Benvenutx a Ghinea, la newsletter che vuole bene a due mici di nome Oban e Kirin. Questo mese pubblichiamo un estratto da una recente uscita della casa editrice 66thand2nd, che ringraziamo. Inoltre, Chiara Lombatti scrive del romanzo The witches of New York di Ami McKay e Rebecca Santimaria del film Nudo Mixteco di Ángeles Cruz. Buona lettura!
Fondamentali. Storie di atlete che hanno cambiato il gioco di Giorgia Bernardini, Olga Campofreda, Elena Marinelli, Tiziana Scalabrin e Alessia Tuselli (66thand2nd)
di Giorgia Bernardini
[Alt Text: la copertina illustrata del libro raffigura un paio di gambe femminili dal ginocchio in giù. Il piede destro calza una scarpa sportiva con lacci, che la mano destra annoda, mentre il piede sinistro calza un sandalo con tacco e zeppa che mostra le dita. La mano sinistra sta stendendo lo smalto sull’unghia dell’alluce. Tutt’attorno prodotti di cosmesi e attrezzi sportivi.]
La prima scrittrice italiana ad approcciarsi al giornalismo sportivo è stata Anna Maria Ortese, che nel 1955 ha raccontato il Giro d’Italia per l’«Europeo». La singolarità di questa presenza è testimoniata dal fatto che Ortese abbia scelto di imbacuccarsi con un copricapo per nascondere le sembianze femminili in un ambiente occupato principalmente da uomini. In quel periodo storico celare il proprio aspetto o cambiarlo del tutto non era insolito per una donna che tentava di accostarsi al mondo dello sport. Nel 1966, per esempio, siccome alle donne era vietato parteciparvi, Roberta Gibb si presentò alla partenza della maratona di Boston indossando gli indumenti del fratello, per passare inosservata e concorrere insieme agli uomini. Questi sono solo due degli esempi più noti di come le donne, sia per praticare sport ad alto livello sia per scrivere di sport, abbiano dovuto fare i conti con la scomparsa di sé. Un fenomeno con cui sono chiamate a misurarsi spesso: in àmbito familiare e lavorativo, ma poi nella vita in generale, e che si ritrova anche nelle competizioni, perché lo sport è solo uno dei tanti specchi della società in cui viviamo.
Esistono, è vero, alcune eccezioni, come già Anna Maria Ortese, che hanno tracciato una strada alternativa per le donne nello sport. Ci sono ad esempio giornaliste che hanno avuto ampia visibilità e hanno fatto la storia del giornalismo sportivo in Italia, come Emanuela Audisio sulle pagine dei quotidiani o Simona Ventura nelle trasmissioni televisive, o ancora atlete che hanno riempito pagine nei giornali e hanno avuto visibilità in televisione, come Fiona May o Paola Egonu. Ma il loro ruolo di «superstar» è ancora un risultato straordinario, nel senso di fuori dall’ordinario. Bisogna dirlo e metterlo in evidenza se si vuole ragionare sul contesto in cui le donne ancora oggi si muovono nel mondo dello sport. Alle spalle di alcune personalità famose ci sono innumerevoli atlete, di alto livello, che tutti i giorni si allenano e vincono ma rimangono nelle retrovie, condannate al disinteresse del grande pubblico. Così come ci sono scrittrici valide che cercano spazio senza trovarlo, come se lo sport e il giornalismo sportivo fossero saperi trasmessi con il Dna, maschile naturalmente. Senza contare le volte in cui le proposte sugli sport cosiddetti «minori» sono rifiutate dalle redazioni perché «l’argomento è troppo specifico e non c’è un pubblico abbastanza ampio». Perciò non fa notizia la medaglia d’oro dell’Italia al Mondiale di basket 3x3 femminile, mentre anche l’informazione più periferica sul calcio (maschile) riceve attenzione. Eppure il processo dovrebbe svilupparsi secondo il binario contrario: non è che una storia si racconta perché si ha già un pubblico, ma è dal racconto che nasce il pubblico che vorrà conoscerlo. È un cortocircuito che vale in tanti ambiti ma che colpisce troppo spesso la narrazione dello sport femminile. Del resto la Coppa del Mondo di calcio del 2019 a Parigi, in cui la nazionale femminile italiana ha raggiunto i quarti di finale, ha dimostrato che esistono grandi fette di pubblico disposte a seguire la metà del mondo sportivo meno conosciuta, se quello che vedono intrattiene e diverte.Il 2019 è stato un anno grandioso per il calcio femminile e di conseguenza per alcuni degli sport femminili più popolari, che hanno beneficiato dell’attenzione mediatica che le calciatrici di tutte le nazionali hanno ottenuto grazie ai Mondiali. Nessuno meglio di Megan Rapinoe è riuscita a intercettare quello che è successo in Francia quando ha affermato che nello sport femminile solo le imprese più straordinarie danno visibilità e credibilità al movimento.
Per le donne, nello sport come in tutti gli altri settori, è necessario raggiungere vittorie clamorose per uscire dall’oscurità e ottenere l’ascolto che nello sport maschile appartiene alla preistoria. È anche grazie alla vittoria in quel Mondiale che la nazionale di calcio femminile americana ha finalmente ottenuto l’equal pay, vale a dire lo stesso trattamento economico della nazionale maschile. Non erano bastate fino a quel momento tre Coppe del Mondo (a fronte delle zero della nazionale maschile) per ottenere la parità. È stato necessario vincerne una quarta e contare su oltre sessantamila spettatori che in finale all’unisono avevano urlato in coro dagli spalti «e-qual-pay-e-qual-pay» a sostegno di un risultato che nessun tribunale aveva voluto confermare.
