Benvenut* a Ghinea, la newsletter con una torta al cioccolato in forno. Questo mese leggiamo Luca Lou Pinelli che torna sul non-binarismo woolfiano proposto da Paul B. Preciado, Eleonora Negrisoli che ci guida alla scoperta dell’opera di una giovane autrice italiana, e Simona Iamonte con un profilo attento e ricercato dell’artista Christine Sun Kim. Buona lettura!
Dis/identificazioni: Virginia Woolf, il saggismo e il (trans)femminismo
di Luca Lou Pinelli
Questo articolo cerca, per quanto possibile, di utilizzare termini neutri e senza genere per evitare il maschile universale; laddove questo non è stato possibile, si è ricorso al femminile politico.
[Alt Text: ritratto fotografico su fondo rosso di Paul B. Preciado, in primo piano con una sigaretta tra le dita. Fonte.]
Il 10 giugno 2023, il filosofo Paul B. Preciado pubblica un pezzo su Libération dal titolo alquanto provocatorio “Virginia non-binaire”, tradotto poi per Internazionale il 15 agosto con il più accattivante titolo “Un genere tutto per sé”. Lungi dal voler proporre una rigorosa argomentazione accademica, Preciado cerca invece di parlare in quanto lettore di Woolf, poiché a lei deve quella “vibrazione enunciativa costante” che l’ha portato a una “debinarizzazione della soggettività” e che l’ha reso “la mosca mutante non-binaria” che è oggi. Per quanto questa provocazione possa generare uno scompenso in chi non vuole cedere l’icona femminista Woolf a un’identità non binaria, Preciado tocca un nodo centrale nella teoria della letteratura formulata da Woolf in saggi e recensioni.
Già nel 1919, in una recensione del volume Materials and Methods of Fiction (1918) di Clayton Hamilton, Woolf sottolinea quanto la critica letteraria voglia evidentemente predicare a una folla di paesani come a una fiera di campagna: proprio come i professori cercano di propinare pillole per guarire i mali del bestiame in quel contesto, Hamilton cerca nel suo testo di fornire a chi legge delle cure a forme di lettura evidentemente malate. Tuttavia, Hamilton non è un professore, sottolinea Woolf, e soprattutto noi non siamo dei creduli contadinelli (credulous ploughboys); ciò che rimane essenziale per lei, già nel 1919, prima ancora di diventare un’autrice di successo – all’attivo aveva allora solamente qualche racconto e due romanzi che oggi sono, seppur immeritatamente, tra i più sconosciuti – è la libertà di chi legge. Sei anni più tardi, la sua volontà di parlare ai lettori e alle lettrici comuni – common readers, un’espressione ormai insolita in inglese e collegata perlopiù a Woolf, che lei riprende da Samuel Johnson – si concretizza nella prima serie di saggi raccolti proprio con il titolo The Common Reader (1925), a cui farà seguito una seconda raccolta nel 1932. Nell’introduzione, Woolf chiarisce come la figura della lettrice comune sia da discostare da quella della critica e della studiosa: queste ultime leggono per correggere le altre persone o per impartire lezioni, mentre la common reader legge per piacere, spesso percorre i libri in maniera frettolosa, inaccurata e superficiale, accostandoli a oggetti della vita quotidiana come i mobili. In entrambi questi pezzi, Woolf ricollega l’esperienza della lettura a quella della vita comune, degli spazi della casa e dei tessuti che tocchiamo con mano ogni giorno, perché leggere è, in fondo, un’attività quotidiana come un’altra che andrebbe incoraggiata invece che corretta.
Quel che succede quando la critica si erge a professore che vende pillole per curare ogni male è che chi ascolta si ritrova infantilizzata, costretta dentro alcuni limiti epistemologici che scoraggiano la libertà di lettura. Per quanto queste posizioni possano risultare non del tutto convincenti oggi, ormai a un secolo dalla professionalizzazione della critica letteraria, esse testimoniano quanto fosse vitale – in entrambi i sensi del termine, fondamentale e intriso di vitalità – per Woolf riconoscere la libertà della lettrice comune. Nella recensione del 1919, dal significativo titolo “The Anatomy of Fiction”, Woolf vede nell’atto critico un tentativo di dissezionare il testo come gli organi interni di una rana, un tentativo chiaramente mortifero che ignora il fatto che, come sottolinea con il suo caratteristico e dissacrante sarcasmo, “purtroppo esiste una cosa chiamata vita” (“there is, unfortunately, such a thing as life”). L’erudizione di un Hamilton risulta essere una “quotidiana flagellazione del cervello esausto” che mira a produrre “una aureola di illuminazione superiore” (“daily flagellation of the exhausted brain”; “a circle of superior enlightenment”), ma, conclude Woolf, la lettura è ben altra cosa: i libri non vanno demoliti per farne delle pietre miliari, ma letti, usati, percorsi in ogni direzione, fino a renderli parte della nostra vita quotidiana.
È questo forse uno degli elementi centrali della teoria letteraria formulata da Woolf: leggere significa esprimere la propria libertà, utilizzare le proprie facoltà – allo stesso tempo corporee e intellettuali – per navigare la diversità davanti a cui ci pongono i testi. Di riflesso, scrivere significa appellarsi alla libertà di chi legge, evitare di tracciare percorsi lineari e unidirezionali al fine di costruire invece insiemi viventi e vitali che non si lasciano esaurire in una disamina chirurgica. Una stanza tutta per sé (1929) testimonia proprio questo, con il suo incipit che pare più un’interruzione, un’aggiunta a un discorso precedente – quello che in inglese chiameremmo afterthought – che l’apertura di un saggio (“But, you may say, we asked you to speak about women and fiction – what has that got to do with a room of one’s own?”).
