Benvenutə a un altro numero estivo di Ghinea! Questo mese leggiamo un estratto da Incendiare il buio di Valeria Nicoletti, e Alessia Ragno ci parla del romanzo Cauterio di Lucia Lijtmaer. Buona lettura!
La comunità delle donne
Pubblichiamo un estratto da Incendiare il buio: in viaggio con Annie Ernaux e Goliarda Sapienza di Valeria Nicoletti, edito da Collettiva Edizioni. Ringraziamo l’autrice e la casa editrice.
[Alt Text: ritratto fotografico di una giovane Annie Ernaux, inginocchiata di fronte a una libreria in legno scuro. Fonte.]
Diventare una donna, tra la vita dentro e il mondo fuori. Diventare grandi, restando se stesse. Realizzare il proprio destino, mentre il mondo cambia e le donne sono lasciate indietro. Gli anni è una testimonianza impietosa sul divario scavato tra i cambiamenti collettivi e l’esistenza di una ragazza di provincia. L’adolescenza porta con sé un senso di liberazione che deriva dalle prime esperienze sessuali, ma Annie capisce presto che la scoperta del corpo non è la stessa per ragazzi e ragazze. “Sospese a metà strada tra la libertà di Brigitte Bardot, i ragazzi che ci dileggiavano dicendoci che restare vergini faceva male alla salute, le prescrizioni dei genitori e le ingiunzioni della Chiesa, non sceglievamo.” Per lei e le sue amiche c’erano dei limiti che non potevano essere superati. E, alla fine, il matrimonio monogamo, la norma attorno a lei, è l’unica via d’uscita, sebbene più vantaggiosa per gli uomini che per le donne.
Per Ernaux, le altre donne restano un’entità silenziosa. L’unico modo per avvicinarle è diventare portavoce della loro oppressione. Per lei, che disdegnava le principali correnti femministe dell’epoca, la scrittura è il suo gesto più impegnato: la sua opera è l’eccezionale espressione pubblica di ciò che solitamente è stato vissuto in isolamento e vergogna, come la storia del suo aborto, resa nota con la firma aggiunta al celebre manifesto del quotidiano Le Nouvel Observateur del 1971, dove 343 donne raccontavano la loro esperienza, e nel terribile resoconto de L’evento.
L’autocensura non è un’opzione: per trascendere le sue preoccupazioni intime ed evolvere come soggetto femminista, deve esporre tutte le sfaccettature della violenza che ha subito - siano esse favorevoli o umilianti per la sua persona - non per scioccare o provocare, ma perché rappresentano la realtà. Con la scrittura, la donna gelata, la donna occupata, delle sue opere precedenti diventa la donna femminista e impegnata. È la sua mano tesa verso le donne, il suo passo verso una comunità dalla quale non si è mai sentita inclusa, sin dai tempi della gioventù: lei, spettatrice delle altre, “pesante e unticcia tra ragazze dalle camicette rosa, l’innocenza beneducata e la sessualità decorosa.”
L’interesse sempre crescente di Goliarda Sapienza per l’universo femminile è così grande che sarebbe semplicistico categorizzarlo: le donne sono le sue amiche, le sue compagne, le sue confidenti. Non si tratta solo di relazioni d’affetto: c’è ammirazione, gelosia, incanto, paura, rimpianto, odio, amore e intelligenza. È il dono dell’amicizia, pura e disinteressata, che Goliarda offre a loro, la sua prossimità. Sono memorabili i racconti delle serate del gruppo di scrittura, di cui faceva parte negli anni Ottanta, insieme a Cambria, Elena Gianini Belotti, Simona Weller e tante altre, intelletti che la seducono oltremisura. “Le fisso una per una: ecco quasi tutte le regioni di questa Italia piccolo paese, ma di una incontenibile immensità (è noto) nella varietà tipologica del suo misterioso decalare di dieci paralleli, dieci continenti dove l’alchemico abbraccio del sole muta continuamente… torno torno al tavolo rotondo s’accendono di blu baltico, azzurro austroungarico, nero stellato d’Arabia, castano ora lieve di sottobosco pugliese, ora denso barbarico di sottobosco irpino... eh sì, le mie amiche hanno tutte occhi belli e movenze eleganti, per me intendo, per me bello è quel miscuglio insanabile di grazia creato da profondo sentire, arditezza estrema, estrema fragilità e pudore. Il gateau troneggia in mezzo al tavolo ed io vorrei solo continuare a descriverle, raccontare di loro, dei nostri studi, delle nostre liti e intemperanze... Eh, non ci si vede per quattro anni solo per annegare di noia in un mare azzurro di pace e comprensione perenne...”