Guardando all’Italia, se la Serie A di calcio femminile ha ottenuto lo status di professionismo per le atlete nel luglio del 2022 è anche perché in quel Mondiale parigino l’approdo ai quarti di finale ha dimostrato che anche le Azzurre meritavano di non essere più considerate dilettanti. È probabile però che, se i risultati di Parigi fossero stati diversi, questo riconoscimento sarebbe arrivato molto più tardi.
Ma perché si è dovuto aspettare fino al 2022 quando i calciatori uomini erano professionisti da anni? La risposta generica è che il calcio maschile muove molto più denaro di quello femminile, che è un sistema in grado di sostenersi da solo. Basta però grattare la superficie per vedere l’iniqua diversità con cui vengono trattate le calciatrici rispetto ai loro colleghi maschi. Sara Gama si batte da sempre per cambiare lo stato delle cose, e il suo celeberrimo discorso al Quirinale nel 2018, davanti al presidente Mattarella, è la conferma che il movimento calcistico femminile è consapevole di questo trattamento ingiusto, e che per molte atlete il fatto stesso di mettere un piede dentro al campo da gioco ha significato condurre battaglie che la maggior parte dei calciatori non ha dovuto affrontare. In queste battaglie Sara Gama emerge per la rilevanza politica delle sue azioni. Quando sostiene, per esempio, che il riconoscimento dei diritti nel calcio femminile italiano è un continuum temporale in cui ciascuna giocatrice percorre un pezzettino di strada e passa il testimone, dopo aver conquistato diritti per sé e per le ragazze che verranno.
Quello che Rapinoe e Gama, e molte altre atlete con loro, cercano di ottenere con le vittorie e le azioni fuori dal campo, non è altro che l’equità. Chiamare le atlete con i loro nomi, farle competere fornendo loro le giuste tutele, mettere in vendita le loro magliette sullo stesso stand dove sono appese quelle dei colleghi maschi, sono tutti elementi che fanno emergere lo sport femminile dal buio in cui si è mosso per anni. Lo stesso vale per la scrittura delle donne sulle donne, nello sport. Non è facile interessarsi a qualcosa che non si conosce, ma non è nemmeno facile conoscere qualcosa che non ha visibilità. Scrivere di sport significa rendere visibile un fenomeno reale, portarlo alla luce perché venga conosciuto e vissuto da tutti. Farlo senza avere coscienza delle questioni sociali e politiche che pulsano dentro a un campo è impossibile.
Una lista curata e aggiornata di testi femministi palestinesi.
Racconti intermittenti da Gaza: i messaggi di Mona Ameen, studiosa e ricercatrice, tradotti in italiano dalla sua collega e amica Federica Cavazzoni. Verso Books raccoglie invece sul suo sito testimonianze che (forse) non troverebbero spazio altrove.
Per una salute queer.
Il dibattito sul corpo di Lia Thomas.
Non si può più dire niente? Ne parlano a lungo le amiche di Interstizi nel loro ultimo numero.
Tamara ci ha segnalato una sobria lettura sulla misoginia interiorizzata che spinge molte di noi, ancora!, a reputare un uomo più preparato e competente di una donna.
Qui puoi leggere, e se vuoi sottoscrivere, la lettera aperta con cui Non Una Di Meno e una rete di associazioni e artiste femministe criticano la mostra Artemisia Gentileschi. Coraggio e la passione in corso al Palazzo Ducale di Genova. Una mostra che non abbiamo visitato ma che, stando alla lettera e ad alcune recensioni riportate al link, maneggia con estrema incuria il tema della violenza sessuale e di genere. Su Exibart Noemi Tarantini, firmataria, fornisce di questo approccio più di un esempio:
A metà del percorso espositivo troviamo sotto teca i documenti originali del processo, provenienti dall’Archivio di Stato di Roma, affiancati da pannelli che raccontano le torture subite dalla pittrice, secondo una prassi diffusa nel Seicento allo scopo di verificare l’attendibilità delle parole di testimoni e imputati. Un presagio dell’orrore che di lì a poco si sarebbe dispiegato davanti a me, senza neanche un doveroso disclaimer a prepararmi. Attraverso un’installazione immersiva si mette in scena il momento dello stupro: un’attrice interpreta con pathos la descrizione della violenza che Artemisia pronunciò nel 1612 di fronte ai giudici del Tribunale del Governatore di Roma. C’è un vero letto al centro della stanza, su cui si scatenano tuoni e fragori. Alle pareti si proiettano una finestra, i manoscritti, le opere dell’artista grondanti di sangue. La violenza viene spettacolarizzata avvalendosi dei linguaggi televisivi del più becero dei talk show. È probabilmente la materializzazione più letterale del concetto di pornografia del dolore, che indugia sull’atto criminale nei suoi dettagli più macabri, alla stregua di un escamotage narrativo qualsiasi.
