La ghinea di dicembre
Cinque film pregevoli e non anglofoni, genere e Giappone, il mestiere più vecchio del mondo è quello della Strega
Benvenutu a Ghinea, la newsletter con le lenticchie pronte e lo spumante al fresco. Chiudiamo l’anno con due vecchie amiche: Marta Corato propone una lista di film usciti nel 2023 e di cui potresti non aver sentito parlare, mentre Martina Neglia ci parla di una raccolta di saggi da poco uscita. Ci sono anche i nostri appunti e pensieri sul primo libro di Astri Amari. Buona lettura!
Cinque film pregevoli e non anglofoni per il 2023
di Marta Corato
Nel sempre difficilissimo compito di scegliere i miei film preferiti dell’anno, è stato dilettevole accorgermi quanti di questi siano stati diretti da registe e/o regist*. In parte sicuramente è una mia predilezione, ma forse è semplicemente il fatto che (con un milione di caveat, a partire dalle remore di Ghinea stessa) il numero di film “grossi” diretti da donne e persone non binarie non è, almeno per quest’anno, infinitesimale.
Da Barbie di Greta Gerwig a Past Lives di Celine Song, da Saltburn di Emerald Fennell a Bottoms di Emma Seligman, da Priscilla di Sofia Coppola a You Hurt My Feelings di Nicole Holofcener (ma potrei continuare: Fancy Dance, The Queen of my Dreams, Polite Society, A Thousand and One, Rye Lane, How to Have Sex…) i film anglofoni hanno spaziato generi e temi.
La situazione si fa più ostica quando si esce dal confine dei film prodotti in lingua inglese, o al massimo in francese – Anatomia di una caduta di Justine Triet ha vinto la Palma d’oro a Cannes solo qualche mese fa ed è per fortuna arrivato nelle sale italiane. Ovviamente, e non servo certo io a dirvelo, questo non vuol dire che in qualsiasi altro angolo del mondo solo gli uomini cis het facciano film.
[Alt Text: frame da If Only I Could Hibernate. Nell’immagine, tre ragazzin* imbacuccat* e sorridenti si affacciano da dietro un muro.]
A proposito di Cannes, ad esempio, If Only I Could Hibernate (orig. Баавгай болохсонm) di Zoljargal Purevdash è il primo film proveniente dalla Mongolia a fare parte della selezione ufficiale del festival.
Il protagonista Ulzii è un adolescente di un quartiere povero di Ulan Bator, che vede la possibilità di cambiare la sua vita vincendo un concorso di fisica che ha come premio una una borsa di studio. I suoi progetti devono cambiare in fretta quando sua madre abbandona lui e i suoi fratelli per tornare a lavorare in campagna.
Purvedash ha tanto un chiaro obiettivo tematico nella sua narrazione – sottolineare l’importanza dell’educazione – quanto una missione politica, il rappresentare con uno sguardo diretto e sobrio la Mongolia del giorno d’oggi in maniera più realistica della narrazioni romantiche che spesso ricevono fondi internazionali (si pensi al bellissimo La principessa e l'aquila di qualche anno fa).
Nell’opera di Purevdash si percepisce, per quanto sullo sfondo, una nota di pessimismo climatico. Mentre da questo lato del mondo il cambiamento climatico si presenta con l’innalzamento delle temperature, la Mongolia sta vedendo un ulteriore irrigidimento di inverni già freddissimi, tanto che le comunità di pastori nomadi stanno venendo decimate dalla mancanza di erba: 90% delle praterie mongole si stanno desertificando.
Nello stesso If Only I Could Hibernate, un pastore ha venduto il suo gregge e si è trasferito nei sobborghi di yurt attorno a Ulan Bator. Ma queste comunità impoverite non trovano una situazione meno complessa, o meno colpita dal cambiamento climatico, ai margini delle grandi città inquinano in maniera imponente. L’utilizzo di bricchette di carbone per scaldare gli yurt causa una nube di smog e inquinamento atmosferico che la regista, parlando con Deadline, ha definito “crazy”, pazzesco: “Anche i bambini lo respirano, e hanno metalli pesanti che scorrono nel loro sangue”.