L’inizio del saggio, eppure, enuncia anche la tesi centrale da cui deriva il titolo – le donne hanno bisogno di soldi e una stanza tutta per sé per poter scrivere – e qui potrebbe esaurirsi l’argomentazione, in una manciata di righe. Woolf invece mette in atto un movimento saggistico nel suo senso più intimo e stretto, rifacendosi a una lezione anche montaigniana per cui un saggio è un tentativo, un percorso a zigzag, a volte circolare, che non può esaurirsi in questa o quella argomentazione, in questa o quella lettura, proprio perché pulsa di vita. Così a parlarci tra le righe non è tanto l’autrice Woolf, quanto “Mary Beton, Mary Seton, Mary Carmichael”, una scrittrice o relatrice che cerca di giustificare questa sua conclusione sulle necessità materiali delle donne davanti alla scrittura. In questo aspetto, il testo si fa appello alla libertà di chi legge, poiché quest’ultima dovrà seguire il percorso accidentato, serpeggiante, divagante di chi racconta, una donna comune eppure non troppo che cerca non tanto delle risposte a una domanda, quanto ulteriori interrogativi davanti a una conclusione che rischia di esaurire la complessità di una questione tanto attuale come il rapporto tra donne e scrittura. Se il testo si apre con una conclusione semplice e lineare, quello che leggiamo dopo è una divagazione che dimostra molto bene quanto un saggio non deve mai esaurirsi in una tesi ben determinata e circoscritta.
La forma saggio è una dis/identificazione, un tentativo di identificare – e identificarsi con – una teoria o un’argomentazione senza per questo ritenerla totalizzante. La barra (/) separa e unisce i due contrari, rendendoli co-presenti e co-partecipanti al significato stesso, il quale prospera – invece di languire – per mancanza di coerenza, linearità, non-contraddizione. Per quanto venga considerato, in parte giustamente, uno dei saggi femministi più importanti del primo Novecento, Una stanza tutta per sé evade le domande che possiamo porgli, poiché attinge a piene mani dalla tradizione saggistica derivante da Montaigne, decostruisce quell’io che ricerchiamo ossessivamente nella voce del testo, lo piega e ci gioca, si contraddice ed è fiero di farlo. Come riassume perfettamente Laura Marcus nel suo contributo sul femminismo di Woolf e sulla Woolf del femminismo:
Her ‘alternating loyalty to and deviation from’ the familiar positions of the feminist movement produced contradictions in her thought which more recent feminisms have often found it difficult to accept, tending to opt for one pole rather than another, instead of recognising and negotiating inconsistencies. (Marcus 2010: 144)
La sua alternanza tra lealtà verso, e deviazione da, le posizioni familiari del movimento femminista ha prodotto contraddizioni nel suo pensiero che i femminismi più recenti hanno spesso trovato difficile accettare, tendendo a optare per un polo piuttosto che un altro al posto di riconoscere e negoziare le inconsistenze. (trad. mia)
Se Woolf è una pensatrice, non è certamente una filosofa; se è una femminista – nonostante la sua proposta di bruciare quel “termine corrotto” (corrupt word) nelle Tre ghinee (1938) – è forse transfemminista, poiché intuisce quanto i rapporti tra quelli che lei chiama sessi – che noi spesso chiameremmo generi – siano dettati da norme patriarcali che variano a seconda del tempo e dello spazio, a seconda della ‘forma’ sempre ambiguamente vitale che un determinato contenuto può assumere di fronte alla contingenza del contesto.
[Alt Text: ritratto di Virginia Woolf realizzato dall’artista tedesco Christiaan Tonnis (olio su tela, 1998). Fonte.]
E quindi, Woolf era una persona non binaria? Non necessariamente. Come sappiamo, ricercare ossessivamente determinate identificazioni in testi più o meno pensati per la pubblicazione è spesso una profezia che si autoavvera, poiché sovraccarichiamo di significato scelte lessicali o espressioni figurate che non sono magari intese come definitive ma sono piuttosto da interpretarsi come negoziazioni contingenti che derivano la propria autenticità dalla combinazione di elementi propri a quell’insieme vitale e vivente; se sezioniamo un testo o un’autrice, certo magari riusciremo a scomporla nelle sue parti, ma nel processo ci ritroveremo con pezzi di testualità morta. Le tesi di Woolf sono invece saggiate, nel duplice significato di abbozzate e valutate, in un insieme vivo e mobile di relazioni contingenti che non si lasciano fissare in questa o quella configurazione, proprio perché senza l’elemento ulteriore eppure essenziale della lettrice comune non sarà possibile radicare quel pensiero di/vagante in un’esperienza precisa. La lettura di Preciado testimonia proprio questo.
Ma forse dovremmo anche fare pace con il fatto che non tutte le icone femministe rimarranno sempre e solo femministe in un senso o in quello opposto. In un articolo del 1992 su Simone de Beauvoir, Mary Dietz descriveva molto bene come “l’icona di una generazione è il cimelio di un’altra” (“one generation’s icon is another generation’s relic”): se ci fossilizziamo su quale sia il significato ultimo di un’icona, rischiamo di tramutarla in un cimelio storico che, seppur musealizzato e custodito gelosamente, non saprà parlare altre lingue se non quella decisa da noi. Lasciamo che la “vibrazione enunciativa costante” di Woolf continui ad attraversare nuovi corpi e a risuonare con altre frequenze; lo dobbiamo al saggismo nomadico di Woolf che invece di declamare indica, invece di difendere seduce, invece di determinare in maniera definitiva si appella alla libertà di chi legge. Non stiamo, d’altronde, vendendo pillole per il bestiame malato.