CALENDARIO
Nell’ambito della rassegna Indocili, organizzata per promuovere i lavori di cineast* under 35, il 5 marzo verranno proiettati al cinema Beltrade di Milano il cortometraggio Il mare che non muore (Caterina Biancucci, 2021) e Zweisamkeit (Lilian Sassanelli, 2022), due pellicole accomunate dall’esplorazione della memoria privata e familiare. A questo link puoi ascoltare una breve intervista a Caterina Biancucci, che presenta il proprio film.
UN LIBRO
The Witches of New York: Le femministe sono le streghe della Gilded Age
di Chiara Lombatti
Nonostante la narrativa contemporanea, soprattutto americana, veda un numero sempre maggiore di opere letterarie che raccontano storie di streghe ambientate nella Gilded Age (in primis, The Age of Witches di Louisa Morgan), tale combinazione di elementi narrativi passa pressoché inosservata. Il romanzo The Witches of New York dell’autrice americana Ami McKay, pubblicato nel 2017, dà un importante contributo per approfondire l’uso dell’archetipo della strega in una cornice storica a 200 anni dall’ultima testimonianza di processi alle streghe.
[Alt Text: Copertina dell’edizione americana del romanzo The Witches of New York (2017) di Ami McKay. Crediti: Harper Perennial.]
L’opera, indirizzata ad un pubblico young adult, presenta un punto di vista originale sulla stregoneria come topico letterario, utilizzando la strega come elemento legato al genere fantasy ma soprattutto come metafora formativa a sostegno dell’emancipazione femminile. Trattandosi di un messaggio di alta portata sociale, l’autrice sente la necessità di dare verosimiglianza alle vicende magiche narrate, inserendole in una cornice storica funzionale tanto alle tematiche trattate quanto all’oggetto del messaggio formativo trasmesso al punto da risultare prevalente rispetto all’elemento fittizio: la Gilded Age.
Periodo storico che separa gli anni della guerra di secessione americana e l’avvento del XX secolo, si tratta di un’epoca tanto ricca di innovazioni tecnologiche, urbanistiche e industriali quanto di povertà e disuguaglianza sociale. Tuttavia, per le donne rappresenta un momento di svolta in quanto, stanche del culto della domesticità e l’oblio sociale imposto dal patriarcato, iniziano a lottare per affermarsi come individui nella società senza dipendere necessariamente da un uomo. Un importante contributo viene dato dallo Spiritismo, credo religioso del tardo ‘800 che mostra diversi punti di contatto con il movimento femminista e il cambiamento di prospettiva sul ruolo della donna nella società del periodo. Come afferma Ann Braude nel suo libro Radical Spirits (2008), lo Spiritismo elegge quelle che l’immaginario collettivo riconosce come caratteristiche e virtù delle donne (in particolare la loro “sensitività”) a qualità ideali per l’attività medianica, consentendo loro di ricoprire un ruolo di leadership pubblica, senza violare i valori riconosciuti dal culto della vera femminilità, come purezza, pietà, passività e vita domestica.
Tale cambiamento nell’immaginario della donna porta all’introduzione, a livello sociale come in letteratura, della New Woman, la donna agente del proprio destino e con maggior libertà di espressione. Come spiega lo storico Daniel Gifford in un’intervista allo Smithsonian Magazine, l’affermarsi di tale figura si riflette anche nella rappresentazione della strega, ritratta fino ad allora come una donna malvagia ed esteticamente inquietante – vedete le Weird Sisters del Macbeth di Shakespeare o Morgana nelle narrazioni del ciclo arturiano. Nel primo ‘900, invece, la strega comincia ad essere ritratta come giovane donna dall’aspetto avvenente che utilizza le proprie abilità speciali per aiutare e non distruggere, come nel caso di Glinda nel romanzo The Wonderful Wizard of Oz di L. Frank Baum o di Eleanor St. Clair nello stesso The Witches of New York di Ami McKay.
[Alt Text: E. H. Clapsaddle, New Woman - New Witch, 1900 in M. Gambino, “Women of the Early 1900s Rallied Behind Beautiful, Wartless Witches” in Smithsonian Magazine, 27 ottobre 2014.]
Seguendo il modello di L. Frank Baum, Ami McKay riproduce tale evoluzione nel ritratto della strega mostrandone entrambe le connotazioni attraverso l’uso di una narrazione che alterna varie prospettive nel corso dei capitoli.
Da un lato, quando le vicende vengono narrate dagli inquisitori - personaggi prevalentemente maschili che concepiscono la stregoneria come sinonimo della magia nera - la strega è rappresentata in chiave tradizionale e oscura: una donna di basso rango e dall’aspetto inquietante che si lega volontariamente al demonio e porta disgrazie attraverso incantesimi, pozioni e rituali.
Questo è il caso di Lena McLeod, una giovane donna di origine scozzese rimasta vedova e assunta come domestica dal signor Robert Beadle. La giovane non fa menzione della propria natura di strega né il padrone di casa ne ha certezza, tuttavia il suo fascino, il frequente uso che fa della cantina e il mistero che cela dietro le proprie attività spingono l’inquisitore ad etichettarla come tale e consegnarla al Reverendo Townsend, il quale ricreerà nei sotterranei della canonica un’atmosfera quanto più simile ai processi del XVII secolo.
