni sensate e coerenti con il progetto femminista, e da femminista che ha portato queste battaglie politiche all'interno della filosofia e dell'accademia dovresti vedere (così ci aspetteremmo) questa dimensione politica del discorso.
L'argomentazione, mi pare, pecca anche di presunzione: se anche per te la questione non pare dirimente, cosa ce ne facciamo allora delle prospettive situate di altre soggettività (o singolarità incarnate, come preferisce chiamarle la stessa Cavarero)? Dovremmo semplicemente ignorare l’esperienza vissuta e la filosofia prodotta da corpi intersex e trans e queer perché non costituiscono un campo “filosoficamente interessante”? Non stiamo riproducendo così la solita argomentazione per cui tutte noi che lavoriamo in femminismi o studi di genere e della sessualità ci occupiamo in realtà di ideologia e non di filosofia o letteratura? Questo non va contro precisamente alla relazionalità del Dire ripreso da Lévinas che Cavarero articola così bene? Non stiamo così ignorando precisamente la materialità dei corpi e delle voci che ci dicono “tu”, che si e ci raccontano, che accogliamo e raccogliamo dalla nostra singolarità incarnata? Se i corpi e le voci delle donne (cis) sono il grande rimosso del pensiero occidentale, se le donne (cis) sono il soggetto imprevisto della filosofia, non potremmo dire che i corpi e le voci trans e queer sono il soggetto imprevisto e impensato del pensiero della differenza sessuale? Se una singolarità si incarna al di là del binarismo di genere e del dimorfismo sessuale, non rischiamo allora anche noi come Platone di produrre un discorso metafisico che astrae dalla materialità dei corpi quando non siamo in grado di (o interessate a) accoglierla?
Davanti a queste domande che non abbiamo potuto porre, Cavarero e le femministe “critiche del genere” si appellano spesso al concetto di datità, intendendo con esso che il sesso (biologico, anatomico, materiale) è qualcosa di scientifico, ineluttabile, tangibile (e, mi viene da aggiungere seguendo questo filone, evidente, in inglese clockable). Il dato oggettivo (ma non si parlava di singolarità incarnate?) ci viene restituito dalla biologia; a nulla servono i discorsi puntuali di Butler rispetto a quanto ci dicono gli studi più recenti (parliamo degli ultimi 40 anni) della biologia dello sviluppo rispetto all’insignificanza degli ormoni o dei cromosomi senza la presenza dell’ambiente che li plasma e li attiva (e viceversa; il rapporto pare essere orizzontale e non gerarchico). (Nell’ultimo libro di Cavarero, scritto a quattro mani con Olivia Guaraldo, si legge che se anche il dimorfismo sessuale è stato contestato all’interno degli studi di biologia degli ultimi 40 anni, le persone intersessuali sono statisticamente irrilevanti ai fini del pensiero della differenza sessuale e le persone transgender, parrebbe, non rimettono in gioco tutto l’impianto; anche questa è un’argomentazione che ci dice molto sulla presunzione epistemica di certe teorie: c’è chi può dirsi singolarità incarnata e chi no, ci sono corpi che contano e corpi che non hanno nulla da dirci.)
Sarà un mio limite forse, dettato anche dal fatto di non avere una vera e propria formazione filosofica (nel senso che sono prima di tutto unə studiosə di letteratura), ma dire che esistono dati biologici incontestabili nel 2025 senza qualificare ulteriormente la questione (chi misura cosa, chi ha il diritto e la pretesa di essere oggettivo, chi ha costruito quel campo e quegli strumenti e con quali idee in testa) mi pare un concetto a tratti ridicolo che si nasconde da quello che diversə biologə da almeno gli anni Ottanta argomentano e constatano (senza nemmeno addentrarci nel campo della filosofia e della storia della scienza).
