Benvenut_ a Ghinea! Questo mese abbiamo una nuova amica e ospite, Ludovica Vannini. Nel suo pezzo Ludovica esamina un recente adattamento dell’opera L’Étang di Robert Walser, portando alla nostra attenzione il lavoro di Gisèle Vienne e Adèle Haenel. Noi riflettiamo sull’influencer culture e sulle sue infiltrazioni nel cosiddetto attivismo digitale, soprattutto quello femminista. Buona lettura!
L’Étang, Adèle e l’universo del Possibile
di Ludovica Vannini
Nell’opera teatrale L’Étang, tratta dall’omonimo testo di Robert Walser, Adèle Haenel è Fritz, un adolescente che non si sente amato dalla madre e inscena il suo suicidio per mettere alla prova il legame madre-figlio, quel legame carnale che il mondo ha per millenni dipinto come radicato, scontato, profondissimo, onnipresente e salvifico. Quel legame che non si dubita perché esiste a priori.
[Alt Text: trailer della pièce L’Étang, diretta da Gisèle Vienne. Attenzione, contiene spoiler.]
Il testo originale è stato rimaneggiato moltissimo da Haenel e la regista Gisèle Vienne: hanno aggiunto voci, modificato i corrispondenti personaggi e rivisto la trama. Il lavoro di Haenel è in gran parte basato sulla sua spaventosa capacità di improvvisazione, il solo personaggio che segue una linea leggermente lineare è Fritz, per gli altri, secondo le sue parole:
[...] non so mai quello che sto per dire, non so mai quello che sta per arrivare, sono talmente trascinata che semplicemente seguo il flusso. Non so quale voce appartenga a chi, è importante non fissarli come entità ben costruite ma lasciare che siano volatili.
Dice Vienne che
Hanno trasportato l’opera di Walser ai giorni nostri, riproponendo i suoi personali interrogativi. Che succede se si parla della famiglia nella sua complessità, nella sua violenza, nella sua incarnazione delle norme sociali che impediscono a più della metà degli esseri umani di esistere come tali?
Il sentimento iniziale è il rifiuto. Non è vera, non può essere vera una storia di amore-odio famigliare dai tratti incestuosi. La mente non la concepisce, pensa sia troppo. Il corpo è estraniato, sente male ovunque, si chiude a riccio e ha pena per quello che vede. Il binomio famiglia-violenza ha ancora poco posto nella sfera del possibile e quel poco che esiste si riduce a zero se la figura causante è quella della madre.
Il disorientamento, la manipolazione e l’abuso che sono il cuore del testo sono dei soggetti purtroppo già ben noti agli uomini; ho pensato fosse arrivato il momento di affrontarli attraverso figure femminili.
Fritz è un ragazzo ma potrebbe essere chiunque, non è il genere che interessa. Non è il genere a cui, per una volta, si fa riferimento. Non sappiamo chi lui sia, è noto solo il nome. Siamo au-delà della categoria di uomo, siamo al di fuori del genere. Non ci sono elementi che possano ricondurre a stabilire in maniera netta e risolutoria (come il mondo fa con noi) sì, è per forza un maschio. L’affermazione he looks like — therefore he is non funziona con l’opera di Vienne. Non è possibile categorizzare, si esiste per come si è, e con lei si è altrove per definizione. Il fulcro del suo lavoro consiste nell’indagare come la percezione sia culturalmente costruita, oltre che decodificare, attraverso la dissociazione, il moltiplicarsi dei corpi, delle voci e dei movimenti da quali gerarchie normative sia composta quella stessa percezione. Le marionette di taglia umana non sono solo dei corpi inermi per fare numero, rappresentano l’opposizione collettività-individui che abita i nostri racconti personali e mostrano fino a che punto l’incarnazione dei personaggi sia dipendente dallo sguardo degli spettatori. Manipolare le impressioni cambiando il ritmo e le forme, riduce il distinguo tra sogni, realtà, allucinazioni, fantasmi, ricordi o falsi ricordi.
[Alt Text: Adèle Haenel (destra) e Ruth Vega Fernandez (sinistra) fotografate da Estelle Hanania per il press kit de L’Étang, 2020. Fonte.]
“Nessuna persona è naturalmente uomo o donna se non secondo i ruoli di genere della società; è interessante usare la scena per stravolgere queste assunzioni. “ Vienne in maniera efficacissima contesta la facilità con la quale le crisi (specialmente quelle adolescenziali) vengono immediatamente categorizzate come esplosioni dovute ai corpi in crescita invece di investigare alla radice.