Purevdash fa parte di una famiglia di nomadi che sono diventati sedentari nelle periferie di Ulan Bator: l’idea del film è nata quando, durante delle proteste contro l’inquinamento atmosferico causato dal carbone, i mongoli “di città” si sono scagliati contro i nomadi e le loro stufe a carbone.
La scarsità di risorse per via della crisi climatica viene portata all’estremo ed affrontata con un tono decisamente più umoristico in Once Upon a Time in The Future: 2121 (orig. Bir Zamanlar Gelecek: 2121) della regista turca Serpil Altın, una commedia nera ambientata in un futuro post-apocalittico in cui la terra è diventata inabitabile e l’umanità si è rifugiata in complessi sotterranei.
Questa società sotterranea è guidata dal principio di sopravvivenza delle generazioni più giovani, a cui vengono dedicate la maggioranza delle risorse a disposizione; questo vuol dire che quando la protagonista rimane incinta, deve decidere se fare fuori (nel senso letterale di ammazzare) sua madre o suo marito per fare posto al bebè in arrivo.
Per chi è appassionat* di weird wave greca alla Yorgos Lanthimos, questo film sarà una delizia. Al ha specificamente cercato attori che potessero aiutarla a rappresentare “persone del sottoterra senza emozioni e senza anima” attraverso la recitazione molto stilizzata. Gli asfissianti labirinti sotterranei, gli sguardi fissi, i bambini che spadroneggiano sugli adulti creano un’atmosfera inquietante quanto il motto della loro società, “Happy Lives!”.
Mentre Once Upon a Time in The Future: 2121 fa sicuramente molto ridere, porta anche sullo schermo una soluzione aberrante e distopica, ma sicuramente molto efficace, ai problemi della bassa natalità e dell’invecchiamento della popolazione (problemi che i governi italiani hanno ben presente, visto che l’Italia è il paese più toccato dopo la Corea del Sud e il Giappone).
La protagonista, né bambina né vecchia, non ha alcuna vita personale o importanza nella società (a differenza ad esempio del marito che lavora) al di là del suo ruolo di cura; quando rimane incinta diventa un oggetto incubatore a cui vengono riservati trattamenti speciali solo in funzione del feto, e non di sé stessa. Non ha vie di uscita, reali o mentali, dalla vita che le è stata assegnata e accuratamente regimentata.
[Alt Text: frame da Blackbird, Blackbird, Blackberry. La protagonista si trova in un prato in compagnia di un uomo, che è visto di spalle. I due siedono su un telo a distanza ravvicinata e si stanno guardando.]
Con temi simili e una riflessione più diretta sul ruolo delle donne nelle società ancora pesantemente tradizionaliste, dalla Georgia arriva Blackbird Blackbird Blackberry (orig. შაშვი შაშვი მაყვალი) di Elene Naveriani (they/them), che traduce per lo schermo il libro omonimo del 2021 dell’autrice e attivista femminista Tamta Melashvili, ad ora non tradotto in nessuna altra lingua.
Etero è una donna di 48 anni che vive in una zona rurale della Georgia ed è single da tutta la vita. In una cultura patriarcale e tradizionale, una donna di mezz’età sola è fonte di pettegolezzi e giudizi. Ma una persona sola è anche una persona libera, ed Etero si trova davanti a una scelta complicata quando, in segreto, inizia una relazione.
Naveriani ha detto: “Era la storia di mia mamma, la storia di mia zia, la storia della mia vicina [...] Potrei nominare così tante donne intorno a me che stavano davvero attraversando lo stesso tipo di lotta interiore, e ho trovato molto importante dare vita a questo personaggio sullo schermo.”
La parte di Etero è stata scritta specialmente per l’attrice teatrale Eka Chavleishvili, con cui aveva già lavorato nel suo film precedente Wet Sand. La sua fisicità e la sua capacità di occupare molto spazio nonostante sia minuta sono chiave per il personaggio, che all’inizio della storia cerca di non attirare attenzione, ma che più passa il tempo più vuole spiccare nella sua individualità.
È particolarmente interessante vedere una storia che viene raccontata da un’autrice e un* regista dallo sguardo marcatamente femminista, ma che si focalizza su una protagonista che non ha neanche mai pensato di esserlo. Naveriani ha uno sguardo pacato, ma chiaramente affettuoso, nei confronti di una donna che non cerca una libertà guidata dall’ideologia, ma dal suo stesso istinto di sopravvivenza.