In risposta, Butler ha giustamente parlato del concetto di situazione elaborato da Simone de Beauvoir, con cui io per ovvi motivi (non da ultimo, la mia tesi di dottorato su Virginia Woolf attraverso la filosofia della corporeità di Beauvoir) mi trovo personalmente, filosoficamente e politicamente allineata, che ci aiuta, mi pare, a uscire dalla trappola biologista ed essenzialista che questo discorso ci tende: il corpo non è solo o primariamente un oggetto votato allo studio scientifico (il Körper husserliano) ma un corpo vissuto che circoscrive e permette la nostra agentività nel mondo (il Leib husserliano, che Beauvoir riprende); indicarlo come una situazione, come già avevano fatto Heidegger, Sartre e Merleau-Ponty, significa allontanarlo dal monopolio della scienza e riavvicinarlo a quel divenire materiale che è la soggettività umana (da lì, Beauvoir, checché ne dicano Cavarero e Guaraldo nell’ultimo libro, non inventa la categoria di genere, già messo in circolazione nella sua accezione contemporanea da un paper del 1945 della psicologa statunitense Madison Bentley, proprio perché ragiona tramite la categoria di sesso come situazione, ossia nella sua dimensione biologica, psicologica, politica e sociale).
Cavarero, dal canto suo, ha ripreso due volte delle presunte argomentazioni di Virginia Woolf (come sempre accade in Italia, interpretata unicamente come femminista della differenza) per cui il corpo femminile è dato come femminile (si riferiva a Tre ghinee o a Una stanza tutta per sé?) e ha concluso poi dicendo che ogni corpo ha dei limiti (che mi pare una banalità, ma qualche critica del genere nel pubblico ha applaudito). Ora, penso che un po’ tuttə ci siamo lasciatə lo sfrenato discorsivismo del poststrutturalismo alle spalle, un po’ come un vecchio giocattolo adolescenziale, ma questo non implica necessariamente un ritorno alla presunta datità del materiale o materico, soprattutto se guardiamo anche agli studi più recenti dei neomaterialismi: va bene, torniamo al materiale, ma il discorsivo ce lo portiamo per forza con noi, non fosse altro che per il fatto che qualsiasi argomentazione viene effettivamente prodotta all’interno di un contesto linguistico e sociale di un certo tipo (senza contare la questione della misurazione e della strumentazione, che soprattutto per le scienze mi pare dirimente). Quindi di quale datità stiamo parlando? Quella che percepisci tu come singolarità incarnata quando mestrui o generi la vita? E perché un corpo queer, decostruito e ricostruito secondo pratiche materialdiscorsive e politiche, non dovrebbe essere altrettanto “dato”? Torniamo qui, mi pare, a una certa presunzione epistemica per cui chi parla dimentica interi gruppi (seppur eterogenei) di singolarità incarnate che, contrariamente a chi si riconosce nel binarismo e dimorfismo patriarcale, non costituiscono, per sua stessa ammissione, un soggetto filosoficamente interessante. Mi viene da chiedermi, però, quanta della filosofia prodotta da corpi e voci intersessuali, transgender e queer (potremmo aggiungerci decoloniali, dato che il binarismo è legato a doppio filo con il colonialismo e la colonialità, come mostra bene, tra altrə, María Lugones) sia stata letta da quella singolarità incarnata che non risparmia colpi sull’oggettività del materiale (non è questa forse una nuova veste del tanto odiato “universale” patriarcale?).
Ma veniamo all’elemento che ci ha permesso di uscire da quell’aula magna con meno astio e meno rabbia di quanto non ci aspettassimo: la cura di Butler nel confrontarsi con Cavarero. Penso che abbiamo raggiunto un livello di saturazione (rispetto alla trans- e queer-fobia) tale da giustificare la nostra rabbia e il nostro non voler stare a sentire certe scemenze ogni volta che vorrebbero trovare una piattaforma, ma penso che in alcuni casi sia importante ascoltare alcune filosofe (come Cavarero) che hanno fatto la storia del movimento e del pensiero. E sinceramente, rispetto all’ultima volta che l’abbiamo sentita in libreria, in un contesto completamente diverso (in cui cioè a essere egemonica era la sua posizione e non la nostra), abbiamo visto davvero che ci provava a capire e ascoltare. Dopo quasi due ore di discussione in un’aula ricolma di persone che ha presto raggiunto i 30 gradi, ho visto una persona (lei preferirebbe donna) vulnerabile, per sua stessa dichiarazione mezza sorda, che si sforzava di dialogare con un’altra delle più importanti voci della filosofia politica contemporanea, in una lingua che masticava relativamente, in parte fallendo nel tentativo. Abbiamo visto l’umanità dietro a quella maschera di TERFismo mal argomentato, e vedere che Butler si è postə in posizione di ascolto e compassione mi ha personalmente riempito il corpo di gioia radicale (c’è chi ha definito questo gesto di Butler paternalistico, peraltro; mi viene da pensare che un certo tipo di lessico relativo ai nostri sentimenti all’interno di spazi intellettuali e politici ancora manchi, e mi pareva chiaro dalla pragmatica del discorso che Butler fosse genuinamente interessatə a porre quella domanda, proprio per spostare il dibattito su un piano mai nemmeno lontanamente considerato da Cavarero, che pure mi pare significativo in questo discorso).