“La prima cosa strana che notai furono i rumori. La sua stanza era proprio sopra la mia e ogni notte sentivo un gran baccano lassù: voci, lamenti e sussurri, oltre a passi che rimbombavano sulle assi del pavimento come se qualcuno venisse inseguito di qua e di là. Una mattina, quando lei era fuori, andai ad aprire la porta per vedere cosa stesse tramando, ma la porta era chiusa a chiave. Quando guardai dal buco della serratura, vidi che aveva tracciato un grande cerchio sul pavimento con una polvere bianca che sembrava gesso. Al centro c’era un piccolo libro nero e, accanto, un lungo bastone attorcigliato. Tale visione era troppo per me! Le streghe usano i cerchi per comunicare con i demoni e i fantasmi, sapete, e sono certo che quello fosse il suo intento.” Con gli occhi spalancati, il signor Beadle aggiunse: “Ho sempre saputo che esistevano delle streghe nel mondo, ma non avrei mai pensato di averne una in casa mia!”
(A. Mckay, “A Moth Seeks the Light” in The Witches of New York, Traduzione di Chiara Lombatti, 2023)
D’altra parte, invece, incontriamo una rappresentazione più positiva e bianca della strega, in linea con la rivalutazione del femminile promossa dalla stregoneria moderna, nel momento in cui la narrazione viene affidata alle streghe stesse o a chi le sostiene: una giovane donna ‒ non necessariamente proveniente da una famiglia di altre streghe ‒ dotata di particolare sensitività, curiosità e attenzione, che conduce una vita non convenzionale ed esercita la propria libertà di espressione e scelta.
Nel romanzo, tale ideale è personificato dal personaggio di Beatrice Dunn. Cresciuta con la zia materna Lydia, che la incoraggia ad ambire prima di tutto al successo personale e all’autonomia, Beatrice è in costante ricerca di una svolta straordinaria per la propria vita e trova risposta ai propri desideri in un annuncio di lavoro per il negozio di tè “Tea & Sympathy” a Broadway, New York. Il ruolo le permette non solo di uscire dalla sfera domestica ed esplorare un ambiente nuovo e pieno di meraviglie come quello della grande città, ma anche di scoprire nuovi aspetti del proprio essere, come la predisposizione alla medianità.
“La fortuna,” naturalmente, secondo sua zia, “è ciò che accade quando preparazione e opportunità si scontrano.” Che ne è allora della magia, si chiese Beatrice, del fato, del destino?
[…]
Sperava che la moglie del contadino avesse ragione. Che la magia si rivelasse vera. Voleva credere nei miracoli, nel destino e anche nelle streghe.
(A. Mckay, “By the Knot of One” in The Witches of New York, Traduzione di Chiara Lombatti, 2023)
Tale straordinaria capacità nel comunicare con l’aldilà stimola l’interesse anche di Quinn Brody, promettente mentalista e sostenitore del mondo invisibile che convincerà la giovane ad esibire le proprie abilità da medium sul palcoscenico cosmopolita del Fifth Avenue Hotel. Questa è un’importante occasione per portare su spazio pubblico pratiche innovative fino ad allora relegate al retroscena, ma anche un rischio di fronte agli inquisitori ancora presenti nella Gilded Age, determinati a giustiziare qualsiasi forma di evasione dal rigore sociale puritano. Tuttavia, la fiducia e consapevolezza che Beatrice acquisisce nella natura benefica della magia le permette di trionfare sul potere inquisitorio, rivendicando la propria natura di strega e donna indipendente che lotta per la propria autoaffermazione.
Con ciò, Ami McKay illustra come nascere con poteri magici o saper miscelare erbe e pozioni non sia una prerogativa essenziale per rivendicare la propria natura di strega. Qualsiasi donna mostrante curiosità, ambizione e coraggio può riconoscersi nell’archetipo, fondamentale, secondo l’autrice, per eliminare la disuguaglianza presente nella società e sentirsi all’altezza di grandi azioni. Oggi, le streghe sono migliaia e si battono attivamente per un mondo migliore. Le streghe fanno parte dei movimenti LGBTQ+; Sono vegane; Usano la magia per proteggere la Terra. Semplicemente, sono Donne.
CONSIGLI per NUOVE STREGHE
Tutto ha inizio con un’intuizione, una stretta al cuore. Un sospiro, una voce senza carne che annuncia da qualche parte tra il sonno e la veglia: “Attenta a ciò che desideri, altrimenti lo otterrai.”
Segue la visione di cose inspiegabili. Una porta, chiusa e bloccata, aperta da forze invisibili. Un gomitolo di filo, disfatto in un mucchio, si arrotola di nuovo. Prendete nota degli avvenimenti misteriosi, fate delle liste, tenetene traccia.
Osservate come le meraviglie si moltiplicano quando la magia non viene ignorata.
Non è necessario portare il sangue degli antichi per essere scelti dal Fato. Nessun marchio di strega, nessun sorriso a denti stretti, nessuna fossetta sul mento. Solo un senso di desiderio, un’inquietudine interiore.
Perché il momento è giunto, è arrivato il giorno, come disse una volta il l’Imbastitore di Storie, in cui le streghe di tutto il mondo non nascono più tali, ma vengono create.
Dal mistero, dalla magia, dalle speranze e dai sogni. Dal comunicare coi fantasmi nel buio. Per ambizione, desiderio, curiosità e necessità. Con i nodi che legano i desideri del cuore. Dagli amuleti, magie, incantesimi e piani. Mescolando il sangue con la polvere del cimitero. Graffiando i nomi degli angeli sulla pelle. Dalla lotta, dal dolore, dallo strazio e dalla perdita.
