La ghinea di giugno
Freedom Flotilla, Murata Sayaka, Breve storia delle donne queer, Le prime volte
Benvenut@ a Ghinea, la newsletter che vorrebbe essere al mare. Lo scorso 9 giugno Israele ha assaltato un’imbarcazione della Freedom Flotilla Coalition in acque internazionali, ha sequestrato l’equipaggio e lo ha successivamente deportato. Francesca Parri ricostruisce per noi la storia di questo progetto di solidarietà (la nave non trasportava che aiuti umanitari) e analizza criticamente il dibattito mediatico che si è scatenato attorno a quest’episodio e alla sua protagonista di maggior visibilità, l’attivista svedese Greta Thunberg.
Oltre a Francesca torna anche Martina Neglia, che ci guida alla scoperta dell’autrice giapponese Murata Sayaka.
Maria Paola Corsentino ha letto e commenta Breve storia delle donne queer di Kirsty Loehr.
A chiusura di questo numero e del mese del pride, noi abbiamo visto il cortometraggio Le prime volte di Perla Sardella e Giulia Cosentino.
Buona lettura!
La Gaza Freedom Flotilla tra crisi umanitaria e costruzione mediatica della criminalità
di Francesca Parri
Francesca ci chiede di supportare, se possiamo, questo progetto.
[Alt Text: lə attivistə salpatə il 1° giugno 2025 con la Madleen, nave della Freedom Flotilla Coalition. Fonte.]
In queste settimane le notizie sono state invase dalle foto della Madleen, nave diretta verso la Striscia di Gaza per rompere l’assedio israeliano sugli aiuti umanitari diretti alla popolazione palestinese. Per quanto i media allineati al discorso sionista abbiano voluto dipingere questa missione come un’ulteriore spettacolarizzazione dellə attivistə pro-Palestina, dietro alla Freedom Flotilla vi è una storia iniziata nel 2008, a seguito del blocco aereo, terrestre e marittimo imposto dal 2007 alla Striscia di Gaza da parte di Israele ed Egitto. Dopo tre anni di spedizioni, nel 2010, la Flotilla si trovò ad affrontare direttamente la violenza delle Forze di Difesa Israeliane (IDF): organizzata dal Free Gaza Movement insieme alla Foundation for Human Rights and Freedoms and Humanitarian Relief, la missione, formata da sei navi, partì da Cipro con l’obiettivo di rompere il blocco navale israeliano e portare aiuti umanitari a Gaza. Nonostante questa fosse una missione pacifica volta alla distribuzione di aiuti quali cibo, medicine, materiali per la ricostruzione delle case ed altri strumenti utili alla popolazione ferita, il 31 maggio le IDF attaccarono la nave turca Mavi Marmara nelle acque internazionali del Mediterraneo, uccidendo nove attivistə ed un passeggero. Questa operazione, fatta passare come “incidente” dalla stampa e dal Governo israeliano, non è comunque riuscita a bloccare il desiderio di tante persone da tutto il mondo di prendere posizione ed imbarcarsi negli anni successivi, fino ad arrivare ai giorni nostri.
È qui che arriviamo alla Madleen, nave civile della Freedom Flotilla Coalition partita questo giugno dalle coste catanesi, un mese dopo l’attacco israeliano alla Conscience, altra imbarcazione diretta a Gaza e colpita dai droni in acque internazionali. Si può dire che queste missioni siano ormai conosciute tanto dai movimenti pro-Palestina quanto da chi supporta l’ideologia sionista, ma il viaggio della Madleen è stato mediaticamente differente: l’equipaggio comprendeva infatti anche l’attivista svedese Greta Thunberg, l’europarlamentare di origine palestinese Rima Hassan e l’attivista tedesca di origini turche Yasemin Acar, tutte personalità molto conosciute nel mondo dell’attivismo e della militanza. Queste presenze hanno sì permesso che la missione ricevesse un’attenzione mediatica superiore rispetto alle altre, ma hanno anche offerto un terreno fertile alle strumentalizzazioni più becere: spettacolarizzazione e opportunismo politico ed economico sono solo alcune delle accuse addossate allə attivistə dalla stampa e dai politici, i quali non hanno perso l’occasione di dimostrare quanto ancora sia lontano il raggiungimento di una narrazione in cui chi prende posizione non venga attaccatə con retoriche sessiste, infantilizzanti ed abiliste, nonché clickbait.
A questo proposito, sarebbe bene soffermarsi per analizzare con occhio critico quella che non sembrerebbe essere una semplice incompetenza giornalistica, bensì una delineata strategia di boicottaggio mediatico ben conosciuto da chi si mobilita contro il genocidio palestinese. Fin dall’inizio della missione, l’equipaggio della Flotilla è stato incolpato di essere una trovata pubblicitaria, discorso che ha totalmente spostato il focus dal nodo centrale del viaggio e dal perché fosse importante la presenza a bordo di personalità conosciute: questa strategia mediatica ha completamente reso invisibile l’obiettivo della Madleen e la storia della Freedom Flotilla Coalition, che vuole evidenziare l’illegalità del blocco navale israeliano imposto alla Striscia di Gaza e del conseguente blocco degli aiuti umanitari. Sebbene sia più semplice generalizzare le rivendicazioni della Flotilla e racchiudere tutto nella distorsione permessa dai giochi narrativi usati sulla posizione politica “delle celebrità” – definitə così in un post su X pubblicato dal profilo ufficiale di Israele -, la stampa internazionale ed i politici occidentali evitano di far emergere una realtà fatta di carestia, di genocidio, di militarizzazione degli aiuti umanitari e di molteplici violazioni del diritto internazionale.