Il suo ideale è una sorta di solidarietà tra “singolarità”, una posizione che la allontana dal pensiero femminista dell’epoca, al quale non si è mai avvicinata. “Nello stesso momento in cui Goliarda sta per comporre l’inizio del romanzo di Modesta, non lontano da lei, alcune donne urlano in piazza la propria liberazione e fanno il femminismo. Altre girano le manovelle del ciclostile a ritmi produttivi sempre più crescenti, come il proliferare di movimenti, partiti, collettivi, comunità, famiglie e altre illusioni dentro cui vivere beati. Lei sta alla finestra e mentre guarda passare il treno dell’attuale rivoluzione scandaglia il territorio variegato della propria coscienza. È possibile vivere una esistenza intensa e libera senza il bisogno di passare da una all’altra chiesa?”, scrive Giovanna Previdenti nella sua biografia.
[Alt Text: ritratto fotografico in bianco e nero di Goliarda Sapienza, sorridente e stesa su un’amaca all’aperto. Fonte.]
La prima comunità di donne in cui Sapienza ha vissuto non era di certo amichevole. Erano le ragazze di Catania, le più povere, che andavano dai suoi genitori a chiedere aiuto, un lavoro per i loro mariti, un buono per cucinare per i loro figli, un consulto o un avvocato per far uscire il fratello dal carcere. Mentre scrive, Goliarda le rivede tutte, sedute accanto a lei. È una comunità di donne che ha cercato a lungo di intimarle il silenzio: “queste donne mi visitano la notte e, per un periodo della mia vita, anche il giorno: entrano dalla porta chiusa, col sole della finestra sbarrata. Queste donne, vedo ora, mi hanno chiuso la bocca per tanti anni”.
Anche per Ernaux, l’immagine della donna che si forma nella sua testa bambina è spaventosa: “E poi c’erano quei pomeriggi in cui se ne restava con lo sguardo perso, apriva la finestra, la chiudeva, spostava le sedie, poi d’un tratto il finimondo, urlava che se ne sarebbe andata portandosi via i bambini, che era sempre stata infelice, e mio zio, seduto a tavola tranquillo con il bicchiere di vino in mano, non le rispondeva neppure, o sghignazzava, «ma dov’è che vuoi andare, cretina?». Lei si precipitava in cortile piangendo, «mi butto nella cisterna». I figli, oppure i vicini, la bloccavano prima. Noi ci dileguavamo con discrezione appena le cose iniziavano a mettersi male. Mentre andavo via vedevo la più piccola delle cugine scoppiare a piangere con la bocca aperta e il volto rigato di lacrime premuto contro il vetro”, è il terribile ritratto della zia Solange, in quel succedersi continuo di rivelazioni che è La donna gelata.
Ma torniamo al salotto dei coniugi Giudice-Sapienza, affollato di scialli neri di prefiche piangenti: “Essendo derelitte, vittime della società, io fui costretta ad amarle, a conoscere le loro storie, metterle in un altarino, accendere lumini e a pensare solo a loro, scrivere solo di loro”. Solo la scrittura l’ha salvata da questa impasse: “Ho fatto bene a parlare con voi di queste donne. Ho fatto bene, non vedete che sono sparite?”. Si libera di questo ricordo pesante e restituisce alle donne il loro status di amiche, sorelle, ambasciatrici di gioia. Peer Sapienza, come per Ernaux, la scrittura è l’apertura della gabbia per far uscire e sparire per sempre quell’ideale di donna, quel temuto angelo del focolare che il marito sperava di intravedere in lei, un modello che l’ha inseguita per tutta la vita senza mai afferrarla.
I taccuini di Goliarda sono ricchissimi di storie di amicizie, sorellanza, fino al sublime racconto del tempo passato nella sezione femminile del carcere di Rebibbia, una comunità spigolosa e camaleontica, che ricorderà sempre con nostalgia, una vera università dell’anima per lei, dove assorbirà quella “lezione che il maschio conosce da secoli nella sua biologia: mai incollarsi i desideri inconsci degli altri, pilotati dal genio malefico della centrifuga...”.
Anche per Goliarda, la comunità femminile, per ricompattarsi, ha avuto bisogno di volti estranei, di apertura al mondo, di una distanza necessaria con la famiglia, di solitudine estrema. La sua rivoluzione personale è un moto preciso e fermo verso la dimensione umana dell’esistenza, senza bisogno di ideologia o manifesti. Dopo la pubblicazione dei primi testi, si consacra, con il piglio di una vocazione, alla composizione del suo romanzo L’arte della gioia. La si può vedere nel film di Citto Maselli Lettera aperta a un giornale della sera, uscito nel 1969: interpreta se stessa, un’intellettuale di spicco, molto impegnata nella scrittura del suo lavoro, che si reca ogni giorno in biblioteca per le sue ricerche e i suoi studi. Nello stesso momento in cui compone l’inizio del romanzo, non lontano da lei, le donne gridano per la propria liberazione. Stanno facendo il femminismo.