A tutte le giovani donne che leggono alla bioluminescenza o danzano agli incroci di notte: voi, care signore, siete sulla buona strada, quasi pronte a spiccare il volo. Il cammino è lungo e scoraggiante, quindi percorretelo finché siete in grado di farlo. Credete nei sogni, nei fantasmi e negli spettri — ignorateli a vostro rischio e pericolo.
E ora, vi chiederete, come si fa a sapere quando il lavoro è finito?
La risposta è molto semplice, mia cara: dal formicolio dei pollici.
Mckay, “Cleopatra’s Needle” in The Witches of New York, 2017, Traduzione di Chiara Lombatti, 2023)
[Alt Tet: Ami McKay e sua nipote in A.McKay, “Advice for New Witches” in AmiMcKay.com, Ottobre 2016.]
Chiara Lombatti è una traduttrice, appassionata di letteratura fantasy e di genere. Ha da poco conseguito la laurea magistrale in Linguistica e Traduzione con tesi dal titolo “Stregoneria, emancipazione femminile e Gilded Age: analisi, traduzione e commento di The Witches of New York di Ami McKay”. Attualmente in cerca di un proprio posto nel mondo editoriale, vanta diverse collaborazioni con riviste e testate online. Ama la musica, la letteratura e il cinema. Puoi seguirla su Instagram.
UN FILM
Nudo Mixteco: comunità e identità di un corpo-territorio
di Rebecca Santimaria
[Alt Text: poster del film Nudo Mixteco, disegno ad acquerello di un sentiero che si addentra in un bosco. Sul ciglio sinistro, due persone si abbracciano.]
Sentía que no pertenecía a este mundo, fantaseaba que volaba
Que un día iba a desaparecer y convertirme en lluvia
Pero fue pasando el tiempo, me di cuenta que no podía escapar.
Sentivo che non appartenevo a questo mondo, fantasticavo di volare
Che un giorno sarei scomparsa e mi sarei trasformata in pioggia
Ma con il passare del tempo, mi resi conto che non potevo fuggire.
Con queste parole in lingua mixteca e spagnolo si apre Nudo Mixteco (trad. Nodo Mixteco, 2021) il primo lungometraggio di Ángeles Cruz, conosciuta nel panorama televisivo messicano prima come attrice e poi come sceneggiatrice e regista. La presenza di questi due idiomi, che richiamano indigenità e diaspora, anticipa due dei grandi nodi del film: la lacerazione identitaria prodotta dall’emigrazione e la continua oscillazione tra comunità e soggettività. Le storie delle tre protagoniste - María, Chabela e Toña - si aggrovigliano in una matassa narrativa che va a crearsi attorno alla domanda: da dove scappare? Una fuga agognata, ma non per questo meno sofferta, e un ritorno indesiderato ma necessario, rappresentano le tensioni che si trovano a vivere le personagge del lungometraggio di Cruz. In Nudo Mixteco, tre esistenze simultanee si sfiorano, si attraversano, si intersecano in un racconto plurale in cui intimità e collettività si mescolano e confondono. Palcoscenico di questo incrocio di vite è il paese di San Mateo, una comunità fittizia situata nell’altopiano mixteco, all'interno della regione di Oaxaca nel Messico meridionale. La regista, nata e cresciuta in questa zona rurale, porta sul grande schermo la complessità di un territorio geograficamente difficile, caratterizzato da sconfinati spazi brulli e dune terrose. Si tratta di un ambiente segnato da un lato da una profonda identità storico-culturale, portata avanti dal popolo mixteco con la loro lingua e tradizioni, dall’altro luogo di intensa migrazione a causa delle scarse opportunità economiche ed educative. Lasciare la propria terra e la propria comunità, spesso anche in giovane età, diventa necessario per le donne mixteche che cercano di migliorare la loro condizione, migrando nelle metropoli messicane per lavorare come domestiche nelle case della borghesia urbana e come venditrici di strada.
[Alt Text: la regista Ángeles Cruz durante la realizzazione del film, in un momento di riposo dalle riprese. La donna è in posa accanto a una macchina da presa e a un ciak, e sorride a chi la sta fotografando.]
Attraverso il film, Cruz si propone di indagare la dimensione di doppia assenza caratteristica dei soggetti migranti, come teorizzato dal sociologo franco algerino Abdelmalek Sayad: “La presenza dell’immigrato è sempre una presenza segnata dall’incompletezza, è colpevole in sé stessa. E’ una presenza fuori posto [déplacée] in tutti i sensi del termine” (La doppia assenza. Dalle illusioni dell'emigrato alle sofferenze dell'immigrato, Raffaello Cortina Editore, 2002). L’identità di coloro che migrano si trasforma in un campo di forza tra due tensioni continue: quella della comunità di partenza e quella della società di approdo. Lo strappo identitario provoca spaesamento e confina la persona migrante in un limbo, come racconta la regista stessa:
How do we see ourselves? How do we see our community? Do we feel included or excluded once we have left? I think we remain in limbo. The people that migrate out of necessity, we are in limbo. We don’t know where we belong. We think we belong to a town, but then we return to a town that we no longer recognize because we’ve been away.
