La ghinea di gennaio
I treni della felicità, Per una giustizia trasformativa, Bye bye Tiberias
Benvenut* a Ghinea, la newsletter piena di articoli utili per litigare online. Il nuovo anno parte nel migliore dei modi con tre contributi. Elena Anna Spagnuolo racconta un’iniziativa di solidarietà avviata nel secondo dopoguerra da UDI e PCI, Luca Lou Pinelli affronta, da disertore del maschile, la questione della violenza di genere e della giustizia trasformativa, e Chiara Selavy propone la visione di un (bellissimo e commovente) documentario sull’attrice franco-palestinese Hiam Abbas, girato dalla figlia. Buona lettura!
I treni della felicità: quando l’UDI e il PCI salvarono migliaia di bambini italiani
di Elena Anna Spagnuolo
[Alt Text: fotografia in bianco e nero di bambini a bordo di uno dei treni della felicità, affacciati dai finestrini di una carrozza. Foto concessa dall’UDI di Bologna.]
Dopo la seconda guerra mondiale e la dittatura fascista, l’Italia era un paese profondamente diviso, segnato dalle differenze fra Nord e Sud, differenze che erano sia economiche che politiche, come dimostrato dai risultati del referendum che segnò la nascita della Repubblica. In quell’occasione, al Nord si votò soprattutto per la Repubblica, mentre al Sud le persone rimasero fedeli al re e alla monarchia Il paese doveva anche far fronte a molte difficoltà economiche; erano gli anni di una lenta e faticosa ricostruzione, anni in cui la popolazione dovette affrontare enormi sacrifici. Ad esempio c’era il problema della casa; secondo uno studio condotto dall’Istituto Nazionale di Statistica nel 1946, 1.600.000 costruzioni erano state completamente distrutte e 900.000 avevano subito grossi danni. Questo problema era particolarmente evidente a Napoli, dove molte persone vivevano nei cosiddetti ‘bassi’, appartamenti al piano terra, spesso costituiti da una singola stanza in cui coabitavano varie famiglie. La produzione agricola e quella industriale erano crollate, causando una forte inflazione e una povertà diffusa. I prezzi dei beni essenziali continuavano a salire a causa della scarsità dei prodotti e così il mercato nero fioriva. In questa situazione drammatica, i bambini erano le vittime principali. A causa della malnutrizione e delle pessime condizioni igieniche c’era un’alta mortalità infantile. Inoltre 15.000 bambini avevano subito mutilazioni a causa della guerra, 200.000 erano orfani e 300.000 erano stati abbandonati da famiglie che spesso non potevano prendersene cura. È in questo contesto che, fra il 1945 e il 1952, l’Unione Donne Italiane (UDI) e il Partito Comunista (PCI) organizzarono il trasferimento di circa 70.000 bambini poveri. L’operazione, ufficialmente conosciuta come Movimento per la salvezza dei bambini d’Italia, partì da Milano il 16 ottobre 1945 e successivamente fu estesa al Sud d’Italia. I bambini furono ospitati da famiglie in varie regioni dell’Italia centrale, come la Toscana, le Marche e soprattutto l’Emilia Romagna, che accolse il maggior numero di bambini e infatti venne definita “una terra organizzata a salvare i bambini” (Alberto Iacoviello, in La Voce). Oggi questa iniziativa è nota al pubblico come Treni della felicità, una definizione che si deve ad Alfeo Corassori, allora sindaco di Modena, che la usò per la prima volta guardando i treni che, da Modena, riportavano a Napoli un gruppo di bambini.
In questo articolo, si racconta la storia dei Treni della felicità, evidenziandone le tappe più importanti e presentando alcuni dei protagonisti, con lo scopo di fornire elementi essenziali per conoscere e capire questa storia. Si sceglie invece di non soffermarsi sulle criticità dell’iniziativa, come il distacco dei bambini dalla famiglia d’origine in età formativa, l’inserimento in un contesto estraneo, le difficoltà linguistiche legate all’uso dei vari dialetti, elementi che si sommarono ai traumi causati dalla guerra. Questa scelta consapevole risponde all’obiettivo principale del contributo, ovvero di far conoscere e condividere questa storia, lasciando i lettori liberi di trarre le proprie considerazioni.
Nonostante costituisca una parte importante della storia italiana, per molti anni la storia dei Treni della felicità è stata dimenticata, per tornare alla luce recentemente, grazie alla ricerca dello storico Giovanni Rinaldi, confluita in due libri: I treni della felicità (Ediesse, 2009) e C’ero anch’io su quel treno (Solferino, 2021). Il lavoro di Rinaldi ha poi dato vita a una serie di ricerche parallele, che hanno contribuito a ricostruire questa storia, oggi diventata famosa grazie a lavori di tipo accademico ma anche a romanzi come Il treno dei bambini di Viola Ardone e, non ultimo, il film di Cristina Comencini, tratto proprio dal libro della Ardone. Tra le motivazioni che nel tempo hanno portato a dimenticare questa vicenda, il fatto che si tratti di una storia fatta dalle donne, in cui gli uomini non sono protagonisti, è sicuramente preponderante.