[Alt Text: alcune basi del Diritto Internazionale Umanitario, sancite dalle Quattro Convenzioni di Ginevra e dai Protocolli aggiuntivi.]
Se si guarda ai princìpi della cooperazione internazionale, infatti, la fornitura di aiuti umanitari deve essere neutrale ed imparziale, nonché in linea con la Quarta Convenzione di Ginevra del 1949 (Protezione della popolazione civile in tempo di guerra), ma guardando all’attuale gestione degli aiuti diretti a Gaza è evidente come l’entità sionista stia ripetutamente violando tali obblighi. L’attuale distribuzione degli aiuti umanitari è sotto il controllo della Gaza Humanitarian Foundation (GHF), organizzazione fittizia israelo-statunitense che dallo scorso maggio avrebbe dovuto garantire l’adeguata distribuzione di aiuti alla popolazione palestinese: la realtà, però, è ben differente, e ha mostrato fin da subito la problematicità di un’organizzazione tutt’altro che imparziale ed indipendente. Come denunciato da Amnesty International Australia, la gestione della GHF da parte della forza occupante israeliana non solo politicizza la distribuzione degli aiuti umanitari ma consente anche la loro militarizzazione, violando il diritto internazionale umanitario. Oltre a questa violazione, permettere ad una delle parti in campo di militarizzare gli aiuti significa perdere il controllo su eventuali situazioni di conflitto: le immagini raffiguranti la misera distribuzione di aiuti sono scene di massacro e violenza, in cui l’esercito israeliano, incapace di gestire la situazione e assolutamente non imparziale, ha deciso di “contenere” i disordini creati dalla loro incompetenza aprendo il fuoco sulle persone palestinesi accalcate nei recinti di smistamento della GHF.
Qui torna l’importanza della Freedom Flotilla Coalition e delle sue missioni, necessarie anche a mostrare al mondo il blocco che Israele impone all’accesso degli aiuti umanitari via terra e via mare. A discapito del discorso mediatico o di quello del Governo israeliano, che hanno raffigurato il viaggio della Madleen come uno show in mare aperto, lə attivistə sono riuscitə a documentare ancora una volta come l’entità sionista non debba temere un diritto internazionale creato e sorretto dai vincitori della storia: le autorità israeliane, incensurate ed impunite dai tempi della prima Nakba, non hanno esitato un attimo nell’arrestare l’equipaggio in acque internazionali, procedimento vietato dalla Convenzione di Montego Bay (1982). Infatti, il viaggio dell’imbarcazione battente bandiera britannica – e, dunque, considerabile un’estensione della giurisdizione britannica ai sensi della convenzione – è catalogabile come “passaggio inoffensivo” in acque internazionali, trovandosi questa ancora distante dalle acque territoriali israeliane e dal tratto del blocco navale. Ma tutto questo, come è emerso in queste ultime settimane, ha lasciato il posto a titoli e notizie che niente hanno a che vedere con analisi e discorsi sulle molteplici violazioni compiute da Israele: piuttosto che informare la società civile della fame e delle epidemie causate dall’entità sionista nella Striscia, si è preferito parlare di quanto fosse giusta o meno la presenza di Greta Thunberg a bordo, di quanto essa sia ormai una facinorosa, una folle nelle mani di Hamas.
Strumentale a distogliere l’attenzione dallo scopo della missione umanitaria, l’onda mediatica ha sfruttato la posizione di Greta Thunberg contro il genocidio palestinese al fine di delegittimarne tanto la sua coscienza politica, quanto le sue passate battaglie. Entrata nell’attivismo nel 2018 con i primi scioperi contro il cambiamento climatico e la nascita del movimento ambientalista globale Fridays For Future, è evidente come la sua consapevolezza si sia man mano articolata su riflessioni più radicali che tutt’oggi diffonde nelle piazze e nei dibattiti, partendo da una coscienza anticapitalista e decoloniale. E se fino a pochi anni fa è stata idolatrata anche dai governi occidentali e dalle organizzazioni sovranazionali come le Nazioni Unite, oggi le parole verso lei hanno preso una piega differente, negativa: questo succede quando sveli lo stretto legame tra colonialismo, capitalismo e crisi climatica, quando porti alla luce il legame tra i genocidi delle popolazioni autoctone e gli ecocidi, nominando artefici e complici. Vittima di retoriche abiliste, sessiste e costantemente infantilizzata, Greta Thunberg è oggi una donna di ventidue anni consapevole, radicale e in grado di mobilitare il proprio privilegio di bianca, europea e visibile per rendere noto ciò che i media ed i governi vogliono nascondere dietro a retoriche pacificatorie e edulcorate. La visibilità dell’attivista rende possibile la capillare diffusione tra lə più giovani di narrazioni alternative e chiavi di lettura intersezionali, togliendo dal novero dei tabù parole cardine come capitalismo e colonialità, con lo scopo di renderle comprensibili a tuttə, in ogni loro sfaccettatura. Accusata di antisemitismo e di essere “strana” con “problemi di rabbia”, come recentemente affermato da Trump, l’attivista è invece uno dei tanti esempi presenti nel mondo che dimostrano quanto la rabbia contro le ingiustizie non sia solo giusta, ma anche necessaria: al di là delle rappresentazioni costruite attorno a Thunberg, che vorrebbero ancora raffigurarla come una bambina triste per un futuro assai incerto, il suo esempio mostra come la rabbia, se incanalata e collettivizzata, possa far sbocciare nuovi focolai di resistenza e di lotta. È l’esempio di come la tolleranza del potere nei confronti di una forma di attivismo finisca dove finisce anche la possibilità del capitalismo di appropriarsi delle lotte attraverso le pratiche di washing, criminalizzando discorsi e azioni che mettono radicalmente in discussione le strutture marce di questo sistema, retto tutt’oggi dalle pratiche coloniali di occupazione, esproprio, ecocidio e pulizia etnica. Se al Climate Action Summit 2019 le parole accusatorie di una Greta ancora sedicenne contro i leader mondali presenti non vennero prese sul serio, oggi l’azione diretta ha preso il posto dei discorsi pronunciati sui banchi istituzionali, dimostrando che comprendere quale scalino occupiamo nella piramide del privilegio non significa soltanto capire la nostra posizione nella società, ma anche che tipo di postura possiamo assumere al fine di usarlo contro le crescenti ingiustizie.