Testi citati:
Dietz, Mary (1992), “Debating Simone de Beauvoir”, Signs 18: 1, pp. 74-88.
Marcus, Laura (2010), “Woolf’s feminism and feminism’s Woolf”, The Cambridge Companion to Virginia Woolf, a cura di Susan Sellers, seconda edizione, Cambridge: Cambridge University Press, pp. 142-79.
Preciado, Paul B. (2023), “Virginia non-binaire”, Libération, 10/06/2023, online: < https://www.liberation.fr/idees-et-debats/opinions/virginia-non-binaire-par-paul-b-preciado-20230610_MF2TJS6775C3VOVOTI52W3HC4Q/> [ultimo accesso 1/12/2023 alle 14.40].
Preciado, Paul B. (2023), “Un genere tutto per sé”, Internazionale, 15/08/2023, online: <https://www.internazionale.it/opinione/paul-preciado/2023/08/15/virginia-woolf-genere> [ultimo accesso 1/12/2023 alle 14.40].
Woolf, Virginia (1988), The Essays of Virginia Woolf, Vol. 3: 1919-1924, a cura di Andrew McNeillie, London: The Hogarth Press.
Luca Lou Pinelli (he/they; luei/lui/lei) sta completando un dottorato tra l’Università di Bergamo e l’Université Sorbonne Nouvelle di Parigi. La sua tesi esamina le risonanze tra l’opera di Virginia Woolf e la filosofia di Simone de Beauvoir, in particolare attraverso il concetto di (inter)corporeità. Fa parte dell’Italian Oscar Wilde Society e del collettivo transfemminista e queer l’Altrosessuale. Si occupa principalmente di letteratura inglese tra fin de siècle e modernismo da una prospettiva transnazionale e transdisciplinare, di studi di genere e della sessualità, e di storia del corpo. Puoi seguirlə su Instagram e su Facebook.
Intervista a Clara E. Mattei, autrice di Operazione austerità. Come gli economisti hanno aperto la strada al fascismo (2023).
Un reportage sui pericoli affrontati dalle donne migranti sulla rotta balcanica.
Disastri ideologici che speriamo restino confinati nell’area culturale angloamericana.
“E se la nostra moralità e la nostra azione politica non si concludessero con un atto di condanna? E se, oltre a condannare dei crimini sfrenati, volessimo creare un futuro in cui questo genere di violenza finisca?”: se lo chiede Judith Butler.
Quando parliamo di maternità e aborto, sono ancora troppi gli automatismi linguistici che tradiscono un approccio per nulla laico alla questione, scrive Veronica Raimo.
Il nuovo disco di Laura Jane Grace, raccontato da Laura Jane Grace (via una newsletter amica a cui dovresti proprio iscriverti).
FATTO DA VOI
Niente lana, niente pelle, opzioni vegetali in mensa: Marco Reggio analizza su Rewriters la propaganda dell’esercito israeliano, e in particolare il veganwashing, e la risposta della Palestinian Animal League.
Genocidio, bombardamenti e trauma: ne parla la Brigata Basaglia.
Comincia la nuova avventura di Chiara Reali e Marco Rana. Per il momento gli sviluppi si seguono qui.
La ripubblicazione dell’opera di Carla Lonzi è un’operazione editoriale importantissima: qui Martina Lodi ripercorre il pensiero di Lonzi.
Diletta Crudeli ha letto Furia di Clyo Mendoza e ne parla su L’eco del nulla.
Alessia Ragno ha visto e letto Povere Creature!
UN LIBRO
Donne è bello, streghe è meglio
di Eleonora Negrisoli
I have ridden in your cart, driver,
waved my nude arms at villages going by,
learning the last bright routes, survivor
where your flames still bite my thigh
and my ribs crack where your wheels wind.
A woman like that is not ashamed to die.
I have been her kind.
A. Sexton, Her kind
Gaia Giovagnoli, scrittrice e cartomante, aveva esordito nel 2018 con la raccolta di poesie Teratophobia (‘round midnight edizioni), ma è soprattutto dal suo esordio in narrativa, Cos’hai nel sangue (Nottetempo, 2022), che si è cominciato a parlare della sua scrittura. Nel 2023 ha pubblicato un secondo romanzo – Chiedi se vive o se muore (Nottetempo) – e un’altra raccolta di poesie – Babajaga (Industria & Letteratura) – confermandosi una voce originale nel panorama contemporaneo.
Inoltrarsi nella scrittura di Gaia Giovagnoli significa approcciarsi all’invisibile, inciampare nei fili sottili che legano tutte le cose a nostra insaputa, riconoscendo quanto ciò che non si vede – la magia, la memoria – sia profondamente incarnato. E la coscienza di questo legame invisibile-corporeo sembra riguardi soprattutto le donne – le streghe – che sono sempre le protagoniste delle storie raccontate dall’autrice.
In Cos’hai nel sangue, Caterina, tornata a casa per assistere la madre malata, fugge a Coragrotta per svelare i misteri della storia della sua famiglia. In Chiedi se vive o se muore, la cartomante India si trova al capezzale di Leo, il suo ex compagno violento in fin di vita, dove rivive ricordi remoti e frammenti del passato più recente. Nella raccolta di poesie Babajaga, l’omonima strega della tradizione slava racconta la sua storia in uno spazio-tempo al confine tra fiaba e realtà.