Le donne infatti furono le ideatrici e organizzatrici dell’operazione. In una fredda e piovosa giornata di Ottobre, le donne della sezione femminile del PCI di Milano ricevettero una visita di Daria Banfi, membro di una nobile famiglia di Reggio Emilia e anche autrice di letteratura per bambini e lavori di pedagogia. Daria Banfi richiese l’aiuto delle compagne per trovare ospitalità in Emilia Romagna per circa otto orfani che vivevano nel suo quartiere. In quanto responsabile della sezione per il lavoro femminile, Teresa Noce conosceva bene le drammatiche condizioni delle famiglie milanesi e decise di estendere l’iniziativa a un più elevato numero di bambini che vivevano nella città lombarda. Come racconta nel suo libro Rivoluzionaria professionale (Bompiani, 1977), Teresa Noce dovette inizialmente scontrarsi con i compagni del partito, che volevano aiutare esclusivamente i figli di altri compagni ed ex partigiani. Teresa Noce, che da anni militava nel partito, aveva combattuto durante la guerra civile spagnola con il nome Estella ed era anche sopravvissuta al campo di concentramento di Ravensbrück, non si lasciò intimidire e, alla fine, i compagni acconsentirono. Il 17 ottobre, una donna chiamata Dina Ermini partì da Milano con l’unica macchina di proprietà del partito, diretta in Emilia Romagna per visitare le varie federazioni e chiedere ospitalità per i bambini di Milano. L’Emilia Romagna era una regione con una lunga tradizione di ospitalità, dall’accoglienza ai figli degli operai che scioperarono all’inizio del 1900 (ad esempio, le rivolte di Terni nel 1907 e quella di Parma nel 1908), ai bambini austriaci che, dopo la prima guerra mondiale, furono accolti in varie città europee come parte del movimento Fight Famine Council, nato come reazione al blocco di beni essenziali imposto da Inghilterra e Francia. L’Emilia Romagna non si sottrasse nemmeno questa volta: Piacenza, Parma, Modena e soprattutto Reggio Emilia risposero alla richiesta di Milano, promettendo di ospitare più di 4000 bambini.
L’organizzazione dell’operazione fu affidata al Gruppo della stufa rossa, un gruppo di donne guidate da Teresa Noce: Dina Ermini, Mariolina Spinella, Luciana Viviani, Stellina Vecchio, Maria Maddalena Rossi, Lina Fibbi, Gisella Floreanini, Giovanna Barcellona, Piera Carnevali e Pina Re. Non mancò l’appoggio di altri gruppi e associazioni, come la Croce rossa italiana e l’ONMI (Opera nazionale per la protezione della maternità e dell’infanzia). Bisognava occuparsi di vari compiti, come selezionare i bambini, organizzare i trasporti e curare i rapporti con la stampa. Per essere scelti, i bambini non potevano avere meno di tre anni, né avere malattie infettive o altri malanni che impedissero loro di viaggiare. Il primo treno partì il 16 Dicembre 1945, il secondo due giorni dopo. I bambini indossavano un cartellino che indicava nome, cognome, età e indirizzo. Il Ministero dell’assistenza postbellica aveva donato cappotti, scarpe e vestiti. Prima di salire sul treno, ai bambini venne offerta un’abbondante colazione. Inoltre, sul treno c’erano molti rifornimenti di cibo.
[Alt Text: fotografia in bianco e nero che ritrae alcuni bambini a bordo di uno dei treni della felicità. I bambini sono affacciati dai finestrini della carrozza del treno e, a differenza della fotografia precedente, posano per il fotografo. Da notare che sulla carrozza è raffigurata un’immagine che riassume l’iniziativa: a sinistra, una donna di Roma (accanto a lei è disegnato il Colosseo) saluta con un fazzoletto bianco un gruppo di bambini che si dirige verso un’altra donna, che li aspetta a braccia tese a Modena (accanto a lei è disegnata la Torre Ghirlandina). Fonte.]
Il successo di questa prima operazione portò le donne dell’UDI ad estendere l’iniziativa ad altre zone d’Italia: Torino, Roma, Cassino, Napoli e, in misura minore dopo il 1948, in Puglia, Sicilia e Sardegna. Cassino e Napoli, in particolare, beneficiarono molto dell’iniziativa. In entrambe le città la popolazione viveva in condizioni disperate e i bambini erano esposti a continui pericoli. Cassino era definita la città più distrutta d’Italia; qui i combattimenti erano stati particolarmente violenti, perché Cassino era un punto strategico lungo la linea Gustav, che attraversava l’Italia, ed un’importante via d’accesso alla città di Roma. Alla fine dei combattimenti, Cassino e gli altri paesi della zona erano completamente distrutti. Il 99% degli edifici era stato demolito e la popolazione viveva per lo più in caverne o capanne. Mancavano acqua ed elettricità, e la produzione agricola era inesistente. Inoltre, il territorio era disseminato di mine, con le quali i bambini giocavano, spesso restando feriti o uccisi. Nella zona era anche prevalente la malaria:
Quando nel maggio del 1994 decisero di ritirarsi dalla linea del fronte, i tedeschi ruppero gli argini dei fiumi Gari e Rapido e dei fossi affluenti per rallentare l’avanzata dell’esercito alleato. Inoltre con la caduta delle tantissime bombe si erano creati un’infinità di crateri sempre pieni di acqua. La terra era abbandonata e i fossi di scolo per regolamentare le acque non esistevano più. Erano presenti pertanto le condizioni ottimali, a fronte di una estesa palude, per il proliferare delle zanzare.