Dopo il primo intervento di Cavarero, Butler le ha chiesto di cosa avesse paura e per cosa provasse rabbia, spostando così (tatticamente e umanamente) il gioco su un terreno diverso, e manifestamente incarnato, dalla pura argomentazione logica a cui Cavarero continuamente si appella. Perché la verità in queste questioni è che se si fa fatica a confrontarsi non è solo perché siamo disabituate alla gestione del conflitto di persona o perché non abbiamo le argomentazioni adatte per il confronto o perché i dibattiti online sono una sconfitta in partenza; è perché siamo esseri umani vulnerabili che non possono far altro che esplodere di rabbia o di paura per quanto ci viene detto. E da lì torniamo al discorso iniziale: più assemblee in università, meno panel e lezioni frontali; più autorevolezza e meno autorità.
Luca Lou Pinelli (he/they; luei/lui/lei) sta completando un dottorato tra l’Università di Bergamo e l’Université Sorbonne Nouvelle di Parigi. La sua tesi esamina le risonanze tra l’opera di Virginia Woolf e la filosofia di Simone de Beauvoir, in particolare attraverso il concetto di (inter)corporeità. Fa parte dell’Italian Oscar Wilde Society e del collettivo transfemminista e queer l’Altrosessuale. Si occupa principalmente di letteratura inglese tra fin de siècle e modernismo da una prospettiva transnazionale e transdisciplinare, di studi di genere e della sessualità, e di storia del corpo. Puoi seguire Lou su Instagram e su Facebook.
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UN LIBRO
Per una prospettiva autistica e queer: Canti della Nazione Gorilla, il mio viaggio attraverso l’autismo di Dawn Prince- Hughes
di Carmen Pellegrinelli
[Alt Text: fotografia di un incontro tra Dawn Prince-Hughes e un gorilla, probabilmente all’interno di uno zoo. I due sono separati da un vetro e la fotografia è scattata da dietro le spalle di Hughes, di cui quindi si vedono solo i capelli e le dita della mano protese verso il gorilla intento a osservarla. Fonte.]
Canti della Nazione Gorilla, il mio viaggio attraverso l’autismo di Dawn Prince-Hughes è un libro del 2004, recentemente pubblicato in italiano per le “Edizioni degli Animali”. L’edizione italiana (2024) ha anche un’interessante postfazione a cura di Enrico Valtellina e un’intervista finale all’autrice a cura di feminoska e Marco Reggio.
Il memoir ripercorre la storia personale dell’autrice, che si snoda intorno alla scoperta di essere una persona appartenente allo spettro autistico e che trova, in età adulta, una chiave interpretativa del suo posizionamento nell’amicizia e nella relazione con la “Nazione Gorilla”, un gruppo di gorilla osservato ed etnografato dall’autrice allo zoo di Seattle.
Canti della Nazione Gorilla si apre con l’immagine di un tocco, come il tocco immaginato da Michelangelo tra Dio ed Adamo nella Cappella Sistina. Solo che a toccarsi qui non sono le dita di due maschi bianchi cis etero, ma quelle di Dawn Prince-Hughes e di Congo. Quelle di una donna neurodivergente, lesbica e vagabonda e quelle di un gorilla del tipo silverback di 200 chili chiuso in uno zoo.