Le protagoniste di questi libri sono donne degenere, sempre qualche passo fuori dal cerchio che le vorrebbe contenere e definire. Sono persone ambigue, perché in loro il bene e il male trovano egual misura, e non appena ci si avvicina con empatia, arriva un pensiero o un’azione che obbliga ad allontanarsi: un esempio su tutti è India, che continuamente si ripete l’appellativo cattiva nella testa. Anche il loro rapporto con il corpo e la sessualità le colloca in una posizione altra rispetto a quella dovrebbero adottare. Caterina si rifiuta di mangiare o vomita dopo averlo fatto, e – come sostiene l’infermiera di sua madre – “chi non mangia o è una santa o una strega”. India parla esplicitamente di desiderio sessuale e soprattutto di pratiche BDSM. Babajaga è una donna sola che mangia i bambini delle altre donne. Queste caratteristiche, unite alla magia che sanno esercitare, fanno di loro delle streghe.
[Alt text: una raffigurazione tradizionale della strega, Una strega al calderone circondata da bestie di Jan Van De Velde The Elder. Fonte.]
La strega incarna il tipo di donna opposto al ruolo che dovrebbe ricoprire secondo le norme sociali patriarcali. Una donna dovrebbe partorire figli ed essere una buona madre, sacrificandosi per loro: la strega sacrifica i bambini e spesso se ne ciba. Una donna dovrebbe essere giovane e bella: la strega è vecchia e brutta, oppure trasforma il suo fascino in potere sottomettendo gli uomini. Una donna dovrebbe essere pudica e remissiva: la strega cerca il piacere negli uomini, nelle donne o nel diavolo. Per tutte queste caratteristiche la strega fa paura e viene relegata a una posizione di marginalità. La sua casa al limite del bosco, come quella di Babajaga, ne è la testimonianza. A Coragrotta, il paese sperduto tra i monti di Cos’hai nel sangue, esiste invece una società matriarcale in cui le donne grazie al loro “potere magico-animistico” hanno reso gli uomini remissivi e obbedienti. In effetti, è proprio da quella posizione marginale – “di possibilità”, direbbe bell hooks - che la strega esercita il suo potere.
In uno dei saggi che compongono Caccia alle streghe, guerra alle donne, Silvia Federici ripercorre la storia della parola gossip, un termine che comunemente indicava un’amica intima, ma che nel corso del tempo muta il suo significato in “pettegolezzo”. L’amicizia femminile – luogo di cooperazione e di potenziale trasmissione del sapere – viene così trasformata in chiacchiera, futile e molto spesso ai danni di qualcuno. Il termine gossip si carica di un significato negativo, che risponde al tentativo di disunire le donne, limitandone il potere. Federici sostiene che le donne sono state silenziate e svilite nel corso dei secoli proprio a causa della loro conoscenza: erano considerate depositarie della memoria collettiva e della saggezza legata ai rimedi medici e alla comprensione del comportamento umano: questo potere non era accettato, e dunque andava represso. Ma i tempi sono cambiati e, “come una donna ha recentemente spiegato durante un incontro sul significato della stregoneria, la cosa magica è che ‘sappiamo di sapere’”.
Ma per accedere al pensiero magico non basta studiare i manuali, sembra che sia necessaria una certa attitudine a cogliere l’immateriale, il non ancora/non più esistente. Questa conoscenza può essere tramandata a delle elette, che diventano iniziate, oppure trasmessa per via genetica. Nel romanzo d’esordio di Giovagnoli, non a caso intitolato Cos’hai nel sangue, il sapere magico-animistico viene trasmesso per via matrilineare. Fara tenta di trasmettere l’insegnamento a sua figlia Cariclò, la madre della protagonista, che però lo rifiuta, interrompendo la genealogia femminile e provocando una ferita che sarà proprio compito di Caterina rimarginare. In Chiedi se vivi o se muore, la madre di India, grazie alle sue intuizioni sul futuro, è considerata dalle sue amiche una sorta di indovina. Il capitolo in cui India viene chiamata alla divinazione – attraverso il “tocco dell’angelo” che le urta l’orecchio – è dedicato all’Arcano II, La Papessa, che incarna non solo l’archetipo della sapienza, dell’intuizione, della conoscenza segreta, ma è anche legata tradizionalmente alla figura di una suora che, diventando papessa, libera la Chiesa dal dominio maschile – finché non viene bruciata sul rogo perché, si sa, una donna che ha potere è molto pericolosa.
[Alt text: La Papessa, dai tarocchi di Marsiglia Camoin-Jodorowsky]
La questione del sapere femminile è cruciale. Come sostiene Jude Ellison Sady Doyle nel suo saggio Il mostruoso femminile, una strega è “una donna che conosce cose che altri non sanno, che fa cose che altri non osano”: ecco perché la comunità la rifiuta. Tuttavia, è proprio in quell’allontanamento dalla “civilizzazione” che la strega, mostruosa agli occhi di tutti, coltiva la sua magia e, quindi, costituisce il suo potere. Doyle sostiene anche che “le streghe sono quel che le donne sarebbero se avessero potere”, decostruendo l’idea di leadership femminile come generosa e giusta a prescindere. Le streghe, le donne, vivono in un mondo feroce: hanno il diritto di essere cattive e arrabbiate. In effetti, la relazioni tra madre e figlia nei romanzi di Giovagnoli sono conflittuali, quasi sempre dolorose e drammatiche. Sembra che sia la cattiveria a guidare le azioni delle madri verso le figlie, e viceversa, scardinando l’idea di amore incondizionato che dovrebbe, utopicamente, stare alla base di questo legame di sangue. È come se, oltre alla conoscenza femminile, anche il male fosse trasmesso per via genetica.
Tutti questi sentimenti vengono sperimentati attraverso il corpo – il più grande luogo di apprendimento. I romanzi e le poesie di Gaia Giovagnoli sono scritti con la carne. Le protagoniste, seppure mosse da intuizioni magiche, e quindi astratte, sentono tutto attraverso ciò che di più concreto e terreno abbiamo. Il corpo occupa il centro della narrazione e lo fa senza pudore, senza filtri. La lingua arriva ogni volta puntuale a descrivere i dettagli di corpi che soffrono, godono, mangiano, guardano, respirano: tutto quello che fanno Babajaga, India e Caterina avviene nel corpo. Le loro esperienze sono esperienze soprattutto somatiche: la dimensione psicologica è totalmente incarnata.