Quando passiamo dall’infanzia all’età adulta, ci viene comunicato chi dobbiamo diventare, come dobbiamo comportarci e a cosa i nostri corpi e le nostre sessualità devono assomigliare. Questa normatività è ugualmente imposta alla sfera intima, poiché si trova spesso a interferire con i corpi. Le crisi presunte come identitarie o come lotte interiori sono in realtà dei conflitti tra gli individui e la società e tra gli individui e la famiglia, che spesso è la versione più intima del più largo sistema patriarcale. È una lotta che portiamo avanti per tutta la vita.
Gisèle Vienne è una traghettatrice che col suo lavoro precisissimo e contemporaneamente vago e sfumato, invoglia a far uscire la propria voce; è incantata dai contributi che chi la circonda può offrire se messo in una condizione di agio:
Vienne spoglia il corpo di quelle assurde categorie alienanti che filtrano ogni cosa che cerchiamo di comunicare per andare all’essenzialità dei sentimenti, della parola, delle emozioni: diventa un puro strumento di trasmissione del mondo interiore di Fritz e un generatore di interrogativi martellanti per gli spettatori: cosa gli passa per la testa? Come si sente? Perché si sente così? Qual è l’origine di un dolore talmente atroce da farlo contorcere e incupire la voce?
La cascata di parole che arriva da Fritz, dai suoi fratelli e amici (tutti interpretati da Adèle), dalle figure adulte e parentali (a loro volta interpretate da Ruth Vega Fernandez) ci tiene legati alla sedia con gli occhi sgranati e con un corpo dolente che percepisce esattamente lo stesso strazio che i corpi sofferenti ed esasperati di Adèle e Ruth vogliono comunicare. La dissociazione tra i movimenti rallentati, appesantiti dal macigno di una violenza dalla quale non riescono a liberarsi e le parole rapide, grottesche ma a tratti anche divertenti o lievemente dolci è talmente esasperante che diventa impossibile per gli spettatori rendere invisibile la violenza degli abusi focalizzando l’attenzione su altro.
Gisèle Vienne si serve con una maestria incredibile degli strumenti del teatro per formulare critiche chiarissime alle violente imposizioni formulate da questa società pressantemente normativa. La famiglia come entità solidalmente onnipresente, come base di lancio della vita, come strumento di distinzione sociale, come banco di prova esistenziale e come influenza definitiva sul proprio futuro, ha diritto e dovere di essere messa in questione. Deve essere analizzata e criticata nella profondità delle sue dinamiche interpersonali che tanto spesso in maniera incosciente scavano dei solchi profondi nelle personalità dei suoi membri. La violenza delle relazioni familiari esiste, è sotto i nostri occhi.
Andando avanti nei giorni – l’ho visto più volte perché era quell’occasione che la vita ci regala una volta in un millennio – ho notato come l’impatto visivo, sonoro e corporeo delle interpretazioni fosse meno fisicamente violento e destabilizzante, come se avessi abituato il corpo a quel genere di sofferenza per potermi finalmente concentrare di più sul testo. Nominare la violenza, dedicarle lunghe e mute riflessioni dandole il tempo di venire a galla e farsi nitida, mi ha permesso di dare una forma alla storia di Fritz e di lasciarla sedimentare lentamente, per poi ritornare a vedere l’effetto.
Il rifiuto iniziale della crudeltà della storia si attutisce, e si impara a coesistere con degli interrogativi viscerali: che tipo di amore è quello familiare? Che tipo di legame è quello madre-figlio? E invece quello fraterno? Cosa portano tali legami? Che luogo è la famiglia?
[Alt Text: Adèle Haenel fotografata da Estelle Hanania per il press kit de L’Étang, 2020. Fonte.]
Per una rara e preziosa volta si dà voce agli echi incestuosi che attraversano i luoghi e le relazioni familiari e si dona un corpo al dolore che può essere portato in superficie grazie alle contorsioni. Si viene spinti a riflettere, scendendo a patti con lo spettro conosciuto della violenza che avvolge e attraversa un’istituzione millenaria che rarissimamente viene affrontata o interrogata. La mise en scène di Gisèle Vienne ce lo sbatte in faccia forzandoci a rivolgergli lo sguardo. La consapevolezza passa per la schiettezza dei dialoghi, la chiarezza delle voci e l’orrore dei volti sofferenti. L’impressione timidamente plausibile che si tratti dell’immaginazione di Fritz e dei suoi incubi di persona sensibile è spazzata via dalla potenza della regia e della recitazione, che ci impongono non solo una fiducia assoluta nelle interpreti, ma ci spingono ad abbandonarci alla rivelazione della violenza presente in noi ma celatamente nascosta perché relegata a pochi mostruosi individui e mai associabile alle persone che ci dovrebbero voler bene.