Goliarda osserva la dinamica di questi movimenti a distanza. I collettivi, le associazioni, i partiti non le piacciono. Le sembrano solo un altro modo per non assumersi le proprie responsabilità. Rimane alla finestra e, al passaggio del treno rivoluzionario, guarda dentro la sua coscienza. Resta a casa per scrivere uno dei romanzi più intensi e significativi, dedicato alla libertà delle donne, un capolavoro da leggere almeno una volta nella vita.
Mentre la rivoluzione mondiale esplode in tutti i campi della vita, accademica, sociale, politica, dà vita a un personaggio femminile rivoluzionario, che non è né una vittima, né una santa, né un’eroina, né una regina, né una puttana, né un angelo della casa, protettore dell’ordine patriarcale. Come scrive Providenti, Modesta è “il prototipo di una donna libera e autentica, che non evitando nessuno dei doni che la vita le riserva, sperimenta una dimensione umana di pienezza e di autodeterminazione, proponendo l’utopia che la gioia è un’arte che ognuno di noi può imparare a coltivare”. Per Goliarda, Modesta è la rivincita della scrittura sulla vita.
Come sembra suggerire Providenti, la sua personaggia è il sogno d’essere realizzato a occhi aperti, la “carusa tosta”, che vive in profondità e ai margini, che si prende, senza vergogna, tutto quello che c’è da prendere nella vita, senza la paura di esistere, “incendiare il buio”, attraversare, o procurare, la morte, e infine rinascere tante volte quante ne servono per essere se stessa.
Valeria Nicoletti ha lavorato come giornalista in diverse testate locali, nazionali e internazionali, tra il Salento, la Francia e gli Stati Uniti. Oggi è insegnante di lingue e di sostegno. Si occupa di diritti delle partorienti e dei neonati e anima laboratori di lettura per bambini e ragazzi. È guida turistica in Puglia. Incendiare il buio è il suo primo libro.
“Ma perché siamo costrettə a dire a una persona che ha violato un confine sacro per farle capire che ci ha feritə? E come mai è il confine della proprietà la metafora cruciale che conferisce forza morale alle nostre parole?”: per un uso critico e consapevole dei confini personali.
“Rileggere il passato in chiave queer e trans [...] per offrire alla società un nuovo spazio di cambiamento e di creazione di comunità alternative”: (bella) intervista a Susan Stryker.
Un’ottima recensione di Detransition, baby.
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Da quasi tre mesi, Montevideo sta attraversando una gravissima crisi idrica. Victoria Furtado racconta la presenza e le parole dei gruppi femministi della città, da subito coinvolti nella mobilitazione che chiede risposte e soluzioni alla politica locale ma anche nel supporto delle persone più sole e vulnerabili di fronte a questa emergenza.
Da Johnny Depp in giù: come lo strumento della diffamazione viene usato per scoraggiare chi subisce violenze e abusi e vorrebbe diffondere la propria storia.
MODA! Nell’armadio di Carla Lonzi.
Verso un futuro fantastico: Ortese e Pugno.
FATTO DA NOI
Marzia ha pubblicato un libro di poesie. Si chiama Liricologismo, parla soprattutto di eco-ansia e si può già comprare qui.
FATTO DA VOI
Anna Maniscalco scrive su Il Libraio de L’aria innocente dell’estate di Melissa Harrison.
Nel catalogo di Eris Edizione puoi ora trovare Lady Lava, novella scritta da Diletta Crudeli. Tutte le informazioni qui.
[Alt Text: la copertina di Lady Lava è completamente bianca e riporta il nome dell’autrice e il titolo in un grosso stampatello. Dentro le lettere è visibile una coloratissima illustrazione dell’artista Davide Bart.Salvemini, raffigurante una donna la cui parte sinistra del corpo è in fiamme. L’illustrazione completa è qui.]
UN LIBRO
Cauterio di Lucia Lijtmaer. Traduzione di Sara Papini. Alter Ego edizioni, 2023.
di Alessia Ragno
[Alt Text: ritratto fotografico di Lucia Lijtmaer, che siede su una panchina rossa in un giardino. Fonte.]