Francesca Parri è Dottoressa Magistrale in Scienze Internazionali, laureata all'Università di Siena. È una delle fondatrici della Collettiva F.R.O.G., realtà transfemminista queer che agisce negli spazi universitari e cittadini ripartendo dal concetto di cura radicale. Della lotta ne ha fatto il proprio percorso, senza cui gli anni universitari sarebbero stati una mera strada accademicamente alienante. La trovi su Instagram come @parrysauro.
Alieni, umani: la scrittura di Murata Sayaka
di Martina Neglia
Qualche anno fa decisi con una cerchia ristretta di amic* di portare avanti un gruppo di lettura. Ebbe vita breve: i libri letti e discussi furono una manciata e il ritmo venne subito interrotto dagli impegni della vita e dalla poca costanza generale. Non ricordo se ci fosse una reale intenzione di leggere libri strani, o se fossero solo gli interessi comuni a portarci alla selezione fatta, sta di fatto che il primo libro scelto dal gruppo fu I terrestri di Murata Sayaka. E per me fu un’epifania.
Se vi è capitato di scrollare video del #booktok – nicchia di Tik Tok dedicata ai libri – o recensioni su goodreads, vi sarà capitato almeno una volta di vedere una reazione ai libri di Murata Sayaka o di leggere un commento a caldo. Prima di scrivere questo articolo, ho provato anche io a cercarne qualcuna e a segnarmi qualche parola ricorrente: pazza, disturbante. Un’utente non italiana scrive sull’ultima traduzione di un suo libro (Vanishing world: “excited to get fucked up again” (tradotto: elettrizzata all'idea di essere devastata ancora). Tutte queste non saranno critiche articolate, ma rappresentano nel più semplice dei modi il disagio strisciante a cui costringono i libri di Murata.
Murata Sayaka nasce nella prefettura di Chiba nel 1979. Inizia ad appassionarsi di storie fin da bambina, con un istinto alla parola scritta che viene subito riconosciuto e sostenuto dalla madre. Da adolescente si trasferisce con la famiglia a Tōkyō, dove prosegue gli studi e si laurea in arte e studi culturali presso l’Università di Tamagawa. Come per molti altri scrittori e scrittrici giapponesi, la sua “gavetta” come autrice parte dalle riviste letterarie, con i primi racconti pubblicati. È proprio grazie al premio indetto da una di queste che il suo riconoscimento come scrittrice emergente viene ufficialmente sancito: nel 2003 vince infatti, con il racconto Jyunyū (tradotto: Allattamento), il Gunzō Prize for New Writers. Dopo questo ottiene negli anni diversi riconoscimenti, fino a raggiungere il prestigioso premio Akutagawa nel 2016 con il romanzo La ragazza del convenience store (2016, traduzione italiana del 2018 a cura di Gianluca Coci) che le attira le attenzioni del pubblico internazionale.
[Alt Text: fotografia di Murata Sayaka all’interno di un konbini e circondata da snack e bibite colorati. L’autrice, ritratta a mezzobusto, indossa un vestito nero a maniche corte con un vistoso colletto bianco merlettato e a punta. La sua espressione è seria. Fonte.]
Sia in Italia che nel mercato anglofono, i libri di Murata hanno ottenuto un successo così sorprendente da portare gli editori (in Italia tutti i libri dell’autrice sono pubblicati dalle edizioni e/o) a un rapido lavoro di pubblicazione a ritroso della sua bibliografia. È così che dopo I terrestri (2018, ed. italiana 2021) e La cerimonia della vita (2019, ed. italiana 2023), sono stati tradotti in italiano prima la raccolta del 2014 Parti e Omicidi (ed. italiana 2024) e da pochissimo il romanzo del 2015 Vanishing World, la cui traduzione è stata assegnata per la prima volta ad Anna Specchio, ricercatrice italiana i cui studi si concentrano proprio sui libri delle scrittrice giapponese.
L’aggettivo che ho usato per parlare dei libri di Murata all’inizio di questo articolo è: strani. Murata ambienta infatti i suoi romanzi in Giappone, in una realtà parallela non troppo distante dalla nostra contemporaneità. Tutti i romanzi e i racconti hanno quasi sempre un fil rouge che li accomuna, e avendo a disposizione ormai molta della produzione di Murata è possibile individuare anche quali sono stati il nocciolo narrativo o l’evoluzione dell’altro.
