Benvenut@ a Ghinea, la newsletter che piange e non fattura. Questo mese vengono a trovarci Federica Buongiorno, che ci parla della recente serie Netflix incentrata su Mercoledì Addams, e Simona Iamonte, con un pezzo sull’artista algerina Baya. Buona lettura!
Una storia di donne: su Mercoledì di Tim Burton.
di Federica Buongiorno
[Attenzione! La trama della serie viene discussa con spoiler.]
[Alt Text: fotografia promozionale della serie Wednesday. Jenna Ortega, nei panni della protagonista, è fotografata a braccia conserte, con lo sguardo severo, mentre guarda dritto nell’obiettivo. Indossa un vestito vero castigato e un grande colletto bianco, e i capelli sono acconciati con le caratteristiche trecce lunghe della personaggia. Fonte.]
Da appassionata della lugubre famiglia ideata da Charles Addams nell’ormai lontano 1938, mi sono avvicinata all’adattamento Netflix di Tim Burton con un misto di esaltazione e circospezione. Esaltazione in parte nutrita dalla lunga – troppo lunga – attesa tra l’annuncio del progetto e l’effettiva uscita in streaming, scandita da una serie di “assaggi” promozionali a mezzo social assai promettenti; circospezione per le aspettative inevitabilmente altissime che una produzione del genere è in grado di suscitare.
In effetti, incentrare un’intera serie televisiva non sulla famiglia nel suo complesso – come accaduto sinora con i numerosi adattamenti in TV e al cinema –, ma sul solo personaggio di Mercoledì poteva rivelarsi un’arma a doppio taglio: per quanto Mercoledì sia sempre stata, insieme a Morticia, il personaggio più interessante e iconico della serie sin dai suoi esordi, farla rivivere oggi e per di più come protagonista assoluta significava per forza di cose confrontarsi con una serie di tematiche particolarmente sensibili nella vita e nella coscienza di una adolescente studentessa liceale: dalla percezione di sé come giovane donna in un mondo a trazione maschile, al confronto con i genitori borghesi e con le loro aspettative, al rapporto con un mondo esterno presunto “normale”, all’identità di giovane latina. Tematiche, queste, più scottanti oggi, in particolare nel contesto sociale e culturale statunitense, di quanto potessero esserlo negli anni ’60 (quando andò in scena la prima serie TV) o ancora negli anni ’90 (nei due film diretti da Barry Sonnenfeld, dove a interpretare Mercoledì era Christina Ricci, che nell’adattamento di Tim Burton riappare a interpretare il ruolo dell’antagonista). D’altronde, The Addams Family ha avuto sin dalle vignette originali (quando i personaggi erano ancora sprovvisti di nomi), il senso fondamentale di offrire una visione alternativa e dissacrante della società americana attraverso la lente specifica della famiglia, la cui versione normata e “normale” era evocata dalla messa in scena parodiante degli Addams, le cui stravaganze ne risignificavano criticamente alcuni aspetti chiave.
[Alt Text: vignetta di Chas Adams. Gomez e Morticia sono seduti su un sofà di fronte a un caminetto spento e si abbraccio. Il testo sottostante recita: “Sei infelice, tesoro?” “Oh sì, completamente”. Fonte.]