Come vediamo noi stesse? Come vediamo la nostra comunità? Ci sentiamo incluse o escluse una volta che ce ne siamo andate? Penso che restiamo in un limbo. Le persone che sono costrette a migrare, noi siamo in un limbo. Non sappiamo a quale luogo apparteniamo. Pensiamo di appartenere a una città, ma poi ritorniamo in una città che non riconosciamo più perché ce ne siamo andate.
Il luogo di appartenenza ha un’importanza fondamentale nel cinema di Ángeles Cruz, sia dentro che fuori lo spazio filmico: nella fase di produzione la collettività di Valle Guadalupe Victoria, diventata San Mateo nel film, è stata coinvolta in ogni aspetto decisionale creando un ulteriore legame con il territorio mixteco. La regista racconta, insieme alle sue abitanti, il suo ambiente natio, in un tipo di cinema che si potrebbe definire di comunità.
Nudo mixteco parla di collettività e soggettività, del modo in cui l’incontro e lo scontro di queste due dimensioni possano dare vita a possibilità identitarie multiple. Una complessità contenuta nella sua creatriche, che si definisce indigena, donna e lesbica:
Yo tengo tres desbalances: vengo de una comunidad indígena, soy mujer y soy lesbiana; cosas que han sido estereotipadas y puestas como en situación emergente de sobrevivencia.
Io possiedo tre sbilanciamenti: provengo da una comunità indigena, sono donna e sono lesbica; cose che hanno subito stereotipi e sono state messe in una crescente condizione di sopravvivenza.
Questa triade identitaria rappresenta il punto di partenza del lungometraggio di Cruz. Il corpo diventa lo strumento principale con il quale la regista sceglie di raccontare l’esperienza delle protagoniste. Attraverso di esso si esperisce la propria identità e il modo in cui le donne mixteche sono chiamate - o costrette - a difendere questo primo territorio diventa inscindibile dalla loro relazione con lo spazio che vivono. Come la sua conformazione contraddittoria, fatta di dune, boschi e fiumi, anche l’esistenza delle donne in queste comunità è segnata dalla convivenza di una società machista e patriarcale con il desiderio di emancipazione. Verónica Gago, studiosa e attivista tra le fondatrici di Ni Una Menos in Argentina, parla di un corpo-territorio in cui le due dimensioni, quella corporea e quella ambientale, vengono sperimentate e vissute reciprocamente:
[Il termine corpo-territorio] Pone una continuità politica ed epistemica, contro il taglio “individuale” dei contorni del corpo e contro la frontiera privata del territorio. È impossibile isolare il corpo individuale da quello collettivo, il corpo umano dal territorio e dal paesaggio. Il corpo-territorio riesce a mettere in gioco alcuni saperi del corpo collettivo sulla cura, l’autodifesa, l’ecologia e la ricchezza e, al tempo stesso, a sviluppare l’indeterminatezza delle sue possibilità e dei suoi saperi perché la sua esistenza dipende dal tessere alleanze.
Nel suo testo La potenza femminista. O il desiderio di cambiare tutto (Capovolte, 2022) Gago riconosce la composizione relazionale e multipla del corpo, come insieme di affetti, risorse e possibilità, un passaggio fondamentale per superarne l’individualità e concepirlo invece “sempre con le altre e gli altri e anche con altre forze non umane.”
Osservando e raccontando lo spazio pubblico, i suoi riti collettivi come i funerali, le feste patronali e le assemblee, Cruz rivela le dinamiche identitarie e le forme di resistenza delle donne indigene che negli interstizi della collettività fanno germogliare la loro sessualità, la loro indipendenza e i loro atti di guarigione.
Como mujer y como cineasta, al estar en mi comunidad volví a escuchar esas voces compartidas en susurros o envueltas en una carcajada, reconocí mis dolores, mis afectos, y frente a mi propia encrucijada se abrían otras preguntas: ¿Cuáles son las batallas que enfrentan las mujeres en la mixteca? ¿Cómo defienden su cuerpo y su derecho al gozo? ¿Cómo viven su sexualidad? ¿Cómo concilian la soledad con la fiesta que alivia sus penas?
Come donna e come cineasta, stando nella mia comunità sono tornata a sentire quelle voci condivise in sussurri o avvolte in una risata, ho riconosciuto i miei dolori, i miei affetti, e di fronte al mio bivio si sono schiuse altre domande: Quali sono le battaglie affrontate dalle donne nella Mixteca? Come difendono il loro corpo e il loro diritto alla gioia? Come vivono la loro sessualità? Come conciliano la solitudine con la festa che allevia le loro sofferenze?
[Alt Text: alcune persone che fanno parte della comunità di Valle Guadalupe Victoria, luogo delle riprese del film, siedono attorno a una pozza d’acqua.]
Come raccontare un corpo-territorio entro cui si condensano tensioni identitarie differenti, che si muove costantemente tra la dimensione collettiva e quella privata?