(L’infanzia salvata, 2011: 23)
Ancora una donna fu protagonista a Cassino: Maria Maddalena Rossi, inviata dal partito per organizzare il trasferimento dei bambini in un contesto di caos e inefficienza totali.
A Napoli le condizioni dell’infanzia erano ugualmente drammatiche. La mortalità infantile era elevatissima e c’erano molte malattie, come la sifilide, la tubercolosi e il tracoma. Esisteva poi il problema dei cosiddetti ‘figli della strada’, ossia bambini fra gli otto e i quattordici anni che vagavano per le strade di Napoli dedicandosi a furti ed altre attività illecite, come la prostituzione. L’analfabetismo e la criminalità giovanile costituivano quindi un grande problema, tanto che l’UDI propose di stabilire una ‘polizia scolastica’ che si occupasse proprio di far andare i bambini a scuola. Per far fronte a questa situazione, il 19 dicembre 1946 a Napoli nacque il Comitato per la salvezza dei bambini di Napoli, che organizzò varie iniziative per aiutare l’infanzia napoletana, come il trasferimento dei bambini in Emilia Romagna. Il comitato dovette però agire in un ambiente estremamente ostile, fronteggiando sia forze monarchiche che cattoliche, oltre alla criminalità organizzata. Ad esempio, il 17 febbraio 1947, dal pulpito della Chiesa del Gesù Nuovo, il gesuita Padre Caruso condannò il comitato per aver organizzato quella che lui definì “una vera e propria tratta dei fanciulli” organizzata dai “nemici della fede” (I treni dell’accoglienza, 2020: 189-190; Il comitato per la salvezza dei bambini di Napoli, 2017: 32-33). Difatti al Sud la chiesa cattolica condusse una vera campagna del terrore per ostacolare l’operazione; preti e suore raccontavano che i bambini sarebbero stati deportati in Russia, oppure usati dalle famiglie ospitanti per produrre sapone e salsicce. In questo modo la chiesa, che in molte zone aveva sostituito uno stato praticamente assente, cercava di mantenere il proprio monopolio sull’assistenza.
In totale, l’operazione coinvolse circa 70.000 bambini, che furono ospitati principalmente da famiglie contadine e operaie, prova che la solidarietà può esistere in ogni contesto e, spesso, è più una questione etica e morale che economica. Non si trattava esclusivamente di famiglie di sinistra, perché l’iniziativa non volle mai avere una connotazione politica, né nella scelta dei bambini né in quella delle famiglie. Inizialmente i bambini dovevano trascorrere circa tre mesi con le famiglie ospitanti ma molti rimasero più a lungo e, in tanti casi, decisero poi di restare con la famiglia ospitante. Per la maggior parte dei bambini l’esperienza fu positiva; molti andarono a scuola per la prima volta e impararono a leggere e scrivere, e ricevettero in dono anche vestiti e scarpe nuove. Un ruolo fondamentale fu giocato dal cibo, spesso usato dalle famiglie ospitanti per superare sospetti e diffidenze e stabilire una prima connessione con i bambini. In tutte le testimonianze raccolte oggi, i testimoni ad esempio ricordano il primo gelato mangiato o la sorpresa alla vista del pane bianco.
La storia dei Treni della felicità costituisce una pagina importante di storia italiana, che permette di esaminare alcuni aspetti fondamentali dell’Italia subito dopo la guerra e l’esperienza fascista. Interessante è il rapporto fra stato e società, soprattutto se si analizza l’iniziativa come un primo esempio di politiche bottom-up, ossia un movimento di organizzazione dal basso in cui le persone si organizzano per rispondere all’inefficienza del governo. L’iniziativa contribuì anche a creare un senso di solidarietà nazionale, unendo Nord e Sud. Come scritto da Miriam Mafai, una delle donne che ne fecero parte, l’operazione rivelò
una solidarietà possibile tra Nord e Sud, tra operai e contadini, un conoscersi tra gente che aveva vissuto in modo diverso le atrocità della guerra; il superamento, da una parte e dall’altra, di antiche incomprensioni e diffidenze; un entrare in contatto di mondi diversi: il mezzadro emiliano e il sottoproletario meridionale; con lo stabilirsi di rapporti di fraternità che resisteranno nel tempo” (L'apprendistato della politica. Le donne italiane nel dopoguerra, 1979: 137).
Infine, l’iniziativa fu fondamentale per l’emancipazione delle donne italiane. Erede dei Gruppi di difesa della donna, l’UDI nacque a Roma il 15 settembre 1944. Per l’associazione, l’esperienza dei Treni della felicità rappresentò uno dei primi passi fatti verso la creazione di un nuovo spazio di esistenza e azione per le donne nella società italiana. All’iniziativa infatti seguirono molte leggi e campagne per le donne italiane, come la creazione degli asili e delle scuole a tempo pieno. Ancora oggi, l’UDI rappresenta un importante centro di osservazione ed analisi delle dinamiche di genere in Italia.
Bibliografia:
Buffardi, Giulia. 2017. Il comitato per la salvezza dei bambini di Napoli 1946-1954. Roma: Editori Riuniti.
Fabi, Lucia e Loffredi, Angelino. 2011. L’infanzia salvata. Nord Sud un cuore solo. Tipografia Bianchini.