La serie TV trasmessa tra il 1964 e il 1966 offriva l’unica rappresentazione alternativa di famiglia rispetto alla codificazione standard nella TV popolare statunitense, fondata su una rigida differenziazione di ruoli che relegava la donna/madre nell’intimità privata della cucina e della sfera domestica, secondo uno stretto bigottismo sessuale (nessun riferimento esplicito e visibile alla sessualità/sensualità). La famiglia Addams raccontava qualcosa di assai diverso da questo standard: l’intesa tra Gomez e Morticia è esasperatamente sensuale, per non dire carnale; Morticia non svolge lavori casalinghi (anche perché la ricca famiglia Addams conta sul lavoro del maggiordomo Lurch) e non è per nulla subordinata al marito; Mercoledì non è solo una bambina petulante ma, soprattutto a partire dai film degli anni Novanta, talentuosa e particolarmente intelligente. Il rischio più grave, poi, era che Mercoledì venisse trasformata da Netflix in un remake iper-contemporaneo (e stucchevole) di se stessa, nel caso in cui gli showrunner non avessero trovato un modo convincente di renderla, per certi essenziali aspetti, anche resistente all’appropriazione da parte di discorsi tanto progressisti quanto, a volte, superficiali. Un maquillage di questo tipo, d’altronde, non sarebbe stato pienamente credibile da parte di Burton, che con la rappresentazione di alcune diversità ha un rapporto quantomeno complesso: il riferimento è alle polemiche scatenatesi nel 2016, in occasione della promozione di Miss Peregrine’s Home for Peculiar Children. In risposta alle critiche mossegli per la scarsa rappresentazione di “ethnic diversity” nei suoi lavori all’uscita del film, il primo di Burton con un attore di colore – Samuel L. Jackson – nel ruolo di protagonista, e per di più “cattivo”, il regista rispose tirando in ballo genericamente la questione del politically correct. Il risultato della confusa difesa fu un’ondata di polemiche e accuse di razzismo. Critiche analoghe si sono riattivate, sebbene in misura minore, in occasione dell’uscita di Wednesday, dove – si fa notare – i personaggi di colore sono solo due e di nuovo “cattivi”. È d’obbligo notare, tuttavia, che la cifra narrativa di Burton (che dirige, va ricordato, quattro degli otto episodi della serie) è complessivamente quella di una distinzione piuttosto sfumata tra “buoni” e “cattivi” e di una distribuzione alquanto decentrata di poteri e responsabilità. Prendiamo il caso di Bianca: definirla un personaggio “cattivo” in virtù del suo iniziale antagonismo con Mercoledì non rende giustizia alla complessità del personaggio, alla sua evoluzione nell’arco degli episodi e al suo ruolo per nulla marginale nell’economia complessiva della storia. La questione resta tuttavia aperta e sarà interessante osservare che soluzioni saranno offerte nella seconda stagione della serie.
Comunque la si metta, il cinema di Burton è da sempre – almeno nelle intenzioni, che bisogna poi commisurare all’eventuale riuscita – sistematicamente incentrato su figure di outsider, freak, o outcast: a essere determinanti sono, ogni volta, il modo in cui questi personaggi sono rappresentati e narrati, il tipo di soggettività che incarnano e le dinamiche metaforiche entro cui si muovono. Dunque, come è rappresentata questa nuova Mercoledì Addams? C’è un dato di partenza non trascurabile: l’attrice scelta per il ruolo. Nel caso specifico, Jenna Ortega è davvero straordinaria: è dotata di una mimica ed espressività potenti e variegate pur nel minimalismo dark che caratterizza il personaggio ed è “dentro” al ruolo, senza cali di tensione, per tutta la stagione (con punte eccezionali come nell’iconico ballo, ormai noto come “Wednesday dance”, divenuto virale sui social e ripreso anche da Lady Gaga). È la prima attrice latina a interpretare Mercoledì – un aspetto che la Ortega rimarca spesso nelle interviste: si tratta di un elemento, per lo più linguistico, che contribuisce a rendere la dinamica con Gomez complessivamente più interessante e credibile, sebbene in definitiva risulti integrato (e trattato) in maniera piuttosto superficiale nella storia e nella personalità di Mercoledì. Insomma, a parere di chi scrive Jenna Ortega offre qui la migliore versione di Mercoledì tra tutte quelle susseguitesi sinora.
Questa Mercoledì, poi, è interessante sotto diversi altri punti di vista: fortunatamente non diventa un’eroina iper-contemporanea, anzi a volte alcune lines femministe risultano un po’ vacue: gli aspetti convincenti stanno, in effetti, altrove. Burton fa di Mercoledì essenzialmente un’autrice: il carattere di autorialità che incarna e su cui la rappresentazione insiste in via primaria è forse il più complesso. Mercoledì è una scrittrice che racconta la sua storia. Non scrive un diario intimistico e privato, ma un vero e proprio romanzo per la pubblicazione – essendo ben consapevole delle difficoltà che potrebbe incontrare nel confrontarsi con l’industria editoriale (durante una seduta di psicoterapia afferma tagliente: “Editors are short-sighted, fear-based life forms [“Gli editor sono forme di vita miopi, guidate dalla paura]”). Non scrive al computer ma su una elegantissima macchina da scrivere rigorosamente nera: ciò esprime la sua diffidenza verso la tecnologia contemporanea, tanto da sostenere, riguardo ai social network e all’attività da influencer della compagna di stanza Enid: “I find social media to be a soul-sucking void of meaningless affirmation (“Trovo i social media un abisso succhia-anima di conferme senza senso”) – salvo poi accettare, nell’ultima puntata, un iPhone in regalo da Xavier, uno dei compagni di Accademia, che diventa il tramite tecnico con cui gli autori preannunciano la seconda stagione della serie.