I romanzi di Murata sono scritti sempre in prima persona, da un punto di vista femminile. Le sue protagoniste sono donne che deviano dalla norma, sia da quella più realistica del Giappone contemporaneo (come ne La ragazza del convenience store), che da quella vicina ma estremizzata dei suoi mondi immaginari.
Il romanzo che l’ha portata al successo si ispira, ad esempio, all’esperienza personale dell’autrice, che ha lavorato per anni part-time in un konbini. La ragazza del convenience store si apre con la descrizione dettagliata di quella che la protagonista del romanzo, Furukura Keiko, chiama “musica del konbini”. Ogni impulso sonoro è per i suoi sensi ormai familiare, uno stimolo a cui il suo corpo sa perfettamente come reagire. La protagonista nelle prime pagine racconta:
Ho solo un ricordo sbiadito del periodo precedente alla mia “rinascita” come commessa del konbini. Sono nata e cresciuta in un quartiere di periferia, in una famiglia come tante, ricevendo una dose di affetto nella media. Eppure ero una ragazzina un po’ strana.
Keiko descrive infatti momenti dell’infanzia in cui sue azioni o comportamenti venivano tacciati di essere strambi. Ripete nel suo monologo di come sia cresciuta in una famiglia normale, in cui non le è mai mancato affetto, eppure qualcosa di lei doveva sempre essere evidenziato come anormale, e, quindi, da correggere. L’unica modalità di protezione della protagonista diviene allora quella di imitare comportamenti ed espressioni delle persone intorno a lei, nel tentativo di aderire a ciò che le norme sociali le richiedono. Il lavoro nel konbini diventa quindi per lei qualcosa di salvifico: un lavoro che prevede azioni standard, reiterate; saluti e dialoghi con i clienti che raramente fuoriescono da un copione ormai mandato giù a memoria. Questo lavoro diventa per lei una fonte di senso e appartenenza, in una società in cui è riuscita a fatica a ricavarsi un posto. Ma nonostante la soddisfazione raggiunta nell’essere diventata un ingranaggio performante, subisce il giudizio di amic* e familiari che la criticano per il suo non provare a realizzarsi in una carriera più ambiziosa o nel trovare un partner con cui costruire la più canonica delle famiglie.
Il personaggio di Keiko si scontra quindi con le rigide aspettative della società giapponese nella formazione di un individuo, ma Murata rappresenta perfettamente la tensione tra imposizioni normalizzanti a cui Keiko rischia di essere piegata e la sua ostinazione nell’essere chi è, quasi accogliendo di buon grado la sua definitiva alienazione dal resto del mondo.
[Alt Text: fotografia di Murata Sayaka durante un incontro all’interno di una biblioteca. L’autrice indossa un lungo vestito chiaro ed è seduta di fronte a un tavolino basso che espone alcuni libri. Dietro di lei ci sono altri libri, ordinatamente esposti negli scaffali della biblioteca. Fonte.]
Più estremo invece il caso degli ultimi arrivi in Italia: la raccolta di racconti Parti e omicidi e il romanzo Vanishing World. Entrambi vengono definiti dalla studiosa Saitō Minako delle distopie riproduttive, un sottogenere dei romanzi distopici apparso in Giappone in seguito al terremoto e al successivo disastro nucleare che nel 2011 colpirono la regione del Tōhoku. Sotto questo termine si inseriscono quindi le distopie letterariamente verificatesi più o meno nell’ultimo decennio che mettono sotto la propria lente di osservazione le modalità di riproduzione dell’umano.
Sia Parti e omicidi – soprattutto nel racconto che dà il nome alla raccolta – che Vanishing World mettono in scena due realtà in cui le modalità di riproduzione della specie vengono drasticamente sconvolte.
Il titolo del primo libro citato è di per sé esplicativo: in un futuro prossimo, ogni individuo potrà entrare in un programma che prevede la possibilità di uccidere una persona al termine della decima gravidanza. La persona individuata come vittima non potrà sfuggire al suo destino in nessuno modo, e, anzi, le modalità dell’omicidio potranno essere definite dalla persona che dopo aver messo al mondo dieci vite si sarà garantita il diritto di eliminarne una. La gravidanza in Parti e omicidi viene quindi separata da qualsiasi desiderio di maternità o creazione di una relazione genitoriale; anche il concepimento/inseminazione in sé viene privato di qualsiasi tipo di sentimento o di relazione sessuale di coppia. Si paga, insomma, il prezzo di vivere come soggetti incubanti, in grado di garantire tassi alti di natalità alla nazione, pur di soddisfare i propri desideri omicidi.
Vanishing World dialoga molto con i racconti di Parti e omicidi, non tanto per le premesse violente, quanto per la visione del sesso che viene rappresentata. La società giapponese in cui si svolgono le vicende è una società pulita, in cui il sesso è stato ormai eliminato come pratica riproduttiva all’interno della coppia. La protagonista Amane viene infatti derisa da quando è una bambina: lei, a differenza dei bambini normali, è nata da un rapporto sessuale dei genitori. Una coppia che si unisce in matrimonio nella società raccontata in questo romanzo diventa a tutti gli effetti una famiglia e, di conseguenza, qualsiasi forma di sesso tra due individui all’interno di questo nucleo è considerato un incesto. Tanto che qualsiasi tipo di tentativo di contatto sessuale da parte di un* dei due è sufficiente per avviare le pratiche di divorzio.