La sensibilità materiale si estende a tutti gli elementi del racconto: gli animali, i vegetali, e persino gli oggetti sono vivi. Questo risulta evidente soprattutto nel poemetto Babajaga, in cui l’autrice costruisce immagini ibride e contaminate: la strega ha la pelle di tronco e la sua casa cammina su zampe di gallina, della betulla vediamo le ossa e la pancia, nei nodi di lana si incastrano i morti, e potrei andare molto oltre nell’elenco. Anche nei romanzi ci sono personaggi surreali e immagini oniriche, in grado di far incontrare la dimensione visibile e quella invisibile: basti pensare alle piante di carne in Cos’hai nel sangue o alla pelle di India che si allarga fino a inglobare tutta la stazione in Chiedi se vive o se muore. Questo immaginario, così fortemente connotato, avvolge i libri di Giovagnoli in una fitta nebbia di mistero. A contribuirvi ci sono i racconti di fantasmi, le sedute spiritiche, le tradizioni rituali, i segni e le visioni che guidano chi legge attraverso la trama principale.
Forse proprio per questo fumo che affascina ma disorienta, i libri di Gaia Giovagnoli non custodiscono le risposte ai problemi del presente; bisognerà, piuttosto, parlare di domande. Le questioni di genere messe in campo sono tantissime e aprono altrettante strade su cui interrogarsi. È certo che, per il loro sguardo atipico, queste opere costituiscono un’importante riflessione attorno al potere delle donne, risignificando la figura della strega e il sapere femminile.
[Alt text: Roma, 7 ottobre 1976. Occupazione dell’edificio dell’ex Pretura da parte del Movimento di Liberazione della Donna (M.L.D.), poi adibito a Casa delle donne. Una donna è poggiata a un muro su cui è appeso un cartello che recita: “donne è bello streghe è meglio”. Foto di Paola Agosti.]
Eleonora Negrisoli è nata in provincia di Mantova ma vive a Bologna, dove si è laureata in Italianistica con una tesi sulle relazioni interspecie nell’opera di Anna Maria Ortese. Le interessa soprattutto la relazione tra letteratura, femminismi ed ecologia. Suoi contributi sono apparsi su Domani, Finzioni (Università di Bologna), Queer Pandèmia (TWM Factory-Tlon), L’Almanacco (Lo Spazio Letterario), NINA (podcast a cura della Società Italiana delle Letterate). Fa parte del direttivo artistico dello Spazio Letterario. Ha fondato il duo artistico Oasi Aliena. Puoi seguirla su Instagram.
UN’ARTISTA
Christine Sun Kim: il suono del silenzio.
di Simona Iamonte
[Alt Text: ritratto fotografico a mezzo busto dell’artista Christine Sun Kim mentre mima una parola nel linguaggio dei segni. Foto di Lobke Leijser.]
Spesso gli ostacoli sembrano insormontabili barriere in cui ci sentiamo costretti e di cui subiamo la sorte. Ancora di più se un ostacolo si traduce in una barriera sociale e, dall’esterno gli impedimenti quotidiani definiscono l’interezza delle identità disabili. Ma cosa succede quando una barriera sociale diventa studio attivo per comprendere il mondo che ci circonda?
Un valido spunto di riflessione arriva dall’intenso e affascinante lavoro di Christine Sun Kim, in arte CK, che per mezzo della sua sordità è riuscita a liberarsi dalle strutture che la definiscono, sia come persona sorda che come artista, e ha dimostrato a tutti che proprio ciò che ci separa dal fare esperienza di noi stessi e del mondo è spesso solo una questione di percezione.
Christine Sun Kim nasce nel 1980, completamente sorda da genitori udenti immigrati coreani, ad Orange County, America. Mentre i genitori faticano ad imparare l’inglese, Kim impara la lingua dei segni americana (ASL), per lei fondamentale e primario mezzo di comunicazione. Sin dai primi anni di vita deve servirsi sempre di qualcos'altro al di fuori di sé stessa per comunicare con il mondo udente: unə interprete, unə amicə, un foglio di carta, e questo fa sì che si instauri in Kim una sorta di lotta con il linguaggio in cui si sovrappongono idiomi e mezzi utili ad uscire dalla sua bolla. Un paradossale “caos sonoro” in assenza di suono, a cui la ragazza deve far fronte, che però si trasforma negli anni nello spunto principale della sua pratica artistica. La sua apparente barriera secondo le convenzioni sociali, diventa così il pretesto di dialogo, ascolto e soprattutto una visione nuova di sé stessa e del mondo che la circonda.
[Alt Text: alcune parole e frasi nella lingua dei segni americana con disegno esplicativo dei movimenti e posizioni delle mani. Ogni paese ha il proprio linguaggio di segni. In Italia ad esempio, la LIS, nonostante nasca nel 1960, viene riconosciuta dalle istituzioni italiane solo nel 2021. Ogni lingua dei segni si compone in tre livelli: gesti delle mani, in cui ogni gesto ha un significato o riproduce una lettera; movimento del corpo che accentua il discorso e ne veicola il tono e mimica labiale delle parole, anche se alcuni preferiscono non usarla.]