Per una rara volta è anche possibile fare un timido tentativo di ironia; “non mi resta che l’humour” dice Fritz a un certo punto con una voce sottile e un sorriso accennato che spezzano il cuore in briciole. Ridere per tentare di liberarsi, non per sminuire ma per provare a rinascere, ridimensionando gli elementi che provocano soffocamento.
Contestare il legame parentale nella sua esistenza, nella sua forza e nella sua scontata positività assoluta porta alla luce una catena di temi legati all’istituzione familiare come frutto di una gigantesca pressione sociale. I figli non voluti, non cercati, forzati, capitati o ultimi tentativi di riparazione. I frutti di imposizioni esterne si scontrano con il bisogno umano e viscerale di essere amati, di cercare affetto e cura. Si ha il diritto di pretendere amore da chi ci ha portati al mondo senza aver scelto di farlo?
Ero tra gli ultimi ad uscire, come al solito con la testa tra le nuvole stavolta giustificata dal bisogno di recuperare fisicamente ed emotivamente un minimo di energia che mi permettesse di tornare al mondo reale. Sbuco in una sala comune intenta ad avvolgermi la sciarpa intorno al collo, ho giusto il tempo di tirare su la testa e di riallineare il mio sguardo al presente che la vedo. È sul lato opposto della stanza e si sta avvicinando. Con un passo fa circa sei metri, quindi facendo due calcoli valuto che ho poco meno di tre secondi per trovare la voce, chiedere al mio cuore di rallentare un attimo e non farmi stramazzare a terra e imporre al mio cervello di cercare di costruire qualche frase di senso compiuto, possibilmente in francese.
Come si affronta l’incontro con una delle persone che ha preso la tua vita e con un’energia gentile l’ha scossa, rivoltata, srotolata e riavvolta in un senso che non credevi esistesse?
Il taglio di capelli, la corporatura, l’ambiente sicuro, libero, intenso e variegato della compagnia intera e la consapevolezza di essere tornata alle origini del percorso, alla pura finzione del teatro, dove i trucchi si fanno col corpo e con la voce, e di averlo preso e rivoltato innovandolo oltre i confini dell’immaginabile, sono per me gli elementi che l’hanno fatta apparire inondata di una luce con una potenza fuori dal possibile.
Più a lungo posavo lo sguardo su di lei, più si delineava in me l’ampiezza gigantesca dello spettro delle possibilità dell’essere. C’ero io, costruita e confezionata da un binarismo di genere stringente e riduttivo, e c’erano loro, un oceano immenso di possibilità che con la loro arte tenevano lontana per noi la mano che richiama all’ordine sociale e alla stabilità gerarchica, donando a noi mortali la possibilità di uscire da una condizione di apnea e di esistere all’interno di uno spazio immensamente più grande.
[Alt Text: Adèle Haenel (destra) e Ruth Vega Fernandez (sinistra) al termine della rappresentazione de L’Étang alla Comédie de Genève il 13 novembre 2021.]
L’ho vista circolare con leggerezza, stanca ma felice, dopo aver spremuto anima, corpo, cuore e mente su un palco che era costruito intorno a lei e alle sue doti. L’ho vista sorridere, ascoltare, guardare negli occhi e incurvare le spalle abbassando lo sguardo per la commozione. Con pazienza e intenzione, corrucciando leggermente le sopracciglia e mordendosi appena il labbro inferiore ha ascoltato chiunque avesse una parola da dirle, cercando di cogliere tutto quello che, in pochi minuti, con una voce tremula e con un batticuore gigantesco, si può dire a una persona straordinaria come è lei. L’ho vista meditare sugli spunti ricevuti, misurare con cura le parole da usare, girare gli occhi verso l’alto cercando di non perdere il filo dei pensieri. L’ho vista chiedere ansiosamente se avesse esageratamente scombussolato il testo di Robert Walser e sorridere sollevata nel ricevere la conferma di averlo compreso in profondità.
Vedere Adèle è stata la più intensa ventata d’aria fresca, lo schiudersi di porte di universi che si pensano impossibili; è stato l’incontro con una vita dedicata a quell’arte che quotidianamente va oltre i canoni e l’ordinario possibile, è stato l’incontro con una figura in cui confluiscono la generosità d’interprete e l’amore per gli altri, la ricerca di contaminazioni e la curiosità genuina.