Nella Spagna contemporanea, prima a Barcellona e poi a Madrid, c’è una donna che vaga per le strade in cerca dei segni di un’apocalisse in arrivo, ne è convinta. Non ha nome perché la sua potrebbe essere l’esperienza di molte a seguito un trauma, ma è anonima soprattutto perché a chi importa della sua storia? Chi si prende la briga di raccontare (e leggere) la vicenda di una trentenne tradita nelle aspettative, che si piega sotto il peso dell’indifferenza generale? Nessun*, esatto; si sa quanto l’editoria sia restia a lasciare spazio alle donne bollate come “pazze”, incontrollabili, devastate.
Il deterioramento mentale della donna senza nome si alterna alla vicenda di Deborah Moody, personaggio realmente esistito che nel XVII secolo abbandonò la natia Inghilterra a causa delle persecuzioni religiose in corso e si rifugiò nelle colonie del Massachusetts. Con un incedere regolare, la scrittrice argentina Lucía Lijtmaer racconta due vite distanti nello spazio e nella storia e le lega filo per filo, tessendo una trama fatta di ferite, dolore e cauterizzazioni necessarie per bruciare il passato e ricominciare in una forma – fisica, politica e sociale – alternativa. L’idea di coinvolgere la figura di Moody deriva da una vecchia fascinazione di Lijtmaer per la storia dei primi puritani negli Stati Uniti, un lungo lavoro di ricerca che ha portato alla luce la storia personale di Moody, colei che aveva osato sfidare la rigida società patriarcale dell’epoca fondando un proprio insediamento coloniale, Gravesend, nell’attuale Brooklyn. Nella donna senza nome, invece, c’è quel tanto di autobiografico che basta per rendere universale la sua vicenda.
Cauterio, in Italia pubblicato da Alter Ego edizioni nella traduzione di Sara Papini, è un romanzo politico e femminista perché politico e femminista è l’atto della donna senza nome che si annienta, nel corpo e nella mente, per poi rinascere dalla vendetta. La donna senza nome perde l’amore di un uomo autoproclamatosi femminista e progressista, ben inserito nel contesto sociale del municipalismo barcellonese del 2014; ma il loro rapporto rievocato in flashback si rivela un capolavoro di oppressione. La sua esistenza, allora, collassa sotto il peso del declino mentale, dei rimorsi e di tutto quello che lui ha preteso con forza, ma che lei non è stata capace di fare: mantenere una relazione stabile stando al proprio posto e diventare madre appagata, mentre lui si esibiva come politico di successo, perpetuando un’idea di felicità posticcia e imposta.
L’altra, Deborah Moody, la donna che aveva osato fondare un proprio insediamento coloniale nell’attuale Brooklyn, espia i suoi peccati rivolgendosi a Dio da una tomba altrettanto opprimente e con lui evoca la vita passata, le costrizioni della religione, la persecuzione subita, la sorellanza che ha sostenuto fino a che ha potuto. A lei, per un tempo brevissimo, Lijtmaer immagina di attribuire persino l’amicizia con Anne Hutchinson, altra figura storica dell’epoca – predicatrice, teologa, eretica – per amplificarne l’effetto dirompente di due donne indipendenti in quel contesto storico. Su entrambe le protagoniste, Deborah e la donna senza nome, pesano le dinamiche delle relazioni con gli uomini, il loro controllo e la presunta superiorità morale. Entrambe vengono oppresse dalle aspettative della società patriarcale in cui vivono, soffocate dall’obbligo di seguire l’unica verità: quella degli uomini. La protagonista senza nome è respinta perché rifiuta di comportarsi da compagna amorevole dell’uomo di successo; di Deborah, invece, viene messa in dubbio la fede più di una volta – in Inghilterra prima, nelle colonie britanniche in America poi – per piegarla al bene collettivo, cioè quello degli uomini. L’inganno dell’amore e delle convenzioni sociali infesta le loro vite, le condiziona, fino a quando il fuoco, reale per Deborah e metaforico per la donna senza nome, brucia le tracce del passato e innesca la vendetta, violenta solo nei primi impulsi, ma salvifica e pienamente meritata quando è compiuta. Entrambe rinascono dalla cenere dei loro atti performativi e si ricongiungono, a sorpresa, nello stesso momento storico in un finale luminoso di pace personale e libertà.
Alessia Ragno vive a Bari ed è laureata in Fisica, ma è stata a lungo giornalista pubblicista, ha collaborato per 10 anni con Cosebelle Magazine, un web magazine indipendente, e ora scrive di narrativa contemporanea per L'indiependente e pubblica racconti brevi. La trovi su Instagram.
Ringraziamo Alessia Ragno, Valeria Nicoletti e Collettiva Edizioni. Ci risentiamo tra pochi giorni per parlare meglio di Barbie.
Un abbraccio!
Francesca, Gloria e Marzia