Il percorso di formazione d’arte di Kim è faticoso e poco accessibile. Nelle scuole che frequenta sono presenti interpreti ma è difficile che ne affidino uno fisso; piuttosto vengono affidati alla classe intera secondo richiesta, limitando automaticamente le possibilità di selezionare i propri corsi formativi, spiega l’artista in questa intervista su Art Basel Stories:
Quando ero al liceo, volevo davvero seguire un corso di scultura, ma non c’era un interprete disponibile, quindi ho dovuto frequentare un corso di artigianato. Al Rochester Institute of Technology (dove mi sono laureata nel 2002), ci sono più di 1.000 studenti sordi, quindi ci sono tonnellate di interpreti ma è difficile programmarne uno a meno che non sia una classe popolare. Quindi, all’inizio, non ho ricevuto molta della formazione formale che desideravo. Ho semplicemente seguito un sacco di lezioni casuali che sono diventate essenzialmente una laurea.
Dopo il diploma si trasferisce a New York ed entra alla School of Visual Arts, un ambiente nuovo per Kim, immersa tra persone udenti con le quali fatica a entrare in contatto e farsi tramite tra il suo mondo e quello esterno.
Dopo la laurea trova lavoro come archivista digitale presso la W.W. Norton e come educatrice al Whitney Museum, ma grazie a piccole borse di studio e residenze riesce a partire per Berlino. Nel periodo trascorso in Germania, ha un primo incontro con il suono, da cui si sente distante: le installazioni sonore esposte nelle gallerie non sono in alcun modo fruibili dalle persone non udenti, ma l’artista inizia a porsi delle domande proprio su di esse. In questo periodo inizia a pensare al suono non più come esclusivamente abile ma ad un’esperienza sinestetica, che nel caso del lavoro di Kim, coincide con il fare esperienza di un suono non più servendosi dell’udito ma attraverso gli altri sensi.
Vince una borsa di studio al Bard College (nello stato di New York) in cui intraprende un percorso che la porta a lavorare con i suoni a bassa frequenza caratterizzati da onde sonore lente che producono vibrazioni di lunga durata, come il sibilo del vento, un tuono in lontananza o il ronzio del frigorifero.
Al Bard College è l’unica non udente ad interfacciarsi con insegnanti e coetanei udenti. Confessa che l’esperienza la mette a dura prova nell’integrarsi e interagire per via dell’ostilità di alcuni alunni e docenti. Senza una comunità di persone simili a lei, attraversa momenti duri della sua formazione personale ed artistica.
[Alt Text: L’opera “Shit Hearing People Say To Me”, 2019. Un grafico a torta equamente diviso con le frasi o domande che irritano Kim riguardo la sua sordità. Il fatto che sia composto da fette uguali simboleggia che ogni frase la irrita allo stesso modo.]
Negli anni al Bard College inizia ad intensificare la sua pratica con il suono. Nonostante tutti pensino sia folle da parte sua, l’artista sente di aver trovato il mezzo adatto per poter incanalare la sua esperienza attraverso l’arte; e mentre pensa a cos’è il suono, entra in gioco un’altra domanda: che cos’è il silenzio?
Nel 2016 espone l’installazione concettualizzata da lei e creata dal musicista Levy Lorenzo “GAME OF SKILL” al Moma PS1 di New York, in cui chiede al pubblico di ascoltare un testo sul futuro della Cina. L’audio può essere ascoltato solo attraverso un dispositivo appositamente creato per disturbare l’ascolto. Ogni partecipante è invitato ad usare il dispositivo a contatto con delle strisce di velcro con aggiunta di magneti, poste parallele al soffitto. Per ascoltare l’audio e tentare di capire cosa viene detto, ogni fruitore deve provare la propria velocità. Se si va lenti la registrazione è rallentata, se si va veloci è velocizzata, persino se si va all’indietro la registrazione è al contrario. L’esperimento richiede il proprio equilibrio. I fruitori diventano come delle puntine del giradischi, si fanno mediatori tra suono e ascolto.
Entra in gioco una sottile azione politica della fiducia e di potere, in quanto la voce che si sente dal dispositivo è sia il tentativo di mostrare l’esperienza uditiva dell'artista: un’imposizione del caos e delle difficoltà incontrate quotidianamente; ma è anche un modo per confondere e interrogarsi sull’origine del suono stesso che è un “prestito” da parte di un’amica. Perciò, ascoltando la voce incisa nelle bande magnetiche, potrebbe esserci la sensazione di ascoltare la voce dell’artista stessa, quando invece, è una voce esterna, un mezzo di cui Kim si è servita per confondere i fruitori che non vengono preventivamente informati.
[Alt Text: Fotogramma della performance “Game of Skill” in cui tre persone usano i dispositivi contro le strisce di velcro per ascoltare la traccia. A questo link è possibile vedere un piccolo estratto sull’installazione.]
Più si approccia al suono e più nota che ci sono grandi similarità tra l’ASL e la musica, anche per quanto riguarda la loro rappresentazione grafica. Ad esempio una nota non può essere riprodotta visivamente su un foglio in tutto il suo significato più ampio che comprende durata, vibrazione, velocità o frequenza. Allo stesso modo un gesto della lingua dei segni non può essere rappresentato visivamente nel suo complesso di concezione spaziale e di significato profondo. Questo significa che ogni sottile cambiamento in un suono o in un gesto può cambiarne totalmente anche il significato. In questo video Kim spiega con una metafora musicale come l’ASL sia più come suonare un accordo pianoforte: bisogna impiegare tutte le dieci dita per mimare una parola o concetto con significato preciso, ed esattamente come avviene suonando, se un solo dito non preme il giusto tasto l’accordo non funziona o diventa un altro accordo.
Kim fa riferimento alla qualità musicale della lingua dei suoni: se un gesto viene fatto in maniera lenta, sembra un suono rallentato, allo stesso modo, un gesto fatto veloce è come un suono velocizzato.