Il primo nodo del film è rappresentato dalla storia di Maria, una donna lesbica, che incontriamo mentre è impegnata nella sua routine solitaria in un paesaggio urbano nel quale è stata trapiantata per lavorare come domestica. Il funerale della madre la riporta a San Mateo, il suo villaggio natale, e a fare i conti con l’omofobia del padre che arriva a incolparla per il lutto subito. La cerimonia funebre, momento di coesione sociale, per Maria si traduce nella conferma della sua doppia lacerazione identitaria: come migrante e come lesbica. La tensione provocata dal ritorno spinge la personaggia ai margini dello spazio pubblico: nella narrazione, poiché la sua presenza è indesiderata, occupa quindi gli ultimi posti nel corteo funebre, ma anche nelle inquadrature, il cui corpo è spesso fuori campo. Gli unici momenti in cui torna ad essere protagonista sono nello spazio privato, in particolare con Piedad, la donna di cui è innamorata fin dall’adolescenza, che incontra, insieme al figlio neonato, al funerale. Con lei Maria si sente desiderata e si fa meno il senso di smarrimento dovuto al ritorno in quella comunità dove è stata rifiutata. La tenerezza della donna amata si sostituisce al disprezzo del padre, in una sorta di catarsi curativa di un corpo-territorio segnato dalla presenza e dall’assenza, dal rifiuto e dal desiderio. Le dune terrose sopra cui si confidano Maria e Piedad sembrano trasmutare nei loro corpi nudi, in un nodo identitario che si scioglie e rinnova continuamente. Nessuna partenza o ritorno è mai definitivo, eppure rappresentano sempre una ridefinizione della propria condizione. Prima di ripartire Maria sceglie di perdonare il padre e chiede a Piedad di andarsene con lei per esplorare insieme le possibilità di esistenza nello spazio di confine tra appartenenza ed esclusione, per reinventarsi a partire dai propri desideri.
[Alt Text: Maria e Piedad sopra le dune brulle, tipiche del paesaggio mixteco. Le due donne durante un momento di intimità e tenerezza.]
Il secondo nodo mixteco è quello di Chabela: la sua storia viene anticipata dalla sua voce sullo sfondo sonoro del capitolo precedente, mentre partecipa all’assemblea pubblica che deve decidere del suo matrimonio. Il suo racconto si avvia al ritorno del marito Esteban, musicista migrato per poter mantenere la famiglia e sparito per anni dal suo paese d’origine. Una volta tornato, l’uomo rivendica il suo diritto di proprietà assoluta sulla casa e sulla moglie Chabela, appellandosi al suo ruolo di capofamiglia. Cerca, inoltre, di rimediare alla sua mascolinità sfregiata dall’amante della moglie che lei stessa ha scelto per colmare i suoi bisogni. I desideri della donna e l’orgoglio machista dell’uomo possono risolversi solamente nello spazio pubblico, attraverso l’assemblea cittadina che, secondo la tradizione mixteca, ha il potere di decidere sulle dispute matrimoniali. La collettività si inserisce nelle questioni private, l'intimo è comunitario e le vite nella Mixteca sono imprescindibili dalla loro dimensione collettiva. La regista, in questa parte di narrazione, racconta attraverso la personaggia di Chabela la sofferenza di chi rimane. Tuttavia, oltre al romanticismo dell’eterna attesa, Cruz sceglie di narrare la trasformazione del senso di abbandono della donna in uno spazio di emancipazione e di definizione dei propri desideri negli anfratti di una società patriarcale. Durante il confronto pubblico, Chabela, per anni senza alcuna corrispondenza o gesto di affetto da parte del marito, accusa l’uomo di essere tornato a reclamare un corpo e uno spazio di cui non si è mai curato: “Ahora vienes como si nada a reclamar el maíz que no regaste” (“Adesso vieni come se niente fosse a reclamare il mais che non hai mai irrigato”). Il verdetto comunitario è quindi la separazione di questi due elementi: Chabela si tiene la sua famiglia, i suoi desideri e il suo corpo; a Esteban viene lasciata la casa, un ambiente domestico svuotato degli affetti, mero possesso materiale. Allora la storia di Chabela si intreccia con quella di altre due donna di San Mateo autrici delle proprie esistenze, Maria e Piedad: la coppia di donne lascia la loro casa alla protagonista del secondo capitolo del film, in un atto di cura che unisce chi decide di andare e chi di restare. Esteban, invece, artefice del proprio fallimento, negli ultimi istanti del lungometraggio guarda la sua casa bruciare: la sua mascolinità è stata deturpata e la sua proprietà, rivendicata con la violenza, si trasforma in un cumulo di macerie.
[Alt Text: Chabela e Esteban durante l'assemblea cittadina per discutere del loro matrimonio.]