La maggior parte degli adulti si trova quindi a vivere delle relazioni non monogame, in cui la riproduzione (anche in questo libro il concepimento è legato a procedure di inseminazione artificiale) può esistere solo all’interno del rapporto sancito dal matrimonio, mentre l’innamoramento e il sesso vengono tenuti fuori, con relazioni extraconiugali spesso note e supportate dal coniuge.
Anche questo tipo di relazioni verrà però eliminato all’interno della città di Eden, la vecchia Chiba città natale di Amane, ora diventata una sorta di città-nazione a sé stante a cui si accede dopo controlli di sicurezza e doganali, proprio come se si stesse per andare all’estero. In questa nuova città si realizza una società in cui sia uomini che donne possono portare avanti delle gravidanze mettendo al mondo nuov* bambin* figl* della società tutta. Ogni persona adulta sarà infatti Madre di tutt* l* kodomo-chan (tradotto: bambin*), termine ombrello con cui vengono chiamate tutte le nuove persone appena nate, cresciut* in delle strutture specifiche a parte, ma che è impossibile incontrare e coccolare.
In una bellissima intervista rilasciata al Louisiana Channel, in cui parla del suo processo creativo, Murata Sayaka afferma che le piace immaginare storie ambientate in realtà regolate da etiche diverse dalla propria. In questo senso, non sono sicura che il termine distopico sia sempre il più calzante per descriverle. Anna Specchio, già citata come traduttrice proprio di Vanishing World, ha dedicato e continua a dedicare la propria ricerca accademica all’opera di Murata. Nell’articolo No Sex and the Paradise City. A critical reading of Murata Sayaka’s Shōmetsu sekai 消滅世界 (2015) si interroga proprio sul genere con cui è possibile inquadrare Vanishing World, avanzando la possibilità di interpretarlo, per certi versi, più come una un’utopia fantascientifica femminista e queer.
Nelle opere di Murata Sayaka è possibile riconoscere accentuate molte condizioni e distorsioni del Giappone contemporaneo: una società “priva di sesso”, che sta vivendo una forte crisi demografica, le cui cause sono plurali e radicate in decenni di storia anche se le prime a subirne i ricatti e le accuse sono spesso le donne. Nel 2007 il Ministro della Salute Yanagizawa Hakuo definì le donne delle “macchine produci-bambini”, ricorda Specchio nel suo articolo. Parlare di maternità e di nascite vuol dire oggi parlare ancora per lo più di corpi di donne cisgender e del loro ruolo all’interno delle istituzioni eteronormative. Eden, la città immaginata da Murata, ha quindi sicuramente delle caratteristiche distopiche, con un governo che dall’alto regola e omologa l’educazione dei e delle kodomo-chan e il ventaglio delle relazioni umani possibili. Ciò nonostante, la tecnologia utilizzata per la riproduzione ha anche qualcosa di utopico, “poiché è in grado di liberare le donne dall’attuale costrutto di una femminilità legata alla maternità obbligatoria e permettere agli uomini di partecipare attivamente alla (ri)produzione.”
Un aspetto aggiuntivo che mi rende difficile leggere molti dei lavori di Murata come distopie è la mancanza di una vera e propria critica, o la sensazione latente che ci sia un monito a cui star attent*, come accade per le distopie più classiche. Sicuramente in romanzi come La ragazza del convenience store e I terrestri – qui ancora non citato, ma tra i preferiti tra l* lettor* – le protagoniste crescono e reagiscono in un universo che è facile leggere come oppressivo e violento. In molti degli altri lavori, invece, la distinzione tra giusto e sbagliato all’interno di un nuovo sistema etico non è sempre così chiara e definitiva. Sia in Parti e omicidi – l’omonimo racconto e altri contenuti all’interno della raccolta – che in Vanishing World, l’avanzare di nuove regoli sociali è ancora in divenire, con la presenza di alcuni personaggi, come la madre di Amane, che restano testimoni di un tempo passato e fanno resistenza al nuovo presente. L’attrito tra le due parti non è però presentato come uno scontro tra un modo di vivere e una sua degenerazione, ma come uno slittamento molto veloce di valori che lascia alle sue spalle relitti di un mondo diverso.
Le opere di Murata le hanno valso l’appellativo di “Crazy Sayaka” perché spesso includono violenze cieche e inaspettate, personagg* che cedono alla perdita della vecchia morale, scene di sesso nuovo – a volte anche con oggetti o che è possibile racchiudere nelle parafilie – fino al cannibalismo con il suo lato ovviamente gore, ma che può sfociare nel poetico.
Parte dell’aspetto disturbante della letteratura di Murata, a mio avviso, si annida infatti nella normalità con cui si attua un nuovo sistema etico e morale, svincolato da tutti quei valori che al momento riconosciamo come naturali.
Nel racconto che apre e dà il nome alla raccolta La cerimonia della vita – cronologicamente successiva alle due opere analizzate –, Murata immagina un mondo in cui l’ultimo commiato ai propri defunti viene dato attraverso una cerimonia che prevede un banchetto a base di carne umana. Il corpo della persona scomparsa viene dato a un’azienda che si occupa di ripulirlo dei materiali non edibili e dannosi, per poi essere utilizzato per la preparazione di zuppe, stufati ecc. Dopo il pasto, gli e le invitati cercano nel gruppo un partner con cui celebrare la vita appena persa, provando a concepirne un’altra. Il rapporto sessuale – che anche in quest’opera è scollegato dall’istituzione della coppia e avviene soltanto con obiettivo riproduttivo – è ritenuto sacro e non deve svolgersi necessariamente in camere private, ma può accadere negli ambienti comuni o nello spazio pubblico.