Da queste idee sul suono e i gesti, nasce una serie di disegni in cui rende grafico il gesto e ci aggiunge una qualità sonora, come nell’opera “Straight Up Future” in cui il gesto in ASL di “futuro” (che si riproduce con una mano che parte dal volto e si allontana mimando due gobbette), in cui riesce a far intuire allo spettatore il suo suono. Nel disegno è intensificato il passaggio: la prima gobbetta viene rappresentata come un gigante arco per enfatizzare la grandezza del suono altisonante; un rimbalzo alto verso il futuro. Mentre la seconda gobbetta è più piccola, una speranza di futuro, in cui si percepisce un suono più silenzioso. Questo disegno mi fa pensare a quando facciamo rimbalzare un pallone a terra tirandolo lontano da noi: il primo rimbalzo ha un suono più forte, mentre gli altri rimbalzi sono più piccoli, ravvicinati e più silenziosi.
[Alt Text: “Straight Up Future” 2015 matita e pastello secco su carta. Due gobbette si muovono da sinistra a destra. Si nota la qualità motoria nel costruire il disegno, la fisicità dell’atto del disegnare.]
Tra i lavori più interessanti di CK ci sono sicuramente i disegni in cui usa la grammatica musicale. La lettera “p” in uno spartito musicale simboleggia il “piano” (inteso come andamento e non lo strumento), che l’artista impiega ripetutamente a simboleggiare la quasi assenza di suono. In musica, non esiste il silenzio totale ma una mancanza di suono udibile. Allo stesso modo, nella sua esperienza di non udente, i suoni sono rarefatti, quasi inesistenti, ma comunque ci sono e li può sentire attraverso altri sensi. Ad esempio se qualche oggetto cade da un tavolo, l’artista percepisce la sua caduta attraverso la reazione delle persone a lei vicine.
[Alt Text: “The Sound of Frequencies Attempting To Be Heavy” 2017, grafite su carta. Nell’opera si nota la “p” di “piano” e la “f” di “forte”. La frequenza che suggerisce il titolo, ed il suo tentativo di essere udita, è ostacolato dal proliferare di piccole “p” che soffocano la “f”. Se si osserva bene, il climax di questa “lotta” tra piano e forte è nel centro della composizione, in cui c’è una grandissima concentrazione delle due lettere, un po come se la “f” cercasse di farsi udire emergendo inutilmente dalle piccole “p”.]
[Alt Text: “Pianoiss…issimo (Worse Finish) 2012. Come nella precedente immagine, l’uso della “p” significa “piano”, in questa opera si parte dalla “p” al vertice ed il suono si dirama verso il basso in una sorta di schema ad albero rovesciato in cui si arriva ad avere un suono pianissimissimo.]
Nei suoi disegni, oltre a esserci un profondo e vulnerabile studio rivolto alla comunicazione, c’è anche una componente divertente e giocosa, per dei temi così intimi e tecnici. Ad esempio, nell’opera “Alphabet From The Speller’s Point Of View” rappresenta delle piccole mani che riproducono le lettere dell’alfabeto ASL dal punto di vista di chi usa la lingua dei segni. Ancora una volta, attraverso l’uso del disegno, Kim dona musicalità e ordine, ma anche ritmo e cadenza ai gesti.
[Alt Text: “Alphabet From The Speller’s Point Of View” 2019, grafite e pastelli ad olio su carta. le mani disegnate rappresentano l’alfabeto in ASL dal punto di vista di chi lo sta usando.]
Imporsi nella storia è dunque il tentativo di Kim per tenere vivo il dialogo della propria cultura e di quella dei sordi. Una tra le opere che più esprime questo nuovo interesse per l’arte pubblica è "Captioning The City” del 2021, in cui l’artista viene invitata a costruire un’opera per il MIF (Manchester International Festival), incubatore culturale della città inglese. CK pensa di far uscire la sua opera dalle pareti bianche delle gallerie ed invadere le strade della città con scritte su muri, palazzi e persino in cielo. Queste scritte hanno la stessa natura delle frasi che di solito si trovano nei sottotitoli, specificamente per i non udenti, in video musicali o film in cui viene espresso un suono. Ad esempio quando c’è la folla che applaude nei sottotitoli troviamo scritto: “[Applausi]” o “[Folla che applaude]”, oppure se in lontananza nella scena, si sente della musica troviamo il sottotitolo “[Musica distante]”.
Kim studia la città e la sua storia, con la stessa giocosità dei disegni vuole “etichettare” i giganteschi palazzi o lo stadio attraverso i sottotitoli, vuole rendere la città un supporto per mostrare la sua esperienza e forzarla nella quotidianità dei passanti. L’artista spiega in questo breve video l’idea dietro al progetto e ne approfondisce alcuni aspetti.
[Alt Text: foto della parete esterna del Museo Nazionale del Football. Nei paesi anglofoni “football” è il gioco del calcio (in cui c’è la palla rotonda e si gioca usando i piedi), mentre solo in U.S.A. “football” viene usato per il gioco del football americano (in cui c’è la palla ovale che si passa lanciandola con le mani), mentre il gioco del calcio in America viene chiamato “soccer”. A quanto pare questo caos di parole per identificare il gioco del calcio, nei paesi anglofoni è fonte di divertimento e anche scherno. Da questo spunto CK mette la scritta “Il suono di quando siamo d’accordo di non chiamarlo mai più “soccer”” proprio nel “tempio” del calcio per riprendere questa esilarante diatriba linguistica sportiva.]
[Alt Text: Foto dell’opera “Captioning The City” 2021. La scritta “il suono di nessuna lotta” vola sopra Manchester trasportato da un aereo. Con questa scritta l’artista intende giocare con il concetto psicologico di "Fight or flight" (reazione di attacco o fuga), sottolineando il bisogno di arresa invece che di lotta.]