Mercoledì è quantomeno annoiata per non dire esasperata dal rapporto coniugale esageratamente romantico dei genitori: si tratta di un aspetto interessante in prospettiva generazionale. Se nel 1964 e in parte ancora negli anni ’90 il rapporto stucchevolmente affettuoso e sensuale di Gomez e Morticia poteva risultare sconvolgente per società abituate alle censura del sesso e al perbenismo borghese, per la Mercoledì adolescente oggi questo rapporto non è più abbastanza, per un verso, ed è decisamente troppo, per un altro. È troppo, perché evidentemente Mercoledì cerca di dissociare l’immagine di sé come giovane donna dalla sfera puramente emotiva e sentimentale; e non è abbastanza, perché interesse e desiderio non sono più rivolti al legame coniugale nel senso tradizionale. “I will never fall in love, be a housewife or have a family (“Non mi innamorerò mai, non sarò mai una casalinga né avrò una famiglia”), afferma risoluta a sua madre con l’intento di marcare la differenza tra due tipi – e due generazioni – di donne, peraltro in evidente continuità sotto altri aspetti. Questo distacco dalle emozioni non suona come mera dissociazione psichica o come ricaduta nel cliché stantio della donna diabolica perché non “santa”, accogliente e sentimentale: è piuttosto una rivendicazione programmatica, una scelta nel tentativo di costruire sé stessa e la propria storia. Perciò, la vediamo essere cinica, anti-romantica, strumentale nei rapporti (impara l’italiano in omaggio alla sua ammirazione per Machiavelli), fredda e a tratti calcolatrice, senza con ciò risultare uno stilema o una caricatura riconducibile a facili tipizzazioni del femminile.
In verità, a risultare meno convincente è proprio l’aspetto “redimibile” e addomesticabile di Mercoledì, quello che nel corso della narrazione disegna una traiettoria di cambiamento “in positivo” (per quanto controllato): è infatti il più esposto a banalizzazioni e semplificazioni “buoniste”. Questo rischio non è del tutto scongiurato da Burton, che sembra voler comunque rassicurare gli affezionati ai buoni sentimenti e ai ruoli canonici mostrandoci che anche Mercoledì ha un cuore e suggerendo che un riavvicinamento alla parte emotiva di sé sia necessario. Così, Mercoledì finisce per riconoscere (certo, a suo modo) il valore dell’amicizia e anche dell’amore, entrando in una dinamica di attrazione e innamoramento per il giovane normie Tyler. A ben vedere, però, c’è un elemento niente affatto scontato a modulare questa progressiva e personale trasformazione: Mercoledì entra in questi rapporti esplicitando e ponendo le sue condizioni, e queste coincidono di fatto con il mantenimento del proprio spazio di autonomia e di iniziativa. Emblematica in tal senso è la scena in cui Mercoledì divide in due, letteralmente, la stanza che condivide con Enid, tracciando un confine a terra. Non si tratta di una ottusa ed egoista separazione tra un sé e l’altro, tra un proprio e l’altrui, di una forma cioè di rifiuto ed esclusione, anche perché la scena si svolge tra pari: entrambe sono a Nevermore, l’accademia per giovani studenti e studentesse dai poteri più che umani, in quanto outcast, secondo la loro stessa definizione, e dunque non conformi ai criteri dei normie (delle persone “normali”) che abitano, in particolare, la cittadina di Jericho (nel cui territorio si colloca Nevermore). La scena esprime piuttosto la consapevolezza della propria posizione e della possibilità (e necessità) di porre le proprie condizioni di esistenza, per eventualmente negoziarle alla pari. Per gli stessi motivi Nevermore non è rappresentata come un istituto di correzione, ma come un luogo in cui studenti e studentesse coltivano il loro sé, i loro interessi e capacità, imparando a usarli a dispetto dello sguardo giudicante dei “normali”. Interessante è anche l’ibridazione che vediamo progressivamente realizzarsi: pian piano scopriamo che insospettabili normie discendono da outcasts, così che Jericho – il fuori di Nervermore – a un certo punto sembra trasformarsi in un dentro di cui è piuttosto Nevermore a essere il fuori.