Mafai, Miriam. 1979. L’apprendistato della politica. Le donne italiane nel dopoguerra. Roma: Editori Riuniti.
Maida, Bruno. 2020. I treni dell’accoglienza. Torino: Einaudi.
Noce, Teresa. 1977. Rivoluzionaria professionale. Milano: Bompiani.
Elena Anna Spagnuolo lavora come Associate Lecturer e Language Instructor presso la Aberystwyth University, in Galles. È anche Research Fellow presso il Centre for the Movement of People (Staff Profiles : Department of Modern Languages , Aberystwyth). La ricerca sui Treni della felicità è stata finanziata dalla British Academy. Il sito web dedicato ai Treni della felicità è consultabile usando il link: https://arcg.is/00vySq0.
Riflessioni di un disertore del maschile intorno alla giustizia trasformativa
di Luca Lou Pinelli
“È chiaro che è stata fatta giustizia, la rispetto, ma penso che dovremmo fare di più come esseri umani.” Così si pronunciò Gino Cecchettin una volta uscito dall’aula di tribunale dove venne emessa la sentenza nei confronti di Filippo Turetta, condannato all’ergastolo per il femminicidio di Giulia Cecchettin. Si tratta forse del caso di femminicidio con maggiore visibilità mediatica degli ultimi anni e tanto ne è stato scritto, tante sono state le azioni dal basso, sia nel bene (le piazze gremite) che nel male (i proiettili recapitati all’avvocato di Turetta). Una di queste azioni – seppur non proprio dal basso – è stata l’intitolazione della fiera di editoria (si dice piccola e media ma qualsiasi editorə confermerà che non è proprio così) “Più libri più liberi” alla memoria di Giulia Cecchettin da parte dell’organizzazione, presieduta da Chiara Valerio. A ulteriore riprova della mera formalità di questa onorificenza, l’organizzazione si è intestardita per mantenere l’invito a Leonardo Caffo, filosofo e sedicente “intellettuale” incompreso all’epoca sotto processo per maltrattamenti a danno dell’ex compagna, ora condannato in primo grado a 4 anni, colpito – così annunciò con il suo classico posizionamento vittimistico e francamente snob in seguito al verdetto – “per educarne cento”.
Questi sono due casi degli ultimi mesi che si sono, per ovvie ragioni, intrecciati e che portano chiunque segua queste notizie a porsi molti interrogativi su cosa sia la giustizia e come garantirla in un paese come il nostro. In quanto persona socializzata come uomo, mi chiedo quali forme di mascolinità vediamo in questo contesto, quale forma di responsabilità abbiamo e che tipo di riflessioni dobbiamo portare avanti sulla base di questi esempi mediatici di cosa possa fare ed essere un uomo davanti alla violenza di genere. Riprendo in mano La trama alternativa di Giusi Palomba, uscita nel 2023 per minimum fax, ripercorro quelle pagine così dure per una persona come me che vorrebbe disertare il genere maschile eppure ci si ritrova impigliata, che vorrebbe continuare a fare ricerca (anche) sui femminismi intersezionali, che continua a nutrire i propri altarini domestici rivolti a Virginia Woolf e Simone de Beauvoir: “qual è la priorità, potersi dire femministi o il desiderio di raggiungere un risultato utile e condiviso?” (179). Ripenso alla facilità con cui gli uomini possono dirsi femministi e alla difficoltà di farsi femministi e decido di abbandonare l’etichetta come un maglione di lana infeltrito che fa pizzicare la pelle. Accetto questa sentenza logica e lucida, faccio tesoro di quanto ci insegna, in area francofona, Francis Dupuis-Déri in merito al rapporto tra uomini e femminismi, ossia il dovere del dispoteramento (disempowerment): non mi esprimo, ma faccio spazio; non occupo le prime posizioni, ma mi siedo nella platea e, paziente, ascolto.
Abbiamo qui tre figure fenomenologiche del maschile legate alla violenza di genere: il padre della vittima, che – come la sorella, d’altronde – pare non mancare mai di lucidità nonostante gli eventi atroci che hanno travolto la sua vita; il femminicida, che i media non si stancano mai di ipervisibilizzare per darci in pasto informazioni che forse potrebbero essere lasciate dov’erano; il sedicente intellettuale snob che pensa di essere il centro del mondo e non sa fare un passo indietro, forte della sua sicurezza di essere migliore delle masse. Se la sentenza al femminicida non mi dà particolare gioia – ormai è troppo tardi, ormai abbiamo perso un’altra giovane ragazza, ormai le strade non sono sicure fintanto che gli uomini ci camminano, ormai i ragazzi crescono senza avere la benché minima idea di cosa sia il consenso, di nuovo e ancora –, le parole del padre della vittima riescono a scaldarmi il cuore. La giustizia del tribunale è stata fatta e va rispettata (le basi), ma dovremmo fare di più, dovremmo fare di meglio (la giustizia).