Nel suo mondo Adèle accoglie, riceve, mette in contatto elementi opposti; regala la consapevolezza che è possibile e lecito cercare altro e non rimanere in un presente che non ci contiene. In lei prende corpo l’ipotesi di uscire da una forma – comportamentale e non – imposta per l’immagine fisica.
Quando l’ho vista per la prima volta mentre si avvicinava, stanca ma felice, scostandosi i capelli indietro con la mano sinistra, ho capito cosa significasse il suo “quando mi sono innamorata di una ragazza ed è arrivata la possibilità di uscire dall’eterosessualità non ho esitato un attimo, sono fuggita” e un cerchio si è chiuso.
Ludovica Vannini è nata a Roma ma non sa stare per più di un anno nello stesso posto, guarda molti film e cerca di tenere a bada la sua intensa vita interiore scrivendo sulle note del telefono. Puoi seguirla su Instagram.
Case perfette, vestiti perfetti, famiglie perfette, animali da compagnia perfetti, vacanze perfette: il piano su cui lavorano lə influencer è, naturalmente, quello aspirazionale. Lo stile di vita che ci presentano sui social, ben codificato e glamourous, è la base del marketing di cui sono strumento: chi guarda nutre sogni di mimesi, e la facile promessa è quella di raggiungerla mediante l'acquisto dei prodotti che sponsorizzano. La distanza fra chi usa Instagram per mostrarsi e chi lo usa per guardare è il luogo deputato a questo scambio. Ma è una distanza che deve esserci e al contempo non esserci, una distanza che chi sta dall'altra parte deve sentire di poter colmare. Per raggiungere questo equilibrio tra suscitare in chi guarda il desiderio di ciò che non ha e mantenere l'impressione che sia alla sua portata, è vitale che ogni differenza percepita fra l'influencer e il suo pubblico, e la differenza di classe più di tutte, sparisca.
E in effetti spariscono. Quando un influencer canonicamente bellissimə mostra le sue "imperfezioni", quando un influencer di successo descrive le sue "giornate no", quando un influencer benestante ricorda le sue umili origini – in tutti questi casi l'influencer sta lavorando sulla prossimità col suo pubblico e sull'essere (o essere statə) unə di noi, e non è raro che il post ribadisca questo concetto, o lo accompagni con una frase motivazionale. Ciò che appare come momento di spontaneità, una pausa benvenuta dalla perfezione artificiale proposta quotidianamente, è ideato e infine pubblicato per i medesimi motivi.
Ma se non si nomina il privilegio economico come fattore decisivo per ottenere la vita dellə influencer, cosa ci separa da loro? Ciò che devono venderci quel giorno, certo, ma anche l'ambizione, il sacrificio, e la voglia di farcela.
[Alt Text: immagine dal video in cui Molly-Mae Hague, intervistata dal podcast The diary of a CEO, ha dichiarato che, sebbene i background individuali possano differire, ciascunə può dare alla propria vita l’indirizzo che preferisce, se solo lo desidera abbastanza. Hague è inquadrata a mezzobusto mentre siede di fronte a un microfono, e indossa un tailleur nero. Fonte.]
Molly-Mae Hague, influencer britannica, è finita al centro di una polemica per aver dichiarato che ciascunə di noi dispone dello stesso numero di ore in una giornata, e che il tuo successo dipende da come scegli di impiegarle. Su Novara Media, Anna Cafolla parte da questo episodio per descrivere l'influencer culture come purissimo distillato di thatcherismo: un sottoprodotto ideologico che continua a ignorare la varietà delle singole condizioni ambientali e getta sulle spalle dell'individuo le responsabilità della sua sorte, contribuendo di fatto al mantenimento delle stesse differenze socioeconomiche strutturali che determinano chi si affermerà e chi non avrà alcuna possibilità di successo.
Quanto tempo aveva Chiara Ferragni per assemblare i suoi outfit, vestirsi e truccarsi, farsi immortalare sotto casa, modificare i file RAW per rendere gli scatti quasi professionali, scrivere i testi di accompagnamento, e caricare tutto sul suo blog? Quanto le sono costati i vestiti, la reflex, il computer, la connessione a internet che le hanno permesso di proporsi come fashion blogger? Avrebbe potuto farcela se all'epoca non fosse ancora vissuta nella casa materna? Sono queste le domande che vengono eclissate dal mantra sulla genialità della sua idea innovativa, eppure sono le domande che contano di più.
La traiettoria personale che l'ha resa, agli occhi dell'opinione pubblica, non più una ragazza alla moda come tante bensì un'imprenditrice rispettabile, è dipesa in modo decisivo dalle opportunità che le hanno consentito di sviluppare il suo progetto, e farne una cultura oggi pervasiva: una famiglia e un compagno pronti a incoraggiarla, tutti i pasti giornalieri garantiti, i mezzi materiali necessari – e tanto tempo libero, il maggior vantaggio di chi non deve darsi la pena di soddisfare i propri bisogni primari.