Uno tra i più interessanti progetti dell’artista è la collezione di sei disegni su carta intitolata “Deaf Rage” che, mediante grafici e soluzioni matematiche, riflette su una questione molto reale e diffusa nella vita dell’artista e della comunità sorda: la rabbia. Alcuni esempi, dice, variano da interpreti che si congratulano a vicenda per “aiutarli”, persone segretamente spaventate dalle persone sorde, per arrivare alle discriminazioni ed eventi più specifici vissuti da Kim nell’ambiente artistico:
Finora la risposta è stata clamorosamente positiva. Molti dei miei amici sordi dicono: ‘sono d'accordo'. Alcuni hanno lievi disaccordi e dicono: 'Avrei dato l'angolo acuto piuttosto che l'angolo ottuso'. Penso che sia divertente perché le persone discutono su quale sia per loro l'offesa più piccola e quella più grande, il che è davvero interessante.
[Alt Text: “Deaf Rage” 2018 grafite su carta. Attraverso degli espedienti geometrici e matematici, Kim realizza questa sorta di infografica sulla rabbia del mondo dell’arte vissuta dalle persone sorde. Possiamo leggere: “Curatori che pensano sia giusto dividere il mio compenso con l’interprete: Angolo riflesso (più di 180°); oppure “Musei senza programma per i sordi (e nessun docente/educatore): piena di rabbia.]
In un recente video per il programma “Friends & Strangers” del canale d’arte Art21 Kim entra in profondità nella sua pratica artistica e di come si è evoluta negli anni. Il disegno ritorna ad essere predominante e, specialmente negli ultimi lavori, parte dal concetto di eco. Tutta la sua vita, spiega, è come un'enorme eco, la cui ripetizione ne definisce la natura. I gesti si ripetono, i segni tracciati sul foglio si ripetono, persino il lavoro dell’interprete che l’accompagna è una eco di sé stessa.
Nelle opere esposte nella mostra collettiva presso la White Space Gallery di Pechino “Persona and Parasite”, le parole e le forme sono appunto ripetute sotto forma di segni grafici, di fasce nere che rimbalzano sulla parete e riecheggiano. Il segno torna dunque alla sua qualità sonora che suscita nel fruitore un modo diverso di intendere le parole e i gesti.
Visivamente l’opera si trasforma in qualcos’altro, a primo impatto non facilmente riconducibile al linguaggio, più vicino alla natura di un bosco, o di un paesaggio. Forse l’idea di Kim di ripetizione è molto più presente nel mondo che ci circonda di quanto ce ne accorgiamo.
[Alt Text: “One Long Echo” 2022 pittura emulsionata nera su muro. Grandi gobbe di pittura nera si stagliano sul muro bianco. Gli incavi recitano: “Palm-Hand”. Altri disegni incorniciati sono posti sopra il murale, aggiungendo altri piccoli echi al gigante eco di sfondo.]
Nel 2018 Kim e il suo partner, l’artista tedesco Thomas Mader, diventano genitori di Roux, una bambina udente. L’ossessione dell’artista riguardo al suono invade anche questo nuovo aspetto della vita, che dichiara essere un’esperienza che ispira ed influenza il suo lavoro. Insieme al marito decide di comporre delle “Sound Diet”, ossia delle “regole” per avere il controllo del suono in presenza della figlia all’interno della loro casa. Come coppia di persone non udenti che parla due lingue dei segni diverse (americana e tedesca), per la figlia udente, hanno pensato di condividere con lei parte della loro esperienza limitando la comunicazione sonora e sperimentando di più il silenzio e la comunicazione fisica, coinvolgendo amici e parenti nell’esperimento.
Chiaramente queste regole non sono ferree, ma sono un modo per prestare più attenzione alla quantità di suono che un individuo assume durante ogni giorno; in questo video per il New York Times Events, l’artista spiega il progetto e mostra gli altri disegni di “Sound Diet”.
Nel disegno “Suggested amount of spoken language with a baby whose parents communicate in sign language” l’artista ci mostra l’ideale “giornata sonora” all’interno della sua abitazione, che inizia con il silenzio (“p”) e poco a poco emerge il suono rappresentato da alcune note sparse che si concentrano per lo più nel centro della composizione, verso la metà giornata, per poi ritornare al silenzio.
[Alt Text: “Suggested amount of spoken language with a baby whose parents communicate in sign language” 2018. Grafite su carta. Nell’opera sono rappresentate alcune note e segni grafici propri del linguaggio musicale]
Ad oggi Kim lavora ancora sul suono per se stessa e la comunità, attraverso disegni, performance e opere d’arte pubblica. La ricerca è costante, così come il desiderio di mettersi in gioco e mantenere vivo il dialogo sulla comunità sorda. Con base a Berlino, ha esposto in molti musei, soprattutto americani, fondazioni e gallerie. Sperando di poterla vedere presto anche in Italia, è possibile seguire il suo lavoro attraverso il suo profilo instagram.
Simona Iamonte, in arte Andy McFly è una pittrice ed illustratrice di Torino. Nel suo lavoro esplora la coscienza e l’identità umana nel contesto mutevole contemporaneo, attraverso figure surreali ed iper-colorate. Oltre a pensare alla pittura 24/7, le piacciono gli anime, andare in bici e leggere i tarocchi ad amici e sconosciuti.
Puoi seguire il suo lavoro su Instagram, Facebook o Behance.
Grazie a Luca Lou, Eleonora e Simona per aver arricchito questo numero con i loro contributi. Ci leggiamo a fine febbraio!
Un abbraccio!
Francesca, Gloria e Marzia