Poco tempo dopo, si conclude il processo legato allo stupro di Gisèle Pelicot in Francia, con una sentenza che ha giustamente generato un senso di possibilità in chiunque abiti un corpo femminilizzato. La foto che la vede passare davanti a delle giovani ragazze commosse ed entusiaste è già diventata iconica. Dalla vicenda emerge con forza il maschile non solo in quanto rapace predatore incurante dello stato della preda, ma anche in quanto fabbrica di giustificazioni, pretesti, esoneri perennemente all’opera, come se fossimo tutti sempre rimasti fermi a un’età fanciullesca in cui basta dire alla maestra che “non sono stato io” o che “io non lo sapevo” per ritrovarci le mani pulite e tornare, impuniti, a giocare con i nostri compagni. Davanti a queste rappresentazioni di un maschile in cui devo ma non voglio riconoscermi – perché se lo fa uno potremmo anche farlo tutti, come ci insegnano le compagne di Non una di meno –, mi chiedo quindi come costruire una forma di giustizia sociale che non si esaurisca nel controllare e punire di foucaultiana memoria.
In mio soccorso arriva un volumetto agile e affilato, Per una giustizia trasformativa. Una critica alla cancel culture, di adrienne maree brown, portato in Italia da Meltemi nella collana Culture radicali grazie alla traduzione del collettivo Dalla Ridda, completato non solo dalla postfazione di Malkia Devich Cyril già presente nell’originale del 2020 (We Will Not Cancel Us), ma anche da uno scritto originale del Laboratorio Smaschieramenti di Bologna (“Ci siamo cancellate? Note su giustizia trasformativa e soggettivazione vittimaria nel contesto italiano”). La trasformazione da mettere in atto, come lo scrive bene maree brown nell’introduzione, consiste nel passaggio “da una società rigida, punitiva e disconnessa a una adattiva, resiliente e interdipendente” (15). Se la pratica del callout e della cancellazione è lecita, legittima e persino necessaria in alcuni ambienti (Chiara Valerio che non vedeva ragioni nonostante i vari appelli di femministe sia a livello individuale che su scala collettiva), d’altra parte non ci si può non interrogare sugli effetti più ampi e sugli assunti fondamentali di una tale pratica: siamo sicurə di saper distinguere il conflitto (sano, necessario, fisiologico) dal danno e dall’abuso (illegittimi, nocivi, nefari)? Sappiamo davvero, ed è giusto che possiamo realmente tracciare una linea netta di demarcazione tra “noi” (giustə, purə, intoccabili) e “loro” (sbagliatə, colpevoli, esecrabili)? Vogliamo seriamente riprodurre un sistema binario e carcerario anche in quegli spazi in cui stiamo cercando di costruire qualcosa di più grande, più generoso e generativo rispetto a quanto ci è stato insegnato e intimato fin dalla più tenera età?
Ripercorro il passo che risuona profondamente con le mie ambizioni esistenziali e lo leggo a voce alta, mobilitando il mio corpo:
Vedo il movimento come un santuario. Non una piccola utopia perfezionista dietro chilometri di filo spinato e muri e recinzioni e controlli e giudizi e rettitudine, ma un vasto santuario dove le nostre esperienze, in quanto esseri umani che hanno subito e causato danni, sono accolte con inviti, centrati e fondati, a crescere. (19)
Se condanno Valerio, Caffo, Turetta e tutti gli altri e le altre che portano avanti azioni dannose per questo santuario, allo stesso tempo devo cercare di ricordarmi che lo spazio e il tempo appartengono anche a loro, nonostante il carceriere dentro di me trovi questo pensiero spaventoso, orribile, persino disgustoso. Non sono ancora in grado di concepire un agire diverso da questo, ma continuo a interrogarmi su come non lasciare nessuno da parte, su come scavare uno spazio di ascolto, confronto e anche conflitto persino con quelle persone che percepisco distanti dal mio modo di abitare il mondo.
L’autocoscienza insegna anche questo: non possiamo soltanto aprirci e parlare con persone già allineate con il nostro sentire, ma dobbiamo spogliarci e scoprirci anche davanti a chi non vuole sentire ragioni, chi ci reputa stupidə e illusə, nella speranza che questa energia trasformativa attraversi, a un certo punto, anche i loro corpi. È una lezione che sto iniziando ad articolare ma che ancora fatico a fare mia completamente, perché gli uomini mi hanno ferito, danneggiato, traumatizzato, perché mi incutono timore o mi provocano disgusto e attrazione. Eppure ci sono anche loro e loro sono noi e noi siamo loro. Noi siamo il conflitto e l’abuso e la capacità di distinguere tra i due; noi siamo l’ascolto e la prevaricazione e la possibilità di superare ciò che ci viene inculcato (la dominazione) verso un processo di rinegoziazione perenne (l’ascolto di sé e dell’Altrə). Riconosco in Caffo un elemento che rischia di venire a galla quando mi chiudo nell’autoreferenzialità accademica; riconosco in Valerio l’ostinazione di chi non vuole piegarsi ai richiami della massa per fare di testa propria; riconosco in Turetta la violenza di questo corpo armato a cui non è mai stato insegnato come gestire la rabbia e il senso d’impotenza; riconosco in (Dominique) Pelicot quel desiderio di fare comunità tra maschi che scade ben presto in un cameratismo fondato sulla sottomissione e distruzione del femminile; ritrovo in Gino Cecchettin la determinazione di dire che questo sistema punitivo è tutto ciò che abbiamo al momento, sì, ma non è altro che uno strumento provvisorio.