Il mondo che si genera da questo contatto non è chiaramente quello michelangiolesco, neoplatonico, maschio, dell’ideale che trascende la materia. Piuttosto ha a che fare con Spinoza e il neomaterialismo, con una lettura dell’esistente che non privilegia l’umano rispetto al nonumano e non assoggetta la materia a una presunta realtà divina e ideale. Lo spirito e la storia si generano al tocco delle dita gigantesche, nere, “coriacee e morbide” di Congo:
Ci guardammo le dita, e nessuno dei due si mosse. Alla fine, alzai lo sguardo verso i suoi dolci occhi marroni. Vibravano di sorpresa. (p.27)
Nata nell’Illinois da una famiglia della classe media, Dawn Prince-Hughes scopre fin da piccola di non sentirsi come gli altri. Il bisogno di ripetizione, la paura del cambiamento, il piacere e il fastidio di alcune percezioni sensoriali, i rituali di organizzazione la rendono diversa dai suoi coetanei. L’autrice si rende presto conto che per conformarsi alle aspettative degli altri deve adottare complesse strategie di comportamento.
La prima parte del libro ripercorre l’infanzia e adolescenza di Prince-Hughes ed affronta il tema del conflitto tra il suo modo di sentire e il modo riconosciuto come “adatto” o “normale”. Emerge da questo racconto crudo, che attraversa fasi difficilissime della vita della protagonista tra vagabondaggio, fame e solitudine, la sordità delle persone neurotipiche e la possibilità di relazionarsi solo in contesti popolati da un’umanità differente, come le comunità di strada, quelle delle spogliarelliste o queer. Questa possibilità di relazione, incontrata per caso nelle peregrinazioni dell’adolescenza, si apre poi ulteriormente nell’abbracciare, da giovane adulta, una famiglia e una nazione ancora più “differente”, quella dei gorilla.
La differenza, o possiamo dire anche il grado di queerness (di stranezza), nella teorizzazione deleuziana è concepita non come “essere meno da”, ma come espressione di una delle molteplici e varie modulazioni della materia comune, di cui tutti, umani e nonumani, siamo parte. Ognuno di noi è un soggetto collettivo, che si identifica e riconosce in modo multiplo a seconda delle proprie appartenenze (Braidotti, 2020). Come Prince-Hughes mette in luce con questo lavoro, esiste un continuum tra natura e cultura. I Gorilla sono come direbbe Haraway, “more-than-human”, una delle possibilità di espressione della materia.
“Non è importante che si tratti di me, di un maiale, di un cane o di un pollo. Siamo tutti esseri neuroespansivi oppressi e piegati alle necessità della crescita economica”, dice Prince-Hughes nell’intervista riportata nell’edizione italiana. (p.255).
La seconda parte del lavoro esplora ulteriormente il continuum tra natura e cultura, raccontando dell’osservazione partecipata della vita dei gorilla allo zoo di Seattle. Prince-Hughes ci prende per mano e ci porta a conoscere Congo, Jumoke, Amanda, Kiki, Nina e gli altri membri delle due famiglie gorilla da lei incontrate. È partecipando nell’osservazione alla loro vita sociale che Prince-Hughes riscopre il piacere delle relazioni umane, nonumane e più che umane. Il suo sguardo, in forza della sua posizione nello spettro, entra profondamente nella trama di queste relazioni, descrivendone gli scenari attraverso il richiamo a dettagli sensoriali e affettivi potenti, che calano il lettore dentro la Nazione Gorilla. Qui le gabbie si spalancano, e il flusso relazionale affettivo apre spazi che cancellano le costrizioni degli esseri neuroespansivi, siano persone neurotipiche, neurodivergenti o più-che-umane.
La relazione dell’autrice con i gorilla inizia quindi informalmente con le sue visite allo zoo, e poi si consolida metodologicamente dentro la pratica dell’etnografia. Qui Prince-Hughes segue un percorso postqualitativo in cui l’implicazione etica e scientifica della ricerca sociale la rende soggetto attivo co-partecipante al contesto che indaga. Prince-Hughes assume quindi una postura di respons-ability nei confronti degli scenari che affronta e con la ricerca rende i gorilla capaci di dare risposte (Pellegrinelli & Parolin 2024). In What would animals say if we asked the right questions?, Vinciane Despret (2016) ripensa le relazioni tra umani e nonumani attraverso la lente antropologica, mettendo in discussione il modo in cui gli umani interpretano il comportamento animale. Despret sostiene che gran parte della ricerca tradizionale sugli animali riflette presupposti e pregiudizi umani, potenzialmente fraintendendo o trascurando i modi unici degli animali di interagire con il mondo. Il suo approccio incoraggia a porre domande che consentano agli animali di “parlare” nei loro termini, piuttosto che proiettare su di loro le aspettative umane. Despret sostiene che se gli umani non riescono a parlare con gli animali, è perché non fanno loro le domande giuste. Prince- Hughes fa invece ai gorilla le domande giuste. Domande che non solo ottengono risposta, ma fanno fiorire i partecipanti alla ricerca, compresa la stessa ricercatrice.