Con il terzo intreccio si torna nell'ambiente urbano, più precisamente all'interno di un mercato cittadino dove Toña lavora come venditrice, per poter mantenere la figlia appena adolescente rimasta a San Mateo con la nonna. All'inizio del suo capitolo, seguiamo la donna nella sua quotidianità: tra i negozi e la folla della metropoli, poi all'interno del suo appartamento arredato all'essenziale in cui trascorre le serate con il suo amante, così diverso dal tipo di mascolinità che abita il suo paese natale. Toña sembra vivere con distacco la sua vita nella metropoli, questo si riflette anche nel mancato appagamento e nella palese insoddisfazione con l'uomo che frequenta. La doppia assenza risiede nella continua tensione tra l'esistenza diasporica, rappresentata dalla routine quasi automatica delle sue azioni e relazioni, e l'eco di casa, condensato nel cellulare con cui si mantiene in contatto con la madre e la figlia. Proprio durante una telefonata a quest'ultima si rende conto che sta succedendo qualcosa di indicibile, decide quindi di tornare a San Mateo proprio in occasione della festa patronale. All’arrivo, riaffiorano in Toña i ricordi dei continui abusi subiti dallo zio quando era adolescente: la ferita emotiva di questo rimosso si traduce in malessere fisico proprio quando vede l'uomo ballare con la figlia durante i festeggiamenti. La donna, nel ricordare la violenza di cui è stata vittima, rivive nel suo corpo rabbia, tristezza e paura. Questo primo territorio abitato, con il quale si esperisce il mondo, permette alla donna di riconoscere e riconoscersi nelle dinamiche che perpetuano all'interno della comunità di appartenenza e dalle quali non ha potuto proteggere la figlia. Ancora una volta, l'evento collettivo diventa il palcoscenico di una vicenda familiare: gli sguardi di rabbia e disprezzo di Toña attraversano la folla festosa, la comunità funge da barriera di protezione alla colpevolezza dello zio sorridente sullo sfondo. Nella sua posizione liminale, non più completamente assorbita dalla collettività ma nemmeno estranea, avviene la presa di coscienza della personaggia. Toña distingue i sintomi di una tradizione di violenza e grazie allo sguardo disincantato dato dall'identità migrante svela la sua finta ineluttabilità. Questo spazio di azione le permette di infrangere il silenzio complice della madre, non ripeterà i suoi errori, e offre alla figlia la possibilità di esistere al di fuori delle logiche di sopraffazione. In una sequenza piena di tenerezza, madre e figlia sono sedute in riva al fiume e Toña tira fuori una pietra portata con sé quando se n’era andata. Quindi immerge il sasso nell'acqua, per passarlo sul corpo della ragazzina, che, a sua volta, si offre di fare lo stesso per sua madre. La pietra viene gettata nel fiume in un atto che racconta la possibilità di lasciare insieme, in quello spazio, il dolore che ha abitato i loro corpi, in un gesto di liberazione emotiva. Alla collettività viene affidato il compito di punire lo zio violento, mentre Toña e sua figlia provano a ricostruire se stesse lontano da quel luogo di dolore, consapevoli dell’intreccio inestricabile tra i loro corpi e quel territorio, proprio come le radici sulla sponda del fiume. Ancora una volta, quella di andarsene sembra l’unica decisione possibile per poter intraprendere insieme il percorso di guarigione, fatto di cura e reciprocità.
[Alt Text: Toña e sua figlia in riva al fiume, sedute una accanto all’altra e con i piedi in acqua.]
Nudo Mixteco si presenta come un crocevia di esistenze simultanee che avvengono negli interstizi della vita comunitaria. Il racconto di Cruz ha inizio dai ritorni di persone che hanno lasciato la loro comunità, per andare a indagare il modo in cui l’assenza e la presenza ridefiniscono le loro identità. Il luogo di appartenenza diventa quindi un nodo che trattiene, lega, blocca, stringe o rallenta. Ma può essere anche uno spazio di possibilità: per esplorare i propri desideri, per rivendicare la propria sessualità, per avviare processi di guarigione. Un nodo mixteco, quello fra corpo e territorio, molteplice e spesso contraddittorio, conteso da tensioni identitarie e collettive che soffocano e allentano in un gioco di continue definizioni. Un nodo gordiano dalla soluzione impossibile, personagge incarnate nella terra mixteca che se non possono reciderlo, cercano di abitare lo spazio allentato secondo i loro desideri. Un intreccio come struttura, figura relazionale, legame e scrittura che si aggrappa alla comunità e a coloro che la abitano, la attraversano, la lasciano. Un groviglio di esistenze e di corpi che si ritrovano, si feriscono, si amano e si guariscono continuamente, in un matassa di vite che non raggiungere mai una forma stabile. Se ci si rende conto che non si può fuggire mai definitivamente, ci dice la regista, allora si creano nuovi nodi, si addolciscono o si stringono quelli esistenti, si spezzano quelli possibili, per dare vita a una trama diversa.
Testi citati:
Gago, Verónica, La potenza femminista. O il desiderio di cambiare tutto, Capovolte, 2022;
Sayad, Abdelmalek, La doppia assenza. Dalle illusioni dell'emigrato alle sofferenze dell'immigrato, Raffaello Cortina Editore, 2002.
Per approfondire:
Anzaldúa, Gloria, Terre di confine. La frontera. La nuova mestiza, Edizioni Black Coffee, 2022;
Cabnal, Lorena, Feminismos diversos: El feminismo comunitario, ACSUR-Las Segovias, 2010, online;
Gargallo Celentani, Francesca, Femminismo da Abya Yala. Idee e proposte delle donne indigene dei 607 popoli di nostra America, Aracne Editore, 2017;
Paredes, Julieta, Hilando filo desde el feminismo comunitario, El Rebozo, 2008, online.
Rebecca Santimaria è atterrata negli anni Novanta sulle colline venete, per poi scendere a Bologna dove studia cinema e antropologia culturale. Si interessa di femminismi, comunità e utopia. Lavora nel mondo della scuola e nel tempo libero prova anche ad abbozzare racconti. Ha scritto di sciami fantasma e lingue sacre per Coven Riunito e Alkalina. Si trova qualche volta su Instagram.
Ringraziamo le autrici di Fondamentali, Chiara e Rebecca per questo numero di Ghinea. Ci leggiamo a fine marzo!
Un abbraccio!
Francesca, Gloria e Marzia