Un tocco similmente misurato e amorevole, che rifugge il melodramma, è quello di Rosine Mbakam, finora conosciuta come una talentuosa autrice di documentari, alla regia di Mambar Pierrette. Le influenze del documentario sono chiare nel modo naturalistico e esterno alla storia in cui Mbakam ricrea una versione romanzata della vita di sua cugina, che interpreta anche il personaggio del titolo.
La protagonista Pierrette è una sarta a Douala, la città più grande del Camerun; nel periodo dell’inizio delle scuole, quello dove riceve più commissioni, si trova ad affrontare una serie di sfortune, compresa una pioggia torrenziale che allaga il suo studio (“potrebbe andare peggio: potrebbe piovere”),
La massima di Pierrette è “La vita è dura e bisogna andare avanti”; Mbakam osserva da vicino Pierrette senza mai fare pornografia della povertà e del dolore; la sua dignità e la sua intelligenza non vengono mai minate o messe in dubbio. Mambar Pierrette è una finestra su una vita quotidiana, senza un grosso contrasto centrale da risolvere; è il ritratto di una donna di buon senso e della sua comunità.
L’approccio di Mbakam alla storia si basa in maniera imponente sulla decolonizzazione delle storie provenienti dall’Africa: si impegna a “non raccontare la storia di Pierrette come farebbe l’Occidente, volevo raccontarla nel modo in cui la viviamo noi.” [...] “Il mio cinema è politico e volevo mostrare che c'è qualcosa di più nella situazione di Pierrette - il fatto che non ha soldi, che suo marito è irresponsabile - che è legato al neocolonialismo in Camerun che non è del tutto visibile, ma c’è. La narrativa mi ha aiutato a farlo notare. Ma non volevo che la finzione prendesse potere dalla vita di Pierrette, per sopraffare il cinema che è già nella vita delle persone.”
Decisamente più allegro e spensierato di tutti gli altri film, ma non meno intelligente, è Simple Comme Sylvain (in inglese The Nature of Love) della regista quebecchese Monia Chokri, della quale molt* si saranno innamorat* già all’epoca delle sue collaborazioni con Xavier Dolan in Les Amours imaginaires e Laurence Anyways e il desiderio di una donna… .
Sophia è una professoressa universitaria di filosofia; lei e il compagno Xavier hanno una routine estremamente stabile, che stanno cercando di ringalluzzire la loro relazione comprando una casa delle vacanze sui Monti Laurenziani. Ma sui monti c’è anche il nerboruto imprenditore edile Sylvain, che dovrebbe ristrutturare la casa: tra lui e Sophia c’è una scintilla istantanea, un’attrazione animale.
Il concetto centrale potrebbe sembrare trito e un po’ sciocco – gli opposti si attraggono? Può funzionare veramente? – ma Chokri parte dal tono frizzante della rom-com per arrivare a conclusioni molto più oscure. Chokri parte strizzando l’occhio e ridendo delle incomprensioni tra persone che vengono da mondi molto diversi, finché non danneggiano profondamente il loro rapporto.
All’inizio fa ridere che Sylvain usi come frasi d’amore citazioni del cantante e noto xenofobo Michel Sardou; ma più si va avanti, più diventa repellente vedere gli amici di Sophia trattare il suo nuovo fidanzato con superiorità. La tensione nella loro relazione diventa lentamente agghiacciante invece che fonte di ilarità.
Chokri fa un esercizio interessante con la sua protagonista: invece di essere travolta dall’innamoramento, Sophia è soltanto molto, molto arrapata. Mentre non evita le scene di sesso (anzi, ce ne sono molte), la regista sceglie di non mostrare nudità femminile: “Le scene di sesso sono piuttosto esplicite. Si tratta più di ciò che dicono che di ciò che vediamo. Sappiamo che è eccitata. Non è questo il punto. Riguarda ciò che sente nella sua mente” [...] “Ecco perché quando il personaggio si masturba, vede le parti del corpo di Sylvain e non sè stessa”.