In definitiva, non c’è un valore “standard” a imporsi e tantomeno a trionfare in questa storia, anche se Burton sembra suggerire un senso abbastanza preciso: nell’ostinazione con cui Mercoledì ricerca nelle sue investigazioni (e di conseguenza nel romanzo che scrive e che fa da impalcatura narrativa) la “verità” dei fatti, sembra esserci la volontà di riparare all’ingiustizia storicamente subita dagli outcasts come gruppo sociale, patita per la violenta persecuzione messa in atto dai “normali” (non mancano, al riguardo, i riferimenti al dibattito odierno sulla “cancel culture” negli USA). Abbiamo qui una chiave interpretativa esplicita; ce n’è però un’altra, implicita in questa e a mio avviso più interessante. In questa serie, Mercoledì non ha – a differenza della maggioranza degli altri personaggi e specialmente dai suoi compagni e compagne di Accademia – alcun super-potere “operativo”. In altri termini: non fa accadere cose. I suoi successi investigativi sono per lo più frutto del suo ingegno. C’è una sola capacità potenziante che la caratterizza: quella di avere visioni di fatti accaduti nel lontano passato o che stanno per accadere nell’immediato futuro (tratto, questo, che la pone in continuità con sua madre, Morticia). Questa capacità la colloca in una storia che non è più solo personale e che si estende ben al di là del qui e ora: in particolare, la inserisce in una concatenazione di figurazioni femminili che risalgono, passando da sua madre, a un passato ancestrale che culmina nell’identificazione con l’antenata Goody – rappresentata, non a caso, dalla stessa Jenna Ortega –, capostipite della ribellione e della resistenza degli outcast. In questo senso, prima (e più) che essere un teen-drama “Mercoledì” è una storia di donne. Quello della donna visionaria è certamente un topos narrativo, ma Mercoledì non è solo una Cassandra, profetessa di sventure: nelle sue visioni è sempre contenuta anche la soluzione (o un frammento di soluzione) all’enigma non solo del caso investigativo, ma anche della storia intergenerazionale di cui il caso è figurazione. Nell’ultima puntata, Goody si “trasferisce” in Mercoledì per riportarla in vita, incorporandosi in lei: così facendo, la avverte, non si sarebbero più riviste. D’altronde, a questo punto il passato si è prolungato materialmente nel presente riportandolo letteralmente in vita per continuare una lotta che, prima di essere la lotta degli outcasts, è in primo luogo una lotta delle outcast, donne, e delle loro molteplici reincarnazioni, che tessono una storia non ancora risolta.
Federica Buongiorno insegna Filosofia teoretica e Fenomenologia della tecnologia al Dipartimento di Filosofia dell’Università di Firenze. Ha lavorato per molti anni come ricercatrice in Germania (tra Berlino e Dresda) ed è traduttrice dal tedesco. Si occupa di fenomenologia, filosofia della tecnica e femminismo. Puoi seguirla su Instagram.
La vita sessuale segreta delle donne trans, un articolo intelligente e che risponde a domande che sbagliamo a non farci, ci facciamo male, o alle quali è difficile trovare risposte, firmato da June Scialpi per il nuovo sito del collettivo transfemminista L’Altrosessuale.
A proposito di capitalismo cannibale.
Sulle donne che hanno partecipato alla Comune di Parigi.
Giustizia per gli animali non umani: una conversazione con Martha C. Nussbaum.
Le Grandi Dimissioni, il telelavoro che ci costringe a essere sempre conness* e disponibili, e tante altre spie di un modello che deve cambiare in fretta.
Come accogliere al meglio le donne migranti nei rifugi antiviolenza.
Elisa Cuter scrive di Contro la sinistra neoliberale di Sahra Wagenknecht.
FATTO DA VOI
Nella sua newsletter, Sara Del Giudice scrive di Guillermo Del Toro's Pinocchio.
UN’ARTISTA
Baya Mahieddine. La pittura e il ricordo.
di Simona Iamonte
[Alt Text: foto-ritratto a mezzo busto della pittrice algerina Baya Mahieddine,1998. Foto proprietà della Elmarsa Gallery (Tunisi, Dubai).]