Mi ripeto: “Vedo il movimento come un santuario. Non una piccola utopia perfezionista dietro chilometri di filo spinato e muri e recinzioni e controlli e giudizi e rettitudine, ma un vasto santuario dove le nostre esperienze, in quanto esseri umani che hanno subito e causato danni, sono accolte con inviti, centrati e fondati, a crescere” (19). Vedo la safety dei nostri spazi e la brandisco come un’arma, trasformandola in security; mi rendo conto che anche la mia safety-security, come quella prodotta dallo stato di polizia e dal sistema carcerario, si fonda sull’estromissione dell’Altrə, del Mostro; mi rifletto nello stesso sistema da cui sto fuggendo. Ho bisogno di sentirmi al sicuro, di stare bene in quanto persona queer, ricerco serate ed eventi e momenti in cui posso esprimermi senza quella cura negativa – la dirty care articolata da Elsa Dorlin – di cui è intriso il mio corpo, eppure mi rendo conto che il mondo non è uno spazio sicuro e che devo e voglio abitare anche questo spazio non sicuro.
(Ricordo un’amica che a Bologna mi parlava di un’app in cui le persone femminilizzate potevano segnalare alcune strade e alcuni tragitti come “sicuri” di modo tale che le altre potessero affidarsi alla loro esperienza vissuta e non rischiare la pelle quando giravano per la città; ricordo il senso di illuminazione nel sentir parlare di quest’idea, come se risolvesse ogni cosa; ricordo altrettanto nitidamente, e con una punta di vergogna verso me stess*, la rabbia dell’amica che mi diceva che non accettava che la violenza degli uomini decidesse dove potesse andare e cosa potesse fare nella sua città.)
Ripercorro il passo dello scritto di Smaschieramenti a cui mi aggrappo con tutte le mie forze in quei momenti in cui il conflitto emerge con forza nei miei santuari, facendomi notare tutte le fratture, le indisposizioni, le incapacità da esso generate; si parla, qui, non tanto di spazi più sicuri (safer) quanto di spazi braver, “spazi di coraggio”:
Non spazi in cui ci sono meno pericoli, ma spazi in cui possiamo affrontarli o trovare insieme il modo di farlo, in cui ci sentiamo meno vulnerabili e sole. Non stiamo dicendo che, in alcuni casi e per precisi obiettivi, non sia opportuno costruire degli spazi safer, anche tramite l’esclusione di qualcuno (tipicamente, i maschi cis) o dandosi delle regole di comportamento che garantiscano, ad esempio, uno spazio di espressione libero dalla critica. Stiamo dicendo che, se lo spazio safer diventa l’ideale assoluto cui pensiamo dovrebbe tendere qualsiasi spazio costruito dalla nostra comunità, qualcosa non funziona. […] A cosa porta pensare gli spazi dell’agire politico come spazi safe, se non all’impotenza e alla richiesta, dal basso verso l’alto, di giustizia? (134-5)
La società e il mondo non sono uno spazio sicuro per le soggettività oppresse e marginalizzate ed è sacrosanto costruirsi movimenti-santuari dove possiamo finalmente riscoprirci vulnerabili, ma non dobbiamo cadere nella trappola per cui questi spazi sarebbero semplicemente in uno stato di sicurezza (safety basata sulla security); piuttosto, occorre pensarci in santuari in costruzione, spazi di coraggio in divenire dove il suffisso -r in “braver” implica un continuo – ma mai lineare – processo di compartecipazione alla vulnerabilità e alla messa in discussione. E allora perdono chi non ha, in questo momento, le forze per parteciparvi, anche se questo su qualche livello mi ferisce; perdono chi si arrocca sul proprio orgoglio identitario e non vuole sentire ragioni, anche se non comprendo la necessità di questo posizionamento; perdono chi questa volta si sottrae non tanto come atto politico quanto come una presa di distanze essenziali al proprio benessere psico-fisico; perdono chi porta rabbia e aggressività passiva e mi faccio anzi carico di queste emozioni negative, perché toccano anche me, perché riguardano anche me; perdono me stess* per aver creduto, in passato, di aver capito tutto e invece non avevo capito proprio nulla. Riparto da me, dalle mie emozioni mal comprese e mal articolate, dal disagio e dal risentimento che provo verso il genere maschile (in cui sono tuttavia compreso) e scavo uno spazio di possibilità collettivo dove la mia voce possa entrare in risonanza con corpi diversi dal mio, perché al sicuro non ci sto mai e se ci sto non ci sto sempre bene.
In montagna, ho passeggiato in un paese innevato e ho pensato che in fondo c’è della verità in quella vecchia e banale leggenda per cui saremo tuttə dei fiocchi di neve; non tanto perché siamo tuttə diversə, ma perché tuttə cadiamo purə sulla terra e, poggiandoci sul terreno, ci sporchiamo. Ripartiamo, quindi, da questa sporcizia che ci accomuna.
Luca Lou Pinelli (he/they; luei/lui/lei) sta completando un dottorato tra l’Università di Bergamo e l’Université Sorbonne Nouvelle di Parigi. La sua tesi esamina le risonanze tra l’opera di Virginia Woolf e la filosofia di Simone de Beauvoir, in particolare attraverso il concetto di (inter)corporeità. Fa parte dell’Italian Oscar Wilde Society e del collettivo transfemminista e queer l’Altrosessuale. Si occupa principalmente di letteratura inglese tra fin de siècle e modernismo da una prospettiva transnazionale e transdisciplinare, di studi di genere e della sessualità, e di storia del corpo. Puoi seguire Lou su Instagram e su Facebook.