Anche per chi guarda tantissimi film, non è così facile prestare costante attenzione al raccogliere una diversità di voci e temi, tanto di genere quanto geografica – specialmente quando non è facilmente fruibile. È importante ogni tanto ricordarci che, in tutti gli angoli filmici del mondo, ci sono attivismi, femminismi e pregio da esplorare.
Nota: Dopo aver fatto il giro dei festival di cinema (io li ho visti al London Film Festival e Sci-Fi London), questi film devono ancora arrivare al cinema o in streaming in Italia. Mi premurerò di segnalarne le uscite a Ghinea appena appariranno.
Marta Corato è una persona con troppi hobby che ogni tanto trova anche il tempo di fare cose serie. Fino al 2018 ha curato il sito femminista Soft Revolution; continua a fare brevi apparizioni online scrivendo di cinema e tv. Per i film la si trova su Letterboxd; per gli hobby su Instagram.
CALENDARIO
Sabato 20 gennaio alle 18, Gloria presenta il libro Cenerentole Moderne alla libreria Sette Volpi di Bologna. Sarà con lei l’autrice Elide Pantoli.
UN LIBRO
Genere e Giappone. Femminismi e queerness negli anime e nei manga, a cura di Giorgia Sallusti.
di Martina Neglia
[Alt Text: immagine da Lady Oscar. La protagonista è mostrata in primo piano mentre impugna una spada scintillante sollevata di fronte al proprio viso.]
Nella mia famiglia c’è stato un passaggio di consegne. La mia adolescenza e gli anni successivi sono stati segnati da un cugino nerd che mi ha per la prima volta fatta sedere davanti a un episodio dell’Anime Night di Mtv, segnando inevitabilmente la costruzione della mia personalità come ragazza millennial che guarda Inuyasha, Death Note, ma soprattutto Nana e Le situazioni di Lui&Lei. A quel primo incontro con l’animazione giapponese, sono seguite numerose gite in edicola e soprattutto un continuo citofonare del postino, con i pieghi di libri di serie recuperate tra mercatini di forum online dedicati agli shoujo e ebay. Potevo forse sopravvivere senza leggere anche le opere originali da cui sono stati tratti gli anime della mia infanzia? E quindi pronta a bruciare paghette per vecchie edizioni di Card Captor Sakura, Love me Knight, Le rose di Versailles. Adesso l’ingrato compito di far lamentare i miei genitori è passato a mio fratello.
Al di là del modo quasi chirurgico in cui io e mio fratello siamo diventati il perfetto target dell’editoria del fumetto giapponese (principalmente shoujo e josei io, shonen e seinen lui), una cosa che accompagna la nostra esperienza di lettura è sempre stata quella di essere un po’ bistrattat* da nostro padre per la nostra passione. “Ancora che leggi cose per bambini…”, diceva prima a me e poi a lui.
Ed è in fondo questa la sorte comune e piuttosto ingiusta che tocca a* lettor* e fruitor* di tutto quello che è ascrivibile al fumetto e all’animazione di ogni provenienza geografica.
Questo non è sicuramente l’articolo giusto per dilungarsi in difesa dei media anime e manga, né per tracciare le dimensioni di un fenomeno sociale e culturale che continua a far parlare di sé per mancanza di spazio e di competenze. Come dice però Giorgia Sallusti nell’introduzione del volume Genere e Giappone. Femminismi e queerness negli anime e nei manga – edito da Asterisco Edizioni con la curatela appunto di Sallusti – “l’impatto che i fumetti e i cartoni animati giapponesi hanno avuto in Italia è stato deflagrante”. Partendo dall’arrivo dei primi anime in tv a fine anni ’70, con l’enorme successo che ha spianato la strada al successivo arrivo dei fumetti, si è infatti creato un fenomeno pop capace di farsi ponte tra due culture, con la cultura giapponese “che si è integrata con la nostra, che anzi è diventata anche la nostra”.
Genere e Giappone nasce quindi, seguendo sempre le parole di Sallusti, non solo come tributo ai prodotti che hanno segnato generazioni di lettori e lettrici, “ma anche come una rilettura critica delle istanze che vi sono ascritte”.