Donne danzanti, deliberatamente espressive, immerse in ambienti neutri monocromatici ed occasionalmente decorati. Deliri onirici, quasi psichedelici, movimentate visioni che attingono dalla vita personale di una delle più celebri artiste africane del ‘900.
Conosciuta nell’ambiente artistico con il nome di Baya, Fatima Haddad, nata il 12 dicembre del 1931 a Bordj El Kiffan, è un’artista algerina dell’antica regione della Cabilia.
Della sua infanzia e della sua vita privata, oltre che dei suoi sviluppi come artista, si conosce poco. Della sua storia personale sappiamo che entrambi i suoi genitori persero la vita quando Baya aveva solo cinque anni. Crebbe con la nonna che non poteva permettersi di mandarla a scuola così, all’età di undici anni, la ragazzina iniziò a lavorare come serva per Marguerite Caminat Benhoura, una donna benestante francese che apparteneva al mondo culturale parigino. La ricca signora si prese cura per molti anni della piccola Baya, immersa in un ambiente intellettuale stimolante, Caminat infatti aveva una vasta collezione di dipinti, tra cui opere di Braque e Matisse. Più avanti nella vita Baya si sarebbe riferita a Marguerite come a una madre adottiva, che si rese conto dell’attitudine creativa della giovane artista vedendola modellare l’argilla con particolare entusiasmo. Marguerite prese sul serio l’interesse di Baya e le procurò colori e carta per dipingere, spronandola a esprimersi attraverso la pittura e introducendola nel contesto degli atelier artistici francesi di Algeri.
[Alt Text: “Femme et oiseau en cage” Gouache su tavola, 1947. A destra una figura di donna vestita di giallo passa il tempo con alcuni uccelli, presumibilmente pavoni, di cui uno in gabbia, mentre sono accolti da forme colorate che ricordano le piante.]
Quando Baya ha sedici anni, la collezionista Aimé Maeght ne notò i dipinti durante una visita presso l’atelier dello scultore francese Jean Peyrissac, e la invitò a esporre nella sua galleria di Parigi.
L’esposizione fu un successo, i suoi lavori furono inclusi nella mostra dal titolo “Second Surreal Exhibition” nel luglio 1947 che comprendeva molti altri artisti del panorama elitario culturale della Parigi del dopoguerra come Braque e Matisse. In quel periodo fu notata da Picasso che la invitò nel suo Atelier Madura a Vallauris, dove lavorarono in reciproco scambio alle ceramiche. Picasso amava le forme energiche e vibranti dell’artista algerina, si dice che i suoi lavori ispirarono la famosa serie "Donne di Algeri" dai colori accesi e vitali.
In occasione della seconda mostra parigina di Baya, sempre presso la galleria Maeght nel Novembre del 1947, André Breton, poeta, scrittore, e teorico della corrente artistica del surrealismo, scrisse il testo di accompagnamento alla mostra, esaltando le forme naif e sgargianti e le decorazioni bambinesche dei gouache. La presenta al pubblico come una sorta di stella nascente della pittura e esalta le qualità “esotiche” (agli occhi degli occidentali) delle sue donne, paragonando i dipinti ad immagini che scaturiscono da racconti di Le Mille e una Notte e scrive:
Prosegue Breton:
Leggendo questa bellissima introduzione, si capisce il tono entusiasta e forse un pizzico idealizzante di Breton, che racconta di un fenomeno sconosciuto agli occhi europei di metà ‘900: arte che suscita meraviglia al solo sguardo ed esalta e fa sognare le menti di artisti e spettatori, portandoli con uno schiocco di dita, lontano da Parigi.
Sicuramente quello che Breton voleva esternare è lo stupore dell’immergersi completamente in una cultura distante, leggendo quei disegni attraverso gli occhi dell’élite occidentale, ricca di stupore e meraviglia, sogno ed immaginazione, creando un mondo quasi fantastico ma “tradotto” secondo la fantasia occidentale.
Non è strano ancora oggi, percepire l’arte orientale, o generalmente non europea, come esotica, lontana, misteriosa, ed è anche questa la bellezza dell’imbattersi in opere a margine della storia dell’arte. Molto spesso, quello che a noi europei manca, sono le giuste lenti con il quale aprocciare un linguaggio intricato come la pittura, ancora di più se gli elementi artistici non ci sembrano per nulla familiari. Dimentichiamo troppo spesso che quello che può apparici “esotico” è semplicemente la quotidianità dell’altro, o il suo mondo più intimo ed interiore che prende forma attraverso un processo di vita e di esperienze reali che sono espresse attraverso un linguaggio organico e unico, composto da figure, colori e forme.