Le voci invisibili dal Libano.
Il podcast Unpacking Zionism ha realizzato una serie di interviste intitolata The trouble with white feminism.
Nel 2016, la scrittrice statunitense Rachel Kushner ha trascorso dieci giorni in Palestina. Il suo diario di questa esperienza è stato pubblicato cinque anni dopo dalla rivista n+1, che ora lo ha reso disponibile anche online.
Il neoliberismo sta tramontando? Un bellissimo saggio della studiosa Inés Escobar González cerca la risposta a questa domanda.
FATTO DA VOI
Alessia Ragno ha letto Martire! di Kaveh Akbar e Diluvio di Stephen Markley, e ne ha scritto qui e qui.
Cristina Resa non poteva non scrivere di Nosferatu, e noi non possiamo non leggerla.
Bye Bye Tiberias di Lina Soualem (2023)
di Chiara Selavy
[Alt Text: frame dal film. La regista e sua madre sono sul terrazzo della casa della nonna, in Palestina, e guardano qualcosa che non è inquadrato. Fonte.]
31 Agosto 2023
Sono gli ultimi giorni d’estate quando la mia amica L (ciao, L!) mi segnala un film che verrà presentato di lì a qualche settimana al London Film Festival dopo l’anteprima mondiale al Festival di Venezia. Sulla carta - o perlomeno, stando al catalogo - Bye Bye Tiberias dovrebbe ripercorrere vita e carriera di Hiam Abbass, attrice franco-palestinese nota in Occidente soprattutto per il suo ruolo in Succession, attraverso gli occhi della figlia, Lina Soualem.
L, che non solo è responsabile della mia ossessione per Succession, ma sa anche che, di tutta la gamma di esecrabile umanità presente nella serie, l’enigmatica Marcia è di gran lunga la mia preferita, è consapevole di predicare ai convertiti. E quindi è grazie a lei se mi do da fare per procurarmi un accredito.
5 Ottobre 2023
Mi metto in coda per la proiezione aspettandomi lotte all’ultimo sangue per aggiudicarmi un gettone e quindi l’ingresso (quella di distribuire gettoni per evitare la coda è una trovata dell’edizione 2023 e sarà destinata a fallire), perciò sono davvero sorpresa quando, entrando in sala, la scopro quasi deserta.
Due ore dopo, posto questa storia: ero pronta a immergermi nella Scorpio energy di Marcia Roy (che secondo me equivale a passato misterioso, vendette micidiali e una vaga allure francese) e invece mi ritrovo in singhiozzi, di quelli che scendi le scale di corsa sperando di non incrociare nessuno per andare in bagno a controllare esattamente quanto ti sia sbavato il mascara.
[Alt Text: screenshot della storia Instagram pubblicata da Chiara dopo aver visto il film. Vediamo solo la sua mano con il gettone della prenotazione alla proiezione sul palmo. L’immagine è accompagnata dal testo: “Two hours ago, before watching Bye bye Tiberias, I was pleased as I felt the black token perfectly matched Marcia Roy’s Scorpio queen energy. I have spent the past ten minutes in the loo, trying to fix my make up after crying my eyes out. Shoutout to the woman in the Chateau Rouge top, who possibly spoke French and Arabic and laughed and cried at the same times as I did”.]
A differenza di altri film su cui ho bisogno di meditare per qualche giorno, all’uscita dalla proiezione ho già molte riflessioni “compiute”. La più saliente è senza dubbio quella sull’uso della parola Nakba (catastrofe in arabo) in riferimento all’espulsione forzata dei palestinesi nel 1948; è già da qualche anno che conosco quest’utilizzo, ma è solo adesso che ne comprendo il senso a livello non cognitivo, ma viscerale. A farmelo capire con così tanta urgenza sono le rare immagini d’archivio che Soualem utilizza per accompagnare la narrazione del passato della famiglia materna.
La seconda riflessione, altrettanto saliente, è che vorrei che questo film lo guardassero in tantɜ, e arrivassero alla stessa, profonda comprensione. La terza è che la scelta di porre l’enfasi sulla carriera di Hiam Abbass nella breve sinossi del film sia una mossa davvero scaltra, anche se non troppo accurata: entri pensando a Succession, esci (in lacrime) dopo aver assistito a una delle pagine più strazianti della storia palestinese, almeno - purtroppo - fino a quel momento.
7 Ottobre 2023
Come moltɜ altrɜ, mi sveglio con le notizie - ancora confuse, ancora incomplete - dell’attacco ai kibbutz e al Nova Festival appena oltre il confine tra la striscia di Gaza e Israele. Fra le tante considerazioni che faccio, non la prima né la più rilevante, c’è che Bye Bye Tiberias si ritroverà suo malgrado a venire interpretato alla luce di questi ultimi eventi di cronaca, e non per il film che è già. La mia amica R, che assiste a una proiezione pubblica alla presenza di Abbass e Soualem qualche giorno dopo, mi conferma che le domande durante il Q&A vertono principalmente sulla questione, nonostante i tentativi della moderatrice di portare l’attenzione anche sul documentario.