Oggi Ferragni è molto più ricca, ma non può ancora farcela da sola. Per gestire il lavoro e la famiglia ha per forza bisogno di babysitter e altre figure di supporto, a continua riprova che il cosiddetto femminismo girlboss o lean in, che ha un debole per le donne ricche e potenti ed è spesso presente, combinato alla retorica imprenditoriale, nell’influencer culture che eleva Ferragni a modello, non è praticabile. O meglio, non lo è se non a discapito di altre donne (certamente più povere, spesso razzializzate) costrette a sobbarcarsi le incombenze più faticose e il lavoro di cura per permettere a una sola di emergere – e di spronarci a seguire le sue orme senza però mostrarci la sua rete di sicurezza.
Non cadere nella trappola ideologica degli sforzi che alla fine vengono premiati non significa, nel caso dellə influencer come per qualsiasi storia di successo personale, svalutare o scoraggiare i sacrifici di chi tenta di migliorare le proprie condizioni. Tuttavia, è necessario saper inscrivere la necessità di compiere tali sacrifici nel fallimento sistemico di un modello economico in cui la maggioranza delle persone annaspa e pochissime vivono comode.
La retorica del sudore della fronte, che lə influencer hanno ricevuto in eredità e continuano, senz'altro con benigna convinzione, a diffondere, offusca infatti l'insostenibilità del neoliberismo e ci invita invece a leggere queste storie di realizzazione come parabole morali che funzionano in entrambi i sensi: se riesci è solo merito tuo, e non sei tenutə a condividere ciò che hai guadagnato; se fallisci hai sbagliato da qualche parte, e non meriti aiuto dalla collettività.
Perché tutto si tenga, allora, è essenziale che una precaria possa sognare di essere Chiara Ferragni, e accettare qualunque condizione lavorativa come sacrificio necessario fintanto che non lo sarà diventata. Per questo motivo Chiara Ferragni deve restare una come noi se non proprio una di noi: le nozze un po' pacchiane, i siparietti comici tra lei e il marito su Instagram e la stessa serie The Ferragnez, da moltə accostata alla sit-com Casa Vianello, riescono a strappare Ferragni dall'inaccessibilità perfetta di una diva convenzionale per avvicinarla al suo pubblico. La vita che Ferragni illustra vuole assomigliare a tutti i costi alla vita che moltə di noi sceglierebbero se fossero altrettanto ricchə, e la sua continua sovraesposizione non può essere letta che come performativa – non nel senso (a oggi dominante, ma impreciso) di vuota spettacolarizzazione, bensì nel senso di attività discorsiva e di autonarrazione che si tramuta in realtà sotto i nostri occhi. Fingendo di essere una come noi, Chiara Ferragni diventa (e rimane) una come noi, e specularmente noi diventiamo lei.
[Alt Text: immagine da un video che Chiara Ferragni ha pubblicato su Instagram nel 2020 per denunciare il sessismo in Italia. Nel filmato Ferragni è poco truccata e vestita sobriamente, e anziché filmarsi da sola viene registrata mentre, seduta a un tavolo e con gli appunti sottomano, espone la sua critica sociale. Questo modo di presentarsi è una bizzarra combinazione fra un discorso alla nazione e un esame universitario osservato dal punto di vista dellə docente, e oltre a mostrare Ferragni in una veste inedita la distingue da chi invece propone questi argomenti ogni giorno dal proprio profilo. In altre parole, Ferragni comunica in modo più tradizionale un messaggio che con ogni evidenza vuole sia fruito in modo diverso, e più attento, rispetto ai suoi abituali contenuti. La stessa presenza degli appunti, che ha suscitato alcuni commenti beffardi, non è casuale: Ferragni è appena venuta a conoscenza del termine victim-blaming, e non lo nasconde. Non finge di essere esperta di alcunché ma la sua indignazione è autentica, e per questo riconosce (e vuole che noi notiamo che ha riconosciuto) la necessità di aiutarsi con una scaletta per esprimersi al meglio. Lə attivistə di Instagram, al contrario, attingono perlopiù alle modalità comunicative più spontanee dellə influencer, parlando a braccio anziché seguire una scaletta.]