Per esorcizzare lo sguardo esotizzante occidentale è quindi bene riconoscere di avere un filtro quando siamo in presenza di opere che “parlano” una lingua artistica non europea, da qui possiamo aprirci e riconoscere l’elemento di quotidianità nei dipinti “esotici” e dopo lasciarci trasportare e fantasticare sulle storie che potrebbero narrare le immagini. In fondo la pittura è anche questo: illusione, tensione tra quello che è e ciò che potrebbe essere.
[Alt Text: la giovane Baya a sedici anni, nel 1947, presso la Galleria Maeght di Parigi. Foto di Arik Nepo per Vogue Paris. L’artista posa con alle spalle l’esposizione dei suoi lavori su carta e alcuni lavori in ceramica poggiati sul pavimento.]
[Alt Text: Special Issue della rivista Derrière le Miroir intitolata “Exposition Baya” del Novembre 1947, stampa litografica con in copertina un lavoro di Baya, con all’interno la prefazione di André Breton. Una figura femminile danza in primo piano con un ampio vestito decorato. Attorno alla figura sembrano danzare anche gli alberi e le case, anche loro decorati e colorati.]
Nonostante l’artista abbia iniziato la sua carriera in Francia, non abbandonò mai la sua Algeria, nemmeno in tempi di tumulto sociale e politico. Nel 1953, sposò il famoso musicista El Hadj Mahfoud Mahieddine in un matrimonio combinato, e da lui prese il cognome continuando la sua carriera come Baya Mahieddine.
Tra il 1953 ed il 1963, Baya smise di dipingere, secondo alcuni, per accudire i suoi sei figli, secondo altri per mostrare solidarietà alla rivoluzione algerina in seguito allo scoppio della Guerra d'Algeria.
Negli anni ‘60, Mahieddine riprese la sua produzione artistica, questa volta ispirata anche dal lavoro del marito: per la prima volta nei suoi dipinti, appaiono strumenti musicali di varie forme e decorazioni, a fiato o a corde, mischiati alle sinuose e divertenti figure danzanti accompagnate da uccelli e fiori.
[Alt Text: “The Musicians” (1988) gouache su cartone. Due figure vestite e agghindate di blu suonano degli strumenti musicali mentre degli uccelli volano attorno a loro.]
Scrivere di Baya Mahieddine vuol dire scrivere di un’artista complessa, che non può essere facilmente localizzata, sia geograficamente che artisticamente. È sia connessa che disconnessa tanto dalle antiche tradizioni magrebine quanto dalla modernità parigina.
Forse la fama che ottenne verso la metà del XX secolo nella avanguardista Francia potrebbe essere vista come un punto di incontro tra i colonizzatori francesi e la creazione artistica e culturale del paese invaso.
Ma la cultura modernista europea non definisce la pratica pittorica di Mahieddine, che fino all’ultimo, rifiuta ogni interpretazione decolonizzante nelle sue opere e celebra l’appartenenza al proprio mondo interiore.
Il problema della decolonizzazione culturale nei musei si è fatto prepotente negli ultimi anni, soprattutto in Francia che presenta diverse collezioni artistiche, soprattutto di arte e manufatti africani, spingendo artisti, storici e anche le cariche alte dello stato ad interrogarsi sulla loro presenza in queste collezioni e a prendere provvedimenti al riguardo. Nonostante in Europa siano presenti diversi musei con opere non europee, che è sicuramente un ottimo modo di mostrare l’arte estera per spirito di ricerca e conoscenza etnografica, non è allo stesso modo chiaro come in questi musei non sia mai citato il contesto colonizzate per il quale quelle opere siano presenti in un territorio a loro estraneo.
Non è sicuramente un male avere musei o collezioni orientali in territori occidentali, anzi, è un bellissimo modo di entrare in contatto con diverse culture e finalmente uscire dall'euro-centricità culturale, quello che manca però, è chiarezza sul perché e il come queste opere si trovino alla nostra fruizione più diretta e che queste opere vengano mitizzate e etichettate come “primitive”, facendole automaticamente sembrare inferiori all’arte europea degli stessi secoli.