Nei dialoghi rappresentati si sviluppano molti dei quesiti morali su cui si interrogano i personaggi, ancora una volta tra presente e passato: la possibilità di mangiare carne umana, il modo in cui viene vissuto il sesso, l’istinto che dovrebbe muovere queste nuove pratiche. Maho, la protagonista del racconto, risponde a parte dei suoi quesiti confermando quello che per me è l’intento letterario di Murata:
Ma quale istinto? L’istinto non esiste, così come non esiste la morale. Erano solo sensazioni false e banali, provocate da un mondo che si trasformava di giorno in giorno.
Martina Neglia è nata a Palermo nel 1993, ma vive a Milano ormai da qualche anno. Si interessa soprattutto di femminismi e di letteratura delle donne. La sua vita è un pendolo che oscilla tra una partita dell’Inter e l’altra. Puoi trovarla su Instagram come scrematura.
FATTO DA NOI
Sono uscite per minima le prime poesie in lingua portoghese di Marzia, si leggono qui.
FATTO DA VOI
Alessia Ragno su Quando il mondo dorme. Storie, parole e ferite dalla Palestina di Francesca Albanese.
Martina Neglia intervista la fumettista Claudia Petrazzi.
Sofia Racco scrive di L’amore che non muore, film di Gilles Lelouche.
Quello sul lavoro di cura sarà sempre un ragionamento femminista essenziale e impossibile da abbandonare: qui un recente contributo di Silvia Gola.
Gli appunti sul Pride di Antonia Caruso.
Un ricordo di Sarat Colling, autrice di Animali in rivolta. Confini, resistenze e solidarietà umana purtroppo scomparsa il 16 maggio, firmato da Marco Reggio.
UN LIBRO
“Ci sarà, lascia che te lo dica, chi si ricorderà di noi”: Breve storia delle donne queer
di Maria Paola Corsentino
[Alt Text: la copertina disegnata di Breve storia delle donne queer raffigura due donne, una coi capelli rossi e una coi capelli neri, che si baciano. Le teste delle due donne si trovano all’interno di un palloncino azzurro, mentre il resto della copertina è di color giallo acceso.]
Le lesbiche non ridono.
Falso.
Le lesbiche non fanno ridere.
Falsissimo.
Prova ne è il libro di Kirsty Loehr Breve storia delle donne queer (le plurali, 2024), che vede la prefazione – non a caso – di Frad, fumettista romana e comica di stand-up.
Le persone queer da sempre sono affamate di genealogia, perché hanno bisogno di riconoscersi nella Storia e soprattutto per urlare che le froce sono sempre esistite. La queerness non viene fuori dal nulla come il coniglio da un cilindro (pratica specista!), sono semmai le narrazioni eteronormate a essere infarcite di cultura omolesbobitransfobica.
È praticamente impossibile riuscire a pareggiare i conti con la cancellazione a cui le esistenze non conformi sono state condannate per secoli, ma l’instancabile lavoro archeologico e filologico di studios3 e scrittor3 prova ormai da decenni a riportare alla luce sempre più storie.
Spesso si tratta di biografie romanzate che per necessità di scrittura mescolano il vero con la fiction, oppure di saggi seriosi pieni di note e rimandi. Loehr si colloca nel mezzo con un’ironia sferzante (nei confronti dell’eteronormatività) e spassosa (dalla prospettiva della queerness), e ci regala uno dei libri più originali che ci si possa trovare a leggere.
Lo stile con cui l’autrice cuce insieme le esistenze di donne queer, note e meno note, è una boccata di ossigeno nell’affanno della vita quotidiana che ci vede costantemente sotto minaccia, compresa quella di vedere cancellati i diritti conquistati con fatica.
Se non vivessimo in un mondo costituito da una ciseteronormatività che finisce per alimentare paura e odio per ogni diversità e complessità, ci sarebbe modo di costruire una convivenza pacifica tra orientamenti sessuali diversi e non ci ritroveremmo a ribadire l’ovvio nel 2025. Ecco perché oggi le lotte dei movimenti lgbtiqa+ incalzano il tempo come il Bianconiglio di Alice nel paese delle meraviglie.
Le lesbiche non ridono alle battute altrui perché nella maggior parte dei casi non è humor ma derisione. E perché mai dovrebbero offrirsi come pasto rifocillante ai lesbofobi che hanno bisogno di denigrarle per ridere?
Si possono, però, rovesciare le parti riscrivendo le dinamiche dell’ironia ed essere “leggere e sfacciate”, riappropriandosi anche come donne dell’aggettivo gay. Et voilà, Kristy Loehr!
Contrariamente a quanto le persone millennial che non hanno fatto studi classici possono credere, non è stata Ellen DeGeneres a inventare il lesbismo ma la poeta Saffo (VII secolo a.C.), nata appunto nell’isola di Lesbo. A lei si deve la visibilità delle relazioni omoerotiche tra donne e - cosa non meno importante - l’invenzione del plettro (con buona pace dei metallari misogini).