Il volume raccoglie infatti dodici brevi saggi di firme di accademic*, professionist* dell’editoria e del fumetto ma soprattutto di appassionat* di cultura giapponese che tra presente e passato guardano con la lente critica dei femminismi e delle teorie queer sia singoli lavori (Sailor Moon, i Pokémon, fino ai più recenti Aggretsuko e Chainsaw Man) che questioni sociali e culturali ben più ampie.
Alla seconda categoria appartiene proprio uno dei saggi secondo me più riusciti e interessanti del volume. Marianna Zanetta firma infatti un dettagliato approfondimento sull’estetica kawaii. Come riportato nella quarta di copertina proprio con le parole di Zanetta infatti: “Manga e anime sono uno specchio. Mettono davanti ai nostri occhi diversi aspetti della società in cui vengono creati e ne riflettono la complessità e le sfaccettature”. La figura kawaii, ovviamente femminile, secondo la ricostruzione di Zanetta riconduce all’immagine di una ragazza infantile (e infantilizzata), remissiva, dagli occhi dolci e la voce stridula. Originariamente però la figura della ragazza kawaii racchiudeva in sé anche una portata rivoluzionaria, come soggetto capace di discostarsi dalle norme sociali di produttività e riproduzione, tale da diventare per certi aspetti anche un’aspirazione del maschile.
L’analisi di Zanetta è utile non solo a tracciare parte di storia culturale e sociale del Giappone, ma anche il modo con cui dall’“Occidente” abbiamo guardato a queste rappresentazioni, ingabbiando e appiattendo l’idea di “donna giapponese” a un unico simbolo falsato, e di conseguenza non in grado di rappresentare le mille possibilità dell’esperienza umana e di genere delle donne giapponesi.
Il volume è quindi nel complesso non solo un contenitore di analisi critiche, ma anche un agile strumento per approfondire parallelamente alcuni fenomeni delle questioni di genere e dei movimenti femministi in Giappone. Nello specifico il saggio “Generazione Sailor Moon” di Andrea Pacini parla, in modo a tratti addirittura commovente, del modo in cui la comparsa delle guerriere vestite alla marinaretta si è stato in grado non solo di rivoluzionare il genere di appartenenza e il modo di fare anime e manga, ma soprattutto di ispirare una generazione di donne con “uno spiccato spirito di indipendenza dal controllo maschile, una forte volontà di autodeterminazione e un alto tasso di realizzazione professionale”. Per quanto l’impatto sociale dell’opera di Takeuchi, la mangaka dietro l’opera di Sailor Moon, sia comunque discusso, è stato sicuramente avveniristico per l’aver “fornito un modello emancipazione alle giovani giapponesi” e per aver ribaltato “diversi assunti della narrazione etero-cis-patriarcale”, sovvertendo le espressioni di genere e inserendo nuove possibilità di fare relazione e famiglia.
Ritornando a una dimensione più contemporanea, Asuka Ozumi affronta il problema della violenza di genere e della condivisione non consensuale di materiale intimo attraverso due opere recenti (Sensei no shiroi uso e Adabana) e fornendo una dettagliata sequenza di informazioni sullo stato legale e giuridico del pericoloso fenomeno che colpisce in misura simile le donne italiane e le donne giapponesi.
Tra i saggi che mi sento qui di citare, ci sono anche quelli che rivelano un po’ l’altro lato della medaglia. Se da una parte ci sono state mangaka con le loro opere capaci di creare un punto di rottura con la società patriarcale giapponese, dall’altra ci sono opere dannose e purtroppo prese sottogamba dal pubblico giapponese prima e italiano poi. Una di queste è sicuramente Pollon, manga e poi anime che prometteva quasi un intento didattico nei confronti della mitologia greca, per poi rivelarsi un calderone di sessualizzazione infantile e violenza nei confronti delle donne, agita soprattutto dal personaggio di Zeus. Come sottolinea bene Carla Gambale, se la falce della censura si è scagliata contro molti degli anime arrivati in Italia, tagliuzzando per esempio le effusioni di Marmalade Boy e le coppie queer di Sailor Moon, ha invece lasciato illesi molti dei comportamenti tossici e violenti dei personaggi maschili all’interno di Pollon. Scrive appunto Gambale: “ha scandalizzato di più il fatto che due persone si baciassero rispetto alle percosse di un uomo contro una donna.”