Questo percorso di mutua fioritura tra Prince-Hughes e i gorilla potrebbe essere letto come un’analisi sistemico-relazionale tra umani e più-che-umani, in cui non si capisce chi analizza chi. Un viaggio di reciproca conoscenza che porta l’autrice a ri-affrancarsi anche al mondo relazionale umano. Ed infatti, nella terza parte del libro avviene l’incontro dell’autrice con Tara, che poi diventerà la sua compagna e condividerà con lei, in un percorso affettivo e intellettuale, la vita accademica. Il libro di Prince-Hughes distribuisce sapientemente lungo tutto il lavoro non solo la vicenda che riguarda la neurodivergenza, ma anche la questione del suo orientamento affettivo. Va da sé che questo sia un libro intersezionale, innovativo per i tempi in cui è stato pubblicato, capace di raccontare più di una sola prospettiva e che fa degli intrecci del posizionamento dell’autrice un suo punto di forza. Anche non incarnare le aspettative eteronormative è “divergere”, muoversi in direzione opposta. Se l’autismo è un “bel modo di guardare il mondo”, guardarlo da una prospettiva autistica queer lo rende forse ancora più stratificato. Oggi i tempi sono maturi per riconoscere la potenza di questo sguardo divergente intersezionale, che costituisce una risorsa preziosa per costruire un argine di resistenza alla distruttività, ormai dimostrata, dei sistemi di potere capitalistici costruiti dalle e per le persone neurotipiche.
Il lavoro di Prince-Hughes è un contributo significativo non solo per i Neurodiversity Studies, ma anche per tutta la tradizione del sapere critico Postumano o Postumanista e Neomaterialista che si configura oggi come orizzonte filosofico capace di contrastare e rivoluzionare gli impianti di sapere che stanno supportando la distruzione del pianeta. Questa storia è uno strumento prezioso di resistenza e di cambiamento.
Bibliografia
Braidotti, Rosi.“We” are in this together, but we are not one and the same” Journal of bioethical inquiry 17 (4): 465-469. 2020.
Despret, Vinciane. “What would animals say if we asked the right questions?” Vol. 38. University of Minnesota Press. 2016.
Prince Hughes, Dawn. Canti della nazione gorilla, il mio viaggio attraverso l’autismo, Edizioni degli Animali. 2024.
Pellegrinelli, C., & Parolin, L. L. Playing with Theatre in Research Practices: Response-ability and Becoming with a Queer Community. In Ethics of Engagement in Research Practices (pp. 59-73). Routledge. 2024.
Carmen Pellegrinelli è una ricercatrice multidisciplinare con un dottorato in Scienze Sociali conseguito presso l'Università della Lapponia, dove ha esplorato la creatività organizzativa attraverso il teatro come pratica collettiva e sociomateriale. Attualmente, è postdoc presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell'Università di Trieste. Ha una formazione in teatro (DAMS, Bologna) e Psicologia Clinica (Università di Bergamo), e oltre 25 anni di esperienza come drammaturga e regista, con spettacoli rappresentati in Italia e all'estero. È autrice di numerosi articoli scientifici e del libro Performing Ensemble. Practices, Theatre, and Social Change, pubblicato da Brill nel 2025, che esplora come il teatro collettivo possa essere da strumento di trasformazione sociale, analizzando pratiche partecipative e processi creativi condivisi.
Ringraziamo Ester, Lou e Carmen per aver arricchito questo numero di Ghinea e ci leggiamo a fine giugno.
Un abbraccio!
Francesca, Gloria e Marzia
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