‘Saffismo’ e ‘lesbismo’ sono le due espressioni più utilizzate per definire i rapporti intimi e sentimentali tra donne. In quanto derivate dal greco il loro lemma si ritrova anche in altre lingue europee. In realtà, in greco esisteva un’altra parola per indicare la lesbica ed era tribàs, la cui definizione rimandava allo sfregamento dei genitali. Il termine è stato abbandonato per un po’ di secoli per essere poi ripreso nel Rinascimento e cadere nuovamente in disuso nel XX secolo.
L’affermazione di ‘saffica’ e ‘lesbica’ ha però allontanato il significante dal significato, rendendolo meno esplicito.
I rapporti tra donne sono stati marchiati con uno stigma così profondo che molte di loro non conoscevano nemmeno le parole con cui definirsi, perché la condanna peggiore a cui può essere destinato un sentimento è un lungo silenzio che mira a cancellarlo.
Per fortuna, anche quando non conoscevano i termini per descrivere il proprio orientamento sessuale, le lesbiche sono sempre esistite, qualunque fosse la latitudine, il periodo storico o la classe sociale.
Se come ha affermato Monique Wittig in The Straight Mind “il desiderio è resistenza alla norma”, quel desiderio sa anche aguzzare l’ingegno e creare oggetti che possano soddisfarlo fisicamente. Per dirla in modo esplicito: il dildo non è un’invenzione moderna.
Nella prima metà del XVIII secolo Giovanni Bordoni era considerato un abile seduttore e, dopo aver conquistato una donna, era solito avere rapporti sessuali con lei usando uno… strap-on ante litteram. Giovanni era la senese Caterina Vizzani, una ragazza intelligente caparbia e lesbica, che non amava essere considerata inferiore e ha fatto ricorso al cross-dressing pur di non soccombere al maschilismo.
Qualche decennio prima di Bordoni, anche Catharina Margaretha Linck, militare di Prussia, aveva indossato abiti da uomo e aveva sposato un’altra donna, con cui era solita avere rapporti usando una sorta di dildo legato alla vita.
Continuiamo ad andare indietro nel tempo e fermiamoci al 1477, in Germania Katherina Hetzeldorfer (ma sarà il nome?!) “fu beccata mentre usava un gigantesco dildo rosso di cuoio con una donna che si supponeva fosse sua sorella”. Spoiler per chi già grida all’incesto: non lo era.
Come avrete capito, la saga a ritroso del dildo continua ancora, tanto da trovarne una citazione nella Lisistrata di Aristofane (411 a.C.), una citazione lunga “otto dita”.
Il rischio di trattare queste figure contro-storiche è quello di sovradeterminarle a posteriori, tanto Loehr quanto noi. La mancanza di una definizione e di modelli a cui riferirsi rappresentava un ostacolo per l’autodeterminazione. Ragion per cui, anche se nel titolo viene utilizzato in modo pertinente il termine ombrello queer, non possiamo sapere come si sarebbero definite queste donne, né se si sarebbero definite donne.
I tempi moderni, purtroppo, non sono stati meno crudeli e la Storia ufficiale, che viene raccontata da chi detiene il potere sull’andamento dei fatti e sulla loro narrazione, sa essere lacunosa e beffarda ai limiti della mortificazione. Così può accadere che dell’intima amicizia tra la cantante Billie Holiday e l’attrice Tallulah Bankhead non ci resti che un piatto di spaghetti (leggete Loehr per capire l’intricata faccenda).
Ci sono poi figure un po’ più delicate da trattare e non ci si riferisce tanto a Eleanor Roosevelt, che ebbe una relazione più appassionata con Lorena Hickok che col presidente Franklin Delano, quanto ad Anna Frank. Dai suoi diari sono stati espunti i passi ritenuti più pruriginosi, come quelli in cui confidava di voler baciare e toccare i seni della sua amica Jacque o di quanto si emozionasse davanti ai corpi femminili nudi. Di fronte agli orrori del Nazismo, diventa fondamentale nascondere una potenziale attrazione lesbica.
Nonostante la censura, la discriminazione, le esistenze negate, le violenze e le condanne, le donne queer sono state capaci di rompere l’isolamento a cui erano state relegate. Così, quando sono riuscite a riconoscersi e a organizzarsi in gruppo sono emerse come soggetto ‘più che imprevisto’ (semicit. Carla Lonzi) della Storia.
Un soggetto tanto inaspettato quanto spaventoso perché in grado di proseguire nel proprio percorso senza che vi sia un uomo cis etero di mezzo. Scacco matto dell’imbecille!
Breve storia delle donne queer ci insegna a non fidarci troppo degli storici e andare più a fondo con le ricerche: la queerness si può scovare dove meno ce l’aspettiamo. Diffidare invece delle bandiere rainbow, lì è più facile trovare un brand pronto a fare washing. Soprattutto a giugno. Questa è la vera minaccia lavanda.
Bibliografia:
Sapphistries, Leila Rupp (New York University Press, 2009)
Storia di Caterina che per ott’anni vestì abiti da uomo, Marzio Barbagli (il Mulino, 2014)
La minaccia color lavanda, Irene Villa (ETS, 2024)
Signore che amavano altre signore tanto tempo fa, Cristina Domenech (Blackie Edizioni, 2024)
Maria Paola Corsentino è siciliana d’origine e pisana d’adozione. Si occupa di rassegne stampa, editing e correzione di bozze. Da circa dieci anni è finita nel vortice dei gender studies richiamata dalla luce viola in fondo al tunnel. Nello specifico, il suo focus di interesse è la narrativa italiana contemporanea a tema lesbico. Puoi seguirla su Instagram e su Facebook.