Genere e Giappone si presenta quindi come un volume breve ma plurale, che raccoglie voci di persone provenienti da settori diversi ma accomunate dalla passione per il media studiato. Forse alcuni saggi arrancano più di altri, proprio perché – immagino – alcune firme non sono esattamente avvezze alla scrittura come prima forma di divulgazione, ma ne viene fuori un puzzle piacevole capace di spaziare e toccare più temi di un argomento di per sé enorme e complesso.
Martina Neglia è nata a Palermo nel 1993, ma vive a Milano ormai da qualche anno. Fa parte della redazione di menelique e del più giovane lay0ut magazine, per cui cura il gruppo di lettura “I terrestri”. Si interessa soprattutto di femminismi e di letteratura delle donne. La sua vita è un pendolo che oscilla tra una partita dell’Inter e l’altra.
UN ALTRO LIBRO
Il mestiere più vecchio del mondo è quello della Strega
[Alt Text: copertina del saggio Astri Amari. Per un’astrologia transfemminista, che rappresenta un cielo stellato. Una fusione dei due simboli ♂ e ♀ è evidenziata a mo’ di costellazione.]
L’appiattimento della conoscenza delle stelle come sapere occidentalizzato e inserito nei meccanismi di mercato ha portato a una semplificazione della molteplicità dei saperi esplorativi e dei rapporti coi mondi che viviamo e costruiamo. Lungamente nel ventesimo secolo l’astrologia è stata ridotta a mero strumento divinatorio televisivo, a oggetto di facile usufrutto mediatico. Fondamentalmente, l’astrologia nel corso del Novecento è divenuta sinonimo di Oroscopo.
Non serve (solo) un manuale di astrologia per vedere e comprendere come la misoginia sia sempre stata una leva fondamentale socio-storicamente per creare e ricreare squilibri di potere utili allo status quo. Interessante, però, come un contro-manuale di astrologia può essere utile a osservare come anche nei cosiddetti saperi alternativi, le cui pratiche vengono spesso tramandate solo per via orale e spesso matrilinearmente, la misoginia ha saputo inserirsi con sagacia per screditarne il valore. Ne è un esempio la figurazione de La Luna Nera, talmente colloquialmente nota da diventare anche un (problematico) programma televisivo italiano anni Novanta.
La Luna Nera ha però un suo valore storico sociologico perché rivela la misoginia di molti astrologi; in un mondo patriarcale, la donna può essere solo o vergine o madre, e questa specie di santa sarebbe rappresentata dalla Luna Bianca. Ci voleva un espediente, una finzione, per dare un po’ di spazio alle non sante, ossia le donne normali viste come diavoli e dunque come Lune Nere infernali. Non a caso, e questa mi sembra un’osservazione importante, l’interesse per la Luna Nera è risorto tra gli astrologi maschi quando nel mondo intero si scatenava il femminismo. (Morpurgo in AA: Lisa Morpurgo, Cento risposte di Lisa Morpurgo. Tutto il pensiero della grande astrologa in una selezione delle lettere a Sirio, Sirio, Milano 1999, p. 52).
Sarebbe riduttivo parlare dell’Astrologia come di una forma di studio dell’influenza dei corpi celesti e i loro movimenti, perché questo la categorizzerebbe quale scienza esatta (come l’astronomia, cui l’astrologia si interseca); è proprio la critica che più ferocemente viene mossa all’astrologia, quella di non essere una scienza: come se solo le cose articolate secondo la categorizzazione occidentale potessero avere un valore formativo. Perché di fatto parlare di conoscenza astrologica significa combinare l’esattezza della matematica e della fisica con il potere spirituale di conoscenza del sé. Senza volersi sostituire in nessun modo ai percorsi terapeutici psicologici, l’astrologia come elemento spirituale ha una radice molto profonda che cala fino al ventre di ogni cultura composta da società umane che si sono chieste come progredire e come conoscere e disconoscere le proprie abitudini ritualistiche.