È la stessa natura della loro presenza online a rendere lə influencer autorità nella loro nicchia di riferimento: solə davanti alla videocamera, parlano esponendosi a un contraddittorio modulabile attraverso strumenti di filtro e blocco che la vita offline non offre, e mantengono il controllo assoluto dei feedback da rilanciare al proprio pubblico. Com'è ovvio, privilegiano quelli positivi e si servono di quelli negativi per dirsi vittime e raccogliere solidarietà. È così che il loro seguito si consolida, con l'engagement che aumenta la credibilità e viceversa. A questo si aggiunge l'immagine deformata del consenso che i social media restituiscono, sempre esagerata in un verso o nell'altro. Lo spazio virtuale che circonda un influencer, in altre parole, è più simile a una corte che a una agorà. E allora siamo costrettə a esaminare, e se necessario mettere in discussione, il punto di intersezione fra l'influencer culture e la divulgazione femminista sui social: le influencer del femminismo.
La definizione (un po' dispregiativa) è di certo grossolana, perché incasella tutte le persone con un seguito online sotto un unico termine. Per altri versi, però, è anche molto precisa, perché descrive alla perfezione lo sforzo che le femministe attive soltanto o soprattutto sui social profondono per modificare il dibattito pubblico, oltre che, purtroppo, le partnership che talvolta stringono con aziende e banche. Questo sforzo non appare dissimile dalle modalità promozionali che altrə impiegano per vendere vestiti o pacchetti di vacanze, e in parte giustifica l'accostamento di queste figure allə influencer tradizionali. E allora non possiamo che domandarci: come può un'esponente di una simile cultura proporre un femminismo che sia praticabile e convincente? E soprattutto: vogliamo davvero vendere il femminismo come se fosse un bene di consumo?
Qualche tempo fa, su Dinamopress, è apparso un articolo di Sofia Cabasino che si soffermava sulle attività online di Freeda, Non Una Di Meno e Obiezione respinta per verificarne l'efficacia. Pur evidenziando gli svantaggi di una comunicazione fatta di slogan e ridotta all'osso, Cabasino non poteva che isolare Freeda come modello negativo e concludere che la rete presenta numerose possibilità di instaurare contronarrazioni, di accostarsi alla voce non mediata di persone marginalizzate, e di raggiungere chi soltanto pochi anni fa, per circostanze geografiche o di altra natura, sarebbe rimastə isolatə e all'oscuro di ogni dibattito e azione.
L'esperienza di un collettivo che ha sviluppato una precisa e riuscita strategia social, e l'ha resa parte integrante di un ventaglio di altre pratiche, non è tuttavia perfettamente sovrapponibile al fenomeno di persone che all'interno della rete nascono ed emergono, acquisendo popolarità e guadagnando in questo modo occasioni editoriali e di pubblica visibilità. In questi casi, l'influencer culture assente nella comunicazione di NUDM e Obiezione Respinta informa ogni mossa.
Essere presenti soltanto online significa spesso accettare di affermarsi (o almeno tentare di farlo) seguendo le progressioni argomentative popolari sui social, che procedono perlopiù per slogan e prese di posizioni molto nette a detrimento di una conversazione articolata e in grado di accogliere e valutare sfumature, obiezioni e aggiustamenti. Inoltre è necessario esserci ogni giorno, o almeno con costanza, per offrire una "prospettiva femminista" sull'argomento caldo. Ma se una corretta "prospettiva femminista" è ciò che speriamo di applicare nella lettura di ogni evento, assai più discutibile è che ogni trending topic meriti di essere elevato ad argomento di dibattito o anche solo a opportunità di posizionamento. Nella ripetitività estrema delle storie di Instagram o di una griglia di post, poi, l'affiancamento di temi assai diversi sotto ogni aspetto tende pericolosamente a renderli omogenei, creando l'impressione che la dichiarazione sessista di un conduttore famoso conti quanto un femminicidio, che a sua volta conta quanto la promozione del libro appena dato alle stampe.
La gestione del dissenso è un aspetto altrettanto critico, perché elimina spesso l'importante elemento della responsabilità politica delle proprie azioni. Ognunə di noi ha il diritto di esprimersi nella certezza di non ricevere minacce e insulti, ed è giusto creare uno spazio virtuale sicuro per l'influencer e per il suo pubblico. Tutt'altra questione è squalificare ogni tipo di critica come manifestazioni di misoginia, o misoginia interiorizzata nel caso non provenga da un uomo, per poi invitare tuttə alla concordia nel nome di un'auspicata unità femminile. Il timore è che operare in solitaria, anziché all'interno di uno spazio femminista reale, confrontandosi con altre femministe, renda la comunità delle donne a nome di cui ci si vorrebbe esprimere un'astrazione generica e idealizzata, univoca nei desideri e nelle idee, anziché un corpo molto reale di persone con opinioni differenti e magari maniere poco accomodanti.