Penso, “è ingiusto che un lavoro di questo calibro venga analizzato soltanto attraverso il prisma delle ultime notizie”. È un’opinione su cui potrei tornare, talvolta contraddicendomi, nei mesi a seguire: dopotutto, non ero io che auspicavo che lo vedessero in moltɜ? E ha davvero importanza, il perché lo si guarda? Dopotutto, anch’io sono andata a vederlo immaginando tutt’altra storia. In ogni caso, è strano e interessante vedere come la percezione pubblica di un film cambi in modo così improvviso e radicale mentre il mondo a cui fa riferimento deflagra.
30 Giugno 2024
Bye Bye Tiberias (seconda visione)
Un pensiero che era emerso durante la prima visione di Bye Bye Tiberias e che - per quanto stupido - continua a riaffacciarsi anche mentre lo riguardo, è una tragicomica quadratura del cerchio dell’incipit di Anna Karenina, ovvero: “Tutte le famiglie migranti si assomigliano, ma ogni famiglia migrante è infelice a modo suo”.
Perché è questo, uno dei cardini di Bye Bye Tiberias: la migrazione, che sia un esodo forzato o una scelta consapevole. L’altro, come già anticipato, è la Nakba e il lungo strascico che continua a lasciarsi dietro. Per quanto sia inscindibile dalla narrazione, quest’ultima viene tuttavia raccontata quasi sempre in sottofondo, attraverso la storia di una famiglia palestinese come tante di cui fa parte anche Hiam Abbass, madre della regista e attrice di successo.
Soualem affronta entrambi i temi impostando il film nella maniera in apparenza più semplice e lineare possibile: partendo da sé (un sé che rimarrà sempre voce narrante e fuori campo, presente sullo schermo quasi solo nella propria versione bambina) per ricostruire a ritroso l’albero genealogico materno, soffermandosi in particolare sulle figure femminili: la madre Hiam, la nonna Umm Ali, la bisnonna Nemat.
È su di loro che Soualem sceglie di imperniare il racconto, rievocando sia storie e leggende familiari, sia eventi e memoria storica. Vista la delicatezza con cui intreccia personale e politico, rivolgendo uno sguardo al contempo lieve e serissimo a tutto ciò che osserva, la sua voce ricorda molto quella della Natalia Ginzburg di Lessico Famigliare.
Per altri versi, però, il film reca l’inconfondibile approccio al documentario di Agnès Varda, in particolare quel “parti da ciò che hai a portata di mano” (si pensi, per esempio, a Daguerréotypes, e a come Varda riesca a scovare e a rendere interessanti le storie che stanno letteralmente fuori dall’uscio di casa sua). È un approccio che caratterizza anche il film di debutto di Soualem, Leur Algerie, incentrato sui nonni paterni emigrati in Francia dall’Algeria negli anni Cinquanta, sul loro passato taciuto, in parte dimenticato (per caso o per scelta) e che s’intuisce ancora doloroso.
In Bye Bye Tiberias, ciò che è a portata di mano sono fotografie e super-8 girati durante le vacanze estive trascorse presso il lago di Tiberiade quand’era piccola, e poi anche filmati d’archivio, lettere, vecchi video di matrimoni e festeggiamenti. È tramite questi reperti che la regista narra le ambizioni delle donne della sua famiglia, stravolte dalla Nakba e dalla diaspora da essa provocata. Qualche generazione dopo, invece, gli equilibri familiari verranno nuovamente incrinati dalla decisione di Hiam di partire per l’Europa, tagliando i ponti con i parenti e lasciandosi alle spalle un ambiente in cui si sente soffocare.
È accostando il materiale d’archivio alle chiacchiere e i lazzi tra la madre e le zie che Soualem comincia a intravedere Hiam in ruoli altri da quello che conosce: ecco l’adolescente che scrive poesie e sogna in grande, la giovane che studia fotografia e si unisce a una compagnia teatrale; ecco la sorella, la donna di mezza età che telefona alla madre lontana, la figlia che piange la perdita della madre e la madre che si stizzisce all’ennesima domanda della figlia, un “cosa vuoi che ti dica, Lina?” che tradisce una domanda che forse la tocca un po’ troppo da vicino.
Emerge anche l’immagine della Hiam migrante, dapprima figlia e nipote di profughi espulsi dalla loro terra e casa, poi fuggita in Europa con il primo marito in cerca di sé stessa, dell’aria che a casa sua le manca. Ed è questa Hiam, che conosce il dolore del distacco, della distanza, a raccontare una delle storie più toccanti del film, quella dell’incontro con una zia ritrovata dopo decenni in un campo profughi, del loro riconoscersi istintivo, a pelle e a naso, in una connessione innegabile e ancestrale.
“La migrazione crea una frattura,” riflette Hiam, “sia in chi parte, sia in chi resta, e fa male a entrambi.” “E da questa frattura sono nata io,” conclude la voce fuori campo di Lina Soualem, riassumendo in poche parole l’infelicità dolceamara che caratterizza tutte le famiglie migranti, che siano partite per scelta o costrizione, che continuino o meno a sognare un ritorno.
Chiara Selavy è il nom de plume di Chiara Puntil, che traduce libri ed è sempre al cinema. Mezza argentina e mezza friulana, vive a Londra per non scontentare nessuno.
Ringraziamo Elena, Lou e Chiara per i loro contributi e ci leggiamo a fine febbraio. Un abbraccio!
Francesca, Gloria e Marzia