L’astrologia come forma di conoscenza ci permette di guardare criticamente ai modelli storici per evitare che si replichino lì dove dannosi, questo nel micro della nostra esperienza personale e quotidiana come nel macro-sistema della Storia. D’altro canto, la differenza si è sempre fatta con il pensiero e l’azione, non con l’abbandono alla casualità. Per questo è sbagliato pensare che una carta natale, ovvero una lettura del posizionamento dei pianeti al momento della nascita, comporti una sorta di condanna. I tratti distintivi di questo o quel segno sono delle linee guida di comprensione sulla quale viene praticato esercizio critico. Ma come possiamo portarlo avanti?
Nella prefazione al libro, firmata da Rachele Borghi, si parla argutamente di un contra-manuale: “una proposta di cambiamento di paradigma”. Quello che Astri Amari si propone di promuovere, dal suo primo comparire online sotto nome ignoto, è l’aspetto collettivista della lettura astrologica, come pratica sociale e relazionale, in cui corpi umani, corpi animali e corpi celesti fanno dell’incontro un momento di apertura mentale e di comprensione totalizzante.
Con questo libro si ripromette di affrancare l’astrologia dal determinismo, e utilizzarla piuttosto come lente per indagare la conoscenza del sé e le relazioni con il mondo umano e non. D’altro canto, l’astrologia non è una disciplina ma una pratica, e nel particolare spiega bene Astri Amari è una pratica di decodificazione del simbolico. Attraverso un ragionamento sul posizionamento – geografico, culturale e sociale – l’autrice ci rivela una necessità di pratica irriverente della conoscenza Occidentale, anziché andare a prendere e saccheggiare, con spirito colonialista, da pratiche adiacenti di cui si subisce la fascinazione per un motivo puramente di esoticizzazione (cfr. Said). L’Occidente si arroga il diritto di integrare, prendere e assorbire, assimilare; anziché ragionare sullo smarcarsi dell’astrologia occidentale dal turbocapitalismo, si è replicata la assimilazione che ha portato allo stesso appiattimento dell’astrologia in prima istanza. Non un approccio di designamento del futuro ma futuristico, proiettato verso le azioni in divenire ma soprattutto uno strumento utile a reinterpretare il presente e praticare la conoscenza del sé secondo coordinate che tentano di smarcarsi – e tentano perché il turbocapitalismo mangia qualsiasi cosa – dal paradigma ciseteropatriarcale.
Un approccio decostruzionista vuole dire mettere in dubbio i principi ereditati acriticamente e metterli a frutto: creare di fatto il nuovo paradigma cui faceva riferimento Borghi. La maniera più esatta per l’interpretazione corretta del mondo, Astri Amari la mostra nella revisione del vocabolario: ri-significando i termini ed escludendo quelli problematici, infatti, l’autrice porta avanti un percorso di decolonizzazione interna della grammatica astrologica nella speranza di poter attraversare finalmente pienamente le varie intensità di apertura della conoscenza. Ne risulta quindi una scomposizione e decostruzione linguistica che è anche una prassi di ragionamento e incorporamento dei nuovi stadi di decostruzione sociale e transfemminista, dando vita a quello che nel libro viene chiamato un Antidizionario. Ancora una volta non si emula la gerarchizzazione cispatriarcale che vede la lingua regolamentare gli stati d’animo e le azioni, quanto piuttosto si costituisce dal principio un vocabolario alternativo che possa guidare nella riflessione descrittivista delle cose per come sono, anche però nel suo valore immaginifico di trovare espedienti linguistici che ci accompagnino nel percorso di immaginare attivamente le cose per come le vorremmo che fossero.
Nascono così i pianeti complici anziché governanti, così come anche una estirpazione del principio di positività e negatività che riduce e risolve tutto in una lettura dualistica e interpretazione binaria che è, conseguentemente, approssimativa e limitante.
Secondo un principio di rivolta continua, che sia vorticosamente come i pianeti più rapidi o lentamente come quelli più gravi, la lingua si rinnova su sé stessa nel nome di una astrologia queer, che si lasci alle spalle le differenze di genere e gli appiattimenti sillabati per centenni dalla messa in riga occidentale e occidentalizzante della credenza astrologica. Linguaggio e funzione del linguaggio si imbarcano in un processo di trasformazione delle menti per un percorso congiunto tra chi scrive e chi legge, nella speranza prossima di poter incorporare una spiritualità riflessiva nel vivere quotidiano volto all’accrescimento personale e collettivo anziché alla sterile mala interpretazione dello stato di cose materialistico attraverso uno strumento di analisi del mondo effimero (ma non, per questo, meno importante).