[Alt Text: “Senza titolo” ceramica dipinta. Una figura dal vestito decorato è di fronte ad una sorta di fontana bassa gialla. Quello che potrebbe sembrare un serpente le si stringe attorno al corpo.]
Le forme sinuose, le decorazioni grossolane eppure così eloquenti, persino la tavolozza cromatica parla la lingua visiva del Mediterraneo: tra rosa caldi ed azzurri cristallini per arrivare a lussureggianti verdi e ridenti gialli. Tutto nelle pitture di Baya parla di appartenenza a se stessa, un luogo ben definito.
Nonostante l’impatto culturale che le sue opere hanno portato sia in Africa che in Europa, Baya si è sempre voluta distaccare da classificazioni come “surrealista”, “outsider” o “naif” preferendo dichiararsi fedele alla propria indipendenza creativa, senza il bisogno di definire la sua arte.
[Alt Text: “Femme au paon” 1947, gouache su carta. A sinistra la figura di un pavone blu si accosta alla figura di destra di una donna della quale si riconoscono l’occhio e le labbra rosse.]
Nel suo saggio "Baya, le regard fleur”, la scrittrice, poetessa e saggista algerina Assia Djebar ci dona un’altra lettura dell’opera di Mahieddina, dal tratto più femminista. Djebar mette in risalto le composizioni degli occhi allungati e penetranti dei personaggi femminili, in cui la scrittrice vede la metafora della liberazione sia dalla visione occidentale che di quella islamica delle donne, in particolare delle donne nordafricane:
L’altra questione che porta alla luce Djebar è l’assenza di uomini nella composizione. Forse, da quando Baya si è sposata, gli strumenti musicali sono il simbolo maschile, forse sono solo strumenti. L’artista non ha tutte le risposte sul perché di questa assenza nel suo schema artistico, ma cerca di spiegarlo con il bisogno impellente di ricordare sua madre:
[Alt Text: “Femme robe jaune chaveux bleus” 1947, gouache su tavola. In primo piano una figura maestosa di donna vestita di giallo, decorata di figure di pavoni blu e rossi. ai suoi lati due piante dalle foglie larghe.]
In vita, l’artista fu emarginata dalla scena pittorica algerina del dopoguerra, che preferiva l’arte tradizionale antica delle miniature, codici miniati e calligrafie, e solo in anni più recenti le venne attribuito il giusto riconoscimento per aver contribuito alla cultura del proprio paese. Baya Mahieddine morì nel 1998 in Algeria. Negli anni che seguirono, le sue pitture furono esposte sia in Nord Africa che in Europa e, nel 2008, le poste algerine usarono un ritratto fotografico dell’artista ed alcuni gouache per omaggiarla. Tutti i francobolli ora fanno parte della collezione permanente del Museo Nazionale di belle Arti di Algeri.
[Alt Text: Francobollo algerino con il ritratto fotografico di Baya Mahieddine]
[Alt Text: Francobollo algerino con il dipinto “Protection of mother and child” (1969) della pittrice Baya Mahieddine.]
Nel 2022 la Biennale di Venezia dal titolo “Il Latte dei Sogni”, curata da Cecilia Alemani, ha dedicato una porzione del Padiglione Centrale nei Giardini a tre grandi gouache su cartone dell’artista algerina, assieme a molte altre artiste ed artisti del panorama contemporaneo che hanno lavorato sul tema del sogno esprimendosi attraverso un linguaggio surrealista. Con tre dipinti del 1947: “Femme robe jaune cheveux bleus”, “Femme robe à chevrons” e “Femme au panier et cocoq rouge”, le stesse opere esposte durante la “Seconda Esposizione Surrealista” che, in questo contesto, hanno anche segnato la prima presenza dei lavori dell’artista in un’esposizione in Italia.
Per approfondire il lavoro dell’artista algerina, è possibile consultare il sito della Dalloul Foundation.
[Alt Text: foto dell’installazione presso il Padiglione Centrale di Venezia in cui si vedono diversi dipinti, tra i quali i tre centrali sono dell’artista Baya Mahieddine.]
Simona Iamonte vive a Torino e lavora come illustratrice e pittrice. Puoi seguirla su Instagram.
Grazie a Federica e Simona per il loro contributo. Ci leggiamo fra un mese!
Un abbraccio!
Francesca, Gloria e Marzia