Solo che le persone non sono affatto astrazioni, e non sono nemmeno account da poter bloccare e dimenticare: se chiedono come mai una femminista discuta di emancipazione femminile con un personaggio politico dichiaratamente sionista, obliterando così l'oppressione delle donne palestinesi, quella femminista ha la responsabilità di rispondere. Se domandano cosa c'entri l'attivismo con la sponsorizzazione di vestiti, o compagnie telefoniche, o istituti di credito, l'attivista che decide di diventare promoter deve saperlo spiegare. Molto spesso, tuttavia, scelgono di non farlo e di trincerarsi dietro il ricatto emotivo della comune condizione femminile. Mansplaining, silenziamento e misoginia, che volentieri vengono invocati di fronte a una critica, sono naturalmente dinamiche assai reali, e tuttavia non possono in nessun caso consentirci di non metterci in discussione come femministe.
A che cosa si riduce allora il femminismo su Instagram? Perlopiù a stilare infografiche per un feed estremamente curato, a proporre le ultime novità editoriali "femministe", e a commentare il fatto del giorno, tenendo sempre bene a mente che i meccanismi del dibattito social premiano le posizioni più chiassose ed estreme e la presenza costante. Non riesce a essere divulgativo in modo serio e responsabile, perché condensato in poche frasi adatte allo span di attenzione che dedichiamo ai social media, e non può a essere attuativo perché confinato all'interno di un perimetro virtuale che ha assai meno rilevanza di quanto ci piaccia credere.
In poche parole, riguarda lo stile di vita e l'affermazione personale anziché un'azione trasformativa che abbia a cuore le sorti di tuttə, e di tutte le donne, all'interno della struttura capitalistica e patriarcale. Non a caso, il più significativo risultato che ha conseguito è stato l’accesso di alcunə influencer/attivistə a un dibattito pubblico che, ben lungi dall’allargarsi, rimane strettamente elitario e detenuto da pochissime persone, la cui fisiologica rotazione non minaccia in alcun modo le storture della produzione culturale. E allora dovremmo domandarci se sia il caso di sostenerlo.
A partire dalla scesa in piazza di Non Una Di Meno contro la medicina patriarcale, nuovi spunti di riflessione sulla dolorosa e medicalmente ignorata esperienza della vulvodinia.
Una dettagliata e informata riflessione di Maria Dell'Anno sulla legiferazione nazionale in merito ai cognomi che, ancorata a una “superata concezione patriarcale della famiglia e dei rapporti fra coniugi, non è compatibile né con il principio di uguaglianza, né con il principio della loro pari dignità morale e giuridica”.
Paola Rudan scrive di Il femminismo è per tutti di bell hooks, appena uscito in Italia.
Per una lingua ribelle: Alia Trabucco Zerán, autrice cilena (il suo primo romanzo, La sottrazione, è uscito in Italia nel 2020), legge Herta Müller.
[Alt Text: ritratto fotografico di Alia Trabucco Zerán, un semplice primo piano su fondo bianco. Zerán indossa gli occhiali, porta un rossetto acceso e i capelli a caschetto. Fonte.]
Sulla misandria disinvolta costruita su gatekeeping e pigrizia intellettuale, che non ferisce quasi mai chi lo meriterebbe ma in compenso fa molte altre vittime collaterali:
Ma so di non essere etero, né cis, né un ragazzo. Non sono niente di così semplice. Sono una ragazza che ha superato un sacco di merda e che è cresciuta in simbiosi con il suo corpo. Ma un'altra cosa che so è che il mio punto è il mio cazzo di punto. Davvero voglio convincere chi è dispostx a starmi a sentire solo se può vedermi come una ragazza?
Devo essere costretta a fare coming out per essere trattata come una persona che valga la pena ascoltare? Per far sì che le mie compagne di corso smettano di ridere di una persona che ha fatto i conti con i limiti e le dimensioni della mascolinità e della femminilità come a loro non è mai toccato? Con la vita che ho vissuto, con tutti gli anni in cui l'ho vissuta—mi serve il loro permesso per parlare?
[...]
Detesto che l'unica risposta efficace che posso opporre a "i maschi fanno schifo" sia "be', ma io non sono un maschio". Mi sembra di tradire il ragazzo in tuta da baseball che stava seduto sul letto con me mentre cercavo di capire chi fossi, e i ragazzi che ho conosciuto e amato da dentro il mio corpo di ragazzo—che credevano di parlare con un ragazzo. Mi sembra di obliterare la storia del corpo nudo seduto sul pavimento della mia doccia. Il corpo che è andato al ballo di fine anno in smoking agognando i vestiti delle ragazze.