Un altro punto fondamentale della ricerca predisposta dall’autrice è quella di riabilitare ogni relazione tra i segni astrologici eliminando le classi di animali umani quali dominanti su quelle animali non umane, e concentrandosi invece anche attraverso gli elementi semi-umani incorporati da alcuni dei segni che anziché rivelarsi ammezzati, né l’una né l’altra cosa, si manifestano come la consacrazione dello spirito necessario per un’alleanza interspecie di solidarietà. D’altronde, essendo la pratica di osservazione del cielo una transnazionale pratica di proiezione del conosciuto sull’ignoto, vedere le forme animali nelle stelle (o nell’assenza di stelle, come nel caso degli Inca) è una forma di proiezione della nostra antica conoscenza e collaborazione. Astri Amari presenta questa moltitudine senza fare distinzione tra il corpo nostro, corpo vero, e corpo altro, corpo fittizio – una cosa – e quindi sacrificabile.
[Alt Text: carta marsigliese dell’Appeso. Una persona appesa all’ingiù dalla caviglia sinistra veste abiti colorati dal blu al rosso al giallo]
Ultimo esempio di questa breve panoramica, ma non meno importante, è il lavoro che Astri Amari porta avanti per una astrologia antiabilista. Come recita il dizionarietto iniziale che aiuta a guidarci nella tematica, “Afflitto: [termine] utilizzato per descrivere la reazione di un pianeta quando riceve un aspetto considerato ‘sfavorevole’.”
Più specificamente, afflitto è un pianeta spesso identificato nell’astrologia Occidentale come leso: le sue qualità vengono indicate come mancanti, portando questi corpi celesti a incarnare una improduttività all’interno del tema natale che viene regolarmente condannata. Nella lettura capitalistica del nostro cielo, infatti, ogni tassello deve essere positivo e al servizio della buona riuscita del soggetto – solitamente nei tre campi ridicolmente ridotti, sempre dalle pratiche di oroscopo, ad amore, soldi, e salute –. Un pianeta afflitto quindi, mancante di abilità migliorativa nell’ottica odierna, viene paragonato all’Arcano maggiore dell’Appeso secondo una riscrittura possibile che vada a scardinare, ulteriormente, il binarismo linguistico e costitutivo del nostro guardare all’astrologia come composta di due polari influssi: positività e negatività. Afflitto e leso quindi perdono di significato negativo, ma esistono in maniera imprescindibilmente evolutiva nella riflessione di larga scala, sottraendosi al principio utilitaristico delle risorse fisiche e innescando un ragionamento di ribaltamento delle forme attraverso le risorse di riflessione. In questo senso,
Il pianeta ‘afflitto’ e l’Appeso condividono sia lo stesso stigma che lo stesso destino; la loro denominazione è solo il punto di vista di un’ottica che stabilisce i binomi, gli orizzonti e i punti cardinali. Se disinneschiamo le coordinate della rotta dominante non ci sono né ‘appesi’ né ‘afflitti’ ma corpi esistenti che insegnano a trasgredire, rendendo consistenti gli spazi svuotati e facendo esplodere le carceri.
Quello che si evince dalla totalità del libro di Astri Amari, più di tutto, è il fatto che l’astrologia – in rappresentanza, qui, dei saperi alternativi – può essere uno strumento di lotta e di resistenza. Come ogni sapere deve essere praticato e come ogni sapere deve essere assimilato, metabolizzato, fatto proprio. Ma anche a una sola lettura superficiale risaltano le maniere, plurali, attraverso le quali compiere una riflessione linguistica e di azione su come ci poniamo nel mondo e su come interroghiamo noi stessə.
Ringraziamo Marta e Martina per i loro interventi, e ti facciamo tanti auguri di buon anno. Noi ci leggiamo fra un mese, per la prima Ghinea del 2024.
Un abbraccio!
Francesca, Gloria e Marzia