UN FILM
Le prime volte (Perla Sardella e Giulia Cosentino, 2025)
[Alt Text: Una donna semi-illuminata dal sole, con golf bianco e occhiali da sole, mette a fuoco l’immagine con una vecchia macchina da presa portatile che ha tra le mani.]
Le prime volte, un breve film sceneggiato e registicamente curato da Giulia Cosentino, Perla Sardella, è di una bellezza quieta e non sfolgorante: una di quelle cose che ti cresce dentro come un bisogno.
Vanno su e giù nei toni le voci delle due ragazze che giocano col microfono e la cinepresa: una è titubante, l’altra scaltra. “È la mia prima volta” dice una delle due con tono un po’ sconfitto quando l’altra la guida verso il vero obiettivo di questo gioco: un film di Emilia e Caterina. Creare qualcosa assieme, poterlo firmare già dapprincipio: firmarlo prima di filmarlo, dirsi prima ancora di agire che esisterà qualcosa che è un esperimento a due. Intanto, però, sperimentare: prendere appunti.
Appuntare: prendere nota, certamente, ma anche e soprattutto mettere punti, stabilire, fissare. Nel particolare, per poter inventare nuovi punti da intendersi come coordinate, bisogna mettere un punto allo sguardo maschile che dice le nostre storie. Difatti, come dichiarato dalle autrici, che lavorano in un coro a due che si apre all’esistenza semi-materiale delle protagoniste raddoppiando, quindi, ulteriormente il canto, “Le immagini d’archivio, tratte dal cinema amatoriale, vengono sottratte allo sguardo maschile che le ha generate e rilette attraverso un desiderio femminile”.
Se nei primi minuti le voci ci accompagnano verso il formarsi di una storia, creandone una al contempo con la loro sola squillante esistenza, la parte visuale è frammentata e incerta. Molto viene filmato nel riflesso di uno specchio, creando un ulteriore filtro ad addizionarsi a quello della camera da presa con la quale iniziano, le protagoniste, a prendere gli appunti necessari. A seguire, i suoni si fanno quasi nulli, e anzi le risa delle giovani sono distanti mentre il rumore meccanico della cinepresa del passato quasi ci scandisce la visione. Le immagini in bianco e nero – appuntate di sensazioni e pensieri scritti calligraficamente - prendono colore in acquerello in maniera scomposta come lo sono spesso i desideri in adolescenza. I corpi si rincorrono, si toccano, si fanno presenti l’un l’altro mentre ci si rotola nel prato. “Il tuo corpo per me è l’unico sensato”: il senso è la chiave di volta e di svolta, una razionalizzazione del desiderio; non è solo un impatto emotivo enorme, l’incontro con l’alterità familiare, ma anche e soprattutto una fase di un processo di conoscenza del sé attraverso la messa a fuoco del desiderio. Intanto i colori non desistono ma si fanno saltuari, e gli specchi – seppur d’acqua – tornano a riempire il grosso della scena ripresa.
Nonostante il dolore dei frammenti di lettera, l’ironia dell’incertezza la fa da sovrana: regna infatti nel primo frammento la difficoltà di tenere un segreto da soli, molto più facile che tenerlo a due o più persone. E però quando è un segreto dapprincipio condiviso, portarne il peso senza poterlo mai dischiudere in conversazione diviene un macigno. E comincia un calvario in corrispondenza, di lettera e di corpo oltre-testuale; di accettazione di poter essere felici anche se non vicine, domandandosi però, allora, a che scopo? A questi frammenti di intensità testuale si frappongono immagini di donne guardate forse senza essere viste, di fiori e addobbi di festa per giorni lieti ma mai lieti come li si sarebbe potuti vivere, mentre la vita incalza coi suoi obblighi – donna, moglie, madre – senza che queste aspettative portino davvero a completezza l’esistenza, la predestinazione umorale.
La chiave questa volta è l’immaginazione: un futuro possibilmente diverso, è davvero possibile, se non si riesce neanche a tratteggiarlo nella mente? Mancare l’appuntamento col dato certo del dovere di donna (e moglie, e madre) secondo la richiesta sociale, ieri come oggi, può essere una scelta se non conosciamo neanche la fantasia di un’alternativa? Tornano gli specchi d’acqua, questa volta in dirompente movimento, mentre le figure si fanno ombre e silhouette, memorie accennate di un’esistenza.
Tornano come a chiudere un ciclo mai davvero avviato le voci di bambine, bisbigliate, una segretezza inconsapevole e coscienziosa che si verifica nella sonorità incerta. Si dicono le cose di sempre, le cose vere, di una verità assoluta e vissuta. A partire dalla verità conclamata, per quanto pericolosa, può partire la fiaba, la dimensione dell’immaginazione, l’esercizio narrativo e mentale utile a pensarsi più materialmente in ogni dimensione del possibile. Anche e soprattutto dal ruolo di donna, moglie, madre. Immaginarsi amanti, oltre che innamorate.
Ringraziamo Francesca, Martina e Maria Paola per aver contribuito a questo numero. Ci leggiamo il mese prossimo!
Un abbraccio!
Francesca, Gloria e Marzia
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