Perché non sono un ragazzo, ma ho avuto una giovinezza da ragazzo. Ho vissuto, e vivo tuttora, da ragazzo, e non posso certo mettere in pausa questa prospettiva quando si tratta di provocare un povero idiota chiamandolo fuckboi per poi dirgli che è proprio la rabbia che prova a dimostrare che è un fuckboi, o di umiliare un uomo con uno screenshot da OKCupid perché adesso abbiamo deciso di non fare distinzione fra quelli impacciati e quelli effettivamente minacciosi, in modo da raccogliere consenso sulla base della solidarietà. È assurdo. E si è diffuso come una metastasi.
[...]
Premettere un giudizio con le parole "non tutti gli uomini" dà ampio spazio a chiunque voglia farsi beffe di tutti gli altri. Ma la verità è questa: non tutti gli uomini sono quello che credete che siano. Uomo non significa quello che credete significhi.
Grazie al lavoro del collettivo Pirate Care e al supporto di Memory of the world, è ora disponibile online la collana ”Medicina e Potere”, edita da Feltrinelli e composta da trentadue volumi di autor* italian* e stranier* pubblicati fra il 1972 e il 1983.
Anna Maria Bruzzone è una figura atipica all’interno del panorama culturale italiano. Professoressa di lettere in un istituto magistrale di Torino, la sua vocazione è però quella della storica che, al di fuori della sua professione e al di fuori dell’accademia, vuole dare voce al mondo dei vinti. Nel 1968 è così a Gorizia, dentro l’ospedale diretto da Basaglia, per intervistarne i pazienti per la sua tesi di specializzazione in psicologia; nel 1977, in veste di volontaria dell’Associazione per la lotta contro le malattie mentali, è invece al Pionta, l’ospedale neuropsichiatrico di Arezzo, per testimoniare l’opera di smantellamento dell’istituzione portata avanti da Agostino Pirella e per intervistare gli ospiti del manicomio aretino, le cui testimonianze saranno alla base del volume edito da Einaudi nel 1979, Ci chiamavano matti. Voci da un ospedale psichiatrico.
In continuità con il suo interesse per gli esclusi dalla storia, nel 1976 intervista cinque ex detenute politiche italiane, che verranno poi date alle stampe nel volume Le donne di Ravensbrück, edito nel 1978. Vi vengono raccolte le testimonianze di 5 detenute politiche italiane nel più grande campo di internamento femminile della Germania nazista. È il campo composto da sottocampi di lavoro e prigionia, dove si consumarono sperimentazioni scientifiche aberranti su cavie umane. È il campo delle deportate politiche. Sono tedesche, italiane, polacche, francesi, rumene, rom. I nastri originali alla base del libro sono stati ritrovati da Silvia Calamai e sono ora custoditi presso l'Università di Siena – nel campus di Arezzo (insieme alle voci dei pazienti psichiatrici, altro importantissimo filone di ricerca di Anna Maria Bruzzone). A partire da questo ritrovamento e dalla digitalizzazione dei supporti analogici è nato il progetto Voices from Ravensbrück, finanziato da CLARIN-ERIC. In questo progetto il gruppo di ricerca transnazionale composto da Silvia Calamai, Stef Scagliola, Henk van den Heuvel, Arjan van Hessen, Christoph Draxler e Jeannine Beeken sta lavorando al censimento e all’analisi degli archivi orali contenenti le voci di Ravensbrück nelle diverse lingue in cui furono raccolti.
FATTO DA NOI
Sul nuovo numero di Leggendaria puoi leggere l’articolo “Podcast e femminismo: matrimonio perfetto”, scritto da Gloria.
FATTO DA VOI
Su Bottoni (podcast della Libreria Tamu) si può ora ascoltare una conversazione su La mano sinistra del buio con Nicoletta Vallorani e Chiara Reali (che delle sue scelte ci aveva già raccontato nella Ghinea di ottobre).
Su Singola, Paola Moretti scrive di Lina Meruane, Nona Fernández e Patricio Guzmán, e dell’“arte cilena della connessione”.
Giusi Palomba ha scritto un articolo molto importante sulla salute mentale.
Lə amicə di D Editore hanno pubblicato il primo romanzo di Marilena Votta, una storia di formazione femminile con elementi magici.
Grazie a Ludovica per averci regalato il suo pezzo e aver così contribuito al primo numero del 2022. Ci leggiamo fra un mese!
Francesca, Gloria e Marzia
Complimenti ragazze, bellissimo numero!